ALHAMBRA
. È la piccola città, fortezza e palazzo insieme, che gli ultimi principi musulmani della Spagna, i Naṣridi o Banū 'l-Aḥmar (1232-1491), costruirono fra il secolo XIII e il XIV sul colle che domina da levante la città di Granata, e dove già prima esistevano la cittadella (al-Qaṣbah, in spagnuolo Alcázaba) e il muro di cinta.
Il nome deriva dall'epiteto arabo al-Ḥamrā' "la rossa", che si trova applicato a palazzi e reggie anche in altre parti del mondo musulmano, p. es. alla reggia dei sultani Marīnidi a Fez; esso deriva dal colore in origine rossastro delle mura della cittadella, fatte in gran parte con terra battuta (ṭābiyah, "tapia dei Francesi").
Senza fondamento è l'ipotesi di qualche studioso che l'epiteto sia stato scelto perché il fondatore della dinastia naṣrida aveva il soprannome al-Aḥmar" il rosso"; oltre al fatto linguistico che in tal caso si sarebbbe detto al-Aḥmariyyah e non al-Ḥamrā', sta contro tale ipotesi il fatto che già per la metà del sec. XII è attestato il nome di al-Qal‛ah al-ḥamrā' "la cittadella rossa", per la cittadella suddetta.
H. de Castries nel Journ. asiatique, s. 11ª, XVII (1921), p. 133 segg. è tornato sulla questione del nome, rilevando soprattutto come esso si trovi dato più tardi alla reggia dei sultani Marīnidi a Fez; a suo parere nella radice ḥmr sarebbe insito oltre al significato più stretto di "rosso" anche quello più lato di "ricco, splendente" poiché nessun colore dà più del rosso l'idea dello splendore. Ma questa è pura ipotesi del de Castries; inoltre, nel caso particolare, il nome di al-ḥamrā' dato ad una semplice e rude fortezza non poté derivare da apparenza di ricchezza, ma solo dal colore vero e proprio.
La fortezza o cittadella ebbe parte nelle vicende militari di Granata nei secoli dal IX al XII, p. es. nell'890 (277 dell'ègira) e nel 1161 (556 dell'ègira). Ma quando Muḥammad ibn Yūsuf al-Aḥmar, della stirpe dei Banū Naṣr, vinti o indotti a patti i suoi avversarî, si fu costituito a Granata un emirato indipendente, che, dopo la sconfitta degli Almohadi nella battaglia di Las Navas de Tolosa, rimaneva l'unico principato musulmano della penisola (1232; 629 dell'ègira), allora la collina dell'Alhambra assorse a ben altra importanza. Il principe naṣrida abbandonò quella che era stata la dimora dei principi che lo avevano preceduto nel possesso della città, sulla collina opposta (l'Albaicín), e trasportò la sua residenza sull'Alhambra. La fortezza venne ingrandita e rifatta, così da chiudere entro una sola cinta tutta la sommità della collina, e dentro le mura della nuova cerchia si diede mano a costruire un ricco palazzo principesco. L'opera di Muḥammad al-Aḥmar fu continuata dai suoi successori: quasi ognuno di questi si può dire abbia aggiunto al palazzo qualche elemento nuovo, sia costruendo nuove sale o nuovi edifici, sia profondendo nelle parti già costruite quella mirabile decorazione, che forma oggi ancora la bellezza maggiore dell'Alhambra. Distinguere l'opera di ciascun sovrano, seguire gradualmente l'ampliamento e l'abbellimento del raro complesso, non è facile, sia perché unico documento antico che possa aiutare nella determinazione sono le iscrizioni sparse sulle mura interne ed esterne della cittadella e del palazzo, e tali iscrizioni possono riferirsi talvolta alla decorazione, talvolta alla costruzione delle singole parti, sia poi anche perché non piccola parte di quella che era l'Alhambra, quando l'ultimo dei principi nasridi dovette abbandonarla sotto l'incalzare delle truppe riconquistatrici di Ferdinando il Cattolico e di Isabella, è andata distrutta, prima per dar luogo alle pompose costruzioni di Carlo V, poi per altre numerose cause di rovina: un'esplosione di polvere nel 1591, l'occupazione francese del 1812, l'abbandono e l'incuria di molti secoli non rimasero naturalmente senza conseguenze.
