Algeria
Il cinema in A., fatta eccezione per le immagini realizzate ad Algeri alla fine del 19° sec. da Félix Mesguich per conto dei fratelli Lumière, nacque negli anni Cinquanta, nel periodo della guerra di liberazione dalla colonizzazione francese, come documento della lotta di un popolo per l'indipendenza (raggiunta nel 1962). Il francese René Vautier, che appoggiava il Front de libération nationale (FLN), firmò opere ormai classiche come Une nation, l'Algérie (1955) e Algérie en flammes (1958). Quasi contemporaneamente gli algerini Djamel Chanderli e Mohamed Lakhdar-Hamina, il secondo dei quali sarebbe divenuto l'autore più prestigioso degli anni Sessanta e Settanta, raccontavano la militanza politica con il film di montaggio Ǧazā᾽iruna (1959-1961, La nostra Algeria).
Furono anni decisivi per la cinematografia algerina, che stabilì un profondo rapporto con la propria terra e la memoria; anni in cui presero forma alcune importanti istituzioni pubbliche. La Radio télévision algérienne (RTA) nacque nel 1962 e si fece promotrice della diffusione del cinema. Nel 1963 sorse l'Office des actualités algériennes (OAA). La Cinémathèque di Algeri venne inaugurata nel 1964, assieme al Centre national du cinéma (CNC), inglobato nel 1967 nelle strutture dell'Office national pour le commerce et l'industrie cinématographique (ONCIC), che avrebbe mantenuto il monopolio sulle varie fasi di produzione e distribuzione fino al 1984, anno in cui venne ristrutturato. Tra le iniziative private va ricordata quella di Yacef Saadi, ex dirigente del movimento di liberazione, che nel 1963 fondò la Casbah Film, società con cui tre anni più tardi partecipò alla produzione di La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo. Il film del regista italiano, che ricostruisce l'insurrezione del dicembre 1960 fondendo in modo eccellente materiali di repertorio e immagini girate in stile documentaristico, ebbe non solo una grande risonanza internazionale (in Francia suscitò violente proteste, tanto che la sua proiezione fu vietata per un decennio), ma seppe anche dare un notevole impulso allo sviluppo del cinema algerino.
Il primo lungometraggio di finzione, ῾Āṣifat al-Awrās (Il vento degli Aurès), era stato frattanto realizzato nel 1965 da Mohamed Lakhdar-Hamina. Si tratta di un'opera in bianco e nero che, con sguardo originale, affronta il tema della guerra e costituisce uno dei film cardine di questa cinematografia. Lakhdar-Hamina iniziò così una filmografia in cui il rapporto con il passato assume un ruolo di primo piano e che sarebbe culminata nella realizzazione di Waqā᾽i῾ sanawāt al-ǧamr (Cronaca degli anni di brace), kolossal epico con cui il regista avrebbe vinto la Palma d'oro al Festival di Cannes del 1975 (la prima assegnata a un film e a un cineasta del continente africano).
Film fondamentali degli albori sono pure quelli di Ahmed Rachedi: L'aube des damnés (1965), un altro lavoro di montaggio, ma questa volta esteso ai movimenti di liberazione in tutta l'Africa, e Thala ‒ L'opium et le bâton (1969), dramma politico e familiare ambientato nel villaggio della Cabilia citato nel titolo. In questa regione, già protagonista della lotta di liberazione e divenuta negli anni Ottanta un centro di resistenza contro l'insorgere del fondamentalismo religioso, sono state realizzate negli anni Novanta altre opere di grande rilievo, come Machaho (1995) di Belkacem Hadjadj, La colline oubliée (1996) di Abderrahmane Bouguermouh, La montagne de Baya (1997) di Azzedine Meddour, in cui si ripresentano gli elementi forti e distintivi della cinematografia più politica, da un punto di vista collettivo e militante, di tutta l'Africa Settentrionale, innestati nella vicenda storica delle popolazioni berbere che abitano questa regione dell'A. del Nord.
Ma il cinema algerino attraversò il suo periodo più affascinante e stratificato nel corso degli anni Settanta, quando l'interesse degli autori si spostò sui processi di trasformazione che il Paese stava vivendo. Apparvero allora opere di valore come Taḥya yā Dīdū (1971, Viva Didu ‒ Algeri insolita) di Mohamed Zinet, al-Faḥḥām (1972, Il carbonaio) di Mohamed Bouamari, Omar Gatlatu (1976) di Merzak Allouache, Nahla (1979) di Faruq Beloufa, ambientate alcune tra le campagne e i monti, altre tra le strade e le costruzioni di Algeri. Al-Faḥḥām racconta la rivoluzione agraria dei primi anni Settanta e, ricorrendo a un bianco e nero che esalta i toni drammatico-realistici, descrive i mutamenti nella dura vita dei contadini, con particolare attenzione al nuovo ruolo assunto dalle donne, spinte all'emancipazione dalle trasformazioni economiche. Raccontano invece la città, la sua storia, i rapporti generazionali, Taḥya yā Dīdū e Omar Gatlatu. Il primo è un film-saggio su Algeri e rappresenta l'unico sconfinamento nel cinema di M. Zinet, uno dei protagonisti della vita teatrale algerina; la capitale è osservata nelle sue architetture e nei suoi abitanti, con sguardo ironico e riferimenti alle avanguardie. In Omar Gatlatu M. Allouache ritrae un giovane che abita nella periferia di Algeri e si comporta come un eroe del grande schermo. Esce dai confini nazionali Nahla, lungometraggio prodotto dalla RTA con cui F. Beloufa analizza la situazione del Libano in guerra attraverso le esperienze di una cantante che non ha abbandonato Beirut.
