BEVILACQUA, Alberto
Nacque a Parma il 27 giugno 1934, da Mario e da Giuseppina (a tutti nota però come Lisa o Lisetta) Cantadori.
Il padre, che aveva aderito al fascismo, proveniva da una famiglia borghese; mentre la madre – figlia di Amelia Bacchini, una ballerina di origini argentine, responsabile delle prime esperienze sensitive del nipote – era originaria del quartiere popolare d’Oltretorrente, a dominante anarchica e socialista. Il matrimonio fra i genitori di Bevilacqua fu celebrato solo nel 1939, dopo il concepimento della seconda figlia Anna. D’instabile equilibrio psichico, nell’immediato dopoguerra la madre Lisa venne poi curata con l’elettroshock e questo trauma venne a poco a poco costituendosi come un vero e proprio Leitmotiv dell’intera opera a venire, in versi e in prosa, di Bevilacqua.
A Parma Bevilacqua incontrò, durante gli anni di frequentazione del ginnasio-liceo Gian Domenico Romagnosi, Attilio Bertolucci, che lesse le sue prime prove poetiche (dopo un precoce invio dei versi d’esordio a Umberto Saba), iniziandolo alla lettura dei classici della modernità francese e soprattutto inglese. Nel 1954, a vent’anni, Bevilacqua pubblicò i primi racconti nella Gazzetta di Parma e nel Raccoglitore, mentre era iscritto alla facoltà di giurisprudenza della città natale, presso la quale si laureò nel 1957 discutendo una tesi dedicata al lavoro subordinato lungo il fiume Po: testo che anticipava uno dei temi e degli scenari fondamentali della futura opera narrativa.
L’alternanza – equilibratissima tanto sul piano qualitativo quanto su quello quantitativo – tra scrittura in versi (che si profuse, poi, bene al di là di quell’«irrelato fantasma idillico» evocato da Pier Paolo Pasolini a proposito delle poesie composte dal Bevilacqua ventenne), produzione narrativa, attività di sceneggiatore-regista cinematografico e collaborazione a quotidiani e periodici su argomenti letterari, sociali e di costume, rimase una costante sincronica dell’ampia produzione di scritture cui Bevilacqua attese per tutta la vita.
In campo letterario, già due anni prima della laurea, aveva pubblicato il primo libro, La polvere sull’erba (Caltanissetta 1955), un insieme di prose liriche edite da Salvatore Sciascia, su autorevole suggerimento del quasi omonimo Leonardo Sciascia, una sorta di fratello maggiore che – tra i primi nel mondo della cultura 'alta' – incoraggiò Bevilacqua all’attività di scrittore.
Compiuti gli studi (e insignito del premio Libera stampa, in Svizzera, con Gianfranco Contini presidente di giuria), Bevilacqua intensificò i suoi viaggi a Roma, sulla scia dei più anziani Giorgio Bassani, Pasolini e soprattutto Bertolucci, che vi si era trasferito fin dal 1951. Qui cominciò a intessere rapporti con il vivacissimo mondo letterario (in particolare con Vincenzo Cardarelli, che cominciò a farlo collaborare alla prestigiosa Fiera letteraria), con quello giornalistico e con quello cinematografico, non meno vivaci e creativi negli anni dell’immediato dopoguerra. E a Roma, a partire dal 1958, Bevilacqua si trasferì pressoché definitivamente, grazie a una doppia occasione di lavoro: l’assunzione come redattore di cronaca nera presso il quotidiano Il Messaggero e una collaborazione – procuratagli dall’amico regista Luigi Zampa – con la casa di produzione cinematografica De Laurentiis.
Nel 1962, proprio in coincidenza con il suo pieno radicamento nell’ambiente romano e nel fervido clima innovativo dei primi anni Sessanta, Bevilacqua si sposò con Marianna Bucchich, una ragazza originaria dell’isola dalmata di Hvar, conosciuta in treno fra Parma e Bologna fin dal 1955. E si dispose contemporaneamente a eleggere la nativa ma ormai lontana Parma a centro tematico e ispiratore di un’opera narrativa che venne prendendo sempre più spazio e forza espressiva.