Tuttavia una più precisa determinazione cronologica è possibile per alcuni elementi del palazzo. Dal terzo principe naṣrida Abū ‛Abd Allāh Muḥammad III (1302-1309; 701-708 èg.) fu costruita la moschea (Mezquita Real), demolita nel 1576, e sostituita allora con la chiesa, ancora esistente, di S. Maria. Abū 'l-Ḥaggiāǵ Yūsuf I (1333-1354; 733-755 èg.) fu, dopo il fondatore, colui che più lavorò per ampliare e far più forte la nuova residenza, come Muḥammad V al-Ghanī bi-'llāh (1354-1359; 755-760 èg.) fu il principale autore della sua bellezza. - Il primo costruì la torre detta di Comares, occupata nell'interno dalla grande sala del trono (sala degli Ambasciatori), l'attigua "corte dei mirti" (patio de la Alberca o de los Arrayanes), i bagni, e fors'anche rialzò e diede la sua definitiva sistemazione alla cerchia delle mura e alle sue ventitré torri; il secondo non solo compì l'opera di Yūsuf, facendo eseguire la decorazione della Corte dei mirti, ma alzò una nuova e più bella ala del palazzo, quella che fa centro nel "Cortile dei Leoni", destinata forse ad accogliere l'harem del sovrano. L'ultimo dei Naṣridi che abbia lavorato all'Alhambra fu Muḥammad VII (1392-1407; 794-810 èg.), che curò la decorazione della torre de las Infantas: siamo ormai sulla fine del sec. XIV, e l'arte moresca volge al declino, come il potere dei sovrani musulmani di Spagna. Nessuna memoria si ha di opere compiute dagli ultimi principi della dinastia naṣrida.
Riconquistata Granata dai re cattolici, l'Alhambra, sulla cui più alta torre, il 2 gennaio 1492, era stato alzato il segno della riconquista, perdette ogni importanza; anzi dal comprensibile ma malaccorto desiderio dei nuovi padroni di riconsacrarla cristiana ebbero principio la sua decadenza e la sua rovina. Ferdinando ed Isabella invero disposero ancora perché l'edificio venisse riparato e restaurato; Carlo V invece, pur ammirandone le bellezze e continuando in qualche parte tali restauri, non si trattenne dal mettervi su le mani: cominciò col trasformare in cappella la piccola moschea attigua alla Corte dei Mirti; poi demolì l'ala del palazzo che si stendeva a mezzogiorno della stessa Corte, e in sua vece iniziò la costruzione, mai condotta a termine, di un fastoso edificio in stile rinascimento, per nulla in accordo con il carattere del luogo e degli edifici attigui. Sulla fine dello stesso sec. XVI fu demolita la grande moschea, al cui posto fu eretta la chiesa di S. Maria (1581); con questa le trasformazioni più gravi dell'Alhambra ebbero termine: successero per altro, specie dopo che Filippo V ebbe confiscato le rendite del palazzo, i secoli dell'abbandono. Nella prima metà del secolo scorso anche questo periodo di tristezza fu chiuso: anzi, nel pieno fiorire del romanticismo, le raffinate bellezze dell'Alhambra. i ricordi che aleggiavano in essa dell'ultimo conflitto fra cristiani e musulmani nella penisola iberica, valsero a ridarle onore ed amore da parte di studiosi, di poeti e di artisti: il primo grande studio d'insieme sull'Alhambra è del 1842; da allora l'edificio ha avuto restauri attenti e costanti.
L'Alhambra è fortezza e palazzo insieme: dal punto di vista architettonico, pertanto, essa va considerata sotto questo duplice aspetto di monumento d'architettura militare e d'architettura civile. Inoltre, poiché un palazzo principesco arabo non si limita agli appartamenti privati e di rappresentanza del principe, ma, annessi a questi, possiede edifici destinati ad altri usi, quali la moschea e il bagno (il quale ultimo nell'architettura musulmana ha una caratteristica sua propria, come avevano le terme nell'architettura romana); anche quale monumento civile l'Alhambra merita di essere esaminata sotto molteplici aspetti.
