Alessandro VI
Rodrigo de Borja y Borja, o, come si disse comunemente, Rodrigo Borgia, era nato fra il 1430 e il 1432, probabilmente il 1° gennaio 1431, a Játiva presso Valenza nel Regno d'Aragona, da Jofré de Borja y Doms, di nobile famiglia catalana, e da Isabel de Borja, di altro ramo della stessa famiglia, sorella di quell'Alonso che fu papa Callisto III.
Della sua prima giovinezza sappiamo soltanto che era chierico della Chiesa di Valenza ed ebbe per opera dello zio vescovo benefici ecclesiastici in questa e altre diocesi spagnole. Né è noto con precisione quando venisse in Italia: certo nel 1453 era studente a Bologna, dove si laureò, il 13 agosto 1456, in diritto canonico.
Frattanto lo zio era salito al soglio papale (8 aprile 1455): dal suo nepotismo ebbe origine la fortuna di Rodrigo, come degli altri di casa Borja. Rodrigo fu nominato, il 10 maggio 1455, notaio della Sede apostolica e, il 20 febbraio 1456, fu creato cardinale diacono in un Concistoro segreto per unanime consenso dei cardinali presenti. Ebbe fin da quel Concistoro la diaconia di S. Nicola in Carcere, quantunque solo più tardi (17 novembre) ricevesse il cappello.
E fin d'allora, secondo il mal costume dell'età, cominciò il cumulo dei benefici ecclesiastici, che si accrebbe anche dopo la morte di Callisto III, smisuratamente. Oltre a benefici di minor grado, come l'arcidiaconato della Chiesa di Bologna, il monastero di Fossanova, la ricca abbazia di Subiaco (1471), dove fece ricostruire la fortezza a sue spese, il Borja ebbe l'amministrazione dei vescovadi di Gerona (1457-1458), di Valenza (1458-1492), di Cartagena (1482-1492) e la commenda di quelli di Maiorca (1489-1492) e di Agria (1491-1492); fu cardinale vescovo di Albano (30 agosto 1471) e forse divenne soltanto allora sacerdote; fu traslato a Porto il 24 luglio 1476 e tenne questo vescovado e la dignità di decano del Sacro Collegio fino all'elevazione al pontificato. Da questi benefici trasse grande somma di denaro; ma più ne trasse dall'alto e lucroso ufficio di vicecancelliere della Chiesa, a cui lo elevò Callisto III con bolla datata 1° maggio 1457 e pubblicata il 5 settembre di quell'anno. Iacopo Gherardi da Volterra lo giudicò il più ricco cardinale, dopo il francese Estouteville (Diario romano dal 7 settembre 1479 al 12 agosto 1484, in R.I.S.², XXIII, 3, a cura di E. Carusi, 1904-11, p. 49).
Ebbe notevole credito presso lo zio pontefice, che lo inviò come legato nella Marca d'Ancona (31 dicembre 1456); tenne l'ufficio circa un anno, spiegando lodevole energia. Dallo zio ebbe, l'11 dicembre 1457, la nomina a "dux et generalis commissarius" delle truppe pontificie in Italia. Maggiore della sua fu tuttavia la potenza del fratello Pedro Luis, e maggiori i destini che il papa sognava per questo. E tuttavia, quando gli altri Borja, e lo stesso Pedro Luis, erano fuggiti dinnanzi alle temute vendette del popolo contro la casa odiatissima, Rodrigo rimase con coraggio accanto al letto di morte del papa.
Nel conclave del 1458, fu il primo a dare l'esempio dell'accesso, che determinò l'elezione di Enea Silvio Piccolomini, Pio II. Ma il nuovo pontefice, pur concedendogli benefici e facendone qualche volta le lodi, non n'ebbe stima: ne rimproverò la leggerezza in fatto di costumi, il lusso, l'amore per il denaro. È vero, d'altra parte, ch'egli fece allestire a sue spese una galea per la sognata impresa di Pio contro i Turchi e fu tra quelli che accompagnarono il vecchio papa ad Ancona, dove questi morì.
Essendosi "fatigato a la real" per l'elezione di Paolo II (1464), parve che dovesse aver "gran credito" presso di questo (L. von Pastor, II, p. 733); ma durante il pontificato di lui rimase nell'ombra.
Operò per l'elezione di Sisto IV, che lo creò, il 22 dicembre 1471, legato "a latere" in Spagna per la crociata; partì il 15 maggio 1472, e fu l'unico suo ritorno nella terra natale. Se non riuscì ad ottenere che i Regni spagnoli partecipassero alla guerra santa, poté favorire la regolarizzazione delle nozze di Ferdinando d'Aragona e d'Isabella di Castiglia, preparando l'unione futura dei Regni e la potenza della Spagna; inoltre riunì a Segovia un concilio, in cui furono prese misure contro l'ignoranza dei chierici. Ritornato a Roma (25 ottobre 1473), ne uscì nuovamente come legato per incoronare Giovanna regina di Napoli (1477). Ma nelle dure lotte che si combatterono durante il papato di Sisto non sappiamo se avesse posizione di rilievo.
Nel conclave che seguì alla morte di Sisto IV lavorò per la propria elezione, usando largamente la corruzione; ebbe il favore della Lega italica (Milano, Firenze e Napoli), degli Orsini, di Girolamo Riario, del cardinale Ascanio Sforza, fratello di Ludovico il Moro, del cardinale di Aragona, figliuolo di re Ferrante, e parve vicino a raggiungere la tiara; ma gli nocquero il carattere, ch'era ritenuto superbo e sleale, e più l'essere egli straniero, uno degli aborriti catalani. Quando il cardinale di S. Pietro in Vincoli, Giuliano della Rovere, si diede a maneggiare con mezzi non leciti in favore del Cibo, il Borja, perduta la speranza del pontificato, stette con lui; il Cibo fu eletto papa Innocenzo VIII (29 agosto 1484). Ma, dopo d'allora, contro il della Rovere, che fu, salvo brevi intervalli, padrone dell'animo del debole papa, si strinse con Ascanio; i due furono allora, "ostro e tramontana", di fronte a Marco Barbo, il più degno uomo che fosse nel Collegio, e a Giuliano, che, pur non immune da pecche, rappresentava in esso, col Barbo, la parte che voleva rialzare il prestigio del papato. E aveva sempre l'occhio alla tiara: l'oratore fiorentino, quando ne voleva il favore per la creazione cardinalizia del fanciullo Giovanni de' Medici, gli faceva sperare "l'imperio dei cristiani" (lettera di G. Lanfredini, 5 febbraio 1488-1489, in Archivio di Stato di Firenze, Carteggio Mediceo avanti il Principato, LVIII, nrr. 96-7); nel 1490 vi era nel seguito del Barbo chi temeva il suo avvento al papato, quantunque egli non fosse capo di una fazione, ma aderisse a quella dello Sforza.
Poiché il della Rovere, già fiero nemico degli Aragonesi, si era stretto con loro e ne aveva appoggio contro i maneggi dello Sforza, le aspirazioni personali di Rodrigo si accordavano con le vedute di Ascanio, mentre la rivalità fra lo Sforza e il della Rovere, capi delle due fazioni cardinalizie, s'intrecciava con l'inimicizia che le opposte aspirazioni su Genova e l'ambizione del Moro avevano seminata fra gli Sforza e gli Aragonesi, fra Milano e Napoli.