Bevilacqua fu molto bravo a trasformare la città dei Farnese nella «piccola capitale di un altrove» affettivo, onirico e immaginativo, in rapporto diretto con la Ferrara estense di Bassani e con la Modena di Antonio Delfini, abolendone ogni possibile alone provinciale e definendola – quasi in omaggio al conterraneo Giuseppe Verdi – come un’ideale quinta melodrammatica. Su quel palcoscenico eletto si dipanavano vicende permeate di un’umanità capace di includere e di intrecciare le potenti spinte affettive e antropologiche dei ceti popolari e gli atteggiamenti autocritici, fra alienazione, sdoppiamento psicoanalitico e pulsioni esistenzialistiche dei nuovi soggetti borghesi, sulla soglia dell’ormai incipiente Sessantotto: un teatro perfetto per mettere in scena l’intreccio di tragedia e di commedia, di dramma psicologico e di carnale 'simpatia', di malinconia e di grand guignol che è peculiarità originale e dominante della multiforme pratica di scrittura lasciataci in eredità dal Bevilacqua romanziere.
In brevissima sequenza cronologica, entro il giro accelerato degli anni Sessanta, Bevilacqua – rifuggendo gli inutili sperimentalismi stilistici cari allo spirito dell’epoca e rifacendosi piuttosto a Flaubert e a Stendhal, oltre che ai russi – s’impegnò così a produrre quattro romanzi di pregevolissima stoffa: Una città in amore (Milano 1962, che uscì per Sugar e prese le mosse dalla corrispondenza fra una donna d’Oltretorrente e l’anarco-socialista Guido Picelli, eroe della resistenza contro Italo Balbo, respinto nel 1922 con le sue squadracce da una sollevazione istintiva di popolo), cui seguirono, per Rizzoli, La Califfa (Milano 1964; subito tradotto in molte lingue, dall’inglese al giapponese), Questa specie d’amore (Milano 1966; premio Super Campiello) e L'occhio del gatto (Milano 1968; vincitore del premio Strega nello stesso anno).
Questo periodo di straordinaria creatività venne suggellato dal complesso esercizio di riscrittura di Una città in amore, compiuto proprio sullo spirare del decennio, nel 1970, all’interno del quale Bevilacqua portò a definitivo compimento il suo processo di affrancamento dal 'romanzesco' e dallo storico-mimetico (nonostante che l’avventurosissima vita di Guido Picelli, morto lottando contro Franco nella Spagna del 1937, potesse indurre automaticamente una prospettiva simile), in favore di poemi narrativi – quando non veri e propri melodrammi – scanditi da principi di oralità profonda e dunque determinati da movimenti di ordine musicale, con la prima, più diretta conseguenza che il punto di vista della voce narrante non risulta mai immobile, fisso, definitivo.
Istintivamente capace di far oscillare il paesaggio tra i poli contrapposti del fotogramma storico e oggettivo nitidamente cesellato e dello specchio deformante, pronto a umanizzarsi e ad assumere sembianze soggettive assai profonde, il Bevilacqua degli anni Sessanta manifestò la propria bravura e la propria originalità nel quadro della coeva narrativa europea in specie quando tratteggia figure femminili straordinariamente complesse, appassionate e ribelli. Fu il caso soprattutto della Califfa, romanzo che non ha mai perduto la sua 'attualità', la cui protagonista può essere annoverata tra le prime anticonformiste autentiche della nostra letteratura, portatrice di un’insanabile contraddizione fra le esigenze del cuore e l’aridità sociale dell’ambiente nel quale si consuma la sua storia trasgressiva con l’industriale Doberdò. Divisa in due parti, la prima ambientata nel mondo povero e violento dell’Oltretorrente; la seconda incentrata sul tema dominante di Amore e Morte, la vicenda di Irene Corsini, detta Califfa, si avvalse della capacità – propria di Bevilacqua – di intrecciare una travolgente poesia della storia con le psicologie profonde dei personaggi, entro una vivissima e molto problematica dinamica sociale. Resta il fatto che la protagonista incarna una delle non frequenti figure femminili davvero indimenticabili, all’interno della storia mai troppo lineare del romanzo italiano.