In quanto cittadella, l'Alhambra è chiusa da una cerchia di mura, che corre lungo il ciglio della collina, e che è rinforzata nel suo corso da torri quadrangolari: dentro la cerchia, fortezza entro fortezza, centro di ultima resistenza, s'innalza sulla punta occidentale l'Alcázaba (dall'arabo al-qaṣbah "cittadella"), che culmina nel maschio, la torre de la Vela.
La porta principale, la Puerta de la Justicia (bāb ash-Sharī‛ah "porta della Legge [religiosa])", si apre sul fianco meridionale della fortezza, il più facilmente accessibile per il più dolce pendio della collina, e trae forse il suo nome dalla circostanza che presso di essa doveva sedere il sovrano o un suo rappresentante, quando rendeva giustizia.
L'iscrizione che vi è incisa ci dà il nome del principe che la costruì, Yūsuf I, e l'anno 749 dell'ègira (1347-1348 d. C.): essa presenta una forma che ricorda le porte almohadi, e in generale le porte di molte fra le città musulmane d'Oriente e d'Africa: una forma dettata dalla naturale preoccupazione di rendere il passaggio del nemico il più possibile difficile. La porta si apre su uno dei lati di una torre, in maniera tale che gli assedianti si trovino eventualmente esposti ai colpi dei difensori del muro; la precede un portico, la cui vòlta non è continua ma interrotta così che dall'alto si possano far calare attraverso di essa sia una saracinesca sia dei proiettili. Dalla porta si accede a un vano quadrangolare: da questo, mediante un corridoio che piega due volte ad angolo retto, si passa in un secondo vano consimile, dal quale ultimo solamente, attraverso una seconda porta, a doppia imposta come la prima, si giunge infine nell'interno della cerchia.
Un'altra porta, detta del Vino, costruita da Muḥammad V, non ha invece, contrariamente alla prima, alcuna importanza militare; è un semplice passaggio ad arco decorosamente ornato.
Il palazzo di residenza dei principi, a prescindere anche da ciò che poté andarne distrutto per far posto alle nuove costruzioni di Carlo V, si presenta costituito da due corpi di fabbrica, eretti l'uno successivamente all'altro, da due sovrani diversi. Simili nelle linee fondamentali della pianta, essi hanno invece diverso orientamento: ché l'asse del secondo è perpendicolare a quello del primo, e l'uno, per rispettare alcuni elementi dell'altro, preesistente, si è adattato a girargli intorno, rompendo la consueta simmetria ed armonia degli edifici del genere.
Ognuno dei due corpi di fabbrica è, come si è accennato, modellato su una pianta tipica, che è poi quella più comune del palazzo e della casa orientale: nel mezzo, un grande spazio aperto, cortile o giardino, e intorno ad esso le sale di rappresentanza, le stanze di abitazione, i bagni, ecc.
Il primo corpo, la cui costruzione si deve a Yūsuf I, si raccoglie intorno al cortile detto "dei Mirti" (de los Arrayanes, dall'arabo spagnolo ar-raiḥān "il mirto"), o dell'Alberca (dall'arabo albirkah "bacino d'acqua") dal grande bacino d'acqua, fiancheggiato da siepi di mirto, che l'occupa per quasi tutta la sua estensione.
Il cortile, lungo m. 3 e largo m. 23, è chiuso sui due lati maggiori da muri lisci, con rade porte e finestre, incorniciate da decorazione di stucco, che danno accesso e luce a camere e corridoi di secondaria importanza; sui lati corti invece si distendono due graziosi portici sostenuti da esili colonnine, e adorni di più ricca decorazione di stucco e di mattonelle in maiolica, come gli altri di cui si avrà occasione di far menzione via via. Sul lato corto di settentrione, di là dal portico che appare dominato da una robusta torre quadrangolare, si apre una sala lunga e stretta, quasi ampio vestibolo, la sala de la Barca (dall'arabo al-bārakah "la benedizione"), da cui si accede poi alla sala detta "degli Ambasciatori" (de los Embajadores), una delle più notevoli del palazzo per solidità di costruzione e per bellezza di decorazione. La sala infatti non è che l'interno della torre che si ricordava poc'anzi, la torre di Comares, che si affaccia e domina il versante settentrionale della collina: lo scoscendimento del pendio, e quindi la difficoltà di un attacco nemico da questa parte, hanno reso inutile mantenere a questa torre, come del resto alle altre che si distendono lungo questo stesso fianco, il carattere di fortezza: al contrario essa è stata tramutata in una fastosa sala di ricevimento, forse la sala del trono di Yūsuf I.