Quando il 6 agosto 1492 si apriva il conclave per la morte di Innocenzo VIII, il cardinale vicecancelliere Rodrigo Borja aveva passato da poco i sessant'anni. Il Borja era bello nella persona, distinto nei modi, quantunque, non ancora trentenne, fosse apparso al mantovano Schivenoglia "de uno aspeto de fare ogne malo" (Raccolta di cronache e documenti storici lombardi, II, Milano 1857, p. 137). Era d'ingegno vivo e versatile, buon conoscitore del diritto canonico, esperto dell'amministrazione della Curia e di negozi politici, abile nella trattazione degli affari. Non aveva, però, qualunque cosa abbiano detto gli apologisti suoi vecchi e nuovi, né doti singolari, né fama di grandi imprese, né opere d'ingegno che lo raccomandassero alla posterità: qualche scritto dato come suo è di attribuzione assai dubbia. Egli era invece un debole, un passionale, dominato da quella che i contemporanei dissero "carnalità", cioè amore per la famiglia e in particolare per i figliuoli, amante del lusso e del fasto, pur essendo modeste le sue abitudini personali, piuttosto gran signore del Rinascimento che uomo di Chiesa, attratto da piaceri troppo spesso non leciti. Nel 1460 Pio II l'aveva dovuto ammonire con una dura lettera per avere egli con l'Estouteville partecipato a una festa profana e, secondo la pubblica voce, scandalosa, negli orti di Giovanni Bichi in Siena: s'era scusato e il pontefice aveva accolto parzialmente la scusa. Fra il 1462 e il 1471 gli nacquero, non sappiamo se dalla stessa donna o da più, Pedro Luis, che da Ferdinando il Cattolico ebbe nel 1485 il Ducato di Gandía e il titolo di Grande di Spagna, Girolama ed Isabella o Elisabetta. Da Vannozza Catanei (1442-1518), sposata prima a Domenico d'Arignano, poi a Giorgio della Croce milanese, infine a Carlo Canale mantovano, il Borja ebbe, fra il 1474 o il 1475 e il 1481 o il 1482, i quattro figliuoli più noti, Giovanni, il secondo duca di Gandía, Cesare, Lucrezia, Jofré. Negli ultimi anni prima di giungere al pontificato, aveva intrecciato una relazione con Giulia Farnese, la bellissima e giovanissima sposa di Orsino Orsini: di chi fosse figliuola una Laura, nata da Giulia fra il 1491 e il 1492, forse nessuno sapeva. L'intimità con Giulia Farnese continuò anche dopo l'elezione del Borja al pontificato; e fu così palese, che ricorreva a lei chi volesse favori dal papa. E, tramontato anche il prestigio di Giulia, il Borja ebbe ancora, fra il 1492 e il 1499, un Giovanni, l'"infans Romanus", del quale è avvolta nel mistero la madre, e un Rodrigo, nato sulla fine del pontificato, se pure non postumo. Se parecchi episodi scandalosi, attribuiti a lui, possono essere stati frutto di fantasia o invenzione di malevoli, i tentativi per difendere in tutto o in parte il Borja dall'accusa di condotta immorale non reggono innanzi alla critica, poiché, a tacere delle asserzioni numerosissime di contemporanei anche non sospetti, vi sono bolle e brevi sicuramente autentici, dovuti a predecessori e a successori di A. e ad A. stesso, che tolgono ogni dubbio in proposito.
Tuttavia l'elezione, dai più non attesa, fu unanime. Non già che essa fosse riconoscimento di qualità eccezionali del vicecancelliere, o, come altri pensò, nascesse da un compromesso fra le due fazioni cardinalizie: il Borja era così legato allo Sforza che non si poteva pensare a lui come ad un uomo superiore all'acerba lotta che si andava combattendo in conclave e in Italia.
Le cose andarono in ben altro modo. Dopo due scrutini, nei quali ciascuna delle due parti saggiava il terreno, quando si andò profilando, nel terzo, la possibilità della elezione di un fautore di Giuliano della Rovere, o forse del napoletano Oliviero Carafa, aderente di Ascanio, ma non così acceso che non si potessero raccogliere sopra di lui voti delle due fazioni e togliere quindi significato alla elezione, Ascanio mise innanzi quello che era il suo vero candidato, che poteva disporre di tanti mezzi ed era così privo di scrupoli da rendere sicura l'elezione. Con promesse simoniache, forse con denaro, furono tenuti fermi gli oscillanti, tratti alcuni degli avversari, guadagnati sopra tutto quei cardinali della baronia romana, il Colonna, l'Orsini, il Savelli, senza il concorso dei quali, o almeno di qualcuno di loro, non si poteva avere elezione. Quando questa fu sicura, piegarono anche gli altri, i migliori dei quali, forse, per evitare uno scisma. La mattina dell'11 agosto 1492, dopo un ultimo scrutinio tenuto "ex composito", si poté annunziare al popolo il gaudio grande che Rodrigo Borja era papa Alessandro VI.
L'elezione fu accolta, a Roma e fuori, com'era costume, con apparente esultanza. Ma agli osservatori degli eventi politici essa parve un trionfo non tanto di Ascanio Sforza quanto del Moro; e ai pochi pensosi ancora delle sorti della Chiesa parve tristo annunzio di danno futuro. Quantunque, già dal principio del pontificato di A., si manifestassero, in diverse nomine ad uffici ecclesiastici, segni di eccessivo favore agli Spagnoli e in particolare a figliuoli e congiunti, i primi suoi atti diedero buone speranze di amministrazione più rigida e oculata, di più ferma tutela dell'ordine, di più severa giustizia, di amore alla pace, di zelo per la riforma della Chiesa e per la guerra santa. Ma presto A. fu trascinato, in parte contro sua voglia, in brighe politiche, nelle quali si mostrò timido ed incerto; "el papa [scriveva nel 1494 Pandolfo Collenuccio, oratore del duca di Ferrara] non sole esser de ferro" (v. "Archivio della Società Romana di Storia Patria", 33, 1910, p. 399). Il malumore di lui per la riluttanza di Ferrante di Aragona e di Piero de' Medici a un'ambasceria collettiva della Lega italica, la quale sarebbe stata di maggior onore al pontefice e avrebbe rafforzato la posizione del Moro, fu accresciuto dalla vendita dei castelli di Cerveteri e dell'Anguillara, fatta da Franceschetto Cibo, che li aveva avuti dal padre, Innocenzo VIII, a Virginio Orsini, soldato di Ferrante; nella quale vendita A. vide, in parte a torto, un maneggio del re per "tagliargli il naso". Per questo egli si legò più che mai con Ascanio: la tredicenne Lucrezia fu data allora come sposa a uno Sforza, Giovanni signore di Pesaro (12 giugno 1493). E poco innanzi A. era entrato nella Lega di S. Marco (25 aprile 1493), con Milano e Venezia, che aveva per fine di rassicurare insieme il papa ed il Moro. Ma questa Lega avrebbe, anche, indirettamente giovato a troncare gli intrighi, che il Moro, pauroso di perdere il potere, aveva iniziati già con la Francia. Poiché se può essere - ma non è certo - che, nelle contese col della Rovere, con l'opposizione cardinalizia, con re Ferrante, A. alcuna volta abbia pensato a sollecitare l'aiuto di Carlo VIII, in verità egli non desiderava un trionfo dei Francesi, che avrebbe rappresentato un pericolo per l'indipendenza dello Stato temporale e della stessa autorità spirituale del papato. Forse per timore delle ambizioni sforzesche e francesi, ma certo anche per trarne vantaggi per la famiglia sua, A., nel luglio e agosto del 1493, si riconciliò col re di Napoli, col della Rovere e gli Orsini, assicurando il re e i Fiorentini contro qualsiasi potenza, citramontana o ultramontana; e a Perron de Baschi, che domandava l'investitura del Regno per Carlo VIII, rispose in modo evasivo: condizione e pegno della pace tra A. e Ferrante fu il matrimonio di Sancia d'Aragona, figlia illegittima del duca di Calabria, con Jofré Borja, con in dote il Principato di Squillace e la Contea di Cariati (16 agosto 1493). Ma, nel settembre, A. si riaccostò ad Ascanio, per intolleranza dei modi imperiosi di Giuliano della Rovere e assai più per rendere possibile con l'aiuto dello Sforza la nomina cardinalizia di Cesare Borja, nominato già da lui (31 agosto 1492) vescovo di Valenza, e di Alessandro Farnese, fratello di Giulia: la creazione avvenne il 20 settembre e comprese, con qualche prelato egregio, quei due e il quindicenne Ippolito d'Este e Bernardino Lunati, un oscuro servitore d'Ascanio. E tuttavia A. tentò ancora di pacificare Ferrante ed il Moro e di guadagnare a sé Piero de' Medici; e pensava di opporre l'unione degli Italiani alle cupidigie francesi. Ma il re non si fidava di lui; e gli Stati italiani erano distratti da interessi contrastanti e non credevano alla minaccia francese o non la curavano.