Anche Questa specie d’amore confermò, subito dopo, tali caratteristiche strutturali della scrittura narrativa di Bevilacqua, trasferendole però – per la prima volta – fra le quinte di una Roma grigia e caotica e nel contesto di una crisi matrimoniale vissuta dal protagonista Federico che – interiorizzando la svolta dei suoi quarant’anni attraverso premonizioni di morte, crisi di identità, ribellioni istintive al conformismo del matrimonio borghese – inanella una serie di contraddizioni di matrice freudiana motivate dal rapporto coi suoi genitori e nel viaggio accidentato alla ricerca di se stesso. Il romanzo venne interpretato come una sorta di specchio nemmeno troppo distorto della vicenda autobiografica dell’autore (che però lo pubblicò prima di compiere 32 anni), alle prese con la sua prima crisi matrimoniale. In realtà, nel merito di queste prime opere letterarie, occorre prestare attenzione a non confondere mai troppo il piano autobiografico con quello testuale, al di là di apparenze o di interviste che potrebbero aver fatto pensare a un’osmosi costante fra i due universi, molto più spesso separati di quanto lo stesso Bevilacqua non abbia voluto lasciare intendere: questo almeno fino al romanzo La festa parmigiana, del 1980, ove però la vera protagonista è Parma. In seguito, i due dominî si sarebbero avvicinati e sovrapposti con frequenza sempre maggiore.
L'occhio del gatto chiuse idealmente il ciclo dei romanzi degli anni Sessanta, tentando un’adesione – riuscita solo in parte – al modello del nouveau roman, fatto di scrittura impersonale e largo uso del monologo interiore, cui corrispondevano lo stile indiretto libero e l'ellissi dei dialoghi. Il romanzo, in ogni caso, permise all’autore di ampliare notevolmente il suo lessico, non di rado imponendogli di violare i nessi sintattici prescritti da una struttura 'grammaticale', quasi per un esercizio di stile d’alto profilo.
Tuttavia, la vera novità sperimentale dell’Occhio del gatto risiedeva nel superamento di qualsivoglia principio di antropomorfizzazione o di osmosi fra carattere umano e oggettività del mondo, senza che fosse più possibile determinare alcun transfert con l’atto percettivo di chi osservava e per così dire viveva il contesto oggettuale e fattuale nel quale si trovava ad agire. In questo modo e a questo prezzo, la «bellissima beffa» che apriva il romanzo, giocata dal protagonista Marcello alle spalle della moglie e del suo nuovo compagno, non si proponeva di vendicare un amore tradito o una crisi esistenziale, bensì consegnava il mondo a un principio di scomposizione umoristica attraverso il quale veniva dichiarata l’impossibilità di ripristinarvi una qualsivoglia giustizia: non a caso, il ruolo dell’imperturbabile osservatore era affidato a un gatto che proveniva direttamente da Baudelaire. L’importanza riconosciuta da Bevilacqua all’Occhio del gatto venne poi rafforzata dall’esercizio di profonda e positiva riscrittura cui l’autore sottopose il romanzo (riducendone le vertigini sperimentali, ma mantenendone inalterata la qualità insieme straniata e introspettiva) ventidue anni dopo la sua uscita, nel 1990.
