ALFONSO V d'Aragona, re di Sicilia, re di Napoli
Nacque presumibilmente nel 1396, da Ferdinando I. Educato in Medina del Campo alla corte di Enrico III di Castiglia - di cui, per ragioni dinastiche, sposerà nel 1415 la figlia Maria -, vi era stato iniziato, ai principi della religione e della morale, con insegnamenti di geometria, di astronomia e soprattutto di lingua latina e di grammatica. Grande posto, naturalmente, in quella educazione di corte era fatto agli esercizi fisici, militari, e soprattutto alla caccia, di cui il sovrano fu sempre amantissimo.
Gli insegnamenti dello zio Enrico di Villena lo avvicinarono peraltro al mondo della cultura. Ma, più che l'educazione impartitagli, gli giovò, quasi lezione di vita, l'esempio del padre, Ferdinando d'Anteguera, la cui fermezza, prudenza ed abilità nel far valere, nel parlamento di Caspe (30 giugno 1412), i propri diritti fra i tanti pretendenti lasciò una forte traccia nell'animo del giovanetto sedicenne, che rimarrà sempre legato alla memoria del padre, di cui nella maturità farà celebrare le gesta da uno scrittore come Lorenzo Valla. E dové anche impressionarlo la fastosa incoronazione del nuovo re d'Aragona - descrittaci con tanta vivacità e tanta ricchezza di colori nelle pagine degli Annali dello Zurita - e nella quale egli stesso, oltre che al lato del padre, rappresentò una parte di primo piano, regolata da un apposito cerimoniale, per l'elevazione al principato di Gerona.
Nei Consigli e alla scuola del padre, apprese presto ad occuparsi dei domini transmarini della casa, specialmente di Sardegna e di Sicilia, ricevendo una efficace lezione di esperienza anche nel seguire il modo con cui l'Aragona riuscì a districarsi durante il concilio di Costanza.
Tanto che agli inizi del regno, A., pur schierandosi ufficialmente in favore di Martino V, continuò a tollerare che l'antipapa Benedetto XIII rimanesse in Aragona, nel castello di Peñiscola.
Per di più, nei negoziati che, durante il regno di Ferdinando, si avviarono per le eventuali nozze tra il principe secondogenito Giovanni duca di Peñiafiei e la regina Giovanna II, A. si era venuto convincendo della necessità che il regno d'Aragona, per rendere veramente efficiente la dominazione in Sicilia e in Sardegna, che è a dire nel Mediterraneo, tenesse saldamente un piede nella penisola italiana. Il dominio sulle isole d'Italia era, come è risaputo, tradizionale presso gli aragonesi sin dal tempo di Pietro III e di Giacomo II, ma dominare su Napoli fu un'idea che prese corpo definito solo nel regno dell'Anteguera, ché, se suggestioni in tal senso si erano già avute precedentemente nell'epoca dei Martini, esse erano state recisamente respinte. Con A. quel proposito non tardò a divenire l'idea centrale, ispiratrice di ogni sua azione politica; e ad essa egli tenne ostinatamente fede, mai distogliendo lo sguardo, malgrado i rovesci di fortuna e le forzate parentesi della conquista napoletana.
Grave l'eredità di Ferdinando I, morto il 2 aprile 1416, cui A. succedette come Alfonso V. Interrotta la politica di espansione nei confronti di Napoli e della Corsica; incerti i rapporti col papato di Roma; forze centrifughe minavano la compagine stessa dei tradizionali territori della corona. Già nelle Cortes di Barcellona del 1412-13 aveva avuto inizio una offensiva "pactista" contro i poteri della Corona e nella seduta del 26 genn. 1413 si era sostenuta la teoria che i privilegi sovrani che si opponessero a leggi "pazionate" o, quel che è più, contrastassero "col bene pubblico" dovessero essere nulli.
L'unione sotto lo stesso sovrano non aveva annullato in effetti il contrasto tra Catalogna e Aragona col distacco tra la politica avventurosa e marinara dell'una e le vocazioni continentali dell'altra. La Catalogna, offesa nel suo amor proprio, considerava stranieri perché castigliani i Trastámara, troppo interessati alle lotte civili e dinastiche che laceravano la vicina monarchia ed ansiosi di assicurarsi dei domini che potessero costituire un centro più saldo ed omogeneo per l'insieme degli stati della Corona. Fermenti autonomistici circolavano in Sicilia, ove si faceva leva sul duca di Peñafiel, che Ferdinando I aveva inviato come viceré e che il parlamento dell'isola intendeva acclamare come sovrano, se non indipendente, quanto meno "separatu";una ribellione vera e propria, sotto la guida del visconte di Narbona Guglielmo III - e con la protezione di Genova, secolare nemica degli Aragonesi -, travagliava la Sardegna.