Quando la minaccia si accentuò e sul trono di Napoli sedeva Alfonso II, più debole e meno sospetto al papa dell'energico e ambizioso Ferrante, A. si riavvicinò all'Aragonese; scongiurò Carlo VIII "per viscera Domini Nostri Iesu Christi" di trattenersi dall'aggredire una potenza cristiana, mentre incombeva il pericolo turco; se inviò, quell'anno 1494, la Rosa d'oro al re di Francia, fu per impegnarlo alla difesa della fede. Ma egli contrastava l'invasione francese non solo, né principalmente, per l'amore da lui protestato all'Italia, o per vigile cura degli interessi del pontificato, bensì perché temeva per sé: Giuliano della Rovere, che, fuggito in Francia (aprile 1494), era accanto al re, parlava di un concilio, che avrebbe deposto il pontefice. E, anche, A. pensava, come al solito, agli interessi di famiglia: l'accordo con Alfonso II fu possibile solo quando il re cedette alle esigenze del papa in favore di Giovanni di Gandía e di Jofré. Alfonso fu allora incoronato da un legato papale (8 maggio 1494); in un abboccamento a Vicovaro (14 luglio) fra il pontefice e il re furono presi accordi per la difesa dello Stato papale, del Regno e d'Italia.
A. spiegò in quei mesi contro l'invasione francese un'attività maggiore delle altre potenze italiane: tentò ancora di stornare Carlo VIII dall'impresa; pensò ad unire Venezia e Firenze, la Spagna e l'imperatore; non rifuggì nemmeno dal chiedere il concorso, almeno diplomatico, dei Turchi, anche se le lettere divulgate allora, che avrebbero dimostrato una più stretta unione del papa con gl'infedeli, sono almeno sospette. Ma la Spagna e Massimiliano avevano conchiuso nel loro interesse trattati con Carlo VIII; i Fiorentini esitavano a guastarsi con la Francia, avendo qui interessi di commercio; Venezia non voleva uscire dalla neutralità, soprattutto per timore dei Turchi. Del resto anche A. appariva troppo spesso titubante e interessato: esitava a dare denaro e uomini; esigeva da Giovanni Bentivoglio, signore di Bologna, 1.800 ducati come prezzo di un cappello cardinalizio al figliolo suo Antongaleazzo, quantunque la concessione del cappello sembrasse il solo mezzo per assicurare la fedeltà del padre al pontefice e alla futura lega italiana.
Di fronte al fallimento dei tentativi di arrestare l'avanzata di Carlo VIII, all'accordo con lui di Piero de' Medici prima e poi dei Fiorentini, alla ribellione dei baroni romani, al favore con cui il popolo stesso di Roma guardava al re, come se egli venisse "redempturus Israel", A., dopo altri vani tentativi di volgere il re contro i Turchi, dovette cedere: il 31 dicembre 1494 Carlo VIII entrava in Roma acclamato. Dopo trattative difficili, A. si accordò con lui (15 gennaio 1495) a condizioni assai dure: passo al re attraverso lo Stato papale; in mano sua Civitavecchia; legato nel campo regio in apparenza, in realtà ostaggio per quattro mesi, Cesare Borja. Ma, pur rendendo a Carlo grandi onori, A. non gli concesse l'investitura del Regno.
Quando gli Stati italiani, eccetto Firenze, sentirono la stoltezza di avere lasciato il re di Francia attraversare, senza trarre la spada, tutta l'Italia, e gli Stati europei apparvero impensieriti della rapida fortuna di Carlo VIII, A. entrò nella Lega Santa del 31 marzo 1495, con la Spagna, l'imperatore, Venezia, il Moro stesso. E fu la prima lega per l'equilibrio d'Europa. Nel ritirarsi di Carlo VIII da Napoli, attraverso Roma e lo Stato papale, che nessuno pensava a difendere, A. riparò ad Orvieto e a Perugia, negando ancora l'investitura; tornò a Roma, quando il re era già nel settentrione, e fu accolto in trionfo (27 luglio). Ma presso Fornovo l'esercito della Lega non era riuscito a chiudere a Carlo VIII la via del ritorno in Francia (6 luglio); la Lega si sciolse presto; il re poteva pensare a ritogliere agli Aragonesi il Regno di Napoli, che avevano ricuperato anche con gli aiuti papali. A. esortava ancora i Veneziani a non desistere dall'opporsi ai Francesi; sollecitava Massimiliano a scendere in Italia per combattere i Fiorentini, tenacemente legati alla Francia. E intanto approfittava del crollo dei Francesi in Italia per fiaccare gli Orsini, loro alleati e sempre minacciosi al potere pontificale. Il suo duca di Gandía, fatto senza alcun merito capitano generale della Chiesa, dopo buoni successi iniziali, fu sconfitto a Soriano (25 gennaio 1497); e tuttavia ricevette il Ducato di Benevento, e Terracina e Pontecorvo, terre papali (7 aprile). A. adesso era stretto alla Spagna e agli Aragonesi e con l'aiuto di quella ricuperò Ostia (9 marzo); al cardinale Cesare Borja fu dato l'ufficio di legato papale, perché incoronasse a Napoli Federico d'Aragona (8 giugno).
Appunto allora la vicenda savonaroliana dava un nuovo indirizzo alla politica di Alessandro VI.