Se gli anni Sessanta rappresentarono un periodo folgorante, all’interno della storia autoriale di Bevilacqua (sotto l’aspetto meramente qualitativo, un decennio mai più ripetuto né ripetibile, almeno per quanto riguardò la sua produzione narrativa), gli anni Settanta consacrarono il successo del narratore e dell’osservatore di fatti letterari, culturali e di costume. Bevilacqua fece infatti tesoro della vasta eco che avevano cominciato a suscitare il suo nome e le sue opere, allargando i propri campi d’azione e affiancando a quello del romanziere un impegno non meno strenuo e fruttuoso nel campo della poesia e della regia cinematografica. La sua dedizione di soggettista, di sceneggiatore e di aiuto-regista (al fianco anche di Roberto Rossellini, per esempio) venne finalmente premiata con le prime regie firmate in prima persona, oltre che con una collaborazione sempre più fitta – e mai più interrotta – con il Corriere della sera.
Il suo esordio da regista non poté avvenire altro che con la trasposizione cinematografica, nel 1970, del suo romanzo più celebrato, La Califfa, per la quale ebbe a disposizione due attori particolarmente efficaci e 'in parte' come Romy Schneider e Ugo Tognazzi. Il film riscosse un considerevole successo e consentì a Bevilacqua di sviluppare una credibile carriera di autore: un fatto molto raro, nel contesto italiano, dal momento che nel secondo Novecento gli unici altri casi di scrittori-registi di qualità doppiamente riconosciuta furono Mario Soldati e Pier Paolo Pasolini. Alla Califfa, che ebbe notevole risonanza internazionale anche grazie alla colonna sonora di Ennio Morricone, fecero seguito Questa specie d’amore (1972), con Tognazzi e Jean Seberg; Attenti al buffone (1975), con Nino Manfredi e Mariangela Melato; Le rose di Danzica (1979), con Helmut Berger e Franco Nero; Bosco d’amore (1981), tratto dalla terza novella della V giornata del Decameron, con Monica Guerritore e Orso Maria Guerrini, a identificare il più consolidato e ricco degli archetipi narrativi, per uno scrittore italiano. Poi – ancora dai romanzi omonimi – La donna delle meraviglie (1985), con Claudia Cardinale e Ben Gazzara, e Gialloparma (1999), con Robert Hossein e Michela Miti, divenuta poi l’ultima compagna nella vita dello scrittore-regista, il cui matrimonio si era definitivamente interrotto nel 1984.
Questa cospicua attività registica, che implicò alcuni fortunati passaggi di Bevilacqua nei maggiori Festival cinematografici e che gli diede considerevole notorietà nazionale e internazionale anche presso il 'grande pubblico', ebbe la peculiarità unica di risultare strettamente legata all’attività mai rallentata né sopita del Bevilacqua romanziere. E ciò poté accadere grazie a un intreccio davvero produttivo fra scrittura narrativa, trasformazione in sceneggiatura e traduzione in immagini 'montate' (com’è proprio dello specifico cinematografico), che non ha molti altri eguali nella cultura europea, con l’unica, somma eccezione di Jean Cocteau: Pasolini infatti – di là dalla resa qualitativa – non ha mai tratto film da suoi romanzi, semmai ha scritto alcuni soggetti e sceneggiature di riconosciuto valore letterario.
Non meno singolare è che al miglior Bevilacqua regista, senz’altro quello dei quattro film girati negli anni Settanta, abbia fatto da perfetto contraltare l’attività creativa del poeta che – con L’indignazione (Milano 1973) e La crudeltà (Milano 1975) – fece un ingresso tutt’altro che trascurabile nel mondo della versificazione italiana, nel vivo di quella fase storica ribollente di conflitti generazionali, piccole o grandi rivoluzioni stilistiche, esordi folgoranti (Maurizio Cucchi, Milo De Angelis, Valerio Magrelli), presenze consolidate (Giorgio Caproni e Mario Luzi, Giovanni Giudici e Amelia Rosselli, Andrea Zanzotto e Pasolini, Edoardo Sanguineti e Antonio Porta, fra gli altri), fino ai macigni gettati dal più grande – Eugenio Montale insignito del Nobel proprio nel 1975 – nello stagno di una pretesa 'classicità' espressiva.