Essa è la più vasta di tutto il palazzo (è quadrata e misura m. 11,24 di lato e m. 18 di altezza) e una delle più mirabili per la profusione della decorazione che tutta la riveste, dallo zoccolo delle pareti in mattonelle maiolicate, passando per la superficie delle pareti stesse, dove gli ornati in stucco non lasciano un centimetro quadrato di vuoto, fino alla grandiosa cupola di legno che la ricopre.
Nessun ricordo nell'interno di essa si avrebbe del carattere militare della costruzione, se non fossero i vani delle finestre, pur essi invero sovraccarichi di decorazione, ma che, aperti entro il forte spessore dei muri, appaiono quasi altrettante piccole camerette dipendenti dalla sala maggiore.
Attigui al cortile dell'Alberca sono: verso occidente, la piccola moschea od oratorio di Yūsuf, ora quasi completamente trasformata da ciò che dovette essere in origine; e verso oriente, i bagni. Anche questi si modellano sul tipo più comune dei bagni orientali, derivato, nella successione delle sale a varia temperatura, da quello dei bagni romani. Precede uno spogliatoio a pianta quadrangolare, la cui parte centrale, sostenuta da quattro colonne, s'innalza a guisa di lanterna: sotto questa, in mezzo alle colonne, sta una vasca con fontana. Dallo spogliatoio, per un corridoio piegato ad angolo allo scopo evidente di evitare correnti d'aria e dispersioni di calore, e attraverso salette minori, si giunge alla sala a calore moderato (tepidarium), quindi al sudatorio (calidarium): in questi ultimi due ambienti la luce penetrava per tubi di cotto immessi nella muratura della vòlta.
Appunto per non distruggere l'edificio dei bagni, creato dal suo predecessore, Muḥammad V si vide costretto a spostare alquanto verso mezzogiorno il nuovo complesso di costruzioni da lui voluto. Non sembra che queste costruzioni siano state concepite e attuate per uno scopo particolare e ben definito (alcuni hanno pensato che esse fossero destinate ad accogliere l'harem del sovrano); molto probabilmente Muhammad V non fu guidato da altro fine che dal desiderio di ampliare la sua reggia, di lasciare in essa la sua orma, alle prime bellezze aggiungendone delle nuove.
Il palazzo innalzato da Muḥammad V ha il suo centro in un altro cortile, più piccolo del primo (m. 28 × 16), ma più ricco per la sua decorazione, più gaio nel sonante gioco delle acque che zampillano e corrono nel mezzo e per ogni lato di esso e nelle sale vicine. Il cortile è noto col nome di "cortile dei Leoni" (patio de los Leones) dalla fontana che l'occupa nel mezzo, nella quale dodici leoni sembrano sorreggere la grande vasca centrale, versando a loro volta acqua dalla bocca: dalla fontana si dipartono quattro canali ad angolo retto, spartendo l'area del cortile in quattro spazi, in origine forse coperti da verdi prati erbosi, e comunicando a loro volta con altre quattro fontane minori: due di queste sono situate nell'interno delle sale che, a settentrione e a mezzogiorno, fiancheggiano il cortile sui due lati lunghi, le altre due zampillano invece sotto due specie di padiglioni, che aggettano dal portico circostante nel mezzo dei lati minori. Il cortile infatti è tutto all'intorno circondato da un portico: gli archi, sopraelevati e minutamente ritagliati nelle stalattiti o nei festoni che ne adornano e ne variano la linea, le colonnine, esili, ora isolate, ora accoppiate, ora riunite in gruppi a pianta irregolare di tre o quattro, formano un insieme dei più vaghi: e l'effetto si accresce, sembra svanire nel fantastico, nei due padiglioni che, sormontati da una bassa cupola mammillare, aggettano nel mezzo dei lati minori: poiché qui la disposizione ipostila, che l'architettura musulmana aveva già mirabilmente svolta nelle grandi moschee di Kairuan (al-Qairawān) e di Còrdova, raggiunge un grado di leggerezza e di eleganza, oltre il quale sembra impossibile possa andare.