Nell'eroico suo sforzo di riportare Firenze e l'Italia e la Chiesa a purezza di costumi e fervore di vita religiosa, Girolamo Savonarola, ch'era divenuto priore di S. Marco in Firenze, non esitava ad attaccare, con la veemenza propria del suo carattere, la Curia romana, che gli pareva fonte d'ogni male, e, senza nominarlo, lo stesso pontefice. A., d'altra parte, oltre che dal risentimento personale, era spinto contro di lui da un motivo politico perché, nella predicazione del frate, che esaltava la missione del nuovo Ciro, re Carlo VIII, da cui sarebbero state flagellate e rinnovate Firenze, l'Italia, la Chiesa stessa di Dio, vedeva l'ostacolo principale ai suoi sforzi di staccare i Fiorentini dalla Francia. Egli proibì al Savonarola di predicare e ordinò che il convento di S. Marco fosse riunito alla Congregazione domenicana lombarda (8 settembre 1495). Il Savonarola dapprima obbedì al divieto papale; poi, secondo un ordine dato dalla Signoria di Firenze, risalì, il 17 febbraio 1496, sul pergamo. Forse egli credette che il cardinale Carafa, protettore dell'Ordine domenicano, consentendo la predicazione, fosse in tacito accordo col papa; certo fin d'allora affermava non doversi obbedire a un comando dei superiori, che si vedesse manifestamente contrario ai comandamenti di Dio. E inveiva più che mai contro le "vaccae pingues" di Roma, contro i vizi di "Babilonia", contro la Chiesa "ribalda".
A. tollerò per allora; ma dopo avere, come si disse - e non è certo - tentato invano di guadagnare il Savonarola con l'offerta del cappello cardinalizio, ordinò, sotto pena di scomunica, la riunione dei conventi di Toscana e di Roma in una nuova Congregazione (7 novembre 1496). Il Savonarola e i suoi frati non obbedirono a un ordine che, a loro parere, avrebbe avvelenato le anime: A. dichiarò il Savonarola scomunicato (13 maggio 1497). Il frate aveva per vero rinnovato in quei giorni una solenne protesta di obbedienza alla Chiesa; ma, pubblicato il 18 giugno il breve papale, scrisse una Epistola, nella quale proclamava l'invalidità della scomunica, perché fondata su motivi falsi, e ripeteva che non si doveva obbedire a ordini contrari alla carità cristiana e alla legge divina. E, pur riaffermando ancora una volta la sottomissione al papa, celebrò le funzioni religiose nel Natale del 1497; e l'11 febbraio 1498 riprese con sempre maggiore foga la predicazione. Il papa chiese allora a Firenze la consegna e la carcerazione del frate, minacciando l'interdetto (26 febbraio 1498). La Signoria fiorentina, che ora gli era avversa, cercò tuttavia di difenderlo; ma, di fronte a nuove minacce papali, gli proibì di predicare (17 marzo). Fra' Girolamo sollecitò allora dalle potenze cristiane la convocazione di un concilio, in cui si sarebbe dovuto deporre il pontefice simoniaco, eretico ed infedele.
Avversato dalle opposte fazioni, abbandonato da chi non lo voleva seguire nella disobbedienza al pontefice e dal popolo stesso, che da lui aveva invano atteso il miracolo, il Savonarola fu arrestato. Al processo, condotto con arti inique, presero parte nell'ultima fase due commissari papali; condannato a morte, il frate fu degradato, impiccato ed arso (23 maggio 1498).
Per un breve periodo A. sembrò voler procedere a quel risanamento della Curia e della Chiesa che il Savonarola aveva invocato.
Quando fu ucciso, nella notte fra il 14 e il 15 giugno 1497, il prediletto suo Giovanni di Gandía - e non se ne conobbe mai con certezza l'uccisore, se pure non fu lo stesso fratello, Cesare - A. vide in quel fatto un castigo e un ammonimento divino. Disse di voler riformare la Curia, a cominciare da se stesso: forse era allora sincero. Una commissione di sei cardinali, scelti per la maggior parte fra i migliori, lavorò attivamente, preparò un piano di riforme, che preludeva al Tridentino, stese una bolla. La bolla non fu pubblicata; le riforme non furono attuate che in piccolissima parte; i buoni propositi di A. erano già svaniti.
Adesso A. era in balìa di un uomo che egli amava e temeva (v. M. Sanuto, III, col. 846), il figliuolo suo Cesare. Della nuova politica fu preannuncio la dichiarazione di nullità del matrimonio di Lucrezia con Giovanni Sforza (20 dicembre 1497), pronunziata da una commissione di alti prelati in seguito a una confessione umiliante strappata allo sposo: un anello della catena che legava i Borja agli Sforza era spezzato. Non sembrava però ancora che né il papa né Cesare avessero trovato con sicurezza la loro via: le dissuasioni del papa a Carlo VIII e al suo successore (7 aprile 1498) Luigi XII dal ritentare imprese in Italia, i nuovi sforzi per una lega di potenze italiane, le trattative per un matrimonio di Cesare con Carlotta, figlia di Federico re di Napoli, le seconde nozze (21 luglio 1498) di Lucrezia con Alfonso duca di Bisceglie, figlio naturale di Alfonso II, parevano indicare un accostarsi dei Borja agli Aragonesi e una resistenza alle cupidigie della Francia. Ma presto fu chiaro dove A. volesse giungere, o anzi dove Cesare lo volesse trascinare.
Deposta per consenso del Sacro Collegio la porpora (17 agosto 1498), Cesare andò in Francia con pompa regale (ottobre 1498); e aveva con sé il cappello per l'Amboise, onnipotente a corte, e per il re la dispensa papale (13 settembre) perché potesse sposare Anna di Bretagna e rinsaldare così l'unità francese, quando una commissione avesse dichiarato, come dichiarò non molto dopo (18 dicembre), la nullità del matrimonio di Luigi con Giovanna di Valois. Fu accolto regalmente; fu tramutato per concessione di Luigi XII da cardinale Valentino in duca Valentino; ebbe per opera del re la mano di Carlotta d'Albret, sorella del re di Navarra e congiunta del re di Francia. Ormai Cesare era "francese"; e "tutto francese" era il papa, perché il re voleva bene a Cesare, "obieto e subieto" di lui (ibid., II, col. 826).
Seguì la rottura con gli Sforza e con la Spagna, i cui oratori rinfacciavano duramente al papa la simonia e il nepotismo.
Nella guerra di Francesi e Veneziani contro il Moro, seguita alla Lega di Blois del 9 febbraio 1499, A. ebbe contegno tanto ambiguo che ambedue le parti si vantavano di averlo con sé; ma Cesare era accanto a Luigi XII nell'ingresso trionfale di questo in Milano (6 ottobre). E si accingeva ora a conquistare la Romagna e le Marche. Il pretesto era quello di schiacciare i signorotti riottosi, se non ribelli, contro la Chiesa. Può darsi che A. avesse anche in mira di costruire un forte Stato come baluardo della Chiesa contro le minacce straniere; ma era, questo, uno Stato dei Borja, non della Chiesa, e, alla morte di A., avrebbe reso schiavo il nuovo pontefice, o l'avrebbe costretto a impugnare le armi per disfarlo. E Cesare era luogotenente di Luigi XII e ne seguiva gli ordini; e contribuiva non a liberare l'Italia dalla servitù forestiera, come pensò il Machiavelli, ma ad accrescere la potenza del re di Francia in Italia.
Caddero Imola e Forlì (dicembre 1499, gennaio 1500); Cesare, interrotta per un poco l'impresa di Romagna per il risorgere della potenza del Moro, che gli toglieva gli aiuti di Francia, celebrò in Roma un pomposo trionfo (26 marzo 1500); ed ebbe dal papa le insegne di gonfaloniere della Chiesa e la Rosa d'oro e, ciò che più importava, il possesso di Castel S. Angelo e delle altre fortezze papali. Quando il Moro giacque (10 aprile), il papa ne festeggiò a Roma la definitiva caduta.