Intervenendo in ogni direzione, A. diede prova di grande fermezza e di notevole abilità diplomatica: richiamò subito presso di sé il fratello Giovanni, che farà sposare a Bianca di Navarra, e, attraverso l'invio nell'isola del Cardona e del Ram, ribadì solennemente la unione personale tra Aragona e Sicilia; sbarcò ad Alghero il 14 giugno 1420 e, mediante un accordo col visconte di Narbona, si assicurò il possesso della Sardegna. Nell'autunno dell'anno stesso, con la personale presenza nella spedizione, riaffermò la sua volontà di dare un contenuto attivo alle pretese aragonesi sulla Corsica. Ma, nonostante la presa di Calvi e l'assedio di Bonifacio (settembre-ottobre 1420), l'impresa corsa passò naturalmente in secondo piano nell'animo d'A., quando una delegazione inviatagli da Giovanna II di Napoli invocò il suo aiuto contro Luigi III d'Angiò. La regina si dichiarava disposta ad adottare l'aragonese come figlio e successore alla corona napoletana, investendolo non solo del mero titolo, ma del possesso del ducato di Calabria. Da quel momento, raggiunta Napoli il 5 luglio 1421 ed inviato come viceré in Calabria il fedelissimo Siscar, A. si cacciò in un groviglio di intrighi e di lotte, in un ambiente infido, dalle continue sorprese e dagli improvvisi mutamenti di fronte. L'opposizione larvata di Martino V, quella palese del duca di Milano Filippo Maria Visconti, ormai signore di Genova, l'insofferenza della regina contro la invadenza aragonese nel governo dello stato, la gelosia del potente favorito di Giovanna II, ser Gianni Caracciolo, che temeva di essere scavalcato ogni giorno di più dal seguito catalano di A., tutto contribuì a determinare una lotta, prima sotterranea poi aperta, tra la fazione aragonese e quella angioina, che poté contare sull'esperienza d'un condottiero quale Muzio Attendolo Sforza. A., assediato nel castello dell'Ovo (aprile 1423), passò all'offensiva contro le forze della regina, che dal suo canto revocò il 1o luglio il solenne atto di adozione. Ma, resosi conto della instabilità della situazione e preoccupato dalle notizie spagnole, di cui si faceva continua eco nelle sue lettere la regina Maria, luogotenente in Barcellona, il 1o ottobre dell'anno stesso il sovrano dové decidersi a rimpatriare con gran parte della flotta, lasciando nell'imbarazzo i residui presidi aragonesi nel Regno e il fratello, l'infante Pietro, incaricato di assumere il controllo della questione napoletana ed esposto alle minacce non soltanto dell'esercito angioino, ma dell'armata genovese. Da ricordare, nel viaggio di ritorno, l'assalto a Marsiglia (9 nov. 1423) da parte della flotta catalana. Se si volesse fare un bilancio della prima fase della politica italiana di A., si potrebbero porre all'attivo le pacificazioni della Sardegna e della Sicilia, nonché l'acquisto di due importanti basi navali come Porto Venere e Lerici, ottenute nel 1426 per un accordo con Filippo Maria Visconti, in cambio della rinuncia alla Corsica.
In patria lo richiamava la grave crisi prodottasi per l'offensiva "pactista" contro la monarchia da parte delle Cortes di Barcellona e per la lotta condotta dagli Infanti Giovanni ed Enrico contro il re di Castiglia, Giovanni II. L'intervento della regina Maria, che aveva retto la luogotenenza con grande capacità, abnegazione ed esperienza durante l'assenza del marito, riuscì ad imporre una tregua tra i contendenti, che apparve però una capitolazione della corte di Aragona di fronte a quella di Castiglia; ed A., pur dedicando una parte della propria attività ad altri settori, pose il maggiore impegno nel controllare la difficile situazione catalano-aragonese, avviando a soluzione qualcuno dei più scottanti problemi e restituendo, sia pure in superficie, una certa tranquillità ai domini iberici.
Il soggiorno in Spagna durò poco più di otto anni. Agiva, infatti, prepotente su di lui il richiamo napoletano, ove la lotta per la successione di Giovanna II sembrava imminente. Nel 1432 A. fece ritorno definitivo nell'Italia meridionale: è notevole infatti come da allora, tutto teso nello sforzo della conquista, prima, nell'opera di ricostruzione, poi, egli non rivedesse più la madre patria, malgrado quasi quotidianamente, per oltre un venticinquennio, nella corrispondenza con la moglie e con il fratello Giovanni, nominato il 21 genn. 1436 luogotenente in Aragona e Valenza, egli promettesse come imminente un rientro in Barcellona, per dare un assetto ai difficili rapporti tra i regni ereditari, per porre un rimedio alla crisi economica che travagliava il paese e per fronteggiare le prime avvisaglie di quelle minacce autonomistiche che scoppieranno poi e con tanta asprezza durante il regno del successore.
Prima di gettarsi a capofitto nella politica del Mezzogiorno continentale, A. preparò dalla Sicilia un attacco contro Gerba, che venne condotto nell'estate del 1432. Più che un diversivo o un "falso scopo" per distogliere l'attenzione delle potenze italiane dalle sue persistenti mire su Napoli, la spedizione contro Tunisi va inquadrata nelle linee di una tradizionale politica africana della Sicilia, il cui obiettivo principale era quello di obbligare i Tunisini a rinunciare alla pirateria lungo le coste dell'isola e ad accettare un trattato commerciale favorevole agli interessi del regno.
Frattanto, per prepararsi la strada contro il pretendente angioino, egli avviò contatti con il re d'Inghilterra e contò di riaccostarsi a Genova e a Milano; ma incontrò la recisa opposizione di papa Eugenio IV, sotto i cui auspici venne stretta una lega tra Venezia, Firenze e Milano per opporsi ai piani dell'aragonese. In tal modo, quando il 2 febbr. 1435 morì Giovanna II, lasciando erede il fratello di Luigi III, Renato d'Angiò, prigioniero in quel momento del duca di Lorena, la moglie di lui Isabella venne riconosciuta vicaria del Regno non solo dalla Francia, ma da gran parte degli stati italiani.
