Altavilla
Famiglia normanna di feudatari di Haute-ville-le-Guichard (od. dip. della Manche). Il primo A. di cui si hanno notizie è Tancredi (sec. 10°-11°); alcuni suoi figli emigrarono in Puglia dove, combattendo come mercenari contro i Bizantini, ottennero i territori di Ascoli Satriano e di Venosa, che costituirono la contea di Puglia (1042). Questa, ingrandita dalle successive conquiste di uno di loro, Roberto il Guiscardo, si trasformò in ducato di Puglia e Calabria (1059).
di M. Falla Castelfranchi
La vittoria di Civitate (18 giugno 1053) e il successivo accordo di Melfi (1059) fra Roberto il Guiscardo e il papa Niccolò II sigillarono il riconoscimento e insieme la nascita della dinastia normanna in Italia meridionale, che già a questa data accorti matrimoni - in particolare quello del Guiscardo che sposò in seconde nozze, nel 1058, Sichelgaita, figlia del principe di Salerno Guaimario V - legittimarono attraverso legami di sangue: i Normanni entrarono così ufficialmente nel novero dei prìncipi meridionali.
Dopo le successive conquiste, che diedero carattere stabile alla dinastia, oramai ereditaria, e la morte dei fratelli più anziani, Roberto il Guiscardo e Ruggero I si divisero l'Italia meridionale: la Sicilia e parte della Calabria a Ruggero, gran conte di queste regioni, la Puglia, Salerno e la restante Calabria al Guiscardo, duca di Puglia e di Calabria, titolo che passò al secondo figlio di Ruggero Borsa, il quale mantenne solo quello di duca di Puglia, rinunciando alla Calabria e poi alla Sicilia a favore dello zio.
È dunque a questi due personaggi che appare in gran parte legata la committenza degli A. in Italia meridionale, e in ispecie a Ruggero il gran conte, padre di Ruggero II di Sicilia; le fondazioni a lui attribuite sembrano infatti rientrare in un disegno preordinato, in una trama a maglie fitte che copre soprattutto la Calabria. Qui infatti è ubicato il nucleo più cospicuo di fondazioni sia ecclesiastiche - monastiche e cattedrali - sia a carattere militare (castella e castra).
I primi insediamenti stabili normanni si ebbero però in Basilicata, a Melfi, che rimase uno dei siti favoriti di Roberto il Guiscardo, e a Venosa, i poli principali che costituirono la testa di ponte dell'espansione della potenza normanna in Italia meridionale. Melfi, come era stata Aversa per Rainolfo Drengot, fu quasi rifondata dai dodici figli di Tancredi d'A. che la elessero a capitale. La topografia della città doveva riflettere la struttura politica policentrica (Delogu, 1974; 1979): come riferisce Gugliemo di Puglia (La geste de Robert Guiscard, v., 316 s.), i Normanni vi crearono dodici quartieri, uno per ogni conte, con altrettante strade lastricate e palazzi. Se Melfi è il polo politico, la capitale comune, Venosa - che nella spartizione del 1042 toccò a Drogone, con la chiesa della SS. Trinità, che rappresenta la fondazione ecclesiastica normanna più antica, promossa da Drogone intorno alla prima metà del sec. 11° (consacrata nel 1059 da Niccolò II all'indomani dello storico sinodo di Melfi, dopo aver investito Roberto il Guiscardo del ducato di Puglia, Calabria e Sicilia, quando quest'ultima sarebbe stata conquistata) - è il polo religioso, il pantheon dinastico della prima generazione degli Altavilla. L'abbazia della SS. Trinità di Venosa fu per i Normanni consapevolmente, forse, ciò che Saint-Denis era stata per i re di Francia: monastero anch'esso retto in origine da monaci benedettini di Saint-Evroul-sur-Ouche in Normandia, come altre abbazie benedettine della Calabria legate al Guiscardo e a Ruggero I, conteneva i corpi dei ss. Viatore, Senatore e Cassiodoro e della loro madre Dominata, come a Saint-Denis, dove si venerava appunto il corpo di s. Dionigi.
Fin dalle prime testimonianze architettoniche legate ai Normanni, si delinea così un asse di segno spiccatamente francese che si coglie anche più tardi nel duomo di Acerenza (1085 ca.). Qui la scelta di modi d'Oltralpe, in ispecie il vasto coro con cappelle radiali che rinvia a Cluny III, sembrerebbe quasi inevitabile, se è vero che il progetto reca la firma di Gregorio VII, già monaco a Cluny, e del suo alleato Roberto il Guiscardo (Ciotta, 1983). I legami con il mondo nordico del resto costituirono, nelle fondazioni calabresi connesse con le figure dei più noti fra i fratelli A., il comune denominatore di un gruppo di edifici, sia chiese monastiche sia cattedrali, edificati nell'arco di tempo fra il 1062 e la fine del secolo.
Si tratta innanzi tutto delle chiese abbaziali di S. Maria presso Sant'Eufemia Lamezia, fatta costruire da Roberto il Guiscardo fra il 1062 e il 1065 per la redenzione delle anime dei genitori e dei fratelli morti (Occhiato, 1981) e della SS. Trinità a Mileto, fondata nel 1063-1070 e consacrata nel 1080, committente Ruggero I, fratello minore del Guiscardo. Il piccolo castrum di Mileto, ubicato in posizione strategica a controllo delle vie di accesso verso il Sud, fu fortificato da Ruggero, divenendo via via un'importante città e sede vescovile cui afferirono suffraganee di ben più antica origine: furono costruiti la cattedrale, il palazzo comitale, dimora di Ruggero, la cappella di S. Martino, mentre altro polo religioso fu l'abbazia della SS. Trinità, uno dei monumenti più significativi dell'Italia meridionale. Tracce archeologiche e antichi disegni hanno permesso di ricostruire la pianta dell'edificio, assai vasto, in cui compare per la prima volta in Italia meridionale, in aggiunta alla chiesa abbaziale di Sant'Eufemia, il coro cluniacense (Occhiato, 1978a), elemento trasmesso a un notevole gruppo di edifici della Calabria (e della Sicilia), legati alla committenza di Ruggero I: le cattedrali di Mileto e di Gerace, probabilmente anche la distrutta cattedrale di Reggio Calabria, costruita forse sotto il secondo vescovo latino della città (Occhiato, 1979-1980), il normanno Guglielmo (1082-1089), e ancora le principali cattedrali siciliane e alcune chiese monastiche come per es. Bagnara, fondata da Ruggero I nel 1082-1083 e protetta da Roberto il Guiscardo (Ménager, 1959, p. 63 ss.). Insieme con la chiesa abbaziale di Mileto, quella di Sant'Eufemia svolse dunque un ruolo di significativa rilevanza nella trasmissione di modelli transalpini in Italia meridionale, specificatamente in Calabria e Sicilia. Il posto occupato dalla SS. Trinità di Mileto è però ancor più rilevante se si tiene conto di due importanti aspetti, il reimpiego di materiale di spoglio - colonne e capitelli soprattutto - e il ruolo di mausoleo dinastico del ramo calabro-siculo degli A. distinto dal polo venosino. Circa il primo punto, l'osservazione sarebbe quasi ovvia se non si trattasse di un'impresa avviata in contemporanea, se non probabilmente con qualche anticipo, rispetto a quella cassinese (il cui inizio dei lavori si data intorno al 1066) e che costituì un altro degli elementi agglutinanti della politica culturale normanna in quest'area. L'uso sistematico dello spoglio sottende però, se legato all'autorità, significati che vanno ben al di là del mero fatto utilitaristico o di tipo intellettuale, legato cioè a una visione dell'antico come modello, per rientrare nella categoria della legittimazione del potere (Esch, 1969), sublimato poi dal reimpiego di sarcofagi antichi come sepolture. Ciò si ricollega al secondo punto evidenziato, il carattere di sepoltura dinastica del monumento. Addossata al muro perimetrale destro della basilica era infatti la tomba di Ruggero I (m. 1101), sepolto in un grande sarcofago romano tardo-imperiale oggi conservato nel Mus. Archeologico Naz. di Napoli, nel quale i frontoni laterali del coperchio sono decorati da una croce che venne a sostituire il volto di una gorgone.
