VISCONTI, Ambrogio
– Figlio illegittimo di Bernabò (v. la voce in questo Dizionario) e di Beltramola de Grassi (frutto della relazione furono anche Enrica, Margherita, Estorre, Isotta ed Elisabetta), nacque all’incirca nel 1344.
Nulla sappiamo della sua infanzia, ma è quasi certo che fin da giovanissimo fu indirizzato al mestiere delle armi; verosimilmente la condizione di figlio illegittimo soffocò sul nascere qualsiasi ambizione politica. Appena quindicenne, nel 1359, fu inviato dal padre in soccorso dei fiorentini con mille mercenari e cinquecento cavalli al fine di opporsi alla ‘Grande compagnia’ comandata dal conte Lando (Konrad von Landau).
Nonostante la giovane età, al suo arrivo gli furono tributati grandi onori: la città del giglio gli donò una cavalcatura e in ragione del suo contributo alla vittoriosa battaglia del Campo delle mosche fu invitato a partecipare al torneo organizzato per celebrare il successo insieme con Pandolfo Malatesta – il capitano generale dell’esercito – e Niccolò Orsini.
Nel 1361 Ambrogio ricevette il suo primo ingaggio: fu assunto dal duca d’Andria Francesco I del Balzo e impiegato nel conflitto contro Filippo di Taranto. Visconti entrò nell’Aquilano, e alla testa delle sue truppe saccheggiò diversi territori, in particolare la Marsica. Tornato dopo qualche mese a Milano, iniziò a servire con regolarità il padre e gli interessi dello Stato visconteo. Nel 1362, nel quadro delle operazioni volte a conquistare l’Emilia, devastò, con l’aiuto del conte Lando, il territorio di Mirandola controllato da Feltrino Gonzaga. Quella campagna militare culminò nel 1363 con la battaglia di Solaro: la lega antiviscontea – appoggiata dal cardinale Egidio de Albornoz – era formata dagli Scaligeri, dagli Estensi e da Giovanni Visconti da Oleggio. Poco prima della battaglia Ambrogio fu armato cavaliere, ma l’esito dello scontro militare fu per lui infausto. Mentre Bernabò fu ferito, Ambrogio fu invece catturato e rinchiuso in carcere a Cesena dove fu liberato soltanto un anno dopo grazie alle pressioni del re di Cipro Pietro di Lusignano.
Nel 1365 Ambrogio Visconti, grazie al finanziamento del padre e dello zio Galeazzo Visconti, fondò con Giovanni Acuto e con il conte Giovanni d’Asburgo la compagnia di S. Giorgio. Questa contava quarantacinque caporali, più di settemila cavalli, e inquadrava al suo interno i superstiti della compagnia Bianca – sbandata dopo gli scontri con i perugini – oltre a tedeschi, inglesi e lombardi. Il risultato fu la nascita di una delle maggiori potenze militari d’Italia e sebbene fosse formalmente indipendente, essa lavorò sempre nell’interesse dei Visconti.
Subito dopo essersi costituita, nell’ottobre del 1365 la compagnia di S. Giorgio si diresse verso la Toscana: i fiorentini, preoccupati dal suo arrivo, preferirono consegnarle immediatamente 6000 fiorini al duplice scopo di pagare il vitto agli uomini e vedere garantita per quattro anni l’incolumità dei territori di Firenze, Pistoia, Arezzo, Volterra e San Miniato.
L’accordo fu sottoscritto oltre che da Ambrogio, anche da Giovanni Acuto, da Thomas Merezal, da Ugolino Ethon, da Giovanni degli Ubaldini e da altri quarantadue connestabili.
Con Ambrogio, la compagnia entrò allora nel territorio di Siena: i senesi tentarono di allontanarla per via diplomatica e cercando l’aiuto di Anichino di Baumgarten e di Alberto Sterz; soltanto il deciso intervento delle truppe comandate da Isnardo da Rigliano costrinse la compagnia di S. Giorgio ad abbandonare il contado senese e dirigersi verso Colle di Val d’Elsa, dove fu raggiunta dagli ambasciatori fiorentini che la accompagnarono fino al confine.
Dopo avere depredato l’Aretino la compagnia di S. Giorgio si diresse verso la Liguria, obiettivo strategico dei Visconti da quando Genova si era liberata dalla dominazione milanese nel 1356. Si trattò di una campagna piuttosto lunga e complessa, nella quale Ambrogio ebbe un ruolo di rilievo: oltre che militare, anche ‘semipolitico’.
Alla testa di cinquemila soldati Ambrogio mise in scacco tutta la riviera di Levante, saccheggiando La Spezia e il suo territorio fino a Chiavari, depredando tra gli altri anche i domini dei Fieschi e le terre soggette ai marchesi del Carretto. La risposta genovese fu affidata ai capitani Niccolò di Minergino e Bartolomeo di Levante, che furono però sconfitti con relativa facilità e fatti prigionieri. L’attacco finale, che avrebbe portato alla presa di Genova, tuttavia fallì perché i fuoriusciti alleati di Ambrogio, comandati da Leonardo Montaldo, furono respinti dalla città. Visconti non si diede però per vinto e attaccò Savona grazie a una flotta in larga parte inglese. Allo stesso tempo continuò anche le operazioni via terra, soprattutto nella riviera di Levante, circostanza che mise in allarme Genova. La città, dopo avere respinto due ulteriori attacchi, preferì raggiungere un accordo con Ambrogio.
