ALIENAZIONE
Nel linguaggio giuridico, il termine indica il trasferimento del diritto di proprietà su un determinato bene da un soggetto a un altro. In questo senso, l'a. può essere compiuta in vista di un corrispettivo, come nella vendita, oppure a titolo gratuito, come nella donazione. Un significato più largo, il termine ha acquistato in filosofia e in sociologia, dove sta a indicare un processo nel corso del quale ciò che originariamente appartiene all'uomo ed è opera sua, gli diviene alieno o estraneo, finendo, da ultimo, col dominarlo e asservirlo.
Il punto d'incontro tra il significato giuridico, originario, e quello etico-filosofico, ora accennato, può essere individuato in Rousseau, nella cui opera il tema dell'a. è posto in rapporto con quello della sovranità (Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité parmi les hommes, Amsterdam 1755; Du Contrat social ou Principes du droit politique, ivi 1762). Rousseau nega che la sovranità possa essere alienata, cioè trasferita dal popolo (che ne è il titolare originario) ai suoi rappresentanti (i deputati in parlamento); perché - afferma - se la sovranità è alienata, cioè ceduta (sia pure temporaneamente), si produce una duplice scissione: una scissione, interna alla società, tra sfera pubblica e sfera privata, e una scissione, interna all'uomo, tra citoyen e bourgeois. L'idea che affiora, in questo contesto, è che l'a. non sia da intendersi come la semplice cessione di qualcosa di estrinseco o d'indifferente, quanto, piuttosto, come la perdita o il trasferimento ad altri di qualcosa (la libertà) che, essendo parte integrante e perciò inseparabile, della persona o del corpo sociale, determina in entrambi (quando venga alienata) una condizione dimidiata, cioè uno stato di interna separazione o lacerazione. In questo senso è significativo che, nell'opera di Rousseau, il tema dell'a., oltre che con la sfera della rappresentanza politica, risulti connesso col tema della divisione del lavoro e, più in generale, con quella sorta di perdita dell'identità che Rousseau vede realizzarsi nella società civile moderna, dove - dice - l'uomo non sa vivere che nell'opinione degli altri ed è per così dire unicamente dal loro giudizio che deriva il sentimento della propria esistenza.
Questo motivo dell'anormalità e infelicità, che è connessa alla separazione o scissione, è al centro anche degli sviluppi che l'idea di a. riceve nella filosofia di Hegel (Die Phänomenologie des Geistes, Würzburg-Bamberga 1807). Anche qui l'a. si produce dalla divisione di un'unità originaria. Ma quest'unità non è più il popolo o la comunità, di cui parla Rousseau, bensì è l'Idea assoluta o Logos cristiano. Hegel, in altre parole, trasferisce il concetto di a. nel campo della teologia cristiana, connettendolo all'idea della creazione del mondo da parte di Dio. L'Idea si aliena, cioè si fa "altra" da sé, ponendosi od oggettivandosi come Natura. Il mondo naturale, quindi, non è una realtà indipendente, a sé stante, bensì è un che di "posto" o creato. È un risultato della scissione dell'unità originaria, cioè dell'assoluto, il quale si divide perché - per realizzarsi come Spirito - esso ha bisogno di prender coscienza di sé, cioè di oggettivarsi a sé stesso e, così, conoscersi. Essendo strumento e mezzo di un processo positivo, è evidente che l'a. - sebbene implichi scissione, opposizione e, perciò, negazione - ha conclusivamente, per Hegel, valore positivo essa stessa. Infatti, la scissione che l'Idea compie di sé, opponendosi a sé stessa come natura, è un momento necessario e inevitabile, perché - riconoscendosi nell'"altro" e, quindi, negando la sua negazione - l'Idea possa ristabilire l'unità originaria e attuarsi come autocoscienza. In questo senso, parrebbe improprio collegare il tema della scissione o a. a quello dell'infelicità. Senonché, se il processo è globalmente positivo quando lo si consideri dal punto di vista dell'Idea, non altrettanto può dirsi per l'ordinario intelletto umano. Prima che l'uomo infatti arrivi ad adeguare la propria coscienza al processo dell'Idea e, quindi, a innalzare il proprio punto di vista soggettivo a quello dell'assoluto o del sapere filosofico, è inevitabile che egli sperimenti l'a. come infelicità. Non a caso Hegel parla, a questo proposito, della "coscienza infelice". Si tratta del fatto che, vivendo all'interno della scissione, senza sapere donde essa origini né come preluda al ristabilimento dell'unità, l'uomo si trova nello stato della più completa separazione: della separazione di sé dalla comunità sociale di cui è parte, nonché della separazione tra Io e mondo, tra soggetto e oggetto, tra intelletto e natura. Prigioniero di queste antitesi, l'uomo ha una rappresentazione capovolta della realtà. La natura, che è in effetti qualcosa di creato o di "posto", gli appare come una realtà originaria e indipendente; mentre il pensiero (l'idea), che in realtà è il "prius", gli appare come un che di subordinato e condizionato. Ciò che è il primo diventa, così, il secondo, e viceversa. Domina, in breve, il punto di vista del senso comune e dell'ordinario intelletto umano; il quale, essendo incapace di attingere l'unità degli opposti, percepisce la realtà in termini di antitesi irrisolte e, perciò, nella forma di una scissione lacerante. In questa prospettiva, il superamento dell'a. viene a coincidere, per Hegel, con l'abbandono del punto di vista ingenuamente materialistico del senso comune e col passaggio alla filosofia o idealismo, il quale adegua finalmente la coscienza umana al processo stesso attraverso cui si sviluppa l'Idea.