Del monumento sepolcrale faceva probabilmente parte un architrave di porfido decorato con maschere antropomorfe, reimpiegato come gradino d'altare nella cattedrale di Nicotera: si tratta di un pezzo pertinente al baldacchino anche per le cogenti affinità con la trabeazione del baldacchino di Federico II (Palermo, cattedrale), che riutilizzò per sé come tomba uno dei due sarcofagi di porfido di Ruggero II a Cefalù (Faedo, 1982). Nella chiesa erano inoltre sepolti la seconda moglie Eremburga, morta a Mileto nel 1090, e il figlio Simone (m. 1105).
Riutilizzo di materiali antichi e uso del porfido per la sepoltura, a sigillare doppiamente la regalità del potere normanno, ma insieme forme d'Oltralpe per l'architettura, coniugate con la classica forma basilicale, fanno della SS. Trinità di Mileto un monumento chiave, un esempio di quel sincretismo che caratterizzò la politica culturale di Ruggero II, figlio di Ruggero I.Contemporaneamente le abbazie benedettine calabronormanne nei loro rapporti stretti, storici e formali, con il mondo transalpino, costituirono un'alternativa tutta normanna a quel grande evento che segnò la storia meridionale nel sec. 11°, cioè la consacrazione della basilica di Montecassino nel 1071.
L'edilizia religiosa, monastica e non, dell'Italia meridionale, non è rappresentata solo da Montecassino post 1071, come fu soprattutto per Campania e Abruzzo. Il 1071 in casa normanna è anche e soprattutto la conquista di Bari e con essa, virtualmente, di tutta l'Italia meridionale bizantina. Le scelte culturali della prima generazione normanna, nonostante Ruggero I e Roberto il Guiscardo (e quest'ultimo in particolare) siano stati freneticamente impegnati in imprese belliche ambiziose - almeno in Calabria, regione chiave anche per quello che fu uno degli obiettivi principali, cioè la conquista della Sicilia - appaiono chiare. Gli stretti legami con la terra d'origine mantenuti dagli uomini, laici e religiosi, e manifestati dalle tipologie d'importazione, fanno di questa regione quasi un'altra Normandia: tutto ciò nel rispetto di una realtà locale dalle tante sfaccettature. Qui il modello per le abbazie benedettine come pure per alcune cattedrali non fu Montecassino e anzi i modelli d'Oltralpe influenzarono l'architettura di alcuni fra i più noti monasteri italo-greci della Calabria, per es. S. Giovanni Vecchio a Bivongi, dove l'impiego del laterizio, come in altri monasteri e chiese di rito greco, rispetto al concio ben squadrato dei monasteri e delle cattedrali normanne, diventa quasi la cifra che distingue le opere edilizie legate alle comunità italo-greche da quelle di rito latino.
Gli scarni frammenti plastici, in gran parte erratici, che la tradizione attribuisce ad alcune fondazioni normanne, per es. il capitello a stampella conservato nel cortile del palazzo vescovile di Mileto e forse proveniente dalla SS. Trinità (Occhiato, 1978b) e ancora lo straordinario elemento plastico (forse parte di un lettorino di ambone) oggi reimpiegato come base di acquasantiera nella chiesa del Rosario a Bagnara Calabra attribuito all'abbazia di S. Maria e dei Dodici Apostoli, di fondazione ruggeriana (Cielo, 1977; Zinzi, 1988), sembrano rinviare invece a orizzonti pugliesi.
Emerge così, anche attraverso questa pur rapida analisi, la personalità di Ruggero I, di cui le fonti sottolineano il ruolo di protettore dei cristiani per le vittorie sugli arabi di Sicilia (Delogu, 1974) in confronto per es. allo stesso Roberto il Guiscardo, di cui si percepisce e si esalta soprattutto la dimensione eroica. Equanime anche l'atteggiamento di Ruggero I verso le comunità italo-greche. Ridimensionato in seguito a recenti studi il fenomeno della latinizzazione dei monasteri italo-greci da parte dei Normanni (Falkenhausen, 1977), si dovrebbe piuttosto distinguere fra ambito monastico ed episcopale: infatti il processo di Rekatholisierung interessò soprattutto le diocesi, e le diocesi di Calabria in particolare, la terra più greca dell'Italia meridionale, dove le metropolie di Reggio Calabria, Rossano e Santa Severina con le loro suffraganee dipendevano direttamente da Bisanzio. L'atteggiamento verso i monasteri italo-greci fu più aperto, sembra, da parte di Ruggero I come della moglie Adelaide del Vasto, di cui le fonti ricordano per es. l'amicizia con Luca da Melicuccà e Bartolomeo di Simeri, fondatore presso Rossano del Patirion, monastero protetto da Adelaide (Pontieri, 1955).
Emerge anche il ruolo della Calabria normanna nell'ambito delle altre regioni dell'Italia meridionale da essi conquistate, nelle quali la presenza normanna, almeno in campo culturale, non sembra essere stata così incisiva. Il caso di Salerno per es., lasciando da parte la fondazione di Aversa a opera del Drengot, esponente di un'altra famiglia normanna, è forse paradigmatico. Salerno era una delle residenze normanne: era legata al Guiscardo e al figlio Ruggero Borsa, che è sepolto nella cattedrale, all'ombra del padre, in vita come nella morte. Pure se il nome del Guiscardo riecheggia sul frontone della chiesa, a imitazione delle iscrizioni dedicatorie negli edifici classici e sulle lapidi che ricordano, al marzo 1081, la deposizione di alcuni corpi santi nella cripta, si tratta di un progetto di Alfano di cui il normanno si era appropriato (Delogu, 1979, p. 187 ss.): l'iscrizione inoltre si potrebbe datare non al 1081 (Delogu, 1979, p. 189 ss.), in riferimento cioè alla sconfitta inflitta dal Guiscardo ad Alessio Comneno a Durazzo (in realtà la città capitolò solo agli inizi del 1082 e il Guiscardo dall'anno precedente era impegnato su questo fronte), bensì dopo il maggio 1084, in occasione della presa di Roma, data che coincide grosso modo con la consacrazione della cattedrale.
