ALMORÀVIDI (arabo al-Murābiṭūn)
Nome di una dinastia berbera che nella seconda metà del sec. XI e nella prima metà del sec. XII dominò il Marocco, parte dell'Algeria e la Spagna musulmana. La fondazione di tale impero si deve ad alcune frazioni del ramo dei Ṣanhāgiah, che conducevano vita nomade nella zona compresa fra l'Atlante, il Senegal e l'Oceano Atlantico. Erano detti mulaththamah, cioè forniti di lithām, specie di velo con cui si coprivano la parte inferiore del viso, come attualmente i Tuāreg sahariani. Nel sec. IX questi Berberi erano stati convertiti alla religione musulmana, che però seguivano molto tepidamente e con scarsa conoscenza dei suoi dogmi e dei suoi riti. Secondo la tradizione, nell'anno 1036 uno dei loro capi, di nome Yaḥyá ibn Ibrāhīm, recandosi con altri notabili in pellegrinaggio alla Mecca e traversando regioni ove fioriva la cultura islamica, si persuase che il suo popolo era ben lontano dalla conoscenza delle prescrizioni religiose, e che era necessario condurre presso di esso qualche apostolo che si dedicasse alla predicazione della vera fede e ad imporre l'osservanza di tutti i suoi principî. Si assunse tale compito il dotto e pio ‛Abd Allāh ibn Yāsīn al-Giuzūlī, che, recatosi presso i Ṣanhāgiah, cominciò a raccogliere proseliti e con essi si ritirò in un'isola del Senegal ove costruì un ribāṭ, cioè un edifizio fortificato a scopo insieme di ritiro spirituale e di punto di partenza per la guerra contro gl'infedeli: colà i neofiti venivano istruiti nella religione e si esercitavano assiduamente nelle sue pratiche. Si formò così intorno al predicatore una piccola comunità di zelanti e devoti seguaci, la cui fama di santità si diffuse, e furono detti al-murābiṭūn, cioè gli abitanti del ribāṭ, nome da cui è derivato quello, diffuso in Europa, di Almoravidi. Come tante volte è accaduto nella storia dell'Islām, formatasi la comunità religiosa, ne scaturì, attraverso il concetto profondamente sentito della guerra santa, un ente politico. Ad un certo momento ‛Abd Allāh ibn Yāsīn e i suoi seguaci passarono dalle pratiche ascetiche alla guerra, con l'intento di imporre la loro fede a tutti coloro che non intendevano accettarla con la persuasione. Si inizia così verso la metà del sec. XI una serie di fortunate azioni militari, che in breve portano alla conquista di vasti territorî e alla sottomissione di varie genti e quindi alla creazione di uno stato. Nello sviluppo di tale opera ‛Abd Allāh ibn Yāsīn teneva per sé l'alta direzione e la parte più strettamente religiosa, mentre lasciava in mano del sono discepolo Yaḥyá ibn ‛Omar e, morto questi, del fratello di lui Abū Bekr, la condotta della guerra. I Murābiṭūn si lanciarono dapprima contro tribù infedeli dei Sanhāgiah, poi presero Sigilmāsah, Awdaghast; risalirono quindi verso il N. e sottomisero il Sūs e il regno di Aghmāt; assalirono i Berghawāṭah, popolazione berbera che nella zona a sud-ovest di Fez lungo il litorale atlantico aveva fondato uno stato autonomo e professava una particolare eresia. Morto ‛Abd Allāh ibn Yāsīn in uno dei combattimenti contro i Berghawāṭah, le operazioni militari furono continuate sotto la direzione di Abū Bekr e di suo cugino Yūsuf ibn Tāshufīn; il primo, sottomessi i Berghawāṭah, tornò nelle regioni del sud per sedare disordini che vi erano scoppiati e per sospingere il movimento di conquista verso i paesi sudanesi; l'altro, rimasto nel Maghrib e sposata la bella, energica e astuta Zainab, già moglie del signore di Aghmāt, e valendosi del suo consiglio, continuò a combattere, a rafforzare il nascente impero e ad estenderne i confini. Yūsuf ibn Tāshufīn finì col prendere il sopravvento nella direzione del movimento almoravide, ed appare come la figura maggiore di esso. Per avere una propria capitale, nell'anno 1062 fondò la città di Marrākush (Marocco); in seguito s'impadronì di Fez e conquistò la zona occidentale dell'Algeria e quella settentrionale del Marocco, occupando Tangeri e il Rīf. Così i rudi Ṣanhāgiah sahariani, unificati da un motivo religioso e condotti da abili capi, erano riusciti ad avere ragione dei piccoli stati del Maghrib occidentale e a fondare un potente impero che si estendeva da Algeri-all'Atlantico e al Senegal. Le conquiste avrebbero potuto continuare verso l'O. e riunire in un solo regno tutta la Barberia; ma le lotte che si combattevano in Spagna fra il re di Castiglia e di León, Alfonso VI, e i principi musulmani, e l'attrazione che quella regione ha sempre esercitato sui Marocchini, sospinsero Yūsuf ibn Tāshufīn ad intervenirvi. Sollecitato da un'ambasceria di alcuni dei detti principi, nel 1086 passò in Spagna e, sconfitto Alfonso nella grande battaglia di Zallāqah, si rese padrone di tutta la zona occupata dai musulmani, spossessandone gli emiri che imprudentemente lo avevano chiamato in loro soccorso. Egli morì nel 1106 in età assai avanzata, lasciando il trono a suo figlio ‛Alī, che lo tenne fino al 1142, assorbito dalle pratiche religiose a cui era dedito, e tuttavia conducendo qualche fortunata spedizione in Spagna e occupando, tra altro, le isole Baleari. L'impero almoravide era allora giunto al suo apogeo, e costituiva la maggiore potenza politica dell'Africa settentrionale.
