alienazione/estraneazione
Nel linguaggio filosofico il termine riflette il significato dei vocaboli tedeschi Entfremdung («estraneazione») ed Entausserung («alienazione»), adoperati particolarmente da Hegel e da Marx.
I due termini vengono usati, soprattutto nella Fenomenologia dello spirito (➔) (1807), per indicare il momento dialettico del processo dell’autocoscienza, in cui questa si estrania a sé stessa considerandosi come una cosa (Entfremdung), e nel far ciò «si dà una realtà» e si «educa all’universale» (Entausserung). I due termini in Hegel non sono dunque perfettamente sinonimici, e il secondo ha una netta connotazione positiva. Hegel dà la seguente caratterizzazione generale del processo di a.: «Ma a noi lo spirito ha mostrato di non essere né soltanto il ritrarsi dell’autocoscienza nella sua pura interiorità, né il mero calarsi di essa nella sostanza e il non-essere della sua differenza; anzi ha mostrato di essere questo movimento del Sé il quale aliena sé stesso e si cala nella sua sostanza e come soggetto tanto è andato da essa in sé e l’ha resa oggetto e contenuto, quanto toglie questa differenza dell’oggettività e del contenuto». Ma Hegel non si è limitato a questa generale elaborazione logico-metafisica della categoria di a., bensì si è servito di tale concetto per dare una rappresentazione dialettica della storia antica e moderna. Una intera sezione della Fenomenologia dello spirito («Lo spirito a sé estraniato; la cultura») ricostruisce i principali avvenimenti della civiltà occidentale sotto il segno e mediante la categoria dell’alienazione. La condizione di a. o di e. inizia storicamente nell’epoca del tramonto della polis, in seguito al venir meno di quell’armonioso rapporto individuo-comunità che costituiva la caratteristica fondamentale dell’eticità greca. La polis era un tutto armonioso, coeso e compatto, in cui gli individui non facevano valere le loro volontà e i loro interessi particolari, ma agivano e si sacrificavano per la cosa pubblica, per l’interesse generale o comune. La situazione storica successiva, che Hegel chiama dello «spirito estraniatosi», è invece radicalmente diversa. Qui l’intero è divenuto qualcosa di scisso e di duplice, perché l’autocoscienza non si riconosce più nel mondo sociale circostante – benché esso sia un suo prodotto – che le si contrappone come una realtà estranea. Qui l’e. dell’autocoscienza costituisce una vera e propria frattura fra l’autocoscienza stessa e ciò che essa ha prodotto: ovvero costituisce, come Hegel dice, una Entwesung, una perdita dell’essenza da parte dell’autocoscienza. Questa lacerazione o scissione si articola in varie opposizioni dialettiche (Stato/ricchezza, coscienza nobile/coscienza ignobile, ecc.).
Il concetto di a. (in quanto scissione ed e. della coscienza) viene ampiamente ripreso da Feuerbach, che ne fa lo strumento fondamentale di una critica radicale della religione cristiana. Secondo Feuerbach, il cristianesimo separa dall’uomo i suoi predicati essenziali e li attribuisce a un ente fantastico, Dio, che diventa così il vero soggetto, dal quale l’uomo viene a dipendere (in quanto egli si concepisce come posto o creato da Dio). Questo capovolgimento o inversione, dove ciò che è primo diventa secondo e ciò che è secondo diventa primo, costituisce appunto l’a. religiosa. Il compito principale della filosofia, secondo Feuerbach, è quindi quello di mostrare il carattere puramente umano della religione e di restituire all’uomo ciò che egli ha alienato in Dio.
Le sezioni della Fenomenologia dello spirito incentrate sul concetto di a. hanno avuto un profondo influsso sul giovane Marx, il quale scrive, nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, che quest’opera hegeliana «nella misura in cui essa tiene ferma l’estraneazione dell’uomo (anche se l’uomo vi appare soltanto nella forma dello spirito)» contiene «tutti gli elementi della critica», certo «nascosti» e tuttavia «spesso già preparati ed elaborati in un modo che va assai al di là del punto di vista di Hegel». Marx aggiunge che «la ‘coscienza infelice’, la ‘coscienza nobile’, la lotta tra la coscienza nobile e quella ‘ignobile’, ecc., questi singoli capitoli contengono gli elementi critici – se pure in una forma ancora estraniata – di interi settori, come la religione, lo Stato, la vita civile, ecc.». Non stupisce quindi che nei Manoscritti economico-filosofici Marx utilizzi ampiamente la categoria di a. o e. per caratterizzare il rapporto lavoro salariato/capitale. Tale rapporto (che presuppone e produce il «lavoro alienato») si articola in quattro momenti. (1) Il lavoratore è estraniato dal prodotto della propria attività, poiché «l’oggetto che il lavoro produce, il prodotto del lavoro si contrappone ad esso come un essere estraneo, come una potenza indipendente da colui che lo produce». (2) L’e. del lavoratore dal prodotto della sua attività costituisce un’e. dalla stessa attività produttiva. Quest’ultima non è più una manifestazione essenziale dell’uomo, bensì «lavoro forzato», determinato soltanto dalla necessità esterna. (3) In quanto si estrania dall’attività produttiva, il lavoratore si estrania anche dal genere umano. Infatti la libera attività consapevole è il carattere specifico del genere umano. Ma nel lavoro alienato la vita produttiva diventa soltanto mezzo per la sussistenza fisica. (4) La conseguenza immediata di questa e. del lavoratore dall’umanità, è l’e. dell’uomo dall’uomo. Questa reciproca e. degli uomini trova la sua manifestazione più tangibile nel rapporto operaio-capitalista. Infatti, se il prodotto del lavoro non appartiene all’operaio, ciò avviene perché esso appartiene a un altro uomo estraneo all’operaio; se l’attività dell’operaio è per lui un tormento, essa è godimento e gioia per un altro. Inoltre Marx sottolinea l’analogia fra l’a. del lavoro e l’a. religiosa analizzata da Feuerbach: «Quanto più l’operaio si consuma nel lavoro, tanto più potente diventa egli stesso, e tanto meno il suo mondo interno gli appartiene. Lo stesso accade nella religione. Quante più cose l’uomo trasferisce in Dio, tanto meno egli ne ritiene in se stesso».
Il concetto di a. teorizzato da Marx ha esercitato un influsso profondo sulla cosiddetta «teoria critica», cioè sul pensiero della Scuola di Francoforte (Horkheimer, Adorno, Marcuse, ecc.). Con una variante importante, però. La Scuola di Francoforte, infatti, sposta l’accento dal rapporto lavoro salariato-capitale (cioè dai rapporti capitalistici di produzione) all’organizzazione tecnico-industriale del mondo moderno. All’interno di questa organizzazione, nel suo fare l’uomo si lascia guidare dalla cosa, si assoggetta e ubbidisce alle sue leggi, anche quando sembra dominarla o disporne a piacimento. «Questa a. ed e. dell’esistenza – afferma Marcuse – questo prendere su di sé la legge della cosa invece di lasciar accadere la propria esistenza, è, per principio, ineliminabile, anche se può sparire durante e dopo il lavoro fino all’oblio completo, e non coincide affatto con la resistenza della ‘materia’, né cessa con la conclusione del singolo atto lavorativo; l’esistenza è in sè stessa rivolta a questa cosalità» (➔ anche reificazione).