La situazione appare più complessa in Puglia, dove in realtà al Guiscardo le fonti attribuiscono ufficialmente soprattutto la costruzione di fortificazioni. Qui del resto l'episcopato latino era preponderante, con l'eccezione di parte del Salento, e le costruzioni delle cattedrali avviate nella seconda metà del sec. 11° sembrano legate piuttosto all'autorità religiosa (Falkenhausen, 1986). Il Guiscardo viene ricordato nell'Exultet della cattedrale di Bari insieme con la moglie Sichelgaita e il figlio Ruggero: quest'ultimo, duca di Puglia alla morte del padre (1085), cedette Bari e quasi tutta la Puglia al fratello Boemondo, più tardi principe di Antiochia. I due fratelli, presenti alla consacrazione da parte di Urbano II nel 1089 della basilica di S. Nicola, non sono però ricordati come committenti dell'opera, né della nuova cattedrale che poco dopo si iniziava a costruire. In Puglia ai conti normanni è piuttosto legata la costruzione di edifici di culto, in ispecie monasteri: per es. a Goffredo di Conversano S. Maria a Nardò, S. Maria Veterana a Brindisi (Poso, 1986, p. 150 ss.) e altri ancora, mentre al figlio minore del Guiscardo, Roberto, è attribuita la cattedrale di Monopoli (Belli D'Elia, 1985). Un secolo più tardi Tancredi d'A. conte di Lecce, futuro re di Sicilia, fondò a Lecce il monastero dei Ss. Niccolò e Cataldo. E così è per il signore di quasi tutta la Puglia, Boemondo I principe di Antiochia, uno dei capi carismatici della prima crociata e primo figlio del Guiscardo (il cui erede fu però Ruggero Borsa, nato dalle nozze con la seconda moglie Sichelgaita), al quale ufficialmente non sono ricondotte imponenti opere edilizie, in ispecie nel campo dell'architettura religiosa. Egli è forse connesso con la fondazione del monastero italo-greco di S. Nicola di Casole presso Otranto, uno dei più importanti foyers di cultura greca del Salento in ispecie nel sec. 13°, costruito intorno al 1098-1099 (Poso, 1986): in ogni caso i nomi di Boemondo, della moglie Costanza di Francia e dei loro discendenti sono inseriti nelle note obituarie del necrologio casulano. Il nome di Boemondo evoca subito, in terra di Puglia, il suo mausoleo, che si addossa alla cattedrale di Canosa. È un monumento enigmatico, forse un cenotafio (non si sa nulla sugli ultimi tre anni di vita dell'eroe normanno, né dove morì né dove fosse la sua residenza, forse a Bari), quadrangolare, con cupola che si innesta su uno pseudotamburo ottagonale, tutto ricoperto di marmo. Ne sono note la porta bronzea, le iscrizioni che inneggiano alle sue imprese, incise sia sulle ante della porta sia sul tamburo e che si svilupparono probabilmente sulla falsariga dell'epitaffio del padre Roberto il Guiscardo nella SS. Trinità di Venosa, con un intento del meraviglioso che manca a quest'ultimo, più aulico e contenuto (Falla Castelfranchi, 1982-1983), e ispirato a modelli orientali, probabilmente siriaci (nei luoghi boemondei della Siria del Nord non mancano edifici analoghi).
Parlare del mausoleo di Boemondo è parlare della cattedrale di Canosa e delle sue vicende, in ispecie del problema della sua collocazione cronologica. Sulla base della presenza dell'ambone di Accetto, scultore attivo nella Puglia settentrionale a partire dal 1040 ca., è stata anticipata la datazione di questo edificio, tradizionalmente assegnato allo scorcio del sec. 11°, alla prima metà dello stesso secolo (Venditti, 1963-1964; Alle sorgenti del Romanico, 1975). Oltre ad apparire obiettivamente difficile ancorare un'impresa architettonica di questa portata a un oggetto di arredo qual è l'ambone, si deve inoltre tenere conto di alcune evidenze, soprattutto storiche. Nella prima metà del sec. 11° infatti mancavano i presupposti storici a garanzia di una tale operazione: il periodo coincide con il momento in cui si registra la prima apparizione dei Normanni nella Puglia settentrionale, in sincronia con la crisi della dominazione bizantina in quest'area. Al contrario, il legame con il mausoleo di Boemondo indica, al pari di un documento scritto, nel figlio del Guiscardo il vero committente dell'opera, la quale si carica di precisi significati a seguito delle vicende che si verificarono dopo il secondo matrimonio del Guiscardo con la principessa longobarda Sichelgaita. Boemondo infatti, figlio della prima moglie, la normanna Alberada, l'unico tra i figli del duca di Puglia a seguire le orme paterne nella vocazione alle imprese più audaci fino all'impossibile (impadronirsi dell'impero bizantino era infatti il sogno del Guiscardo, ma fu Boemondo a perseguirlo tenacemente almeno fino all'accordo di Deabolis del 1108 con Alessio Comneno, che vide ineluttabilmente infrangersi lo scopo della sua vita), fu escluso dall'eredità paterna a favore del secondo figlio, Ruggero Borsa. La fondazione della nuova cattedrale di Canosa, la sede vescovile più prestigiosa della Puglia settentrionale, rientrava in un preciso disegno che reca la firma di Boemondo d'A., fare cioè di Canosa un polo alternativo alla pur vicina Venosa, dove riposavano i corpi del padre, della madre Alberada (m. 1122 ca.) e degli zii (Falla Castelfranchi, 1982-1983). Ciò è sigillato dalla presenza appunto del suo mausoleo non a Venosa: un mausoleo che non era una semplice tomba ad arcosolio come quelle dei primi Normanni e del Guiscardo stesso nella SS. Trinità (Herklotz, 1985), bensì un edificio autonomo, aulico, denso di simbologie, in cui confluivano esperienze diverse, ma purtuttavia unitario negli esiti. È inoltre da tener conto che il vescovo Ursone, "il più canosino degli arcivescovi di Bari" (Falkenhausen, 1986), era stato insediato a Canosa su intervento personale del Guiscardo, da Rapolla in Basilicata, dove l'antica cattedrale di S. Lucia, probabilmente fondazione normanna anch'essa (Mongiello, 1964), presenta alcuni elementi che ritornano nella cattedrale di Canosa, per es. il tipo di cupola a sezione ellittica.La costruzione della cattedrale di Canosa cade dunque nell'ordito di una trama intessuta dallo stesso Boemondo il cui filo più prezioso è il mausoleo, la firma autografa cioè di un progetto che acquietava in parte, insieme con la sua partecipazione alla crociata, le ambizioni frustrate di un grande personaggio.