Ancora un legame stringeva i Borja agli Aragonesi, ed era un pericolo per Cesare, perché Lucrezia, la sposa di Alfonso di Bisceglie, era anche troppo cara al pontefice, che arrivava fino a lasciare, in sua assenza, a lei, poco più che giovinetta, l'amministrazione del palazzo papale e la reggenza degli affari temporali della Chiesa. Forse il ferimento (15 luglio), certo l'uccisione di Alfonso (18 agosto) furono opera di Cesare Borja.
Fatto denaro con la creazione cardinalizia del 28 settembre 1500, con l'entrate del giubileo, forse con le somme destinate alla crociata, Cesare riprese la guerra; costrinse a fuggire i signori di Pesaro e di Rimini, prese Faenza, il cui giovine signore Astorre Manfredi e il fratello suo furono poi uccisi in Castel S. Angelo; pose a taglia i Fiorentini; tolse terre all'Appiano di Piombino e al Bentivoglio di Bologna. Dal papa ebbe nel maggio del 1501 il titolo di duca di Romagna.
A. aderì, con una bolla del 25 giugno 1501, al trattato di Granada dell'11 novembre 1500, che segnava la fine della dinastia aragonese di Napoli e la spartizione del Regno tra la Francia e la Spagna. Anche qui possiamo pensare che A. credesse davvero a un ricorso di re Federico ai Turchi, che si acconciasse a un fatto che non poteva impedire, che ritenesse di allontanarsi meno dalla tradizione politica del papato, consentendo lo stabilirsi nel Regno, anzi che d'un solo potente, di due, fra loro rivali e perciò meno pericolosi. Ma era doloroso che il papa aderisse alla iniqua spogliazione di un re, che da suo figlio aveva ricevuto la corona. Cesare partecipava alla conquista del Regno con le milizie francesi, strumento, come sempre, delle ambizioni di Francia.
A. obbligò allora i Colonna a cedergli i castelli; poi, siccome essi e i Savelli s'erano stretti con re Federico, li scomunicò, ne confiscò i beni, diede il Ducato di Sermoneta a Rodrigo di Lucrezia e quello di Sutri all'"infans Romanus".
Per favorire i nuovi disegni di Cesare su Bologna e Firenze, Lucrezia fu data, sposa per la terza volta, a ventun anni, ad Alfonso, figlio di Ercole d'Este duca di Ferrara (30 dicembre 1501); Luigi XII era intervenuto per vincere la riluttanza del duca. Di Piombino, tolta agli Appiano (settembre 1501) e fortificata, si disse, da Leonardo da Vinci, Cesare mirava a farsi un punto d'appoggio per la conquista della Toscana. Intanto occupava Urbino e Camerino (giugno e luglio 1502); da Bologna lo tratteneva Luigi XII. E al re, venuto in Italia, ricorrevano quanti erano stati spogliati, o temevano di essere spogliati dal Valentino. Ma questi, corso a Milano, riusciva a ricuperarne l'amicizia, promettendogli aiuto contro la Spagna; ancora una volta il re di Francia appariva arbitro delle cose d'Italia.
Fortuna per Cesare, che poté, con l'aiuto del re, salvarsi dal pericolo dell'unione dei suoi stessi condottieri con i nemici suoi nella congiura di Magione (ottobre 1502) e della ribellione delle sue più recenti conquiste; il "bellissimo inganno" di Senigallia (31 dicembre) lo sbarazzò dei più pericolosi congiurati; altri furono tolti di mezzo più tardi. A Roma A. fece arrestare il cardinale Orsini con altri della famiglia, o aderenti a questa: il cardinale morì in carcere con sospetto di veleno; tutte le terre degli Orsini furono prese da Cesare, eccetto Bracciano, salvata dalla protezione del re.
Cesare occupò ancora Città di Castello e Perugia; nuovo denaro veniva da una ulteriore creazione cardinalizia (31 maggio 1503); morte di ricchi cardinali e prelati, carcerazione di altri, anche colpevoli, erano attribuite, a torto o a ragione, alla sete di denaro dei Borja. Si sussurrava da tempo che il Valentino, col favore del papa, mirasse ben in alto, nulla meno che alla Corona d'Italia.
Ma a Luigi XII non conveniva che Cesare si facesse troppo potente in Italia: sulla via di Firenze, come di Bologna, il Valentino trovava l'ostacolo della Francia. D'altra parte, A. era stretto dal timore di ridursi "zago", chierichetto, del re di Francia (cfr. A. Giustinian, I, p. 242); vedeva con sospetto un possibile accordo fra gli stranieri, senza partecipazione degli Italiani; sentiva, anche, il pericolo che fosse asservita la Chiesa. Fin dal 20 marzo 1502, per mezzo del suo segretario Adriano da Corneto, aveva sollecitato i Veneziani a collegarsi con lui; e ripeté poi molte volte l'invito (ibid., I-II, passim). Era probabilmente sincero, quando diceva di volere l'unione di "questa povera Italia" per "liberarla dalla servitù" (ibid., I, pp. 477 e 466); ma pensava anche, sopra tutto nelle ore del pericolo, ad assicurare le fortune del suo Cesare, che voleva "collocato nelle brazze" della Signoria di Venezia (ibid., p. 394 e altrove più volte). E Venezia non era per nulla disposta a fare da custode ai domini di Cesare, di cui anzi "el furor iuvenil" (ibid., p. 396) le faceva paura.
Deluso nelle speranze sui Veneziani, A. si volgeva ora alla Spagna, già vittoriosa nel Regno: la creazione cardinalizia del 31 maggio 1503 non era solo un affare simoniaco, ma una manifestazione di favore agli Spagnoli, a cui erano dati cinque cappelli su nove; poteva parere assicurata la successione nel pontificato a uno spagnolo o a un candidato di Spagna.
La morte, probabilmente di apoplessia durante un'infezione di malaria, colse fra questi disegni A. il 18 agosto 1503.
È immeritata la lode data ad A. di precursore della riforma cattolica: il proposito di riforma, come vedemmo, ebbe durata breve e non sortì alcun esito; non foss'altro, le creazioni cardinalizie e le nomine di vescovi, fatte troppo spesso per simonia e nelle persone di uomini non degni, non consentono di vedere in lui alcuno sforzo serio di migliorare la Chiesa. È tuttavia da riconoscere che l'opera di lui nel campo religioso, sebbene scarsa perché soffocata dalle brighe politiche e dal nepotismo, non fu trascurabile.
L'ortodossia di A. non fu messa in dubbio seriamente neppure dagli avversari più fieri; poté anche essere sincera la sua pietà, sebbene malamente congiunta con trascorsi morali gravissimi. Della fede cattolica e dei diritti della Sede papale fu custode geloso: combatté gli eretici, contro i quali rinnovò il 4 aprile 1493 e di nuovo negli anni seguenti la bolla In coena Domini; rimise in vigore per la Germania le disposizioni di Innocenzo VIII sulla censura ecclesiastica dei libri (1° giugno 1501); incaricò Adriano da Corneto, suo nunzio in Inghilterra, di riformare le Chiese e i monasteri di questo paese (5 giugno 1493) e favorì disegni di riforma in Francia e in Spagna; nei Paesi Bassi difese contro le autorità laiche i privilegi ecclesiastici. Tollerante con gli ebrei, alle cui pingui casse poteva attingere, fu, come spagnolo, severo contro i "marrani", costretti a pubbliche penitenze e a taglie gravose. Per provvedere a una sollecita spedizione dei brevi papali, istituì il Collegio degli "Scriptores brevium apostolicorum" (1° aprile 1493). Favorì gli Ordini religiosi, come gli Agostiniani, a cui diede in perpetuo l'ufficio di sacrista del Sacro Palazzo, e i Minimi di s. Francesco di Paola, che approvò nel 1493; ebbe relazioni spirituali con la beata Colomba da Rieti, nonostante la franchezza con cui ella, nuova Caterina, flagellava i vizi della Corte papale. Promosse la conversione degli Orientali e le missioni, anche nelle terre novamente scoperte, dove fu inviato (25 giugno 1493) con larghi poteri il francescano Bernal Boyl, che aveva per compagno il Las Casas, più tardi coraggioso difensore degli Indiani.