Al cinema realizzato in A. si è sovrapposto, a partire dai primi anni Ottanta, quello ‒ unico in tutto il mondo arabo ‒ dei cineasti beurs, termine francese (plurale di beur, stravolgimento gergale della parola arabe) con il quale vengono indicati gli arabi nati in Francia da famiglie che avevano affrontato l'emigrazione negli anni Cinquanta. Essi hanno dato vita a una cinematografia originale e indipendente, una sorta di ampio capitolo che si aggiunge a quello nazionale, in grave crisi nel lungo periodo dell'oppressione integralista. In questo modo, in anni in cui fare film in A. diventava sempre più difficile e rischioso, i beurs hanno mantenuto in vita quel cinema, parlando di cose concrete, così come avevano fatto i loro predecessori con altri argomenti, producendo un diverso tipo di militanza, nato comunque dall'urgenza del manifestare, affrontando temi scottanti come l'emigrazione, la resistenza ai gruppi fondamentalisti, la mancanza di radici di chi vive fuori della patria d'origine e in una nazione che rende ardua l'integrazione.Il regista che più di tutti ha saputo rendere lo spaesamento, le contraddizioni, il rapporto tra memoria e modernità con una dose di humour dissacrante è Mahmoud Zemmouri, autore di pochi film che hanno segnato tuttavia tappe decisive del cinema algerino degli ultimi vent'anni del 20° secolo. La sua filmografia ha inizio nel 1981 con Prends dix mille balles et casse-toi, nel quale si raccontano le amare vicissitudini di una famiglia che lascia la Francia per tornare nel villaggio natale in A. e finisce per ritrovarsi straniera in entrambe le terre. Les folles années du twist (1983) è ambientato invece nell'ultimo periodo della guerra d'A. e contamina continuamente Storia e riferimenti generazionali (da John Wayne ai fumetti), così come accade nel successivo film De Hollywood à Tamanrasset (1990), dove i personaggi vivono nel mito dei divi delle soap opera statunitensi. E mentre L'honneur de la tribu (1993) descrive i cambiamenti sociali in uno sperduto luogo di montagna, la satira contro l'integralismo torna in primo piano in un'altra opera di Zemmouri, 100% Arabica (1997). Altri esponenti del cinema beur sono Mohamed Alkama (Quitter Thionville, 1977), il Collectif Mohamed (Ils ont tué Kader, 1980; Zone immigrée, ou avoir seize ans dans le béton, 1981; Kermohamed, la déglingue de A à Z, 1988), il già ricordato M. Allouache, Mehdi Charef (Le thé au harem d'Archimède, 1985; Miss Mona, 1986; Camomille, 1988), Rachid Bouchareb (la cui filmografia si sposta fra A., Vietnam, Senegal, Francia), Bourlem Guerdjou (Vivre au Paradis, 1998), Zaïda Ghorab-Volta (Souviens-toi de moi, 1995), Yamina Benguigui (Mémoires d'immigrés, 1997).
Rappresentanti di rilievo del cinema algerino sono pure Mohamed Chouikh, attore di teatro e di cinema, passato alla regia con El kalaa (propr. al-Qal῾a, 1982, La cittadella), ritratto disperato di un villaggio arroccato sui monti, in cui si muovono personaggi duramente repressi (dalle donne ai non allineati con le posizioni del regime), e Assia Djebar (più nota come scrittrice), con La nouba des femmes du Mont Shinwa (1978), in cui vengono analizzati alcuni frammenti di storia algerina attraverso sguardi di donne. A un cinema algerino nomade e apolide appartengono anche le poetiche di Mohamed Rachid Benhadj, da anni residente in Italia, da ricordare soprattutto per i suoi film politici ed emozionali Luss (1989; Rosa di sabbia) e Tushia (1992; Cantico delle donne d'Algeri), e Karim Traidia, stabilitosi nei Paesi Bassi e intento a indagare la condizione di sradicamento degli immigrati, non solo algerini, come si nota in De poolse bruid (1998).
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