Accorsa ad assediare Gaeta, che era giustamente considerata la chiave del Mezzogiorno, il 5ag. 1435, la flotta aragonese fu battuta da quella genovese nella battaglia di Ponza: il re A., con i fratelli Giovanni ed Enrico e gran parte del seguito, venne fatto prigioniero e consegnato al duca di Milano. Ma, quando la causa del re sembrava disperata, si assisté ad un vero e proprio capovolgimento di fronte da parte di Filippo Maria Visconti. Con un trattato segreto dell'8 ottobre A. promise il pagamento di un forte riscatto (30.000 ducati), rinunziò alle sue pretese sulla Corsica e alle basi in Toscana, si impegnò a combattere contro lo Sforza, ottenendo in cambio l'alleanza del duca. Quale la causa del mutamento politico del Visconti? É un problema che ha appassionato varie generazioni di storici: è da presumere che il duca di Milano si sia convinto, durante i colloqui, di aver trovato in A. un leale alleato col quale dividere l'egemonia in Italia. E in realtà, con quegli accordi, la penisola venne divisa in due zone nella quale i nuovi alleati avrebbero dovuto far sentire il loro peso: l'influenza aragonese si sarebbe dovuta estendere solamente al sud di Bologna.
Comunque si vogliano giudicare le ragioni di questo improvviso mutamento nella politica del Visconti, certo è che l'atteggiamento di Milano lasciava ad A. via libera per la conquista del Mezzogiorno: e la lotta si concluse infine, dopo alterne vicende - nelle quali, tra l'altro, trovò la morte nell'ottobre 1438 l'infante Pietro - con il passaggio alla parte aragonese di gran parte del Regno. Le conquiste di Aversa, di Benevento, di Salerno prelusero al definitivo assedio della capitale, il 2 giugno 1442, all'ingresso in Napoli.
Dopo la conquista della capitale, la tregua con Genova, il "trionfo" e l'investitura pontificia (pace di Terracina con Eugenio IV del 14 giugno e bolla di investitura del 15 luglio 1443), la politica del Magnanimo ebbe due direttive distinte e ben decise: a riprendere le fila della grande politica mediterranea, lo indussero non soltanto le suggestioni che gli vennero dall'ambiente siciliano, ma il bisogno di difendere le secolari vie commerciali catalane dal pericolo turco, contro il quale egli animò la resistenza dei principi indipendenti della Bosnia, della Serbia e soprattutto dell'Albania; a partecipare alle vicende italiane lo indussero la minaccia rappresentata da Francesco Sforza e, dopo la morte di Filippo Maria Visconti, il miraggio di perseguire una specie di primato nella penisola.
Scarsi benefici il re trasse dalla lunga contesa, sia nella guerra per la successione al ducato di Milano (1447-1450), sia in quella contro lo Sforza (1450-1453); comunque, quella politica rappresentò un vero disastro dal punto di vista finanziario per l'insieme degli stati della corona, i cui bilanci furono in continuo dissesto.
La pace di Lodi venne ratificata da A. soltanto nel gennaio 1455 e l'accessione alla Lega italica avvenne parimenti in ritardo. Negli ultimi anni della vita del sovrano, che lasciò erede in Napoli il figlio Ferrante e negli stati ereditari il fratello Giovanni, la politica estera fu caratterizzata da una lotta senza quartiere contro Genova e da un nuovo orientamento, che portò il Magnanimo a riccostarsi a Firenze ed a stringersi allo Sforza: la nuova politica ebbe la sua consacrazione nel proposito di nozze aragonesi-sforzesche, che volevano significare il pieno consolidamento della nuova dinastia aragonese nel Mezzogiorno e la sua attiva partecipazione alla politica di equilibrio in Italia.
Durante le tregue lasciategli dalle guerre A. ebbe il merito di incoraggiare la cultura nel Mezzogiorno e di diffondere le nuove correnti umanistiche in zone che sembravano ad esse definitivamente chiuse. Si devono al sovrano, oltre ad un'ampia serie di provvedimenti e concessioni in favore dell'istruzione pubblica ed al potenziamento dello Studio napoletano, la fondazione dell'Università di Catania e l'istituzione di una scuola di greco presso il monastero basiliano del S. Salvatore in Messina. Soprattutto si deve ad A. la formazione in Napoli di una splendida corte letteraria, quale nessun sovrano in quei tempi poteva vantare.
Si suole insistere sul carattere spagnolo della corte di Alfonso, ma è un fatto che a Napoli giunsero, e si fermarono più o meno a lungo, oltre il Panormita che, come afferma Gothein (Il rinascimento nell'Italia Meridionale, Firenze 1915, p. 219), divenne il "mediatore letterario" di A., il Valla, il Facio, il Pontano, il Decembrio, il Porcelio e tutta una schiera di letterati minori, miniatori, copisti; mentre da ogni parte d'Italia i letterati più noti dedicavano le loro composizioni al Magnanimo "gran lume delle lettere", che era riuscito ad imporsi all'attenzione dei nostri umanisti con la sua vita avventurosa, le sue fortune militari e politiche, l'incomparabile liberalità, il suo prodigo e a volta sconsiderato mecenatismo.
Colpì la fantasia dei contemporanei anche l'amore del re, che aveva già varcato il mezzo secolo, per la giovanissima e "incontaminata" Lucrezia d'Alagno, che egli ricoprì di ogni genere di favori e che avrebbe desiderato sposare. Un tentativo fatto personalmente a Roma da Lucrezia presso Callisto III, perché annullasse il matrimonio di Alfonso con la sterile e ammalata Maria di Castiglia, si scontrò contro la inflessibilità del vecchio pontefice spagnolo.