La conversione degli indigeni delle nuove terre era anche, nel pensiero di A., la giustificazione delle celebri bolle del 3 e 4 maggio 1493, con le quali il papa tracciava una linea di demarcazione tra i domini coloniali spagnoli e portoghesi, dal polo artico all'antartico, a cento miglia dalle isole Azzorre e da quelle del Capo Verde, attribuendo alla Spagna le terre "versus occidentem et meridiem", purché non fossero già dominio di altra potenza cattolica, e concedendole i privilegi stessi di cui godevano i Portoghesi nelle loro terre d'oltremare (P. De Roo, III, pp. 475 ss.). Non era questo veramente un arbitrato fra Spagna e Portogallo, perché A., dirigendo le bolle ai sovrani di Castiglia, diceva di averle accordate "motu proprio, de nostra mera liberalitate" e senza dubbio le aveva concesse per la preghiera unilaterale di quei sovrani. Ma il fatto che questi documenti papali servissero di base alle trattative future fra le due potenze è testimonianza di quanto alto fosse ancora, con A., il prestigio del pontificato romano. E ne fu altra prova il concorso larghissimo al giubileo, indetto da A. per l'anno secolare 1500; si riversò a Roma grande folla di pellegrini - era fra loro il Copernico - noncuranti della peste e dei pericoli delle vie, che i decreti del papa non erano riusciti a mantenere sicure: si poté allora dire che "ingens orbis in urbe fuit" (v. Sigismondo de' Conti, Le storie de' suoi tempi, II, Roma 1883, p. 218). Furono molte le offerte; ma servirono a Cesare per le imprese di Romagna.
A. non era un letterato: scriveva e parlava ora nel dialetto suo valenziano, ora in un italiano misto di idiotismi catalani e castigliani; era anche oratore mediocre. Tuttavia protesse gli studi; stanziò denaro per la ricostruzione della Sapienza di Roma; diede a dotti canonisti alti uffici ecclesiastici, a Felino Sandei il vescovado di Penne (1495), la carica di referendario, il vescovado di Lucca (1499); a Giovanni Antonio Sangiorgio la porpora (1493). Favorì gli umanisti, come Pomponio Leto, Michele Ferno, che fu il suo panegirista, Adriano Castellesi da Corneto, che fu suo tesoriere (1500) e cardinale (1503), Lodovico Podocataro da Cipro, segretario suo e anch'egli cardinale (1500), Scipione Carteromaco, Aldo Manuzio, il Lascaris, i due Brandolini; minore fortuna ebbe il Poliziano, per il quale Piero de' Medici chiese invano il cappello cardinalizio. Ma negli uffici di Curia il papa preferì gli Spagnoli, a gran dispetto degli Italiani.
Amò l'arte, quantunque fosse ben lontano dal largo e illuminato mecenatismo di Sisto IV e di Giulio II. Ancora cardinale, s'era fatto costruire in Roma, tra ponte S. Angelo e Campo de' Fiori un magnifico palazzo, che è ora Sforza-Cesarini, e un altro palazzo in Pienza; e ad Andrea Bregno aveva commesso l'altar maggiore di S. Maria del Popolo. Di lui papa sono da ricordare il soffitto di S. Maria Maggiore, decorato riccamente con oro, che si disse importato dall'America; la via Alessandrina da Castel S. Angelo al Vaticano, che fu poi nota col nome di Borgo Nuovo ed è ora scomparsa; i lavori di Antonio da Sangallo in Castel S. Angelo e, pure in Castello, gli affreschi, perduti, di Pinturicchio; la loggia delle benedizioni in S. Pietro. Ma sopra tutto il nome del papa Borja è legato alle stanze, scelte per sua dimora in Vaticano, che il Pinturicchio decorò, fra il 1492 e il 1495, con ricchi soffitti ed affreschi rappresentanti fatti scritturali ed episodi della vita di Cristo, della Vergine e dei santi, una delle più splendide opere del Rinascimento. Campeggia in ogni parte il toro, stemma dei Borja; in un affresco è rappresentato il pontefice in ginocchio davanti a Gesù risorto: è favola invece che egli vi apparisse in atto di preghiera davanti alla Madonna, che aveva i lineamenti di Giulia Farnese, ed è tutt'altro che certo che in una S. Caterina d'Alessandria sia ritratta Lucrezia.
Il cadavere del papa A., dopo essere stato esposto breve tempo in S. Pietro, fu in gran fretta e senza onore sepolto nella chiesa di S. Maria della Febbre, presso la basilica; dal 1610 riposa in S. Maria di Monserrato, dove soltanto nel 1889 ha avuto decoro di tomba.
Ma non ha riposato, né riposa, la fama di lui. Protestanti, illuministi, razionalisti hanno tratto dalla condotta immorale di A. argomento per la lotta contro il pontificato. Libellisti, romanzieri hanno intessuto sul suo conto le storie più fantastiche. E, d'altro lato, cattolici non bene accorti, come un Ollivier, un Leonetti, un De Roo, hanno mostrato di ritenere che la difesa ad oltranza del Borja fosse difesa dell'autorità altissima ch'egli rappresentava. Pagine assai equilibrate ha scritto, dopo il Rinaldi, il Ranke ed il Reumont, L. von Pastor; la parte del volume III della sua Storia dei papi, dedicata ad A., rimane, sebbene non si possa consentire con lui in ogni punto, il più completo e documentato e sereno studio che si abbia sinora sul papa Borja. All'opera di G. Pepe, che ha giudicato severamente, ma non spassionatamente, la politica dei Borja, s'è contrapposto un rapido quadro di questa tracciato dal Soranzo, che, a sua volta, sembra avere in alcuni punti passato la misura della difesa. Il Soranzo ha anche tentato, con poca fortuna, di demolire la credibilità di uno dei più fieri accusatori di A., il cerimoniere papale Burckard, di negare, o almeno di mettere in dubbio la simonia nell'elezione, di dare una spiegazione onesta alle relazioni del Borja con la Farnese. Assai meno serio del lavoro del Soranzo è un volume apologetico, in lingua spagnuola, di O. Ferrara, tradotto successivamente anche in italiano. E nella Spagna vi è tutto un movimento per la riabilitazione, anzi per l'esaltazione del Borja, del quale movimento è testimonianza, fra altri, un lavoro del canonico Elias Olmos y Canalda, che nel 1954 era giunto alla settima edizione.
