Almoravidi
Intorno alla metà del sec. 11°, un capo dei Ṣanhāja, nomadi berberi del Sahara, detti anche Mulaththamūn dal lithām, il velo che copriva i loro volti, dopo aver approfondito la religione islamica durante un pellegrinaggio, volle meglio indottrinare i suoi correligionari e ricorse alla predicazione di un uomo colto e devoto, tale 'Abd Allāh b. Yāsīn. Questi, trasferitosi tra i Ṣanhāja, costruì in una località non precisata, forse del Senegal, un ribāṭ (convento fortificato) dove andò ad abitare con alcuni compagni, che da allora presero il nome di Murābiṭūn (abitanti del ribāṭ), da cui il termine Almoravidi. Un piccolo edificio quadrato in pietra, sormontato da una cupola in mattoni e affiancato da un oratorio di epoca più recente che domina uno sperone montuoso a km. 40 a S di Rabat, è forse la tomba-santuario di 'Abd Allāh b. Yāsīn, ancora oggi luogo di devozione.
Fu questo dunque l'inizio del movimento religioso e della dinastia omonima che in pochi anni si estese dal Sahara al Mediterraneo e all'Atlantico dove dominò per circa un secolo, dal 448 a.E./1056 al 541 a.E./1147. Infatti 'Abd Allāh b. Yāsīn, grazie all'opera di valorosi condottieri, si impose su tutte le tribù del Sahara; nel 447 a.E./1055-1056 conquistò Sijilmasa e nella sua vittoriosa marcia verso N si impossessò del Sūs, del regno di Aghmāt e dei territori dei Barghwāṭa nel Marocco meridionale.
Alla morte di 'Abd Allāh b. Yāsīn, avvenuta nel 447 a.E., il comando passò a Yūsuf b. Tāshufīn, il quale continuò l'avanzata sia nell'estremo Maghreb (od. Marocco), dove fondò la nuova capitale Marrakech, sia nel Maghreb centrale (od. Algeria), dove occupò Jazā'ir (Algeri). Chiamato in aiuto dal re di Siviglia al-Mu'tamid b. 'Abbād, per opporre resistenza all'avanzata della Reconquista, Yūsuf sconfisse a Zallaqa Alfonso VI nel 479 a.E./1086, ma non ritirò più le truppe e i governatori berberi dal territorio spagnolo, cosicché da allora il dominio almoravide si estese anche all'Andalus (la Spagna), dove sopravvisse fino al 543 a.E./1148, due anni dopo che il Marocco era passato sotto l'influenza almohade. La prima dinastia berbera sopravvisse invece a Maiorca sino al 625 a.E./1228 e a Minorca sino al 685 a.E./1286.
Poche sono le opere architettoniche riferibili con sicurezza al periodo almoravide ancora oggi superstiti, così come molto scarse sono le notizie riportate dai testi di storici e viaggiatori dell'epoca. Si possono considerare tuttavia una diretta conseguenza della vittoriosa avanzata di questo movimento politico-religioso la fondazione e la ripresa economica di alcuni centri come Maranda, fiorita tra i secc. 11° e 12° dell'era cristiana, e Djenné ('paradiso'), fondata intorno alla metà del sec. 11° nell'Africa subsahariana. Timbouctou fu fondata alla fine del sec. 11° e, in Mauritania, Kombi Saleh ricevette nel 1076 il suo assetto islamico, oggi a stento riconoscibile tra le rovine.