La storiografia moderna, rappresentata per l'Italia dal Pontieri e dal Dupré-Theseider e per la Spagna dal Vicens Vives e dal Soldevila, dà un giudizio in definitiva poco favorevole al Magnanimo, sfrondando la sua figura da quell'alone creato dall'agiografia umanistica e dall'erudizione romantica. Essa è solidale nell'attribuire ad Alfonso una torbida ed esasperante irrequietezza, una sproporzione tra i mezzi e i fini della sua politica militare, e in sostanza eccessive ambizioni imperialistiche, che avrebbero preparato la rovina della Catalogna e di Napoli e le guerre civili dell'epoca di Giovanni II e di Ferrante. Il trasferimento della capitale dell'impero mediterraneo catalano-aragonese da Barcellona a Napoli pregiudicò la Catalogna perché essa, in una tappa decisiva della sua trasformazione in stato moderno, col passaggio dalla monarchia di "tipo medioevale" ad una "di tipo rinascimentale",avrebbe avuto bisogno della direzione e del personale intervento di un uomo energico come Alfonso. Più favorevole il giudizio complessivo degli storici spagnoli sull'attività mediterranea del sovrano. In quanto all'Italia, essi sottolineano, A. non praticò una politica napoletana o italiana, ma una politica unicamente influenzata dalle tradizioni mediterranee della sua casa; la sua opposizione costante a Genova e il suo disegno di procurarsi basi in Toscana rispondono a una tradizione prettamente catalana. Egli ebbe di mira, in sostanza, di costituire nel Mediterraneo un impero al servizio dei catalani tra i quali reclutò gli uomini di maggiore fiducia, ammiragli, viceré, ambasciatori, capitani generali e fu un anticipatore della politica di Ferdinando il cattolico e di Carlo V. Anche la sua corte ebbe un carattere eminentemente spagnolo: oltre a circondarsi di spagnoli, come gli Avalos, i Guevara, i Cavaniglia, i Cardenas, i Siscar, i Centelles, i Cardona, i quali si impadronirono del commercio meridionale, scalzando i precedenti banchieri in specie genovesi e fiorentini, A. non seppe mai dimenticare la sua origine e si considerò estraneo alla terra che aveva conquistato e teneva con la forza sovrastante dei vasti domini ereditari. Egli ebbe di mira, in sostanza, di costituire nel Mediterraneo un impero "al servizio dei catalani", tra i quali reclutò gli uomini di maggiore fiducia, ammiragli, viceré, capitani, generali, ambasciatori, e fu un anticipatore della politica di Ferdinando il cattolico.
Questi giudizi vanno in parte rettificati, movendo da alcune elementari considerazioni da cui non si può prescindere. Anche se A. diede vita ad una complessa creazione unitaria di cui Napoli non fu che il momentaneo centro ed anticipò con lungimirante chiaroveggenza la politica di Ferdinando il cattolico, comprendendo che contro il pericolo turco che già si delineava all'orizzonte, la Sicilia ed il Mezzogiorno d'Italia avevano la funzione di baluardo perché la tradizionale linea espansiva catalano-aragonese non si infrangesse, è un fatto, però, che egli annullò tutta la portata storica di questa sua intuizione, decidendo, ancor prima del suo ingresso in Napoli, di spezzare alla propria morte quella unione di stati così faticosamente raggiunta e di dar vita ad un regno napoletano. È lecito quindi considerare il re aragonese sotto il profilo più ristretto di sovrano napoletano, per mostrare i caratteri della sua politica anticipatrice di quella di Ferrante e sottolineare le suggestioni che egli trasse dall'ambiente meridionale e i caratteri da lui impressi alla vita del Mezzogiorno d'Italia.
Quando, coronando il suo sogno, poté fare il suo ingresso in Napoli, il non più giovane sovrano aragonese poteva dirsi maturo al suo compito, e con a lato un nucleo di consiglieri esperti ed un gruppo di baroni, la cui fedeltà era stata convenientemente saggiata.
"Corpore gracilis, vultu pallido, sed aspectu laeto, naso aquile et illustribus oculis, crine nigro et iam albicanti, ad aures usque protenso, statura mediocri, cibi potusque temperans": così Enea Piccolomini ci descrive Alfonso. Ed i medaglioni e i ritratti di lui che tuttora permangono, in ispecie quello che è alla Galleria degli Uffizi, ci tramandano il suo viso, dai tratti marcati, dal grande naso e dal labbro un po' prominente, una fisionomia, che, con l'Ametler, si potrebbe dire "borbonica" ante litteram, dalla quale peraltro, sovrapponendosi a quel che di lascivo e di circospetto si potrebbe scorgervi, spira un'aria di contenuto vigore e di sicura maestà.
Religiosissimo, con molta reverenza pel culto esteriore e con manifestazioni, che non erano ostentazione, di edificante pietà, come ci testimoniano, fra i tanti, il Facio e sovra tutti il Panormita, il cui libro, De Dictis et factis regis Alphonsi, per quanto di maniera ed esemplato, come lo stesso umanista confessa, su un celebre modello, quello di Senofonte per Socrate, può - abilmente sfrondato e mettendo a raffronto ogni dato con altre testimonianze coeve - essere utilizzato come fonte storica di particolare rilievo; rispettosissimo della cultura, secondo le tradizioni della Casa, demente, non vendicativo, pervaso anzi da forte senso di giustizia, e sovratutto amante del fasto e della munificenza, e conseguentemente privo di scrupoli per procurarsi il denaro occorrentigli in eccessiva e sempre crescente misura: insomma, una singolare ed interessante figura sul trono quella d'A. che, ora, dopo la conquista della capitale, si avviava già a "napoletanizzarsi", tanta era l'esperienza delle cose e degli uomini del Mezzogiorno acquisita nella dura vigilia.