In rapporto diretto con Caproni, che gli riconobbe acutamente «lucida intelligenza» e «umana pietà», il Bevilacqua dell’Indignazione dialogava da vicino con i registi che nutrivano più da vicino il suo immaginario filmico (Jean-Luc Godard e Stanley Kubrick, Roberto Rossellini e Miklós Jancsó) riconducendoli al tema incombente (poi autentico Leitmotiv della sua poesia) di una madre sulla soglia della follia, e tessendo i suoi versi nell'ordito di una trama apparentemente casuale rispetto al reale e nel grande deposito di una memoria collettiva non meno che individuale. In tutti i campi nei quali esercitò la sua creatività, Bevilacqua fu sempre uno scrittore e un regista, oltre che un poeta, intriso di echi culturali e di omaggi alla grande tradizione dell’espressività occidentale: echi il più delle volte mimetizzati da una carnalità quasi istintiva dei suoi 'modi di dire' e da un’autenticità psicologica, sensoriale (ai limiti del sensitivo, per l’appunto) e vitale di marca spiccatamente popolare. A ciò soccorse anche un rilevantissimo istinto musicale: la capacità ritmico-prosodica del Bevilacqua poeta, nel momento in cui giunse a maturazione compiuta (per poi non interrompersi più fino alla morte), prendeva le mosse da una notevole varietà d'intonazione, ottenuta attraverso un’alternanza ben calibrata di versi brevi e versi lunghi, per conseguire un effetto di polifonia interna, modulata fra abbandono emotivo e tensione ragionativa, talvolta addirittura sentenziosa.
Nella raccolta La crudeltà (con il quale Bevilacqua consolidò il suo passaggio da Rizzoli a Garzanti, inaugurato l’anno prima con il denso romanzo Umana avventura, Milano 1974), trovarono spazio anche poesie di argomento cristologico, con riferimento diretto al Cristo 'umano troppo umano' scolpito a Parma nella Deposizione dalla croce di Benedetto Antelami: poesie che provocarono difficoltà con le autorità vaticane, poi sopite grazie agli incontri diretti che Bevilacqua ebbe con papa Paolo VI. Il libro fu caratterizzato da un insistito lavoro di scavo, teso a dar voce a una serie di contrasti e di opposizioni mai risolte attraverso la dialettica tradizionale, bensì lasciate aperte, come ferite personali e politiche non rimarginabili, incluso il problema di una corresponsabilità divina nella storia.
In coincidenza con il declinare degli anni Settanta, la carriera del romanziere non s’interruppe mai per la quantità dei titoli né per la capacità istintiva di Bevilacqua di introdurre nelle sue opere temi di ampia risonanza politica e sociale. A partire dal Curioso delle donne (Milano 1983), suo editore divenne Mondadori, a garantire una diffusione della sua opera molto più capillare, fino al varo, nel 1996, di una collana specificamente dedicata, I libri di Alberto Bevilacqua e alle riproposte quasi immediate dei suoi romanzi negli Oscar. Se si rimane ancorati soprattutto al piano qualitativo, invece, i titoli davvero importanti si ridussero nell’aspetto numerico, pur mantenendo quelle peculiarità di innovazione tematica e di attenzione stilistica che hanno connotato l’intera storia compositiva dell’autore parmigiano.