Delle sale attigue al cortile sui lati lunghi, quella di settentrione, la sala "delle Due sorelle" (de las Dos hermanas) è un vasto ambiente di rappresentanza simile alla sala degli Ambasciatori: anch'essa è quadrata, e anch'essa risplende della stessa profusione di decorazione; a differenza dell'altra, è coperta da una cupola ottagonale a stalattiti: il passaggio dal quadrato della pianta all'ottagono della cupola è segnato agli angoli da quattro pennacchi, pure a stalattiti. Di là dalla sala si stende un vano lungo e stretto (che richiama per la forma la sala della Barca), guarnito da una finestra affacciata in aggetto sul vasto giardino che la segue, il giardino della Lindaraja. Di contro alla sala delle Due sorelle, sul lato lungo di mezzogiorno del cortile dei Leoni, è un'altra sala consimile, ma più piccola, detta "degli Abenserragi" (de los Abencerrajes); è di forma rettangolare, ma due coppie di archi gettati trasversalmente ad essa, mentre la dividono in tre parti, riducono la parte centrale, la più vasta, a quadrato: questa è coperta da una cupola a stalattiti.
Un altro notevole complesso di ambienti, noto sotto il non esatto nome di "tribunale o sala dei re" (de los reyes), si stende sul lato corto di levante del cortile dei leoni. Esso è formato da tre sale quadrangolari, divise l'una dall'altra da corridoi; sale e corridoi sono coperti da vòlte a stalattiti, e si aprono verso l'esterno in piccole alcove, le quali hanno cupole di legno adorne di pitture con figure, fatto degno di nota in un edificio musulmano (v. oltre).
I due complessi che abbiamo ora partitamente descritti, costituiscono il nucleo principale del palazzo principesco: ma di esso facevano parte anche altri elementi staccati, che meritano tuttavia di essere ricordati. Così, a nord del giardino della Lindaraja, al piano superiore di un'altra delle torri della cinta di Yūsuf I, è il mirador o tocador (gabinetto di toletta) de la reina, sala in gran parte restaurata e decorata di pitture al tempo di Carlo V. Più oltre, verso oriente, lungo lo stesso fianco settentrionale della cerchia murata, sono la torre "delle dame", decorata da pitture a figure, e la torre detta "della captiva", pur essa, come le altre ora menzionate, costruita da Yūsuf I, e sistemata nell'interno a sala di rappresentanza. Come un annesso dell'Alhambra deve considerarsi inoltre il piccolo palazzo del Generalife (Gennat al-‛arīf "il giardino dell'architetto"). che s'innalza a poca distanza da essa sull'altura attigua verso levante: secondo la tradizione, l'avrebbe costruito Yūsuf I per ritirarvisi ad abitare in occasione di una pestilenza. Anch'esso segue la pianta comune, perché è costituito da un lungo cortile a giardino, sui lati minori del quale si aprono, precedute da un portico, due sale; tutto all'intorno digradano a terrazze giardini e frutteti.
La rigogliosa fertilità del suolo, sapientemente guidata e regolata, formava d'altra parte una mirabile cornice esterna alla cittadella naṣrida: non poteva non allietarsi anch'essa, come tutte le reggie musulmane d'Oriente e d'Occidente, del verde dei giardini, mormoranti di acqua corrente: nella valle dell'Asabica, che s'incurva tra le pendici meridionali della collina, su cui sorge la cittadella, e il monte Mauror, che le si erge di fronte, si distendeva un vasto e folto parco, alla cui ombra, nella máqbarah (cimitero), riposavano le spoglie di molti dei sovrani che il palazzo avevano costruito ed abitato: l'ultimo di questi sovrani, Abū ‛Ahd Allāh Muḥammad XI (Boabdil), ottenne, dopo la riconquista dei re cattolici, di togliere e di trasportare lontano le reliquie degli avi.