In realtà nei sicuri castelli di Gaeta o di Capua, o, ancora più spesso, nelle maestose, capaci e facilmente spostabili tende da campo, attrezzate con tutti i conforti della tecnica più progredita, egli, oltre che ai problemi immediati e assillanti della guerra e della connessa politica estera, aveva dovuto rivolgere la propria attenzione ai problemi della organizzazione dello stato che, fra alti e bassi, gli si veniva faticosamente ricomponendo tra le mani. E, pur non occupando di fatto tutto il Mezzogiorno continentale, sempre Alfonso - anche nei momenti più difficili o addirittura disperati - aveva tenuto a considerarsi il sovrano dell'intero reame, ed aveva agito come tale. In Gaeta, città regia, capitale provvisoria del regno, in attesa di quella conquista di Napoli che appariva sempre imminente e si annunziava sempre come prossima nel solenne latino dei diplomi di nomine alle cariche, anche se si doveva ogni volta rinviarla ad un'occasione migliore, già si erano venuti via via organizzando, nel biennio 1436-'37, sia pure in modo embrionale, tutti gli uffici centrali dello stato. Presso il re, per di più, aveva continuato a funzionare tradizionalmente, senza competenza ben definita e prima ancora di assumere la veste di una corte suprema di appello a cui dovessero far capo tutti i tribunali del complesso di stati da lui posseduti, un Consiglio che nei documenti superstiti assume la qualifica di "Sacro". E si erano venuti in ispecie organando, sul fondo tradizionale dell'amministrazione napoletana, ma con non pochi elementi tratti dalla prassi catalano-aragonese, quei complessi burocratico-finanziari che, dato il continuo impellente bisogno di denaro da parte del sovrano, erano destinati ad acquistare su tutti gli altri una decisa prevalenza, vale a dire la Regia Camera della Sommaria e la dipendente Tesoreria generale. E il re si valse da allora di un complesso burocratico in prevalenza catalano, i cui componenti erano adoperati nelle più varie mansioni, ma su cui cominciò a sovrapporsi la vecchia impalcatura delle grandi tradizionali cariche del Regno di Sicilia.
E infatti, uno dei sette grandi uffici del Regno, il Gran Giustizierato, venne conferito sin dal 1437, come ricompensa pel suo passaggio alla parte aragonese, al conte di Nola, Raimondo Orsini, più tardi principe di Salerno: "gran contestabile" divenne il maggiore feudatario del regno, partigiano fin dall'inizio del sovrano aragonese, Giovanni Antonio del Balzo Orsini, principe di Taranto. Il conte di Fondi, Onorato Caetani, anch'egli feudatario devoto da tempo alla dinastia d'Aragona, venne ricompensato col titolo di "protonotario e logoteta"; titolare del Grande Ammiragliato, carica ormai tradizionale nella sua casa, Giovanni Antonio Marzano, duca di Sessa; gran siniscalco infine, divenne il conte di Nocera e di Montoro, Francesco Zurlo, già legato alla causa di re Renato e guadagnato nell'ultimo momento utile agli Aragonesi.
Ricevuto l'omaggio in Napoli, all'indomani della conquista, non solo dai rappresentanti dei seggi nobiliari ma da quelli del popolo, A. dové subito lasciare la capitale per accorrere in Abruzzo contro caldoreschi e sforzeschi ed accordarsi con Aquila: di li gli fu necessario recarsi in Puglia per ricacciare dal monte Gargano gli sforzeschi e ridurre all'obbedienza gli ultimi focolai dei ribelli. La signoria dello Sforza in Puglia fu disfatta senza combattere, ché i luogotenenti ed i castellani di Francesco Sforza finirono tutti, uno dopo l'altro, col cedergli; e l'impresa venne anche visibilmente ultimata con la cerimonia del perdono concesso in Foggia, nel novembre 1442, a Giorgio d'Alemannia, conte di Buccino ed agli altri baroni di parte angioina.
Il baronaggio era così tutto formalmente fedele. E, quasi per sanzionare, di fronte alla forza politica più importante del Regno, l'avvenuta pacificazione dello stato, il re stabilì di convocare un generale parlamento baronale, per avere l'omaggio globale della feudalità, udirne le richieste, saggiarne la capacità contributiva e sovrattutto dare ordine, col suo concorso, all'esazione delle imposte divenute Incerte durante il lungo periodo della guerra. Gli premeva per di più di presentare ufficialmente al baronaggio napoletano il figliolo bastardo Ferdinando, fatto giungere qualche anno prima dalla Spagna, per abilitarlo alla successione del Regno. In cambio di quel riconoscimento, nel Parlamento venne concesso ai baroni il mero e misto imperio:concessione che nel fatto era divenuta pressoché generale nell'epoca durazzesca, sicché Alfonso non si spogliò di una delle maggiori prerogative della corona, come sostengono alcuni storici, - ma diede unicamente sanzione ufficiale ad uno stato di cose maturatosi lentamente attraverso i secoli. In quella occasione venne anche introdotto un sistema nuovo di tassazione: cadde in disuso il sistema delle collette ordinane e fu istituita la tassazione per fuochi in tutte le province del Regno. Ogni fuoco avrebbe dovuto pagare, in cambio di un tomolo di sale, 10 carlini annui. Si trattò di una imposta ordinaria e generale, che avrebbe semplificato il sistema tributario napoletano, se il re di lì a qualche anno, per il bisogno di danano, per le continue guerre, non avesse da gratuito reso oneroso l'acquisto obbligatorio del sale e non avesse reintrodotto parecchie delle collette che si era impegnato solennemente ad abolire.