In verità, A. appare, sott'ogni rispetto, minore della sua fama. I vizi di lui non erano forse più gravi di quelli di molti suoi contemporanei; parvero ripugnanti sopra tutto perché egli era vescovo, cardinale, pontefice. Né l'attività religiosa, né il mecenatismo, pur largo, possono reggere il confronto con quello di altri pontefici. L'opera politica fu oscillante, finché non lo dominò la selvaggia energia del Valentino. E, come le sue incertezze e l'egoismo personale e familiare indebolirono nei primi anni la sua azione di difesa dell'Italia dagli stranieri, così l'immoderato amore ai figliuoli, e in particolare a Cesare, tolse poi fede alle sue proteste di sentimenti italiani; lo rese anzi complice di Cesare nell'asservimento dell'Italia alla Francia. La creazione di uno Stato, che aveva la base nella Romagna, fu benefica alle popolazioni, liberate dal giogo dei tirannelli, e poteva costituire un nucleo intorno al quale si raccogliessero le forze ancora libere in Italia; ma lo Stato era congiunto con la fortuna dei Borja. Morto A., lo Stato borgiano mollò; e Giulio II dovette rifare intero il cammino, battendo tutt'altra via e con risultati ben più durevoli.
Giovanni Battista Picotti
Negli ultimi quarant'anni non si sono registrati significativi ritrovamenti archivistici. In compenso una nuova sensibilità storiografica ha spinto a rileggere in modo diverso sia la vicenda romana del pontefice e della sua famiglia, sia il ruolo di questi nelle guerre d'Italia. Gli "eccessi" dei Borja sono stati recuperati in quello che è considerato il tipico comportamento delle grandi famiglie tardo quattocentesche, mentre un'intensa produzione letteraria e cinematografica - che prende le mosse da La Rome des Borgia di Guillaume Apollinaire (Paris 1914) e arriva a O César, o nada (Madrid 1998) di Manuel Vázquez Montalbán, passando per i Contes immoraux (1974) di Walerian Borowczyk - ha fatto di A. e dei figli gli eroi, non del tutto negativi, dell'infrazione della norma. Una storiografia legata alla rivoluzione dei costumi negli anni Sessanta è stata pronta a recepire queste indicazioni e non è casuale che la prima critica documentata al giudizio tradizionale sia stata firmata da Michael E. Mallett nel 1969. In seguito gli studiosi hanno anche ribadito come il crollo del sistema di equilibrio italiano debba essere visto nell'insieme della storia europea e non si debbano quindi esagerare ruolo e "colpe" di A. (il dibattito è riassunto in The French Descent into Renaissance Italy, 1494-1495, a cura di D. Abulafia, Aldershot 1995). Infine, a mano a mano che ci si avvicinava al 1992, si è collegato il papa eletto nel 1492 alla scoperta dell'America: i suoi interventi sul Nuovo Mondo sono stati così intensamente studiati, quasi a dimostrare che quello è stato il vero legato di Alessandro VI.
Matteo Sanfilippo
fonti e bibliografia
Oltre ai documenti inediti contenuti in gran numero nell'A.S.V. e sparsi in molti archivi italiani e stranieri, principalissime fonti sono A. Giustinian, Dispacci, I-III, a cura di P. Villari, Firenze 1876; M. Sanuto, I diarii, a cura di F. Stefani et al., I-LVIII, Venezia 1879-1903, ad indices; J. Burckard, Liber notarum ab a. 1483 usque ad a. 1506, in R.I.S.², XXXII, 1, a cura di E. Celani, 1907-10, 1911-42 che è tuttavia da usare con cautela (anche, per i documenti, Id., Diarium, a cura di L. Thuasne, I-III, Paris 1883-85); P. De Roo, Material for a History of Pope Alexander VI, I-V, Bruges 1924, opera diligente, ma del tutto sprovvista di critica; Alessandro VI e il Savonarola (brevi e lettere), a cura dell'Accademia di Oropa, Torino 1950.
La maggior parte delle opere più significative, edite fino al 1924, è registrata in L. von Pastor, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, III, Roma 1925, dove le pp. 277-519 sono dedicate ad A. (v. anche I e II, ivi 1925).
Fra quelle pubblicate poi, v.G.B. Picotti, La giovinezza di Leone X, Milano 1928; M. Bellonci, Lucrezia Borgia, ivi 1939; G. Pepe, La politica dei Borgia, Napoli 1946 (cfr. la recensione di G.B. Picotti, "Il Ponte", 2, 1946, pp. 1141-44); G. Soranzo, Studi intorno a papa Alessandro VI (Borgia), Milano 1950; G.B. Picotti, Nuovi studi e documenti intorno a papa Alessandro VI, "Rivista di Storia della Chiesa in Italia", 5, 1951, pp. 169-262 (cfr. anche la breve polemica fra il Soranzo e il Picotti, ibid., 6, 1952, pp. 96-110); E. Olmos y Canalda, Reivindicación de Alejandro VI (el Papa Borja), Valencia 1954⁷; G.B. Picotti,
Ancora sul Borgia, "Rivista di Storia della Chiesa in Italia", 8, 1954, pp. 313-65; M. Batllori, Alejandro VI y la Casa Real de Aragón, Madrid 1958; Realencyklopedie für protestantische Theologie und Kirche, I, Leipzig 1896, s.v., pp. 347-51; Dictionnaire de théologie catholique, I, Paris 1910, s.v., coll. 724-27; P. Richard, Alexandre VI, in D.H.G.E., II, coll. 218-29; G.B. Picotti, Alessandro VI, in Enciclopedia Italiana, II, Roma 1950, pp. 342-44; E.C., I, s.v., coll. 795-802.
La biografia di A. e dei suoi familiari è stata approfondita dopo il 1960 da molte opere, a volte decisamente divulgative: J. Lucas-Lubreton, Les Borgia, Paris 1962; P. Jobit, Alexandre VI, ivi 1967; S. Schüller Piroli, Los Borgia. Leyenda e historia de una familia, Barcelona 1967; O. Ferrara, Il papa Borgia, Novara 1969; M.E. Mallett, The Borgias: The Rise and Fall of a Renaissance Dinasty, London 1969; L. Silvani, I Borgia, Milano 1972; E.R. Chamberlain, The Fall of the House of Borgia, London 1974; R. Gervaso, I Borgia, Milano 1976; D. Sweetman, The Borgias, Hove 1976; M. Brion, Les Borgia. Le pape et le prince, Paris 1979; S. Schüller Piroli, Die Borgia Päpste. Kalixt III. und Alexander VI., München 1980; M. Johnson, Casa Borgia, Roma 1982; G.A. Scaltriti, Papa Alessandro VI Borgia, "Palestra del Clero", 63, 1984, pp. 798-814; Id., Il dramma di papa Alessandro VI Borgia, ibid., pp. 848-62; J. Heers, À la Cour pontificale au temps des Borgia et des Medicis 1420-1520, Paris 1986; J. Brambach, Die Borgia. Faszination einer machtbesessenen Renaissance-Familie, München 1988; I. Cloulas, I Borgia, Roma 1988; J. Roubichon, Les Borgia. La trinité maudite, Paris 1988; Els Borja, Valencia 1990; Die Renaissancefamilie Borgia. Geschichte und Legende, a cura di E. Schraut, Sigmaringen 1992.
Sulla dimensione iberica di A. si sono invece dilungati: M.L. Catalá, Los papas valencianos: Calixto III y Alexandro VI, "Anales Valentinos", 8, 1982, pp. 229-64;M. Batllori, Humanismo y Renacimiento. Estudios hispano-europeos, Barcelona 1987, pp. 61-72; A. Sanchez de la Torre-V. Castel-M. Peset, Alejandro VI - Papa Valenciano, Valencia 1994; L. Tacchella, Alessandro VI e la nunziatura in Spagna di Francisco des Prats (1492-1503), Genova 1994; M. Batllori, Vuit Segles de cultura catalana a Europa. Assaigs dispersos, Barcelona 1995, pp. 45-72.