Da studi recenti risulta che in prossimità di Aghmāt, Abū Bakr b. 'Umar pose nel 462 a.E./1069 un campo militare dove l'anno successivo Yūsuf b. Tāshufīn decise la costruzione di una qasba e di una moschea, primo nucleo della nuova capitale Marrakech. In seguito a scavi intrapresi tra il 1948 e il 1952 nella zona adiacente alla moschea al-Kutubiyya di Marrakech sembra siano stati individuati i muri meridionale e occidentale della qasba di Yūsuf, che era tutta in pietra - come dice del resto il suo nome, Dār al-Ḥajar ('casa di pietra') - con possenti mura a telaio rinforzate da bastioni rettangolari e con una porta, quella a S, che è stata rintracciata, con ingresso diretto affiancato da due bastioni in aggetto, articolati all'interno da nicchie semicircolari. Alcuni aspetti di questo edificio, nel quale sono evidenti numerosi prestiti dall'architettura orientale hammadita, si ritrovano nelle altre fortezze che gli A. fecero erigere lungo i confini per difendersi prima dalle incursioni dei nomadi e, in seguito, dall'avanzata degli Almohadi. Tra queste qasba, oggi quasi tutte in rovina, si deve includere anche il primo nucleo della città di Rabat che, come indica il suo stesso nome, era in origine un ribāṭ fatto erigere negli ultimi anni della dominazione almoravide. Le mura esterne di questi edifici possono essere interamente in pietra, a volte a corsi alterni di massi di diversa grandezza, come a Zagora (nell'estremo Sud), ad Amargou (presso Fez) e ad al-Nasrani (presso Meknes), o in pietra e pisé - terra compattata in casseforme - come nel Tasghimout (presso Marrakech); esse hanno spesso bastioni di rinforzo che, negli esempi più antichi (per es. a Zagora e ad Armagou), sono quadrati e si rifanno a modelli hammaditi.
Le porte - una nel Tasghimout, due ad al-Nasrani, tre ad Amargou e, sembra, due a Zagora - sono a volte sormontate da archi a ferro di cavallo, sono sempre affiancate da bastioni in aggetto e si aprono su ingressi sia diretti, sia a 'baionetta'. A Zagora e nel Tasghimout le pareti dei vestiboli sono inoltre articolate da nicchie, anche semicircolari, e sormontate da semicupole che seguono ancora una volta i modelli fatimidi e hammaditi. L'utilizzazione dello spazio racchiuso da queste mura non si definisce con precisione a causa del pessimo stato di conservazione di tali complessi e della mancanza di scavi sistematici, ma nel Tasghimout e ad Amargou si è potuto individuare un altro nucleo fortificato, mentre a Zagora è stato scoperto un ḥammām dal caratteristico impianto maghrebino. Ad Amargou, infine, alcuni sondaggi hanno messo in luce l'esistenza di magazzini nel sottosuolo.
Contemporaneamente alle opere di fortificazione sembra che gli A., fin dal tempo di Yūsuf b. Tāshufīn, facessero erigere almeno una moschea in ogni paese che conquistavano, come segno del loro potere politico e religioso. A testimonianza di questa politica restano oggi nel Maghreb centrale le grandi moschee di Algeri, datata tra il 453 a.E./1061 e il 500 a.E./1106, di Tlemcen, che risale forse al 531 a.E./1136 e di Nedroma, che è forse anteriore al 540 a.E./1145. Pur essendo di dimensioni diverse, queste moschee rientrano in un unico tipo che si rifà al modello cordovano: la sala di preghiera, vasta e larga, ha navate perpendicolari al muro qiblī. Tra queste la più larga è quella centrale e, ad Algeri e a Tlemcen, è anche più alta delle altre e conduce al miḥrāb che è profondo e poligonale. Il cortile, sempre circondato da portici, è invece di dimensioni alquanto ridotte. Le navate e le campate più in vista sono formate da archi oltrepassati, o a ferro di cavallo, che poggiano su pilastri in muratura. A Nedroma, che è il santuario più austero, vi sono solo archi oltrepassati a sesto acuto, mentre ad Algeri e a Tlemcen gli stessi archi sono anche lobati e sono collegati ai pilastri mediante un elegante raccordo a forma di S che costituisce una delle più felici soluzioni architettoniche messe in opera in questo periodo. In origine, sia la Grande moschea di Algeri, sia quella di Nedroma non avevano il minareto, mentre nella Grande moschea di Tlemcen un minareto a base quadrata era collocato nel portico opposto alla sala di preghiera e in asse con il miḥrāb, secondo l'esempio di Cordova e di Kairouan. Rispetto alle altre, la moschea di Tlemcen denota una maggiore somiglianza con il modello cordovano, dovuta forse al fatto che essa era ubicata al centro di un nuovo quartiere, Tagrart, fondato dai conquistatori in opposizione alla vecchia città già sede di governi estremisti. Questo quartiere sarebbe diventato, secondo l'intenzione del fondatore, un centro di scienze