Una concezione dell'a., opposta a quella di Hegel, è offerta dall'opera di L. Feuerbach, che individua il fenomeno dell'a. soprattutto nel campo della religione e, in particolare, del cristianesimo, che egli considera la forma di religione più completa ed evoluta (Das Wesen des Christenthums, Lipsia 1841; Grundsaetze der Philosophie der zukunft, Zurigo 1843). Per Feuerbach, l'a. sorge dal fatto che l'uomo proietta e personifica (inconsapevolmente) nella figura di Dio tutti gli attributi e le qualità umane più alte (intelligenza, amore, bontà, ecc.), per adorarle, poi, come virtù e requisiti di questa potenza estranea. Anche in questo caso si tratta di un processo di scissione. I predicati dell'uomo vengono separati dall'uomo stesso e trasformati in entità indipendenti. Il risultato è che ciò che originariamente era una caratteristica e, perciò, un predicato dell'uomo, si trasforma in soggetto a sé; mentre l'uomo, che era il soggetto reale, diventa un predicato del suo predicato, cioè una creatura dipendente e subordinata rispetto alle sue proprie qualità personificate e divinizzate. In questo senso il Dio cristiano - che è Logos, Spirito, Ragione - non è altro che la ragione o lo spirito umano stesso, separato dall'uomo e trasformato in soggetto a sé. Altrettanto può dirsi, secondo Feuerbach, dell'Idea di cui parla Hegel nella sua filosofia. Anche attraverso quest'analisi, quindi, si conferma che l'a. è innanzitutto scissione, divisione di un'unità originaria: la quale, nel caso di Feuerbach, è l'unità, realizzata nell'uomo, di natura e pensiero. Contemporaneamente, insieme a questa prima caratteristica, che è la scissione, l'a. presenta un capovolgimento dell'ordine reale. In Hegel, il capovolgimento è rappresentato dal fatto che la natura, che è un prodotto dell'Idea, viene scambiata dalla coscienza alienata per un "prius" o un che di originario. In Feuerbach, viceversa, il capovolgimento è espresso dall'inversione di soggetto e predicato: onde, come si è visto, il predicato diventa Dio e l'uomo si trasforma in un'entità subordinata a ciò che, in effetti, dipende da lui.
La concezione dell'a., sviluppata da K. Marx, fonde alcuni aspetti della teoria di Hegel e di Feuerbach. Cambia, tuttavia, il luogo di nascita dell'a., che non è più la religione o la filosofia, bensì la società degli scambi mercantili e, in particolare, la sua forma più sviluppata: cioè la società capitalistica moderna (Das Kapital. Kritik der politischen Oekonomie, I vol., Libro I: Der Produktionprocess des Kapitals, Amburgo 1867). Riaffiora qui un tema, già elaborato in parte da Rousseau e anche da Hegel: la connessione tra a. e divisione del lavoro. Nella società dello scambio e del mercato, i produttori sono produttori privati e indipendenti. Lo scambio dei loro prodotti richiede, di fatto, l'eguagliamento dei loro diversi lavori. Ma il lavoro umano eguale o astratto, che è presupposto e risultato dello scambio, implica che la forza lavorativa umana - che è, in effetti, diversa da soggetto a soggetto - sia considerata e calcolata a prescindere dagl'individui reali. In tal modo, la forza lavorativa, erogata nei diversi lavori, viene trasformata in un'entità a sé, diviene cioè valore delle merci, qualcosa d'indipendente dai produttori stessi e che li fronteggia e li domina. Questo rapporto capovolto, per cui il prodotto del lavoro appare dotato di un valore proprio, che subordina e comanda il lavoro, è chiamato da Marx il "feticismo" delle merci. Il mondo delle cose appare animato di vita propria, cioè personificato; il mondo dei soggetti umani, viceversa, appare "reificato", cioè ridotto a rapporti tra cose. L'a. culmina, per Marx, nel lavoro salariato, cioè nello scambio tra capitale e lavoro. E infatti il capitale - che è null'altro che valore e, quindi, un prodotto del lavoro - qui appare assoggettare e soggiogare a sé ciò da cui deriva. Il prodotto domina il produttore (proprio come gli dèi, secondo Feuerbach, dominano gli uomini che, pure, li hanno creati). Mentre il lavoratore, a sua volta, diventa una semplice appendice di ciò che esso stesso ha prodotto. Il luogo dove questo capovolgimento reale diventa tangibile e perspicuo è, secondo Marx, la grande industria moderna. Il capitale s'incarna qui nel sistema delle macchine semoventi; la forza-lavoro è annessa al macchinario come una sua semplice escrescenza. Il tempo del lavoro, l'intensità della sua prestazione, ecc., sono comandati e imposti, ormai, dalla velocità e dal ritmo delle macchine.