Nel frattempo sono uscite nuove edizioni di documenti, in buona parte già noti: A. Ademollo, Alessandro VI, Giulio II e Leone X nel carnevale di Roma. Documenti inediti (1499-1520), Roma 1967; A. Borrás i Feliu, Cartes d'Alexandre VI conservades a l'Arxiu del Palau de Barcelona, "Analecta Sacra Tarraconensia", 46, 1973, pp. 278-323; Pietro Vaglienti, Storia dei suoi tempi 1492-1514, a cura di G. Berti et al., Pisa 1982; Calendar of Entries in the Papal Registers Relating to Great Britain and Ireland. Papal Letters, XVI, Alexander VI (1492-1503), Lateran Registers, pt. 1, 1492-1498, a cura di A. Fuller, e XVII, 1, Alexander VI [...], pt. 2, 1495-1503, a cura di Ead., Dublin 1986-94; M. Monaco, The Instructions of Alexander VI to His Ambassadors Sent to Louis XII in 1498, "Renaissance Studies", 2, 1988, pp. 251-57; J. Metzler, America Pontificia primi saeculi evangelizationis 1493-1592, I, Città del Vaticano 1991. M. Jacoviello, La lega antifrancese del 31 marzo 1495 nella fonte veneziana del Sanuto, "Archivio Storico Italiano", 143, 1985, pp. 39-90, ha comunque mostrato come fosse utile rileggere testimonianze che sembravano anche troppo conosciute.
Alcuni studiosi hanno invece cercato d'illustrare meglio le relazioni familiari del pontefice: Ch. Shaw, Alexander VI, Cesare Borgia and the Orsini, "European Studies Review", 11, 1981, pp. 1-23; C. Fornari, Giulia Farnese. Una donna schiava della propria bellezza, Parma 1995; R. Zapperi, Farnese, Giulia, in D.B.I., XLV, pp. 99-102; nonché le voci relative ai Borja nel volume XII del medesimo D.B.I.
La bibliografia su A. e la scoperta dell'America è ormai enorme, a partire dai fondamentali: L. Weckman, Las Bulas Alejandrinas de 1493, y la teoría política del papado medieval, México 1949; Pedro de Leturia, Relaciones entre la Santa Sede e Hispanoamérica, I, Epoca del Real Patronato 1493-1800, Roma-Caracas 1959, pp. 153-203.
Per un bilancio degli ultimi venti anni di studi, si leggano: R. García-Villoslada, Sentido de la conquista y evangelización de América, según las bulas de Alejandro VI (1493), "Anthologica Annua", 24-5, 1977-78, pp. 381-452; J. Muldoon, Papal Responsibility for the Infidel: Another Look at Alexander VI's "Inter caetera", "The Catholic Historical Review", 64, 1978, pp. 168-84; L.M. De Bernardinis, Le bolle alessandrine, San Roberto Bellarmino e la Potestas indirecta in temporalibus, in Atti del III Convegno Internazionale di Studi Colombiani, Genova 1979, pp. 547-64; R. Manselli, Cristoforo Colombo, Alessandro VI e i primi missionari francescani, in Diffusione del francescanesimo nelle Americhe. Atti del X Congresso Internazionale, Perugia-Assisi 1984, pp. 37-54; F. Cantelar Rodríguez, Patronato y Vicariato Regio español en Indias, "Theologica", 21, 1986, pp. 57-102; A. García y García, La donation pontificale des Indes, "Recherches de Science Religieuse", 80, 1992, pp. 491-512; R. Lefevre, La "stampa" romana del 1493 e le prime notizie sulla scoperta del "nuovo mondo", "Strenna dei Romanisti", 53, 1992, pp. 325-38; V. Castel, Las bulas alejandrinas: precedentes, génesis y efectos inmediatos, in A. Sanchez de la Torre-V. Castel-M. Peset, Alejandro VI - Papa Valenciano, pp. 35-82; P. Casteñado Delgado, Las bulas alejandrinas y el tratado de Tordesillas. Trayectoria jurídica de la expansión luso-castellana, "Communio. Commentarii Internationales de Ecclesia et Theologia", 27, 1994, pp. 35-62; M. Tedeschi, Le bolle alessandrine e la loro rilevanza giuridica, in Esplorazioni geografiche e immagine del mondo nei secoli XV e XVI, a cura di S. Ballo Alagna, Messina 1994, pp. 131-51; El Tratado de Tordesillas y su época, Madrid 1995.
Per la contrapposizione, reale e storiografica, tra A. e il Savonarola, si può partire dai due classici e opposti G. Soranzo, Il tempo di Alessandro VI Papa e di Fra Girolamo Savonarola, Milano 1960, e G.B. Picotti, Alessandro VI, il Savonarola ed il Cardinale Giuliano della Rovere in una pubblicazione recente, "Archivio della Società Romana di Storia Patria", 83, 1960, pp. 51-72, per proseguire con alcuni esempi della sterminata bibliografia savonaroliana: R. De Maio, Savonarola e la Curia Romana, Roma 1969;Id., Savonarola, Alessandro VI e il mito dell'Anticristo, "Rivista Storica Italiana", 82, 1970, pp. 533-59; G.A. Scaltriti, L'ultimo Savonarola. Esame giuridico-teologico del Carteggio (brevi e lettere) intercorso tra papa Alessandro VI e il frate Girolamo Savonarola, Roma 1976; Id., Luci ed ombre del '400. San Francesco di Paola, Alessandro VI papa Borgia, Fra Girolamo Savonarola. Saggio Politico Religioso, Napoli 1983; F. Cordero, Savonarola. Demiurgo senza politica 1496-1497, Bari 1987;T.S. Centi, Girolamo Savonarola, Roma 1988; I. Cloulas, Savonarole ou la révolution de Dieu, Paris 1994; T.S. Centi, La scomunica di Girolamo Savonarola, Milano 1996.
Lo studio della committenza artistica di A. si è infine conquistato un proprio spazio: A. Bruschi, L'architettura a Roma al tempo di Alessandro VI: Antonio da Sangallo il Vecchio, Bramante e l'antico (autunno 1499-autunno 1503), "Bollettino d'Arte", 29, 1985, pp. 67-90; Ph.J. Jacks, Alexander VI's Ceiling for S. Maria Maggiore in Rome, "Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte", 22, 1985, pp. 63-82; F. Borsi, Bramante. Catalogo critico, Milano 1989, pp. 223-63; S. Poeschel, Age itaque Alexander. Das Appartamento Borgia und die Erwartungen an Alexander VI., "Römisches Jahrbuch der Bibliotheca Hertziana", 25, 1989, pp. 127-65; A. Capriotti, Umanisti nell'appartamento Borgia: appunti per la sala delle arti liberali, "Strenna dei Romanisti", 51, 1990, pp. 73-88; C. Cieri-Via, "Characteres et figuras in opere magico". Pinturicchio et la décoration de la "camera segreta" de l'appartement Borgia, "Revue de l'Art", 94, 1991, pp. 11-26. J.N. Hillgarth, The Image of Alexander VI and Cesare Borgia in the Sixteenth and Seventeenth Centuries, "Journal of the Warburg and Courtauld Institutes", 59, 1996, pp. 119-29, opera sempre in campo artistico, ma offre un'importante premessa per lo studio della fortuna della famiglia in questione.
V. inoltre Dizionario storico del Papato, a cura di Ph. Levillain, I, Milano 1996, s.v., pp. 31-4.