giuridiche e religiose, nell'ambito del vittorioso Islam sunnita. Per questo motivo dunque 'Alī b. Yūsuf b. Tāshufīn, che si può a buon diritto considerare il più grande e illuminato sovrano della dinastia e anche quello che si dedicò alle opere più imponenti, grazie alla pace di cui godette il suo regno (500-537 a. E. / 1106-1142), adornò di stucchi il miḥrāb di questa moschea e lo fece precedere da una cupola con nervature che, intersecandosi, formavano una cupoletta a muqarnas. Le eleganti cornici in stucco che circondano il miḥrāb e i pannelli traforati della cupola denotano una grande maestria nella esecuzione e una quanto mai felice fantasia decorativa nella quale, pur facendo ricorso al solo repertorio vegetale, si ottengono ricche e svariate combinazioni: predomina in effetti il motivo della foglia di palma che, o liscia o, più spesso, trattata come una foglia d'acanto, sia semplice sia doppia, forma composizioni floreali anche complesse di ineguagliata esuberanza. Allo stato attuale delle conoscenze sembra che in Marocco siano sopravvissuti i monumenti più significativi riferibili a questa dinastia 'campione dell'Islam', in particolare nelle città di Fez e di Marrakech. In quest'ultima città è stato recentemente identificato un annesso alla moschea di 'Alī b. Yūsuf, oggi scomparsa sotto la moschea alKutubiyya, la Qubba al-Bārūdiyyīn, che Barlow scoprì nel 1948. Si tratta di un padiglione rettangolare in pietra e mattoni, aperto su tutti e quattro i lati, con uno o due archi che danno accesso a un bacino interno rettangolare, sormontato da una doppia cupola. Una galleria superiore si apre all'esterno con due archi di foggia varia, a sesto acuto e oltrepassati, polilobati e a lobi rettocurvilinei. Delle due cupole infine, quella esterna è senza tamburo, mentre quella interna è a nervature, come già a Cordova e a Tlemcen e, circondata da quattro cupole a muqarnas inserite in un ettagono, racchiude al centro una cupola minore a sette lobi. Alcune soluzioni, tecniche e decorative a un tempo, come la doppia cupola e il modulo dell'ettagono, risultano inconsuete nell'architettura del tempo e denotano una ricerca di preziosità, che trova conferma anche negli aspetti esclusivamente ornamentali di questo edificio, nel quale l'epigrafe monumentale in corsivo sembra la più antica attualmente nota in Marocco. Questa qubba, nella quale sono inoltre felicemente fusi elementi andalusi e orientali, mediati dal Nord Africa, si può ben considerare uno degli esempi più completi e rappresentativi dell'arte ispano-moresca che ebbe proprio con gli A. il suo periodo formativo, in particolare al tempo di 'Alī b. Yūsuf. A questo stesso sovrano si devono inoltre gli ampliamenti e gli interventi decorativi in uno dei più importanti santuari del Maghreb, la moschea al-Karawiyyīn a Fez. Fatta costruire da un devoto cittadino nel 243 a.E./857 questa moschea, che in origine presentava quattro navate parallele al muro qiblī e che era stata ampliata di tre navate nel sec. 10°, si accrebbe con gli A. di altre tre navate sul lato del muro qiblī, ricevendo anche la nuova e definitiva sistemazione della zona del miḥrāb e della navata centrale. Si trattò di una esaltazione del percorso verso il miḥrāb mediante l'inserzione di otto cupole e con il rivestimento in stucco scolpito delle cupole, delle pareti intorno al miḥrāb e presso le porte che conducono alla moschea dei Morti, per unificare fasi architettoniche di epoche diverse. La c.d. moschea dei Morti, che è probabilmente coeva all'intervento almoravide nella Grande moschea, costituisce uno dei pochi esempi superstiti nell'Islam, e peraltro il più antico in Marocco, di un edificio dedicato esclusivamente alle orazioni per il defunto: esso è formato da una sala quadrata sormontata da una cupola a muqarnas ed era in origine preceduto da un ampio cortile che tre porte mettevano in comunicazione con la sala di preghiera dell'adiacente moschea. In questi due edifici gli archi sono per la maggior parte oltrepassati e a tutto sesto, ma si ritrovano anche archi polilobati e archi a lambrecchini che avranno una grande diffusione nei secoli successivi; quanto alle cupole, sono sia a muqarnas, sia a nervature e ripropongono modelli già noti. Nel repertorio decorativo degli stucchi è privilegiato l'elemento vegetale e in primo luogo la palma, sia semplice e quasi sempre asimmetrica, sia simmetrica e simile a una pigna, sia doppia e di vistose dimensioni, sia, infine, trattata come una foglia di acanto. Questo elemento classico rivive anzi, nel presente contesto, anche nell'aspetto suo proprio, ma vivacizzato in fantasiose combinazioni.