Comunque, attraverso la numerazione dei fuochi a cui erano deputati ogni triennio ufficiali regi dipendenti dalla Camera della Sommaria, e attraverso l'azione di quel supremo tribunale, elevato ad organo di generale controllo di tutta l'amministrazione dello stato, si iniziò una severa azione amministrativo-finanziaria, che, se venne giudicata da osservatori contemporanei e da non pochi storici unicamente come espressione di un rigido fiscalismo, contribuì in modo decisivo a rafforzare il principio dell'autorità della corona, così scossa e quasi annullata nel cinquantennio di lotte dinastiche precedenti. Attraverso quel supremo organismo burocratico-finanziario, divenuto il maggior puntello della monarchia, A. tentò una riorganizzazione generale dello stato, la quale fu iniziata con un'accorta gradualità, per non urtare simultaneamente in tutto il regno la suscettibilità del grande baronaggio e gli interessi delle Università e dei privati.
Contemporaneamente, A. cercò di valonizzare al massimo quella parte del demanio regio ancora utilizzabile, rivolgendo le sue cure al tavoliere di Puglia. Liberato da tutti i condomini dei baroni e degli altri proprietari, esso fu destinato a pascolo invernale (23 novembre-8 maggio) degli armenti. I pastori, esentati completamente dei diritti di passo regio o baronale lungo tutto il percorso, disposero da allora di itinerari propri - i cosidetti tratturi -, poterono acquistare a metà prezzo la quantità di sale occorrente per il bestiame e vennero obbligati in cambio a pagare un diritto fisso governativo. La dogana o mena delle pecore,con sede in Foggia, venne affidata ad un uomo di ferrea volontà quale il catalano Francisco Montluber e divenne un'azienda statale autonoma assai redditizia, durata, come è noto, sino agli inizi del XIX secolo. Per giudicarla, non bisogna lasciarsi influenzare dalla degenerazione dell'istituzione nel periodo posteriore, nè dalla polemica setteottocentesca contro il Tavoliere, quando oramai la dogana ostacolava ogni possibilità di riforma agraria in quelle zone. Non può aver fondamento, infatti, l'accusa fatta dagli economisti settecenteschi ad A. e ripetuta poi da non pochi storici moderni, quella di aver vincolato a pascolo enormi estensioni di terre, imprimendo un suggello di staticità all'economia agraria del Mezzogiorno. La staticità dell'agricoltura meridionale ha infatti cause ben più complesse; e, giudicando l'opera degli aragonesi in quel settore, bisogna limitarsi a mettere a raffronto la regolamentazione da Alfonso data alla mena delle pecore con gli abusi del periodo precedente. Non si potrà non sottolineare allora come non solo la Dogana costituì una copiosa fonte di entrate grazie all'opera di un sagace amministratore quale il Montluber - basti pensare che i 18.868 ducati di proventi dell'anno 1443-44 erano già saliti nel 1449-50 a 103.011 ducati - quant'anche, coll'introduzione dei merinos o pecore gentili spagnole fu migliorato l'allevamento degli ovini e creata una industria armentizia di alto rendimento, migliorando in definitiva le condizioni sociali di una enorme categoria di sudditi dediti alla pastorizia.
Un cenno a parte merita la Regia Camera della Sommaria, complesso burocratico-finanziario, destinato ad acquistare su tutti gli altri organi dello stato una decisa preminenza. Mastodontica creazione, tra finanziaria, giudiziaria ed amministrativa, la Regia Camera assommò i caratteri tipici dell'intera amministrazione meridionale, dando vita ad una prassi burocratica che bene o male, e con lievi scosse, resse fino al periodo napoleonico. Ed essa, ancor più delle altre magistrature meridionali, diverrà da allora il banco di prova delle capacità amministrative del Mezzogiorno, il vivaio della burocrazia napoletana, l'organismo in cui affineranno la loro esperienza tecnica le individualità più rappresentative del Regno. Rendendosi conto del peso che la R. Camera cominciava ad assumere nella vita interna del paese, in un determinato momento Alfonso terrà a metterne a capo una personalità di sicura fiducia quale Innico d'Avalos, affermando con ciò una precisa direttiva, tendente ad affidare le cariche più impegnative del regno, o quanto meno quelle di natura finanziario-fiscale o che presumessero maneggio di pubblico denaro, ad elementi di origine iberica e perciò solo ritenuti più fidi. Ma ciò non toglie che, proprio all'ombra degli elementi catalani quali il vice cancelliere Valentino Claver, i due segretari Olzina e Fenolleda, l'Avalos, i Montluber, i Martorei, baiulo generale degli israeliti, o i viceré in Calabria e in Abruzzo, Francesco Siscar e Raimondo Boyl, cominciassero ad affermarsi e ad attingere saldo vigore i rappresentanti della nuova burocrazia napoletana, quasi tutti provenienti, non dalla nobiltà dei Sedili come parve al Gothein, ma dalla borghesia cittadina e provinciale. Un Nicola Antonio De Monti, sostituto dell'Avalos sin dal 1449, un Michele Riccio, un Francesco Antonio Guindazzo e, sovra tutti, un Antonio Caruso, nominato nel 1456 maestro razionale genemie, possono considerarsi i rappresentanti di tutta una classe che contrasterà pian piano il terreno all'elemento catalano, comincerà ad assumere coscienza della propria forza e a far propri i caratteri distintivi delle burocrazie di tipo moderno. Si forma proprio in quegli anni dunque - e sarebbe molto interessante cogliere i momenti salienti di una simile formazione - un ceto dirigente, che a lato della classe baronale e se pur attingendo qualche elemento da essa, mai confondendo i propri ideali politici col baronaggio, manterrà per lunghi secoli ben saldo nelle proprie mani l'effettivo esercizio del potere. Questa azione di sganciamento dalla tutela spagnola da parte del ceto dirigente napoletano noti dové esser visto di cattivo occhio dal sovrano nell'ultimo periodo della sua vita, se è vero quel che narra la cronaca di s. Antonino, che cioè, in punto di morte, egli raccomandò a Ferrante di liberarsi dagli spagnoli e di affidarsi completamente ai suoi sudditi, cercando di conservare rapporti di buon vicinato col pontefice e cogli altri principi italiani.