Per altro, se si eccettui questa cornice di verde data dal parco, il palazzo non offriva all'esterno altro segno di bellezza o di ornamento: esso appariva qui freddo e muto con le sue pareti lisce, uniformi, coperte d'intonaco senza decorazioni, senza cornici né al sommo né intorno alle finestre e alle porte. Nessuna più chiara prova della diversità di gusto e di civiltà fra l'Occidente e l'Oriente di quella che è data dalla giustapposizione del palazzo di Carlo V, facente mostra, all'esterno, di una grande facciata a stile rustico nel basamento e a pilastri ionici nel piano superiore, con il palazzo dei principi naṣridi, assolutamente spoglio nelle mura esterne di ogni ricerca di effetto.
La bellezza è invece tutta raccolta nell'interno: anche le stanze più piccole, elementi secondarî, che potremmo ritenere insignificanti, della costruzione, tutto è allietato e reso prezioso dalla decorazione più ricca, più varia, più vivace, testimone dell'inesauribile fantasia, del gusto raffinato e incontentabile di coloro che per sé innalzarono e adornarono siffatto edificio.
Gli elementi che concorrono a questa decorazione sono molteplici e diversi, come diversi sono i campi e i materiali in cui la fantasia è chiamata ad applicarsi e a lavorare: marmi lavorati e scolpiti, stucchi, mattonelle maiolicate, legni intagliati, scolpiti, dipinti. L'effetto d'insieme è pertanto il risultato del lavoro di molte e molte persone, artigiani tuttavia più che artisti.
V'è un passo di uno scrittore marocchino, dell'epoca stessa in cui sorse l'Alhambra, che può darci un'idea chiara del come questi palazzi principeschi sorgessero e si adornassero sotto l'occhio vigile e la volontà direttiva del principe, e con l'opera intelligente e sapiente delle varie categorie di operai. Dice Ibn Marzūq (Musnad, ed. Lévi-Provençal, p. 38 segg., trad. p. 75 segg.) che un sultano marīnida di Fez, volendo apprestare un palazzo che fosse degno della principessa tunisina che veniva a lui in sposa, convocò presso di sé artigiani di ogni specie e diede loro ordini particolareggiati per la nuova costruzione: "Io desidero una casa che abbia quattro qubbe (sale a cupola), l'una diversa dall'altra, e due appartamenti ad esse contigui. I muri saranno coperti di ornati in stucco e in zulleiǵ (mattonelle maiolicate). Si adopererà legno di cedro scolpito e lavorato, con motivi floreali e geometrici. Il patio avrà le pareti scolpite e il pavimento in zulleiǵ ed in marmo; vi si metteranno vasche di marmo e colonne. Il legno dei soffitti sarà lavorato in maniera diversa in ognuna delle quattro qubbe, a seconda dei procedimenti della decorazione floreale o geometrica conosciuti dagli operai: questi soffitti saranno poi dipinti. Le porte, al pari degli armadî e delle finestre, saranno fatte di legno intarsiato. Tutta la guarnizione loro sarà invece di rame lucidato e dorato o di ferro stagnato". Orbene: ognuno di questi elementi decorativi, menzionati dallo scrittore marocchino, noi troviamo messo in opera nell'interno dell'Alhambra.
Il marmo ha fra essi una parte secondaria, limitandosi quasi esclusivamente alle membrature architettoniche, colonne e capitelli, e all'incorniciatura di quelle nicchie, che sono dette dagli Spagnuoli babucheros, perché erroneamente credute destinate ad accogliere le pantofole di chi entrava nelle sale. Le colonne, la cui applicazione è, come si è visto, soprattutto larga nei cortili e in particolar modo nel cortile dei leoni, sono di solito molto sottili, snelle, lisce nel fusto, tranne che alle due estremità, dove anelli e modanature sembrano segnare il passaggio dal fusto alla base e al capitello. Le basi sono di forma semplicissima; molto varî invece i capitelli, nei quali predomina l'ornato a nastro girato a meandro, lontana trasformazione, già svolta nelle età precedenti, delle foglie di acanto del capitello classico, e sopra il nastro, nel parallelepipedo che ha preso il posto dell'abaco, si svolge una decorazione floreale a rami e a palmette, stilizzata nella forma, ma libera nella composizione.