Dopo la morte del padre, Boemondo mosse guerra al fratello Ruggero Borsa e ben presto quasi tutta la Puglia, fra il 1086 e il 1089, fu in suo possesso: il principato di Antiochia, che nel 1099 gli toccò per essere stato il primo fra i crociati a espugnare la città e che divenne ereditario, aumentò il suo prestigio. Con il vescovo Ursone, fedele ai Normanni, portò avanti il progetto della sua cattedrale non a Bari, la cui sede vescovile proprio in quegli anni subentrava a Canosa nel ruolo di diocesi-guida della Puglia settentrionale, ma a Canosa. L'antichità della città e della sua diocesi garantiva forse il desiderio di affermazione e legittimazione personale del normanno: il vescovo Ursone si poneva come il continuatore di s. Sabino, il grande vescovo di Canosa del sec. 6°, il cui corpo dal sec. 9° riposava in questo sito e Boemondo si fece seppellire presso la cattedrale dedicata al santo. Il signore di Bari, titolo che gli competeva dal 1089 (Codice diplomatico barese, I, nr. 33) - in realtà il vero signore di Bari era il vescovo - scelse Canosa per la sua cattedrale e il suo mausoleo: Bari però era stata espugnata dal padre e nell'antico Exultet della cattedrale erano stati aggiunti il nome del Guiscardo, della seconda moglie e di Ruggero Borsa (Cavallo, 1973, p. 49 ss.), non il suo.
Il legame fra il mausoleo di Boemondo e la cattedrale di Canosa apre pure un nuovo capitolo all'interno dei rapporti fra le sepolture dinastiche e l'edificio di culto. Fino a quel momento infatti i primi Normanni avevano nella SS. Trinità di Venosa e nella SS. Trinità di Mileto, entrambe monasteri benedettini, le loro tombe dinastiche, come in Francia e nella stessa Bisanzio, dove a partire dal 1028 gli imperatori non si facevano più seppellire nei Ss. Apostoli bensì in monasteri da essi fondati (Grierson, 1962). Si inaugura dunque con Boemondo e contemporaneamente, seppure in modo più sfumato, con il fratello Ruggero Borsa, anch'egli morto nel 1111 e sepolto nella cattedrale di Salerno in un antico sarcofago, una nuova linea che lega la tomba dinastica alla cattedrale, l'edificio più significativo cioè della città medievale, linea perseguita ed enfatizzata dai re normanni di Sicilia. La svolta impressa da Boemondo in questo settore a sua volta si ispirò, in ambito meridionale, a una antica tradizione che registrava la presenza delle tombe di alcuni vescovi nelle cattedrali e poi a partire da Arechi II (m. 787) di molti duchi e principi longobardi, come a Salerno, Benevento, Isernia.
Il caso della cattedrale di Canosa emerge quindi come particolarmente significativo per la complessità dei suoi aspetti e dei suoi significati anche ideologici e per gli stretti legami con Boemondo d'Altavilla. Certo, molti problemi rimangono tuttora aperti, non ultimo il contenzioso circa il primato della sede arcivescovile di Bari su quella di Canosa, che si fa risalire proprio alla fine dell'11° secolo. Facendosi seppellire presso la cattedrale di Canosa il signore di Bari, Boemondo, implicitamente riconosceva ancora a Canosa la supremazia su Bari.
In definitiva in Puglia il ruolo degli A., nella fattispecie di Roberto il Guiscardo e dei suoi figli, con l'eccezione del caso di Canosa, non sembra così incisivo, almeno per ciò che riguarda la promozione di edifici di culto visti anche come manifesto di propaganda politica: è ai conti pugliesi di origine normanna che è in parte legata la fondazione di chiese e monasteri. Manca cioè, in linea generale, un disegno preciso, come si può rintracciare in Basilicata e soprattutto in Calabria, fatto imputabile, per quanto riguarda in particolare le cattedrali, alla preminenza del clero latino, legato a Roma, come per es. a Bari, dove il clero greco era poco numeroso (Falkenhausen, 1986). In Puglia infatti i veri fondatori delle cattedrali fra il sec. 11° e 12° furono i vescovi.
In questo vivo quadro, dove la strategia dell'insediamento non segue un modello standard ma si adegua alle tante realtà meridionali, il messaggio politico e culturale normanno appare affidato a un medium quale l'architettura, come fu più tardi al mosaico nella Sicilia di Ruggero II.
Il problema è se si può dunque parlare di arte normanna. Per quanto riguarda la Lucania e soprattutto la Calabria la risposta dovrebbe essere positiva. Si è visto infatti come le fondazioni di Roberto il Guiscardo e Ruggero I, sia cattedrali sia monasteri, abbiano adottato uno schema architettonico che ricalcava nostalgicamente modelli di origine transalpina, sia pure con certe modifiche. Queste costruzioni, e in ispecie quelle più imponenti, per es. la SS. Trinità di Mileto, in origine certo rappresentarono il diverso rispetto all'architettura locale di tradizione bizantina: si pensi per es. al S. Marco di Rossano o alla Cattolica di Stilo, edifici cioè che per le limitate dimensioni e la tipologia riflettevano appieno la coeva architettura mediobizantina.
L'illusione di creare in queste terre un habitat, se non altro monumentale, il più vicino possibile a quello della loro terra d'origine, fu accentuata dall'arrivo del nutrito gruppo di monaci benedettini di Saint-Evroul-sur-Ouche: la montuosa Calabria, seppure fisicamente diversa, diventava via via un'altra Normandia. Questo progetto fu reso possibile anche per la diversa situazione - per es. rispetto alla Puglia - delle sedi episcopali, le più importanti delle quali erano, al momento della conquista, bizantine. Non è un caso se, nel processo di latinizzazione delle diocesi, che iniziava appunto in questo periodo, spesso i vescovi furono normanni o almeno filonormanni e alcune diocesi come Mileto nacquero in relazione alla loro crescente importanza sotto i Normanni.
In Lucania invece fu proposta, almeno per due fondazioni (Acerenza e l'incompiuta di Venosa), una formula architettonica diversa rispetto a quella calabrese (Cluny II), cioè il vasto coro con cappelle radiali (Cluny III), di ascendenza transalpina, a conferma della volontà di trapiantare in queste terre una realtà monumentale a loro familiare.È questo dunque l'universo normanno, un caleidoscopio multiforme e rutilante: per ogni regione una diversa realtà, ma un unico grande progetto.