Sorti con l'affermazione del più rigido islām, gli Almoravidi avevano imposto dappertutto una stretta osservanza delle prescrizioni religiose, bandendo il lusso, l'uso del vino, degli strumenti di musica. Ifaqīh, dotti in teologia e diritto canonico, avevano larga parte nell'amministrazione dello stato al tempo di ‛Alī, e questo intervento ebbe conseguenze funeste per la cultura che, specialmente nella Spagna, fioriva rigogliosa col favore dei sovrani dei piccoli regni successori del califfato di Còrdova. Lo zelo ortodosso degli Almoravidi perseguitò sistematicamente ogni manifestazione della cultura mondana (numerosissimi furono i libri di scienze "profane" arsi pubblicamente), e nelle scienze religiose essi si attennero a quei sistemi, teologici e giuridici, i quali nell'interpretàzione del Corano e della legge religiosa si fondavano esclusivamente sul senso letterale e sull'autorità della tradizione, bandendo l'esegesi razionalistica e allegoristica e, in genere, ogni intrusione della speculazione filosofica nel campo della fede. Alla tendenza di reazione ortodossa che distingue gli Almoravidi risponde altresì il riconoscimento formale da essi prestato all'autorità del califfo 'abbāside di Baghdad, sicché deve respingersi la notizia, riferita da alcuni storici, che Yūsuf ibn Tāshufīn abbia assunto il titolo califfale: mentre sussiste il fatto che i suoi successori portarono il titolo di amīr al-muslimīn (capo del musulmani), con intenzionale distinzione da quello di amīr al-mu'minīn (capo dei credenti), che è di pertinenza del solo califfo.
Tuttavia, se rapidamente era sbocciato il nuovo impero, non meno rapida era la dissoluzione che ad esso si preparava, sia perché i grandi capi che lo avevano fondato non lasciarono eredi che per qualità politiche e militari fossero alla loro altezza, sia perché il primo nucleo dei rozzi nomadi sahariani che ne aveva formato il nerbo, venuto a trovarsi in mezzo a regioni ricche e incivilite, e nonostante le prescrizioni contro il lusso, si adattava al nuovo ambiente e quindi s'indeboliva, perdeva le originarie virtù guerriere e finiva per venir meno alla rigida osservanza della religioni che dapprima si era imposta; sia finalmente perché nell'Atlante si andava determinando un fenomeno analogo a quello stesso deglí Almoravidi, cioè la formazione di una nuova forza religioso-politica in mezzo ad una popolazione di rudi montanari, forza che diede origine all'impero degli Almohádi (v.).
Già ‛Alī ibn Yūsuf si trovò alle prese col Mahdī degli Almohadi, Ibn Tūmart, che aveva gettato le basi della nuova organizzazione e che, atteggiandosi a riformatore religioso e morale, si contrapponeva agli Almoravidi, che accusava di essersi allontanati dalla retta via e di esser caduti nell'eresia. ‛Alī riuscì a sconfiggere il Mahdī che si era avanzato, a capo di un esercito di 40.000 uomini, fin nei pressi della città di Marocco; ma in seguito, morto Ibn Tūmart e successogli il famoso ‛Abd al-Mu'min nella direzione del movimento almohade, ‛Alī e i suoi tre successori Tāshufīn ibn ‛Alī, Ibrāhīm ibn Tāshufīn e Isḥāq ibn ‛Alī, subirono una serie di disfatte e videro sfuggirsi successivamente di mano molte zone del loro impero; finché nel 1147 la stessa capitale fu espugnata, dopo lungo assedio, e in mezzo ad orribili massacri l'ultimo principe almoravide fu preso e decapitato. Così l'impero fondato da ‛Abd Allāh ibn Yāsīn finiva dopo circa un secolo di vita. La sua origine e le sue vicende si riconnettono con fenomeni che, ripetutamente manifestatisi nella Barberia, sembrano costituirvi quasi delle leggi storiche, e che furono in parte notati e analizzati dallo storico Ibn Khaldūn. Spesso regioni fertili costiere, ove si stabiliscono e sviluppano la vita sedentaria e la civiltà, hanno alle spalle, verso il sud, immense zone steppose e desertiche, abitate da indomabili e selvaggi nomadi, che, attratti dal bottino, fanno irruzioni e causano scompigli nelle prime. Si determina così una specie di squilibrio economico e sociale fra il sud e il nord: il sud è come una riserva di forze nemiche contro il nord. Nel caso dei Ṣanhāgiah sahariani, si verificò qualche cosa di più che la semplice razzia. Essi, disponendo delle virtù guerriere proprie della rude vita del deserto, sospinti e unificati da un ideale religioso, e condotti da capi geniali, una volta gettatisi sulla zona dei sedentarî seppero costruirsi un loro proprio dominio. Ma nella nuova vita più facile e comoda s'infiacchirono, avviandosi ad una rapida decadenza; e, privi anche di quelle qualità superiori indispensabili ad una solida organizzazione statale, videro sparire nel nulla il loro impero, appena si trovarono alle prese con una nuova forza che ne minava le basi.
Bibl.: Ibn Khaldūn, Histoire des Berbères (trad. De Slane), Algeri 1852-1856 (nuova ediz., Parigi 1925 e segg.); Ibn al-Athir, Annales du Maghreb et de l'Espagne (trad. Fagnan), Algeri 1901; E. Mercier, Histoire de l'Afrique septentrionale, Parigi 1888-1891, II; I. Hamet, Histoire du Maghreb, Parigi 1923; F. Codera, Decadencia y desaparición de los Almorávides en España, Saragozza 1899.