Sopra il capitello, tra questo e il piede dell'arco, si sovrappongono di solito imposte e mensole, anch'esse coperte di decorazione, e l'arco stesso, che, tra le forme più diverse, preferisce quella a tutto sesto, rialzata nei piedritti, non s'incurva che raramente con una linea liscia: più spesso si spezza in stalattiti o si stria di scanalature o si orla di lobi e di festoni, così quasi da far dimenticare la sua funzione architettonica e apparire soltanto come un altro fra i tanti elementi decorativi.
Di marmo sono altresì le figure dei leoni della fontana che dà il nome al cortile: figure rudi nel taglio, e di evidente derivazione orientale, che ci dimostrano, al pari delle pitture di cui si discorrerà più oltre, come, in riguardo al divieto delle immagini, i sovrani naṣridi non fossero di un'intransigente rigidezza.
La decorazione delle pareti, sia di quelle dei portici intorno ai cortili, sia soprattutto di quelle interne delle sale, è costituita dagli ornati di stucco e dai rivestimenti di maiolica.
La tecnica adoperata nei primi è normalmente quella dell'intaglio, detta nell'Africa settentrionale naqsh ḥadīdah: l'artista, sullo stucco ancor fresco, segnava prima con una punta i contorni del disegno, quindi con un bulino o con altri ferri più robusti tagliava in esso gli ornati prestabiliti. Tale era l'abilità dell'artista, che, variando la profondità del taglio, egli sapeva dare ai suoi ornati ombre e luci diverse, e distribuirli anche talvolta su due o tre piani sovrapposti: il colore, preferibilmente l'azzurro, il rosso e il giallo-oro, rianimava poi la decorazione.
I motivi erano d'altra parte quasi sempre i medesimi, e si ripetevano molte volte con monotona uniformità su intere pareti, con un orrore del vuoto che nessun'altra arte sembra avere avuto più di questa. Predomina l'arabesco floreale e geometrico: nel primo palmette, roselline e fiori hanno forme caratteristicamente stilizzate; nel secondo un complicato incrocio di linee disegna losanghe, trapezî, poligoni irregolari, che insieme vengono talora a formare specie di stelle a molte punte. Una decorazione caratteristica, quasi potrebbe dirsi particolare dell'Alhambra, è quella dello scudo di forma appuntita in basso, e traversato diagonalmente da una fascia con la divisa dei re naṣridi: Lā ghālib illā Allāh "non v'è altro vincitore che Dio".
Del resto, molti altri elementi ancora di questa decorazione di stucco, e soprattutto di quella che, dalle iscrizioni che l'accompagnano, si deve attribuire a Muḥammad V, rivelano, di fronte alla decorazione coeva in uso in altri paesi musulmani, uno spirito tutto loro proprio, una tendenza alla libertà e alla verità naturalistica, che non può non notarsi: tanto che alcuni hanno dubitato non sia questa parte di decorazione l'opera di tempi più tardi, dei tempi, cioè, dello stile che va sotto il nome di mudéjar (termine arabo-spagnuolo applicato ai musulmani tollerati in paese riconquistato dai cristiani) e del quale nell'Alhambra stessa non mancano esempî, oppure non sia il frutto di restauri. Ma ciò non sembra; più probabile è che artisti cristiani, forse prigionieri di guerra, forse anche artisti liberi, siano stati chiamatí dal sovrano a lavorare nella sua reggia. Né di questo contributo d'intelligenza e di spirito cristiano mancano altre prove, come si vedrà.
Le epigrafi sono state sempre un altro dei motivi più comuni della decorazione musulmana; non può quindi meravigliare che se ne trovino molte anche nell'Alhambra, ove si svolgono di solito in fasce che incorniciano i vani di porte, finestre e nicchie, o che riquadrano i larghi campi dell'arabesco.
I musaici di maiolica colorata, quelli che gli Spagnoli chiamano Azulejos (da azul "azzurro") e quindi gli Arabi di Spagna e dell'Africa settentrionale az-zulleiǵ (dialettalmente anche zlīs), sono usati particolarmente per la decorazione della parte inferiore delle pareti, quasi a costituire sotto gli ornati di stucco un'alta zoccolatura. La tecnica usata in questi musaici non è sempre la medesima: quella più antica, che consente all'opera una maggior perfezione, richiedendo tuttavia un lavoro più lungo e accurato, consisteva nel ritagliare da mattonelle, dipinte a un solo colore unito, tanti frammenti, e nel combinar poi questi frammenti in modo da farne risultare stelle, losanghe, trapezi, un ornato insomma molto simile a quello dell'arabesco geometrico che si è già avuto occasione di segnalare per lo stucco. I colori preferiti sono il verde, l'azzurro, il giallo e il bruno.