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di M. Andaloro
Ruggero d'A., dapprima in collaborazione con il fratello Roberto il Guiscardo, alla sua morte (1085), da solo condusse a termine nell'arco di un trentennio (1061-1091) la conquista della Sicilia. Quando nel gennaio del 1072 Palermo dopo un lungo assedio si arrese, erano in mano dei Normanni il Val di Mazara e il Val Démone, mentre continuava a essere territorio dell'Islam il Val di Noto, con le inespugnate Castrogiovanni e Girgenti. Ruggero perfezionò via via la conquista della Sicilia occidentale (1072-1076), della Sicilia orientale (1078), concentrò le sue forze nel Val di Noto, assediò Siracusa e l'espugnò (1087).
Nel 1091 con la caduta delle ultime roccaforti islamiche di Noto e Butera, tutta l'isola - emirato prima aghlabide, successivamente fatimide e kalbita - si saldò alla terra di Calabria, costituendo la contea di Sicilia, che Ruggero governò con saggia mitezza dalla prediletta base di Mileto dove si spinse nel 1101 (Goffredo Malaterra, De Rerum Gestis Rogerii; Chalandon, 1907).
Reggente per il figlio Simone che morì nel 1105, poi per Ruggero, la vedova Adelasia del Vasto predilesse come sede permanente della corte e dell'amministrazione centrale la città di Messina, ma, spinta da opportunità politiche e attratta dal fascino di quella che era stata per più di due secoli la capitale dell'emirato e che era ancora la più straordinaria città della contea, fissò la capitale a Palermo.
È assai probabile che l'insediamento ufficiale sia avvenuto nel 1112. Di certo, l'ultimo atto della reggenza di Adelasia è il documento del 2 giugno di quell'anno, redatto a Palermo "in talamo superius castri" (Pontieri, 1955).
Scegliendo di dimorare nel palazzo a ridosso del tratto meridionale delle mura, Adelasia e il giovanissimo conte Ruggero favorirono l'inversione di tendenza dell'asse urbano rispetto alla Palermo d'epoca islamica, gravitante piuttosto attorno ai quartieri settentrionali, a corona del golfo e del Castellamare (Andaloro, 1989).
Durante tutto il periodo del regno normanno (1130-1194), il cuore della città rimase saldamente ancorato al palazzo reale, al quartiere del Cassero alto e degli altri vicini, e si espanse nella Conca d'oro (Ugo Falcando, Liber de Regno Siciliae; 1191) dove, a opera di Ruggero II (1130-1154), Guglielmo I (1154-1166) e Guglielmo II (1171-1189), sorsero poi le dimore e i padiglioni di Maredolce o Favara, Scibene, Zisa, Cuba, Cuba soprana, Altomonte, Monreale: parchi e palazzi che cingono Palermo "come i monili cingono i colli delle ragazze" (Ibn Jubayr, Viaggio; 1184).
Di fatto, è questa progressiva espansione a S, nell'opulenta fascia extraurbana, il più vistoso e stupefacente impulso impresso dalla dinastia normanna alla città rimasta peraltro fondamentalmente araba nell'assetto urbanistico e nel tessuto edilizio al di là delle nuove emergenze monumentali, da S. Giovanni dei Lebbrosi, a S. Giovanni degli Eremiti, a S. Maria dell'Ammiraglio.
Fino alla totale rifondazione promossa dall'arcivescovo Gualtiero Offamilio, continuò a fungere da cattedrale il vetusto edificio menzionato da Gregorio Magno, riconvertito all'indomani della conquista della città (1072) da moschea a cattedrale (Goffredo Malaterra, De Rerum Gestis Rogerii), dotata da Ruggero, negli anni 1129-1130, di due nuove cappelle, della Incoronazione e della Maddalena (Di Stefano, 1955), ricca di decorazioni e di immagini (Andaloro, in corso di stampa) e, comunque, agli occhi di al-Idrīsī (Opus geograficum; 1154), colma di richiami islamici, per i "motivi ricchi di estro e di fantasia, i fregi dorati e gli intrecci calligrafici". Ancora sul declinare del regno normanno, Ibn Jubayr vide una città splendida, vivace, fitta di moschee, di mercati, simile a Cordova: in una parola, una città islamica. E tratti islamici legati alla toponomastica e alle componenti etniche sono evidenti nelle miniature del Liber ad honorem Augusti di Pietro da Eboli (miniature della particula II: Obitus W(illelmi) secundi e della particula III: Lamentatio et luctus Panormi).
Tuttavia, non era la città l'organismo al centro della politica culturale dei Normanni, né durante i decenni del regno, né prima. Invero, nel tempo più fertile per la messa a punto dei progetti globali, nel periodo della contea, più che una vocazione urbana si perseguiva il disegno di un riassetto territoriale, quanto mai necessario dopo lo sconvolgimento apportato dalla dominazione islamica e teso alla ridefinizione della maglia diocesana, al consolidamento e all'incremento degli insediamenti monastici.
Man mano che cadevano le varie città, Ruggero e Roberto si adoperavano a fondarvi le cattedrali: da Troina - la prima della nuova diocesi - a Catania, Messina, Mazara (Di Stefano, 1955); spinti da grande finezza politica, Ruggero, il gran conte, la moglie Adelasia e il figlio Ruggero, come attestano documenti (Goffredo Malaterra, De Rerum Gestis Rogerii; Scaduto, 1947) e monumenti (Di Stefano, 1955; Ciotta, 1975), si mostravano inesauribili e magnanimi protettori di abbazie basiliane, specie nel Val Démone. S. Michele di Troina (1092), S. Angelo di Brolo (1084), S. Filippo di Demenna (1090), S. Maria di Mili (1090), S. Salvatore di Placa (1092), S. Pietro d'Itàla (1092), S. Giovanni dei Greci in Messina (1092), S. Elia di Ebula (1094), S. Nicandro di S. Nicone presso Messina (1093), S. Maria di Mandanici (1100), S. Filippo di Messina (1100), S. Maria di Massa (1090), S. Gregorio presso Gesso (1101) sono solo i principali monasteri del Val Démone, territorio che ne contempla almeno trenta, da aggiungere alla lista delle altre numerose fondazioni sparse nel resto della Sicilia per un totale superiore (Scaduto, 1947) rispetto alle sessantotto unità elencate da White (1938). È questo, della salvaguardia e dello sviluppo dell'elemento greco, un processo che culmina con la costituzione nel 1130 dell'archimandritato a Messina. Il nuovo monastero, che Ruggero II era intento a far costruire, sanciva a sua volta un'attenzione mai venuta meno da parte del figlio del gran conte e di Adelasia nei confronti dei basiliani, come attesta per es. la fondazione della chiesa dei Ss. Pietro e Paolo della vallata di Agrò (presso Casalvecchio Siculo), verso il 1116 (Di Stefano, 1955).
