Manzoni, Alessandro
Il grande scrittore non fu un ammiratore di D. nel senso e nei modi in cui lo furono il Foscolo o gli scrittori del Risorgimento lontani dal M. nella ribellione e negli squilibri romantici. Occorre distinguere anche per i rapporti con D. due diversi momenti manzoniani. Prima della conversione, l'ammirazione per il grande fiorentino è di carattere illuministico e di tono montiano: l'anticlericalismo e l'antitemporalismo dantesco si sfumano volterrianamente nella significativa imitazione di Il trionfo della Libertà, dove lo stile dantesco è ripreso tramite il Monti, celebrato anche al di sopra dell'Alighieri nella chiusa. Né si trattò solo d'infatuazione giovanile se, ancora nel 1828, al Monti era attribuito " il cor di Dante, e del suo duca il canto ", svalutazione per noi del " core " e del " canto ". La conoscenza delle opere di D. appare notevole già in questo periodo, ma non critica.
Più meditato giudizio troviamo nell'Urania (1809), dove la tesi vichiana e illuministica di D. emergente dalla " lunga notte " medievale implica una più convinta ammirazione, anche se D. è visto come " de l'ira maestro e del sorriso ". Ma neppure adesso si può dire che il M. fosse un dantista, se la corrispondenza col Fauriel mostra cognizioni approssimative e un interesse soltanto riflesso da quello del dotto amico. Né va sopravvalutato l'appellativo di " poema immortale " convenzionalmente applicato alla Commedia nel discorso Del romanzo storico. In realtà, soprattutto dopo il 1821, il M. deve respingere l'atteggiamento assunto da D. di fiero giustiziere per investitura divina: in ciò forse consiste il giudizio troppo severo di cui parlò il Tommaseo.
Neppure sarà mai critica la valutazione della politica dantesca, la quale viene direttamente raffrontata col pensiero moderno. L'Impero universale, ostacolo all'indipendenza delle nazioni, accettato in un'età che, a differenza di quella longobardica, vede ormai esistere il popolo italiano, non piace al M., tanto che ancora nel 1872, nello scritto Dell'indipendenza d'Italia (Opere, ediz. naz., III, Milano 1950, 471) farà riferimento alla condizione politica dell'Italia trecentesca con parole che qualificano come sogno l'idea imperiale dantesca (" tristo stato di cose, in cui anche un'alta mente non aveva altra alternativa che o di disperare, o di sognare ! ").
Neppure, però, l'antitemporalista M. consente con l'anacronistica designazione di D. quale profeta dell'unità italiana. Soprattutto gli ripugna l'esaltazione, fatta nel II della Monarchia, come nel VI del Paradiso, della Roma pagana, in quanto preparazione provvidenziale dell'Impero cattolico: lo stato romano, fondato sulla violenza, è bollato, anzi, nelle postille manzoniane alla Histoire Romaine del Rollain, dove le conquiste appaiono espressione della " forza feroce " che domina il mondo, scopo " empio " e " soverchiante ". Tutto ciò si può dire riassunto nella risposta data dal M. nel 1863 a una commissione che gli chiedeva la firma per una petizione al parlamento intesa a far dichiarare festa nazionale il giorno della nascita di D.; obiettò allora che la storia non aveva dato ragione al poeta, che anzi gl'Italiani, invece di seguire le idee di lui, avevano seguito il loro buon senso: all'Italia unita nella soggezione all'imperatore tedesco avevano preferito quella retta da leggi proprie. Concludeva con l'idea del primato culturale, non politico, di D.: " Lasciamo dunque alle disputazioni se D. abbia dato origine a un'Italia civile e politica; ma niuno certamente contraddirà che D. ha creato un'Italia intellettuale; in ciò la sua gloria d'esser padre della patria io la credo incontestabile ".
Il M. studioso della lingua italiana, nell'Appendice alla relazione intorno all'unità della lingua (1868), chiamò D. " il primo tra i primi ", e forse con giudizio pertinente piuttosto alla storia della lingua, allusivo alla maggior importanza del più antico rispetto ai successivi, che con riferimento al valore assoluto della poesia. Del resto pure nel campo linguistico il M. doveva considerare utopistiche le teorie di D., sulle quali s'imperniava la tesi eclettica. Scrivendo al Bonghi la Lettera intorno al libro " De vulgari eloquio " di D.A. (1868), dove l'antico trattato è visto come argomento capitale addotto contro la preminenza dell'uso fiorentino, considera la teoria del volgare illustre non solo astratta e inattuabile, ma contraria all'esigenza romantica di una lingua viva per la letteratura.
Tuttavia su questo punto l'opinione del M. è sfumata nel tempo. Se dobbiamo credere al Tommaseo (Colloqui col M., a cura di T. Lodi, Firenze 1929, 104), in un primo momento avrebbe preso " troppo alla lettera " il De vulg. Eloq., poi avrebbe via via ridotto l'ostacolo, sminuendo l'importanza del trattato introduttivo, per mettere in risalto l'impegno dantesco nella definizione dello stile sublime. Di qui, secondo lui, l'inutilità di citarlo per questione ad esso marginale. Difatti il M. nella lettera al Bonghi premette che D. era tanto lontano dal pensare a una lingua italiana nel comporre il libro in questione, che " alla cosa proposta in quello non dà mai il nome di lingua ". Il discorso è forse un po' sofistico; e mescola l'acuto con l'erroneo, come mostrò il D'Ovidio (Versificazione italiana e arte poetica medioevale, Milano 1910, 429-434).
Né molto preciso è l'esame del M. rivolto alla lingua della Commedia, da lui caratterizzata come volgare fiorentino, e additata nell'Appendice a testimonianza dell'esistenza di una lingua parlata e letteraria a un tempo. Vi si confonde, tra l'altro, il linguaggio del poema con quello di D. personaggio, riconosciuto come loquela fiorentina da Farinata e da Ugolino; e si citano parole della Commedia definite municipali nel De vulg. Eloq., e testimonianti appunto della vivezza del linguaggio. Ciò è detto indirettamente a riconoscimento del valore artistico del poema, la cui varietà e ricchezza lessicale e sintattica, svolgentesi su piani assai diversi, il M. senza dubbio avvertì.
Bibl. - A. Chiappelli, Una reminiscenza dantesca nei P.S., in " Fortunio " IX (5 luglio 1896) n. 17 (a proposito dello scherzoso paragone che il M. fa tra D. nelle Malebolge e don Abbondio in viaggio per il castello dell'Innominato); P. Bellezza, Quale stima il M. facesse di D., in " Giorn. stor. " XL (1902) 349-365; G. Mazzoni, D. nell'inizio e nel vigore del Risorgimento, in D. e l'Italia, Roma 1921, 347-380; F. Maggini, D. e M., in " Rass. Lett. Ital. " LXII (1958) 195-201; A. Jenni, Poesia e pensiero in D. e M., in Atti del VII Congresso manzoniano, Lecco 1965, 3-15.