Inoltre, una decorazione che possiamo chiamar mobile, era costituita da grandi vasi di ceramica, dei quali non rimane sul luogo che uno solo: ha la forma di un'anfora molto allungata, sul corpo della quale, smaltato di bianco, azzurro e oro, si distendono fra fantastici motivi floreali, due figure di animali (antilopi o gazzelle), la cui derivazione dall'arte persiana, e in generale dall'arte orientale, è palese.
Fra gli elementi decorativi dell'edificio dobbiamo da ultimo ricordare i legni intagliati, scolpiti e dipinti. Di essi erano fatte alcune porte, come quelle delle sale degli Abenserragi e delle Due sorelle, a piccoli pannelli scolpiti, immessi in un'intelaiatura di fasce incastrate l'una nell'altra, e rinforzate da guarnizioni di ferro. Ma essi avevano la maggiore applicazione nei soffitti a cupola e a stalattiti, mirabile lavoro di pazienza (si pensi che nella cupola della sala delle Due sorelle gli alveoli sono in numero di cinquemila e sono tutti l'uno diverso dall'altro) più che di genialità, come del resto tutti questi che pure l'arte musulmana vanta come i suoi tratti più caratteristici.
Una menzione a parte meritano da ultimo le pitture a figure che ornano e la torre delle Dame e le cupole delle alcove del cosiddetto Tribunale: nelle prime sono raffigurate scene di caccia, nelle seconde pure scene di caccia e ritratti di sovrani. Non può certo non essere ragione di meraviglia il trovare di siffatte rappresentazioni figurate in un edificio caratteristicamente musulmano: pur tuttavia la loro attribuzione ai principi naṣridi appare ormai fuori di dubbio, sì che conviene confermare quanto già si è accennato a proposito della fontana dei Leoni, circa la scarsa osservanza da parte di questi principi del divieto delle immagini. I due cicli di pitture non sono certo contemporanei fra loro, né sono usciti da una medesima corrente artistica: il primo va riportato ai primi anni del sec. XIV ed è probabilmente l'opera di pittori musulmani (v. Vidal, in Rev. africaine, 1914, p. 118 segg.); al secondo, in cui le figure sono dipinte a tempera sul cuoio (e questo poi inchiodato sul legno) e risaltano su un fondo dorato o azzurro sparso di stelle d'oro, lavorò invece, sul principio del sec. XV, qualche artista cristiano, spagnolo di origine, ma formatosi alla maniera giottesca o da questa influenzato. Onde abbiamo qui un'altra prova del contributo dato dai cristiani all'abbellimento dell'Alhambra, contributo che, mentre da un lato ci testimonia lo spirito di tolleranza dei sovrani di Granata verso gl'"infedeli", ci dice d'altro lato come, dopo sette secoli di vita, l'arte musulmana moresca sentisse il bisogno di rinvigorire e di rianimare le sue forme ormai stanche con elementi estranei perfino al suo spirito. L'Alhambra è infatti l'ultima grande espressione di quest'arte, che nei secoli seguenti, più che vivere di vera e forte originalità, sopravvivrà nell'arte mudéjer della Spagna o nelle assai più modeste, e in gran parte riflesse, forme dell'arte arabo-turca dell'Africa settentrionale.
Bibl.: Girault de Prangey, Monuments arabes de Cordoue, Séville et Grenade, 1836-1839; Monumentos arquitectonicos de España, Madrid 1859-1886, II; O. Jones e J. Goury, Plans, élévations, ecc., of the Alhambra, Londra 1848; W. Jrving, The Alhambra, Londra 1896; A. F. Calvert, Granada and the Alhambra, Londra 1907; id., Granada, Londra 1908; H. Saladin, l'Alhambra de Grenade, Parigi 1926; G. Marçais, Manuel d'art musulman: L'architecture, Parigi 1927, passim; M. Gomez Moreno, The Alhambra, Barcellona (1927).