Di contro alla dovizia delle fabbriche basiliane del primo periodo della contea, dovute in massima parte ai reggenti, erano solo quattro le abbazie benedettine: Lipari (1085), Catania (1091), Patti (1094) e S. Maria della Scala a Messina (White, 1938); ma alla fine del regno normanno il rapporto di forze appare profondamente mutato poiché, nel frattempo, sul suolo siciliano erano sorti non meno di cinquanta fra abbazie e priorati latini, di fondazione per lo più privata (White, 1938; Scaduto, 1947).
Da questo panorama scaturisce uno scacchiere di situazioni e occasioni predisposte a incanalare e accogliere senza sbavature i supporti di una cultura architettonica già, agli inizi, profondamente divaricata nelle sue componenti e nei suoi modelli.
Dalla fonte benedettina, fin dal principio, duplice - cassinese e cluniacense - mosse intorno al 1080 la prima architettura normanna in Sicilia. L'impronta 'latino-nordica' (Di Stefano, 1955) è visibile nello sviluppo del transetto, sia in pianta, sia in alzato, nella tendenza a raddoppiare il transetto (cattedrale di Catania), nel sovrastare delle masse presbiteriali e nella presenza di torri ai lati della facciata (cattedrale di Mazara; Di Stefano, 1955).
Componenti bizantine, miste alle latine, si intrecciano nelle fondazioni basiliane, caratterizzate all'esterno da una tessitura muraria con pietre e mattoni legati da spessi strati di malta (S. Maria a Mili San Pietro, S. Pietro a Itàla, Ss. Pietro e Paolo ad Agrò), mentre una terza componente, l'islamica, variamente riconoscibile ora nell'apparecchio murario ora nella struttura delle cupolette su nicchie, è presente indifferentemente tanto nel gruppo delle cattedrali quanto nelle chiese basiliane.
Undecumque terrarum erano per Malaterra i caementarii; più verosimilmente provenivano dalle terre dell'Italia meridionale (Di Stefano, 1955), normanne da circa mezzo secolo e dove contemporaneamente era in atto un'intensa attività architettonica promossa dai personaggi di spicco della dinastia degli Altavilla. Tuttavia, insieme ai caementarii allogeni, non può trascurarsi la partecipazione degli artefici locali, specie nei contesti dove sono più forti le componenti islamiche.
Nel 1130 l'antipapa Anacleto II concedeva a Ruggero II e ai suoi eredi la dignità regia per Sicilia, Calabria e Puglia. L'inconorazione ebbe luogo il 25 dicembre nella cattedrale di Palermo. A distanza di un decennio (1139) Innocenzo II, il grande avversario di Ruggero, riconosceva ufficialmente il regnum e confermava all'Altavilla il titolo di "rex Siciliae ducatus Apuliae et principatus Capuae", con l'obbligo che la residenza della corte fosse mantenuta in Sicilia (Tramontana, 1980).Personalità storica di spicco, Ruggero II avviò il processo volto alla scelta dei media figurativi, all'elaborazione delle valenze ideologiche e simboliche che erano destinate ad attraversare l'intera esperienza artistica della Sicilia normanna. A quel processo egli conferì un impulso vigoroso, non immune da chiaroscurate sottigliezze strategiche, e lo consegnò con una sorta di imprimatur indelebile ai suoi successori: Guglielmo I (1154-1166) e soprattutto Guglielmo II (1171-1189), alla morte del quale era destinata a chiudersi una parabola della durata di sole tre generazioni.
All'indomani della promotio regia, i segni monumentali che inaugurarono la politica culturale di Ruggero II furono la fondazione nel 1131 della Cappella Palatina, all'interno del palazzo reale, e della cattedrale di Cefalù.
Tuttavia, è solo nel decennio successivo (1140-1150) che emersero e si definirono le molteplici sfaccettature di un piano volto a comunicare attraverso l'uso sapiente di sistemi visivi il raggiungimento della regalità e la sua legittimazione.
Nella costruzione di tale paesaggio figurativo, caratterizzato dalla speciale attitudine ad addensarvi universi semantici, compete a Ruggero una non eliminabile funzione di centro-motore. Chiave di volta del sistema è il suo carattere sincretico, basato sull'uso di binari espressivi audacemente combinati insieme.
Elementi dalle valenze occidentali, bizantine e islamiche coesistono nei nuclei monumentali in una visione spesso di tipo sommatorio: potrebbe dirsi, stratigraficamente. Il caso più eloquente è rappresentato dalla Cappella Palatina, frutto della giustapposizione di due schemi diversi - longitudinale d'impianto latino nella parte occidentale e centrale con cupola di radice orientale nel santuario -, con caratteri bizantini prevalenti nella flessione stilistica e nell'impaginazione iconografica dei mosaici e infine vitalizzata da quel macroscopico inserto islamico che è lo stupefacente soffitto della navata centrale e delle laterali.L'autopresentazione iconica di Ruggero è perentoria e univoca. Nelle vesti e nelle insegne proprie del basileus - divitision, loros, labaro, globo - egli compare nelle monete (Engel, 1882; Spahr, 1976) e nei sigilli (Engel, 1882), nel pannello musivo della chiesa di S. Maria dell'Ammiraglio (ante 1151) e nella placchetta della basilica di S. Nicola a Bari. Nel mosaico e nello smalto Ruggero viene incoronato, nel primo direttamente da Cristo, nel secondo dal santo di Mira.
E tuttavia l'immagine di basileus, sottratta di peso dall'universo della rappresentatività bizantina, in sé coerente e senza smagliature lessicali, è calata nel pannello di S. Maria dell'Ammiraglio all'interno di un orizzonte che è 'da manifesto politico'. Nella visualizzazione del tema a Deo coronatus si oscilla sapientemente fra 'forme' bizantine e significati che nel processo rappresentativo globale subiscono una deviazione rispetto ai canoni originari, a uso e consumo di nuove attuali esigenze. Accade dunque che l'immagine 'bizantina' si salda a una concezione figurale che non è affatto bizantina, ma di squisita ascendenza occidentale (Kitzinger, 1950).
Non diversamente nella Cappella Palatina i mosaici ruggeriani della cupola e del presbiterio, che sono da annoverare per timbro stilistico e impaginazione iconografica nel corpus della pittura bizantina fuori dei territori di Bisanzio, ruotano intorno a un filo conduttore sui generis. Nella regìa del piano generale l'arrangiamento delle scene, l'enfatizzazione degli episodi cristologici legati ai temi reali dell'Adventus e dell'Occursio - Presentazione al Tempio, Fuga in Egitto, Ingresso a Gerusalemme -, la presenza di una mirata rosa di santi - militari e non -, la variatio nella sequenza, il sottile gioco condotto intorno al rapporto scena-figura e ubicazione si consuma un flagrante scarto nei riguardi degli schemi canonici del mondo bizantino per puntare su un progetto orchestrato sul registro dell'equivalenza fra Cristo e la persona del re e costruito attorno alla costituzione di un asse regale, che ha il suo punto di stazione e di fruizione nella loggia che si ha ragione di ipotizzare situata sulla parte settentrionale del transetto (Kitzinger, 1949; 1950).