Una ripresa e uno sviluppo significativo della concezione marxiana dell'a. è contenuta nell'opera giovanile di G. Lukács e, in particolare, nel suo celebre libro Storia e coscienza di classe (Geschichte und Klassenbewusstsein. Studien über marxistische Dialektik, Berlino 1923). In questo scritto, tuttavia, il concetto di a., sviluppato da Marx, è reinterpretato in termini hegeliani. La scissione tra forza-lavoro e valore, ovvero tra lavoro salariato e capitale, che è il nocciolo della concezione di Marx, è così assimilata all'idea, tipica di Hegel, secondo cui l'a. è da ricondurre alla contrapposizione o separazione tra Io e mondo, tra soggetto e oggetto, di cui restano prigionieri il senso comune e l'ordinario intelletto umano. Il risultato di questo scambio, operato da Lukács, è che l'a. viene ora identificata non tanto con la produzione di merci e, quindi, con una particolare forma storica della società (il capitalismo), bensì con il punto di vista dualistico del materialismo e della scienza, cioè con la distinzione tra pensiero ed essere, tra coscienza soggettiva e mondo. Da questo punto di vista, lo scandalo dell'a. non risiede più nel fatto che il lavoro si oggettivi in un prodotto che ha la forma di merce, bensì nel fatto che esista un'oggettività naturale, esterna e indipendente dalla soggettività pensante.
È importante tener conto di questa svolta, segnata da Lukács, perché essa ha influenzato profondamente molte concezioni contemporanee dell'alienazione. Nell'esistenzialismo, per esempio, dove pure il termine non compare espressamente, alcuni dei significati implicati da esso si ritrovano nell'analisi di quella che M. Heidegger ha chiamato l'"esistenza inautentica" (Sein und zeit, Halle 1927). Si tratta di quel tipo di esistenza, peculiare soprattutto della produzione, della tecnica e, quindi, anche della scienza, in cui l'uomo vive immerso nell'universo delle cose. Qui l'essere delle cose è di essere utilizzate dall'uomo, di stargli a portata di mano come strumenti e mezzi di lavoro. E un mondo reificato: il mondo fisico-naturale che ci esibisce la scienza. È una realtà solida e tuttavia inconsistente, in cui trova il suo appagamento, sia la nostra propensione al dominio della natura, cioè a disporre delle cose, sia il bisogno di sicurezza che caratterizza ciò che Heidegger chiama anche la "quotidianità", in quanto esistenza immersa e versata tutta negli oggetti, e sperduta dietro le cure del mondo. Quest'esistenza "inautentica" è il regno dell'anonimato. Domina in essa il pronome impersonale man. Il soggetto sovrano qui è il "si dice", il "si fa". Tutto è livellato, convenzionale. L'uomo, spersonalizzato, è tutti e nessuno.
Un'analisi dell'a., essenzialmente incentrata sulla critica della scienza e della tecnica, è anche quella che s'incontra negli autori della cosiddetta Scuola di Francoforte (M. Horkheimer, Th. W. Adorno e H. Marcuse). L'obiettivo della critica è qui soprattutto - più che il capitalismo come tale - la società industriale moderna, con la sua razionalità impersonale, integratrice e falsamente tollerante. La ragione tecnico-scientifica è qui denunciata come la sorgente da cui ha preso vita l'"universo totalitario" delle società moderne più progredite: società che sono dominate dal principio dell'efficienza, cioè dello sviluppo sempre maggiore (e, alla fine, irrazionale), della produzione e del dominio sempre più esteso sulla natura. Connesso all'analisi di questi fenomeni è anche il concetto di a. che si è sviluppato in alcune branche della moderna sociologia del lavoro. Ai temi tradizionalmente legati alla critica della divisione del lavoro, si aggiunge, in questo caso, l'analisi delle forme estreme di parcellizzazione che caratterizzano il lavoro industriale moderno e, in particolare, quello prestato alla catena di montaggio. Emergono qui due temi fondamentali. Da una parte, la monotonia e la ripetitività ossessiva che si accompagnano a molte forme di lavoro, legate alla reiterazione di un'operazione parziale, sempre eguale a sé stessa. E, dall'altra, l'estraneazione in cui si trova il lavoratore rispetto al processo produttivo globale (e, quindi, anche rispetto alle potenze scientifiche e intellettuali incorporate in esso), processo del quale egli ignora sia il piano complessivo, sia le finalità.
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