Dell'architettura civile degli A. si conosce assai poco soprattutto per quanto riguarda gli edifici urbani, che furono tutti distrutti dagli Almohadi. In Algeria fasi attribuibili a questo periodo sono state riscontrate da Golvin (Hill, Golvin, 1976) anche nella Qal'a dei Banū Ḥammād in un edificio non ancora identificato in prossimità del Qaṣr al-Manār.
Quando si creò il nuovo quartiere di Taghrart a Tlemcen, lo si circondò di mura con numerose porte, due sole delle quali oggi conservate: hanno entrambe ingressi diretti sormontati da archi oltrepassati a tutto sesto, in pietra la prima e in pietra e pisé la seconda. A Tlemcen esiste ancora oggi l'ḥammām dei Tintori che è considerato almoravide ed è sicuramente uno dei più antichi dell'Africa settentrionale; esso ha un impianto di tipo andaluso con il patio centrale.
Per quanto riguarda il Marocco, durante gli scavi della moschea al-Kutubiyya a Marrakech è venuto alla luce un bacino semicircolare circondato da pilastri e colonne, rivestito da un intonaco dipinto di rosso con eleganti motivi geometrici. Sulla base della somiglianza tra questi ornati e quelli del castello di Murcia in Andalusia, che Terrasse data tra il 1147 e il 1171, si ritiene che il bacino facesse parte di un palazzo costruito da maestranze andaluse per 'Alī b. Yūsuf. Lo stesso sovrano aveva dotato Marrakech di una cinta di mura in crudo nella quale, secondo le fonti, si aprivano dodici porte che avevano un ingresso diretto affiancato da due bastioni aggettanti, come Bāb al-Arissa e Bāb al-Makhzen, il modello delle quali era pur sempre l'ingresso del Dār al-Ḥajar.
Per le altre città del Marocco, si può ricordare che Fez, dopo l'unificazione dei due quartieri, fu circondata di mura e dotata di una fortezza, la Qasba al-Filāla, oggi scomparsa. Anche a Meknes, infine, sembra che sia stata costruita una cittadella dagli Almoravidi.Sono molto poche le opere di utilità pubblica riferibili con sicurezza al periodo almoravide. Tra quelle che sono state privilegiate rientrano in primo luogo, a causa dell'aridità del clima, le opere di rifornimento idrico, tra le quali si deve ricordare il sistema di distribuzione delle acque mediante un serbatoio e un canale sotterraneo che il sovrano 'Alī fece costruire nella sua capitale maghrebina.