Basileus nella definizione iconica di sé, protagonista e destinatario del piano regale della Palatina, nella scelta degli attributi verbali che lo riguardano, Ruggero tende ora a rafforzare tale immagine, ora ad arricchirla di nuovi connotati.
Si autodefinisce "re scettropossente" nell'iscrizione alla base della cupola della cappella (1143): "Altri sovrani di un tempo eressero altri luoghi venerandi ai santi. / Io, invece, Ruggero re scettropossente al primo dei discepoli del Signore..." (Rocco, 1983). Tutto il testo risulta essere se non un vero e proprio calco, una variante assai prossima della lunga iscrizione dedicatoria di Giustiniano e Teodora nella chiesa dei Ss. Sergio e Bacco a Costantinopoli (Demus, 1949). In particolare Giustiniano è σϰηπτοῦχοϚ (Mercati, 1925) laddove Ruggero è σϰηπτοϰϱάτοϱ.
Ugualmente, un anno prima nella lapide commemorativa dell'orologio ad acqua (1142), tuttora esposta sulla parete vicina alla Palatina, Ruggero nella redazione greca è qualificato "il potente signore re, scettropossente per mano di Dio" (Rocco, 1983); infine Filagato da Cerami conclude l'Omelia XXVII pronunziata nella cappella alla presenza dello stesso sovrano, augurando "che sia conservato il potere del nostro pio basileus [...]. A lui conservi lo scettro [...] Colui che gli ha dato il potere, Cristo". Structor è invece l'inaspettato attributo di Ruggero nella lunga iscrizione dedicatoria della cattedrale di Cefalù (1148). Non un semplice committente, dunque, ma il responsabile, progettista si direbbe, del piano totale dell'opera (Andaloro, 1982), secondo un profilo modellato, forse, sulla figura di Giustiniano la cui fama di costruttore di Santa Sofia restò viva per tutto il Medioevo.
Non c'è dubbio che nello statuto culturale che il regno di Sicilia si andava costruendo, dunque, il travaso dalle forme bizantine è grande specie nelle articolazioni sottese alla simbologia del potere. L'immagine di Ruggero II è coniata su quella del basileus; nella diplomatica regia viene introdotto l'uso dell'inchiostro purpureo (Chalandon, 1907); il re sottoscriveva i documenti in greco; in greco erano quasi sempre le leggende dei sigilli (Giunta, 1950) e le formule con attributi regali (Kantorowicz, 1946).
Anche nella monetazione, dopo la promulgazione del regno, si assiste alla conversione dall'arabo al greco (Spahr, 1976), per non dire delle "vicende di libri e di testi fra Palermo e Bisanzio" (Cavallo, 1982, p. 542), culminati nella Cronaca di Giovanni Skylitzes (Madrid, Bibl. Nac., Vit. 26-2), libro monumentale e "strepitoso" (Cavallo, 1982, p. 559), ricco di ben 574 illustrazioni (Grabar, Manoussacas, 1979), che ragioni di carattere paleografico fanno ritenere scritto a Palermo nel terzo quarto del sec. 12° (Ševčenko, 1984), esemplato su un modello di origine constantinopolitana (Cavallo, 1982), a meno che, secondo la tesi di Ševčenko (1984), non sia stato approntato ad hoc nell'apparato delle illustrazioni, alla corte di Palermo.
Nella Cappella Palatina le iscrizioni e i tituli dei mosaici ruggeriani compresi nella zona della cupola (1143) e del transetto (1148-1150 ca.; Kitzinger, 1949) sono nella maggior parte in greco; è formulato, invece, in latino il testo dell'iscrizione nella cattedrale di Cefalù, fabbrica non meno centrale della Cappella nella politica reale di Ruggero e però sotto il profilo architettonico segnata univocamente da soluzioni di carattere occidentale. Perciò non è tanto la cultura personale di Ruggero, "un sovrano che era stato educato e allevato in un ambiente greco, nella cui Cappella Palatina si predicava anche in greco, e i cui collaboratori più importanti erano di origini greche" (Falkenhausen, 1977) il metro sul quale commisurare le scelte dei singoli canali di comunicazione, quanto piuttosto le funzioni da attivare e i fini da raggiungere.
È da leggere nell'ottica di legittimazione del nuovo regnum l'impiego da parte della committenza normanna del genere pittorico - bizantino e aulico per eccellenza - qual è il medium del mosaico. In base alle evidenze documentarie le fondazioni regie della cattedrale cefaludese (Andaloro, 1982) e della Cappella Palatina difficilmente sono state progettate in simbiosi con le loro decorazioni musive. Comunque, la molla in grado di orientare scelte di tal genere non può risalire alla conoscenza diretta dei complessi musivi dell'Oriente bizantino quanto di quelli d'ambito campano, dalla basilica desideriana di Montecassino alla cattedrale di Salerno, monumenti certamente noti a Ruggero che soggiornò più volte in quei centri negli anni a cavallo fra il quarto e il quinto decennio. D'altra parte - com'è noto - il modello cassinese svolse un ruolo assai attivo nell'elaborazione dei piani monumentali normanni, dall'adozione di determinati schemi architettonici all'uso consapevole e massiccio del materiale di spoglio (Demus, 1949; Kitzinger, 1960; Kroenig, 1965).
Ma la 'messa a fuoco' del progetto che avvia l'uso delle decorazioni musive nella Cappella Palatina e nella cattedrale di Cefalù, alla quale nel 1145 viene ad aggiungersi lo status di mausoleo personale del sovrano, è probabile sia avvenuta in concomitanza con una circostanza romana, vale a dire con la campagna musiva dell'arco e dell'abside della basilica di S. Maria in Trastevere in stato di avanzato compimento alla morte (1143) del pontefice committente, Innocenzo II (Gandolfo, 1988).
Nel 1145 giunsero a Cefalù i due sarcofagi di porfido, l'uno destinato ad accogliere le spoglie del re, l'altro "ad insegnem memoriam mei nominis quam ad ipsius ecclesie gloriam stabilimus" (Valenziano, 1978, pp. 113-114), vale a dire con il ruolo, davvero inusuale per il Medioevo, di cenotafio. I sarcofagi non svolsero però l'ufficio loro assegnato da Ruggero: dopo varie vicissitudini, divennero l'uno il sarcofago di Federico II, l'altro il sarcofago del padre Enrico VI (Deér, 1959). Essi, con i loro baldacchini in massima parte di porfido, sono conservati ambedue nella cattedrale di Palermo insieme al sarcofago di Ruggero - dalla cassa a parallelepipedo, coperchio a doppio spiovente, baldacchino con decorazioni musive, ascrivibile (Gandolfo, in corso di stampa), più che all'indomani della sua morte (1154), agli anni dell'arcivescovo Gualtiero Offamilio (1169-1190) - e al sarcofago di Costanza d'A., il quale, al pari del sarcofago di Guglielmo I nella cattedrale di Monreale, mostra modanature dal disegno e dall'esecuzione meno impeccabili rispetto ai sarcofagi già a Cefalù (Deér, 1959).
