Della Scala, Alberto
, Fondatore della potenza scaligera in Verona, padre di Bartolomeo, Alboino e Cangrande, che gli succedettero uno dopo l'altro nella signoria: è acerbamente ripreso in Pg XVIII 121-129 per l'abuso commesso ai danni del monastero veronese di San Zeno, cui impose come abate, nel 1292, un figlio illegittimo (che mal nacque), Giuseppe, mal del corpo intero [contraffatto della persona, zoppo] / e de la mente peggio (Pietro: " seminsanus ").
Ritorna qui, di passaggio, ma non senza un preciso disegno ammonitore (v. lectura di G. Padoan), per bocca di un accidioso abate di San Zeno vissuto al tempo del buon Barbarossa (un Gherardo II, m. nel 1187), il gran tema di Marco Lombardo: l'indebita intrusione del potere laico nelle cose ecclesiastiche, la libertà e l'autonomia dei due poteri (Pg XVI 106-120), con un'asprezza di accento ribadita seccamente dal ritener mi piacque del v. 129, che non sembra possibile attenuare, come alcuni fanno, ipotizzando un pentimento di Alberto " ante mortem ", anziché uno scotto di pena nell'oltretomba, allo scopo di attutire i colpi diretti dal poeta contro il padre dei due ospiti suoi più solennemente celebrati (Pd XVII 70 ss.). Chiosa l'Ottimo: " per lo quale peccato il detto messer Alberto piangerà tosto, cioè quando sarà morto ". E Benvenuto: " morietur et luet poenam iniuriae factae sancto loco "; e subito dopo, postillando il mi piacque: " ad arguendum violatores sacrorum ".
A spiegare il tono di " non eccessiva " simpatia filoscaligera osserva il Mattalia: " A meno di lasciarne intera la responsabilità al già accidioso e vecchio abate che ora, in un impeto di polemico zelo, si rivela così preoccupato delle sorti del suo monastero, non restano che due ipotesi: o quando Dante scriveva il canto non era ancora entrato in impegnative relazioni con Cangrande, o vi era già entrato ma il signore scaligero aveva separato nettamente la sua responsabilità dalla mala fama dell'abate, il che lasciava man libera a Dante ". Ipotesi, questa, plausibile nei confronti del fratellastro (un atto giudiziario del 26 gennaio 1314, certo autorizzato da Cangrande, riconosce pieno diritto di risarcimento agli eredi di Enrico delle Lamiere per sopruso del tutto gratuito, " violenta ac temeraria manu, nulla rationali causa subsistente " compiuto ai danni loro un decennio prima dal defunto abate), ma si può dir lo stesso dell'atteggiamento di Cangrande verso la memoria del padre? Non si dovrà, in ogni caso, trovar qui una conferma di quell'intrepidità e assolutezza di giudizio, che, non per nulla, il poeta si fa prescrivere dal trisavolo Cacciaguida: tutta tua visíon fa manifesta (Pd XVII 128)?
Dati notevoli dello sfondo cronistico, sul quale si accampa l'aspra denuncia dantesca, sono i seguenti. Nel 1276, d'intesa coi Bonaccolsi, per cattivarsi il favore del papa, Alberto dirige un violento attacco contro i Patari rifugiati a Sirmione, che finirono, due anni dopo, arsi vivi in Arena. Per sdebitarsi di quella terribile repressione, nel 1284 Bartolomeo vescovo, con dispensa poi confermata da Onorio IV, rimuove l'ostacolo di diritto canonico, che precludeva la prelatura agl'illegittimi, e investe l'allora ventunenne Giuseppe del priorato di San Giorgio in Braida. Nel '92, assunto Giuseppe all'abbazia di San Zeno, Alberto decreta (11 aprile) che l'abate in carica giudichi, a difesa del monastero in materia litigiosa, " sumarie et sine strepitu iudiciorum "; e che la provvisione abbia valore di statuto del comune. Il 23 maggio 1320 Cangrande convalidò, per parte sua, diritti e giurisdizioni del monastero. Di San Zeno divenne abate, un anno dopo, un figlio naturale di Giuseppe, Bartolomeo, che più tardi, nel '36, fu eletto vescovo di Verona: com'era avvenuto, nel 1292, di un altro abate scaligero, Pietro. La ricca abbazia e il vescovado costituirono due cardini del potere politico e patrimoniale degli Scaligeri: la nomina di un bastardo " seminsanus " come Giuseppe fu episodio clamoroso di una consuetudine di abusi non infrequente nelle città che si reggevano a signoria.
Alberto si spense nel 1301: era succeduto, per così dire, nell'autorità al fratello Mastino I, assassinato nell'ottobre 1277; e s'era poi visto conferire uno dopo l'altro quei più ampi poteri che lo consacrarono signore in Verona, per l'abilità della sua condotta politica all'interno come all'esterno.
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