Un qualche interesse merita anche la politica perseguita da A. nei confronti del baronaggio. A parte qualche sporadico episodio di ribellione - episodi, oltre tutto, come quello del Centellea e dell'Acquaviva di carattere e raggio assai limitati - il baronaggio meridionale, nel suo insieme, durante l'intero regno di A. fu palesemente sottomesso all'autorità della Corona. Nè la sua indiscutibile potenza apparve, come nei periodi precedente e successivo, un incubo permanente per l'integrità dello stato o una perenne minaccia per la quiete del Regno. L'ascendente di Alfonso sul baronaggio fu soprattutto determinato, oltre e più che dalle doti personali del sovrano, dall'autorità e dal dominio che egli godeva fuori di Napoli. Giacché è ben naturale che, se l'esistenza di pretendenti stranieri era stata prima di allora e sarà in seguito un'indispensabile garanzia dell'indipendenza dei feudatari di fronte alla corona ed era servita e servirà a mantenere vivi in essi la coscienza e l'orgoglio della propria importanza ed autonomia, al contrario la fine vittoriosa della lotta contro re Renato ed il prestigio acquistato dal sovrano aragonese nella politica italiana, non disgiunti dai suoi formali rapporti di buon vicinato con il pontefice, servirono a tenere completamente a freno il feudalesimo.
Il quale, per di più, parve andasse perdendo all'esterno i caratteri della sua riottosità per collaborare con la dinastia nella creazione della nuova realtà meridionale. Ed anche se le vicende successive e la levata di scudi dei baroni contro re Ferrante mostreranno la precarietà di questo sforzo di collaborazione fra monarchia e feudalesimo e la sostanziale inefficacia dell'opera del sovrano, giova cogliere i tratti salienti dell'esperimento di intesa e delineare, col quadro di quei rapporti, le condizioni di fatto che resero possibile un ventennio di tranquilla coesistenza fra i poteri dello stato ed i poteri della nobiltà feudale. Che questi ultimi fossero decisamente e coacientemente accresciuti dal primo sovrano aragonese è un'affermazione che è stata troppo concordemente avanzata in ogni tempo dai feudisti e dagli storici meridionali perché sia il caso di respingerla integralmente per sostituirla con la visione opposta. È opportuno unicamente precisare che nel periodo alfonsino non si può parlare di un rafforzamento dei poteri della feudalità, ma solo del riconoscimento di uno stato di fatto determinatosi nel periodo precedente e non ancora trasferito dalla realtà storico-sociale a quella formale-giuridica. Al baronaggio nel suo insieme venne riconosciuto, cioè, un complesso di diritti che esso già esercitava nel periodo durazzesco per concessioni parziali o per abuso: e la corona che avrebbe potuto riprendere nelle sue mani, nella pienezza della vittoria, alcune prerogative, preferì per ragioni politiche, che è quanto dire per una benintesa prudenza, sanzionare lo stato di cose esistente e non iniziare un'azione di reintegra dei propri diritti. Ma è opportuno parimenti aggiungere che, non appena consolidato il proprio prestigio, la corona, sin dal maggio 1443, intraprese azione di indubbia efficacia contro tutti i feudatari che non avessero fatto annotare nei quinternioni i loro privilegi, e cercò di infrenare, nell'ambito della legge, ogni velleità di indipendenza del baronaggio, esigendo l'assenso sovrano per ogni vendita di beni feudali ed imponendo, col riconoscimento del vassallaggio, il relativo pagamento del relevio e dell'adoa.
Si può documentare ugualmente la costante preoccupazione di A. di contrastare la tendenza da parte dei feudatari ad acquistare feudi confinanti l'uno con l'altro, in modo da assicurare progressivamente al proprio "stato" una continuità territoriale. Insomma, impedire in tutti i modi che la minore nobiltà feudale assumesse i tratti del grande baronaggio politico. Naturalmente diversa la linea che il re fu costretto ad adottare nei confronti dei baroni maggiori. E, ad esempio, un vero stato nello stato continuarono a rappresentare i possessi pugliesi del principe di Taranto, Giovanni Antonio del Balzo Orsini, e verso di lui il sovrano mantenne sempre un atteggiamento di diffidente amicizia, accordandogli una sfera di competenze e di azione normalmente ad altri non consentita.