Da tempo l'uso del sarcofago di porfido è stato riconosciuto come uno dei segni più incisivi mutuati dall'universo bizantino al fine di legittimare la dignità reale della dinastia normanna (Faedo, 1982). Per di più, il tipo di vasca semicilindrica e coperchio a doppio spiovente, adottato in tutta la serie dei sarcofagi siciliani e assente nel gruppo costantinopolitano superstite, è pure attestato in una sepoltura imperiale nella basilica dei Ss. Apostoli, come fa fede il disegno settecentesco di un sarcofago porfireo rinvenuto nel Serraglio (Mango, 1962; Faedo, 1982). Il precedente costantinopolitano non esclude, però, che per i sarcofagi siciliani sia stato utilizzato come modello il tipo della più accessibile vasca Corsini, posta nel Medioevo davanti al Pantheon (Deér, 1959).
Nonostante alcune perplessità (Faedo, 1982) è probabile che sulle scelte ruggeriane abbia contato l'esempio di Innocenzo II, il quale ripristinando un uso inattivo dal tempo di Ottone II destina a sé un antico sarcofago porfireo asportato dal mausoleo di Adriano (Deér, 1959; Herklotz, 1985).
L'adozione, da parte di Ruggero, e della modalità musiva e dei sarcofagi in porfido, sembra condurre perciò a una trafila univoca che vede nell'universo di Bisanzio il quadro ideale di riferimento e nella Roma degli ultimi tre anni del pontificato di Innocenzo II - fra il riconoscimento del regnum di Sicilia (1139) e la sua morte (1143) - il rapido maturare di occasioni concrete che poterono agire da scintilla d'avviamento.
In questo quadro dove il flusso delle dinamiche è tutto nella direzione da Roma a Palermo, vale la pena ricordare anche un episodio di segno inverso: quel dono di un carico di travi inviato nel 1140 da Ruggero al papa per il restauro del tetto della basilica lateranense (Chalandon, 1907).
Nell'orbita delle vicende dell'arte che fanno capo alla regìa ruggeriana, parallelamente al circuito greco si delinea con pari nitore un circuito islamico. Insieme alla serie di avori, talora pure dipinti (Cott, 1939), pezzi forti sono il manto (Vienna, Schatzkammer), datato al 528 a.E./1133-1134, e il soffitto della Palatina, davanti al quale il greco Filagato esclamava: "non ci si può certo saziare di guardarlo e desta meraviglia a vederlo e a sentirne parlare" (Filagato, Omelia XXVII).
Per il circuito islamico accade il medesimo processo metabolizzante che investì il versante greco-bizantino. Nei ricami del mantello e nelle pitture del soffitto le forme stilistiche e le tipologie iconografiche sono espressioni islamiche pure, ma piegate a supportare un piano mentale normanno. La Cappella Palatina rappresenta il teatro emblematico dei due circuiti. Se il santuario con il suo invaso spaziale di ascendenza greca e con i suoi mosaici bizantini è il luogo della cultura greca di Ruggero, lo spazio della navata dal prevalente gusto islamico dispiegato nella tipologia degli archi dei colonnati, nelle pitture del soffitto dai soggetti profani (Monneret de Villard, 1950), di contenuto cosmologico (Simon Cahn, 1978), legati alla vita del principe (Scerrato, 1979), si configura come una specie di sala del trono (Kitzinger, 1983). Del trono disposto sulla controfacciata sono quasi un completamento semantico le ante bronzee delle due porte che immettono nelle navatelle, volte verso l'interno, tanto dichiaratamente classiche negli ornati quanto palesi simboli di regalità (Cadei, 1990). Negli anni di Ruggero, nessun elemento figurativo connotabile come cristiano venne a intaccare i confini di questo spazio laico. I mosaici parietali, infatti, furono eseguiti solo successivamente con Guglielmo I (1154-1166; Romualdo Salernitano, Chronicon) mentre al loro posto splendevano - secondo Filagato da Cerami - drappi di seta intessuti d'oro. Opera dei Fenici, li indica Filagato: ma contemporaneamente a corte era in funzione uno speciale opificio, corrispondente più all'ergasterio bizantino che non al ṭirāz arabo (Monneret de Villard, 1946). Citato nel frammento tessile di Hannover "Operatum in Regio Ergast [---]" (Monneret de Villard, 1953), è probabile che il laboratorio abbia incrementato la tessitura serica e adottato i motivi figurativi solo dopo l'arrivo degli artefici provenienti dalla Grecia (1147-1148; Monneret de Villard, 1946), tuttavia la sua operosità è innegabile pure nei decenni precedenti, almeno per l'esecuzione dei complessi e squisiti ricami nonché dei gioielli (Accascina, 1974), come fanno fede lo straordinario mantello e la dalmatica di Ruggero (Vienna, Schatzkammer). Analogo gusto rivelano l'alba (1181) e i tibiali di Guglielmo II (Vienna, Schatzkammer), a conferma che parallelamente, per tutto il sec. 12°, nell'opificio di Palermo si producevano stoffe rotate di filiazione bizantina, ricami e gioielli d'ascendenza islamica.
Nell'arte della Sicilia normanna, nella quale la monarchia giocava un ruolo decisivo (Kitzinger, 1983), fu sovrano il principio della continuità. Dopo Guglielmo I che completò la decorazione musiva della Palatina e del presbiterio della cattedrale di Cefalù (Andaloro, 1982) e iniziò la Zisa, Guglielmo II ricalcò consapevolmente i disegni dell'avo Ruggero. Al pari di Cefalù, Monreale sorse come Urbs Regia, la cattedrale coniuga la funzione di cattedrale e mausoleo (Demus, 1949; Kroenig, 1965), ma la sua decorazione musiva si dirama per l'impianto iconografico dall'abside di Cefalù, per i cicli - vuoi vetero, vuoi neotestamentari - dalla Palatina (Kitzinger, 1960). Eppure nonostante Monreale imiti arricchendo e sistematizzando il modello ruggeriano, tuttavia negli elementi chiave si avverte un'opacizzazione di base, l'allentarsi e il dissiparsi di quel lucido piano. Proprio nel monumento che celebra l'apoteosi della pienezza, illustrativa e materica, il paradigma di una specie di luminoso horror vacui, si fanno strada segni di incertezza e sfinimento (Kitzinger, 1983).
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