Per i monumenti in terra spagnola, le testimonianze sono poche e quasi sempre alterate da rifacimenti più tardi. In alcuni casi, come il castello di Murcia, resta incerta l'attribuzione al periodo almoravide. Delle moschee che sicuramente la prima dinastia berbera fece erigere in Andalus restano tracce in alcune chiese, come nella Ermita del Castillo (Huelva) e in Santa Maria del Castillo, a Badajoz, costruita sul sito della moschea dell'Alcazar. Nelle sale di preghiera di entrambe, le navate con colonne e/o pilastri erano perpendicolari al muro qiblī e quella centrale, in asse con il miḥrāb, era più larga. Tra le opere di pubblica utilità si possono ricordare il ponte di Guadalajara e, a Granada, la torre di sostegno e il ponte sul Barro, di cui è superstite una sola arcata. Queste opere sarebbero state commissionate da un cadì nel 1051 per collegare il quartiere settentrionale della città con la collina dell'Alhambra.
Assai poco si conosce delle altre attività artistiche e artigianali del periodo almoravide. Certo è che vi furono produzioni di ceramica e di metalli e che i tessuti preziosi continuarono la tradizione degli ateliers califfali, come pure le scatole e i cofanetti d'avorio riccamente scolpiti. Tuttavia in molti casi la datazione di tali oggetti si colloca intorno al sec. 12° e quindi resta incerto se essi si debbano attribuire agli A. o piuttosto agli Almohadi, dal momento che essi sono caratterizzati dallo stile ispano-moresco che con entrambe queste dinastie si è definito e precisato.
Per quanto riguarda la ceramica, risulta da scavi e da raccolte di superficie che fu ampiamente diffusa, soprattutto in Nord Africa, la tecnica di decorazione a stampo sotto invetriatura monocroma, generalmente in varie tonalità, mentre in quantità minore continuavano a essere prodotti oggetti e piastrelle decorati a cuerda seca (antica tecnica di tradizione andalusa in cui il disegno è sottolineato da una sostanza grassa mista a ossido di manganese che evita, a cottura avvenuta, che i colori si mescolino tra loro).
Tra le opere sicuramente riferibili agli A. si collocano alcuni arredi di moschee, in particolare i minbar in legno intarsiato e le porte chiodate e rivestite di metallo. Del 514 a.E./1120 è infatti il minbar della prima moschea al-Kutubiyya di Marrakech, le pareti laterali del quale terminano a gradoni, secondo il modello nordafricano, e sono decorate con nastri intarsiati di legni preziosi e avori che racchiudono spazi poligonali finemente scolpiti con motivi vegetali, seguendo lo schema del minbar di Cordova del 10° secolo. Molto simile è anche il minbar della moschea al-Karawiyyīn di Fez datato al 539 a.E./1144, mentre di stile più austero, con pareti suddivise da semplici riquadri privi di decorazione, è quello della moschea di Nedroma che una iscrizione sulla spalliera, in semplice cufico maghrebino, permette di attribuire a un discendente di Yūsuf b. Tāshufīn. Alla dinastia almoravide si possono riferire anche le porte rivestite di bronzo della moschea al-Karawiyyīn di Fez, le quali sono anche le più antiche opere di metallo ispano-moresche che siano rimaste. La loro decorazione, suddivisa in larghe fasce parallele orizzontali definite da chiodi contigui, ripropone l'intreccio di sottili nastri a rilievo che determinano spazi poligonali e stellari nei quali sono cesellati ornati vegetali. Tra gli oggetti in metallo databili fra la seconda metà del sec. 11° e la prima del 12°, si possono annoverare i cofanetti in argento sbalzato, per es. quello della chiesa di San Isidro a León e quello della cattedrale di Gerona, in uno stile molto prossimo a cofanetti in avorio come quello della cattedrale di Palencia (Madrid, Mus. Arqueológico Nac.) del 1049-1050, ancora nella tradizione califfale. Risentono invece di influenze orientali, sia dall'Egitto fatimide sia, addirittura, dall'Iran orientale, gli acquamanili ornitomorfi, come è evidente negli esempi di Parigi (Louvre) e di Cagliari (Pinacoteca Naz.), i mortai cilindrici ad alette e infine alcune lucerne dal corpo globulare su alto piede con canale sporgente e squadrato e alto collo a tronco di piramide, a volte con ansa zoomorfa.
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