Un romanzo per esempio molto originale, e ancor oggi da rileggere e rivalutare, fu Una scandalosa giovinezza (Milano 1978), in cui Bevilacqua costruì un’ambientazione plurale, tanto nella dimensione storica (in parallelo al film Novecento realizzato quasi in coincidenza cronologica da Bernardo Bertolucci) quanto in quella geografica. Il romanzo, che trovò nella protagonista Zelia Grossi – donna di argine e di bordello – l’ennesima figura femminile d’eccezione, si muoveva infatti tra i vasti confini del delta di Po e le 'ambe' d’Etiopia, dando l’impressione – fondatissima – di proiettarsi in un’orizzontalità spazio-temporale tesa a proporre strabilianti cambi di scena e un caleidoscopio scintillante di voci, fra eventi ora tragici e ora meravigliosi, in un montaggio rapidissimo (e tutto cinematografico) entro il quale 'strioni' e 'strolghe' – gli istrioni-stregoni e le astrologhe che popolavano le rive del grande fiume – venivano contrapposti ai piccolo-borghesi dell’Italia agraria e clerico-fascista. Una scandalosa giovinezza dovette così la sua assoluta attualità a quella molteplicità, assieme storica, surreale ed evocativa, cui avevano attinto nei loro capolavori anche David Herbert Lawrence, William Faulkner e Gabriel García Márquez. Bevilacqua in persona lo suggellò così, con un motto che può venir considerato riassuntivo del meglio della sua narrativa: «La Storia, per incantare o atterrire, per sognare di sé o confermare il suo senso continuo, si serve di eroi della deformità e dell’eccezione, assai più che della logica» (cfr. A. Bevilacqua, Romanzi, 2010, p. 1006).
In fondo, tale conclusione si attaglia anche all’ultimo vero best seller prodotto da Bevilacqua, I sensi incantati (Milano 1991, vincitore l’anno successivo del premio Bancarella), che raddoppiava quello già conquistato nel 1972 per Un viaggio misterioso. Vero e proprio 'romanzo del mistero', esso metteva in scena una vicenda da 'grande sensitivo', da voce narrante protesa cioè a fornire forma linguistica e simbolica alle forze paranormali latenti in ognuno di noi. Entrò così in gioco il magnifico scenario del Tibet, nel quale Bevilacqua ebbe a compiere diverse esperienze in prima persona di 'mondi altri', ove il meraviglioso venne trasformandosi nel magico e nel sensitivo. Mai come nei Sensi incantati finì per assottigliarsi anche la barriera fra vicenda autobiografica dell’autore (a prescindere dai nomi fittizi, Marco e Marta, che designavano i protagonisti) e trama narrata.
A testimonianza di tale nuova attrazione per il romanzo-verità e della radicalizzazione del tema del rapporto dell’autore/Io narrante con la propria madre, vennero poi la Lettera alla madre sulla felicità (Milano 1995), un testo molto intenso e drammatico (assieme terribile e divertente) in cui Bevilacqua si difendeva dalle farneticazioni di una donna che lo aveva accusato di essere lui il mostro di Firenze, mentre lo scrittore era stato uno dei primi a indicare per quel terribile fatto di cronaca nera una probabile responsabilità collettiva; nonché il Viaggio al principio del giorno (Torino 2001), un libro felicemente ibrido fra autobiografia, autoanalisi dei propri dominanti temi narrativi e testimonianza diretta sulle proprie persistenti ossessioni liriche.
In ogni caso, la storia del romanziere trovò il proprio sigillo reale e simbolico nella potentissima e integrale riscrittura del libro d’esordio La polvere sull’erba, uscita per Einaudi nel 2000 (premio Stresa; poi – in ed. ulteriormente ampliata – Torino 2008). Non più prose liriche né prove d’autore, ma la riscrittura della Resistenza in forma non revisionista né agiografica, al modo di un Beppe Fenoglio o di un Luigi Meneghello. Il giusto era dalla parte dei partigiani e questo assioma non poteva essere discusso, tuttavia tale verità non poteva nemmeno modificare la percezione che la guerra civile 1943-45 avesse lasciato dietro di sé rovine e scorie mai rimosse, insieme con un vuoto pneumatico di sentimenti, progettualità, umanità di cui il postmoderno, attraverso il disconoscimento della memoria come valore insostituibile e la parallela rinuncia a un’idea progressiva e progressista di storia, sarebbe divenuto poi solo la manifestazione più visibile.