Vi fu tra i due, suggellata dai legami matrimoniali che strinsero l'erede al trono Ferdinando con Isabella di Chiaromonte, nipote dell'Orsini, una tacita intesa, quasi un patto di mutua non aggressione, di cui permangono documenti assai significativi.
I tradizionali "grandi uffici" del Regno furono coperti nell'intento di conferire un imponente appannaggio ai maggiori baroni del Mezzogiorno di cui fosse necessario assicurarsi la fedeltà. Molti altri baroni vennero utilizzati negli organi centrali della capitale, e ciò per legarli maggiormente alla corona e interessarli alla vita dello stato; ma è da osservare che in quelle cariche essi furono sempre affiancati da tecnici, giuristi, umanisti di origine borghese, che come luogotenenti assunsero di fatto l'esercizio dei poteri conferiti ai titolari della carica.
Concludendo, un esame attento e scrupoloso del regno del Magnanimo è premessa mdispensabile per la comprensione di molti aspetti della storia successiva del reame di Napoli: basti pensare a quel che rappresentarono nella vita del Mezzogiorno fino al decennio francese le maggiori istituzioni che sorsero nel periodo alfonsino, quali il sacro regio Consiglio, la Sommaria o la dogana di Puglia.
Non molto significativa la linea seguita da A. nei confronti della Sardegna: lo sconvolto ordine pubblico, l'irregolare amministrazione della giustizia, la incerta monetazione e l'esercizio dell'usura diedero origine a tutta una serie di problemi la cui risoluzione fu di volta in volta rinviata, non furono spenti del tutto i focolai di ribellione che facevano capo ai Doria, e, malgrado le riunioni parlamentari del 1421, del 1446 e del 1452, furono assai vivi durante l'intero periodo i contrasti fra gli ufficiali regi ed i feudatari, che facevano leva sulle condizioni di miseria per sfuggire al sempre più gravoso onere delle tasse. Per contro, un maggiore interesse riveste la storia della Sicilia, che durante il regno del Magnanimo uscì dal suo Medioevo, per assumere le forme tipiche della sua vita moderna. Restaurato l'ordine, posto termine in maniera definitiva all'anarchia via via ricorrente nell'età precedente, contemperate in forma nuova le esigenze della vita autonoma e costituzionale dell'isola con quelle del lontano potere sovrano, si inizia un'opera di trasformazione sociale ed economica, si rianima la vita cittadina, rinasce la cultura e quel che è più - attraverso la creazione di uno speciale organo, emanazione del Parlamento, la "Deputazione del Regno" - si inizia quel processo di identificazione fra il baronaggio e la nazione siciliana che dovrà caratterizzare per tre lunghi secoli l'ulteriore storia dell'isola. Si stabilì in sostanza tra la Corona e la rappresentanza del Regno un vincolo di rapporto "contrattuale", creato dal giuramento di fedeltà dei sudditi e di rispetto alla costituzione dell'isola da parte del sovrano. Alle "collette" furono sostituite, con significativo mutamento di termine, i "donativi", considerati erogazioni spontanee offerte in cambio dell'accettazione delle domande contenute nei "capitoli". Ed i "capitoli" redatti dal Parlamento acquistarono da allora "vim et efficaciam contractus legisque pactatae". Ingerendosi nella vivace vita comunale dell'isola, A. cercò anche di equilibrare la forza del baronaggio con quella delle città. Ed anche in Sicilia egli si valse a preferenza nelle alte cariche burocratiche di rappresentanti della borghesia, che salirono agli uffici maggiori e vennero nobilitati. Esempi tipici il giurista Giambattista Platamone, che svolse la sua attività per lungo tempo anche in Napoli, ed il "razionale" Adamo Asmundo. Peraltro, la politica finanziaria del sovrano ed i suoi sistemi fiscali costituirono - come hanno sottolineato studiosi recenti - un aspetto negativo della sua attività di governo nei confronti dell'isola.
A. morì a Napoli il 27 giugno 1458.
Bibl.: Per le fonti e la bibliografia relativa ad Alfonso d'Aragona si veda quanto è indicato in A. Boscolo, Ferdinando I e Alfonso il Magnanimo nella storiografia, in Medio Evo Aragonese, Padova 1958, pp. 151-165, a cui vanno aggiunti i lavori seguenti: E. Dupré - Theseider, La politica italiana di Alfonso d'Aragona, "ponencia" presentata al congresso della corona di Aragona in Palma de Mayorca 1955 e, più estesamente, in un corso litografato, Bologna 1956; A. Marongiu, Il parlamento baronale del regno di Napoli nel 1443, in Samnium, XXIII (1950), n. 4, pp. 1-16; G. V. Resta, L'epistolario del Panormita, Messina 1954 (con indicazioni bibliografiche ulteriori per i rapporti di A. con l'Umanesimo alle pp. 23-27; 127-131); T. De Marinie, La liberazione d'Alfonso V d'Aragona, in Arch. stor. per le prov. nap., LXXIII (1953-54, ma pubbl. 1955), pp. 101-106; E. Pontieri, Muzio Attendolo e Francesco Sforza nei conflitti dinastico-civili nel regno di Napoli al tempo di Giovanna II d'Angiò-Durazzo, in Studi storici in onore di G. Volpe, II, Firenze 1958, pp. 826 ss.; id., La giovinezza di Ferrante d'Aragona, in Studi in onore di R. Filangieri, I, Napoli 1959,pp. 530-601; G. Cassandro, Sulle origini del Sacro Consiglio Napoletano, in Studi, cit., [I, Napoli 1959, pp. 1-17.