Di fatto l'edizione 2008 di La polvere sull’erba fu considerato il testamento spirituale del romanziere. Resta da aggiungere, però, che anche dopo il 2000 rimase inalterata (e, anzi, per certi versi si irrobustì ulteriormente) la vena del poeta, che – continuando a lavorare sul Leitmotiv della madre e della sua fragilità psichiatrica – pubblicò nella prestigiosa collana bianca di Einaudi quattro libri di notevole tenuta lirico-prosodica e di non inferiore tensione affabulativa. Essi furono, secondo l’ordine cronologico di uscita, Piccole questioni di eternità (Torino 2002), Tu che mi ascolti. Poesie alla madre (Torino 2005), Duetto per voce sola. Versi dell’immedesimazione (Torino 2008) e La camera segreta (Torino 2011; premio nazionale Pisa), in un fittissimo intreccio di biografico e di metafisico, di ossessione del ritorno e di un altrove sconosciuto, fra stanza inaccessibilmente privata e dimensione universale.
Di là dalla vociferata candidatura al premio Nobel (nel 2007), e del titolo di cavaliere della Repubblica, conferitogli dal presidente Giorgio Napolitano nel 2010, l’ultimo tempo della vita di Bevilacqua fu purtroppo drammatico e foriero per lui di terribili sofferenze fisiche e spirituali. Colpito da scompenso cardiaco nell’ottobre del 2012, venne ricoverato nel gennaio successivo presso la clinica Villa Mafalda, dove contrasse una grave infezione alle vie respiratorie che gli tolse la possibilità di parlare costringendolo a regime d’intubazione.
Morì a Roma il 9 settembre 2013.
Testo guida per ricostruire la biografia di B. è la Cronologia, redatta da A. Franchini in stretta collaborazione con l’autore, in A. Bevilacqua, Romanzi (Meridiani Mondadori), a cura di A. Bertoni, Milano 2010, pp. LXIX-CXVII. Il volume vale anche come guida e selezione della miglior produzione narrativa di Bevilacqua dal momento che comprende – distribuiti secondo l’ordine cronologico della prima edizione – i romanzi Una città in amore, La Califfa, Questa specie d’amore, L’occhio del gatto, Una scandalosa giovinezza, I sensi incantati e La polvere sull’erba. Ogni romanzo è arricchito da una scelta puntuale delle testimonianze critiche a esso dedicate. Il Meridiano è inoltre accompagnato da un’esaustiva Bibliografia e Filmografia dell’opera, di e su Bevilacqua fino al 2010, curata da C. De Caprio (pp. 1639-1677).
Altre notizie biografiche sono state tratte da alcune tra le numerose interviste rilasciate dall’autore: in particolare v. B. e la “favola di Parma', a cura di G.A. Cibotto, in Gazzetta di Parma, 25 gennaio 1968; l’autointervista Magie nascoste fra le lucciole, in Corriere della sera illustrato, 5 agosto 1978, e Il segreto di B., a cura di R. Cotroneo, in L’Espresso, 25 maggio 2000.
Di là dai sette testi sopra elencati e riuniti nel succitato Meridiano, molti romanzi di Bevilacqua si reperiscono tuttora con discreta facilità nella collana economica degli Oscar Mondadori mentre, sul piano della sintesi critica, giovi ricordare il contributo offerto all’opera di Bevilacqua da A. Bertoni nel saggio introduttivo al Meridiano stesso: Da una provincia al mondo: l’umana avventura di B. narratore (pp. IX-LXVII, con bibliografia).
La poesia di Bevilacqua, a partire dall’iniziale L’amicizia perduta, ha conosciuto tre momenti di sintesi, seguiti e compendiati direttamente dall’autore: Immagine e somiglianza. Poesie 1955-1982. Antologia personale, con introd. di D. Porzio e note di G. Carnazzi, Milano 1982; Messaggi segreti, introd. di M. Cucchi, Milano 1992; e infine, Le poesie (Oscar Mondadori), a cura e con introd. di A. Bertoni, nota al testo di J. Sisco, nota bibliogr. di A. Moscè, Milano 2007. Per ragioni cronologiche, quest’ultima antologia non include i due ultimi libri einaudiani citati (Duetto per voce sola. Versi dell’immedesimazione, 2008, e La camera segreta, 2011).