Il condottiero si diresse allora verso la Toscana dove lo attendevano Giovanni Acuto e Giovanni d’Asburgo con l’obiettivo di attaccare nuovamente Siena. Dopo alcuni scontri di scarsa rilevanza anche questa città preferì trovare un accordo pur di allontanare la compagnia dai propri territori: i tre condottieri ottennero così 10.500 fiorini oltre a vettovaglie ed armature.
L’anno successivo – anche se per volere della Repubblica fiorentina la compagnia di S. Giorgio, in quanto già esistente al momento della promulgazione della bolla Clamat ad nos (che comminava la scomunica contro le nuove compagnie mercenarie e i suoi sostenitori), fosse esclusa dal provvedimento di Urbano V – Ambrogio non esitò a invadere il territorio papale, attaccando Spoleto e Orvieto, e successivamente spostandosi (con Acuto, Baumgarten e Giovanni d’Asburgo) verso Città di Castello, Perugia e Todi. Tuttavia il papa (che aveva sollecitato Giovanna d’Angiò, Giovanni Visconti da Oleggio, Niccolò d’Este, Galeotto Malatesta e altri a formare un esercito in difesa della Chiesa) si accordò infine con Bernabò Visconti, dopo un’intensa trattativa diplomatica; Ambrogio Visconti fu richiamato a Milano e la compagnia si sciolse.
Con le sue proprie truppe, ma senza Giovanni Acuto, nel 1367 Ambrogio tornò in Liguria; riuscì a occupare La Spezia e a porre d’assedio Genova, costringendola a un nuovo accordo. Ulteriori brillanti successi, durante quell’anno, li colse – una volta riunitosi ad Acuto – nel Senese, ove sconfisse a Montalcinello (grazie anche all’apporto del contingente di Giorgino e di Andrea di Belmonte) l’esercito della Repubblica, e poi nel Perugino (a Ponte San Giovanni), contro quel Comune. Il momento magico si concluse però quando Ambrogio, separatosi nel territorio marchigiano da Acuto, si diresse in Abruzzo dove fu intercettato e sconfitto, presso Sacco del Tronto, dalle truppe pontificie e angioine comandate da Gomez Garcia e da Giovanni Malatacca. Tra i molti prigionieri catturati quel giorno vi fu lo stesso Visconti che fu condotto ferito a Castel dell’Ovo a Napoli. La prigionia durò tre anni (1367-70) e si concluse con una rocambolesca evasione.
Rientrato in Italia settentrionale, Visconti tornò immediatamente a combattere al servizio del padre, in Emilia, rifondando la compagnia di S. Giorgio. Le consolidate abilità militari gli aprirono in questa occasione la strada di alcuni incarichi politici di rilievo. Nel 1371 fu nominato infatti governatore di Parma, e in tal veste con cinquecento lance conquistò e saccheggiò duramente Reggio Emilia, della quale divenne – dopo l’acquisto da parte di Bernabò, per 60.000 ducati – nominalmente podestà. Invero, la scelta del signore di Milano obbediva soprattutto a una logica militare, dal momento che le forze antiviscontee erano stanziate a Modena. Comunque, Ambrogio operò per il bene dei cittadini riscattando i beni che i reggiani avevano impegnato con gli uomini di Lucio Lando e lui stesso si radicò in città entrando in possesso di alcune terre.
Nel 1372 Ambrogio, di concerto con Acuto, ottenne nuovi successi nella guerra contro gli Estensi, che sconfisse presso il fiume Secchia nel Modenese catturando numerosi prigionieri, tra i quali Giovanni da Rod, Guglielmo e Francesco da Fogliano (l’impiccagione del quale consentì di arrivare al controllo di altri castelli). Meno fortunata fu la campagna piemontese, ove Ambrogio fu inviato contro i Monferrato e Amedeo di Savoia: Asti (difesa da Jacopo Dal Verme) non fu espugnata, e una puntata oltre il Tanaro si risolse in una sconfitta.
Rientrato a Reggio Emilia dopo la stipula (da parte di Bernabò) della tregua, Ambrogio riuscì solo momentaneamente a convincere Acuto (con il quale aveva da lungo tempo buoni rapporti) a mantenersi al soldo di Bernabò. Ma quando il condottiero inglese passò al servizio del papato e dei piacentini, intraprese un robusto attacco contro Bologna: con esito negativo, tuttavia, perché fu intercettato nei pressi di Crevalcore dal legato pontificio Pietro di Bourges, da Acuto e da Ugolino da Savignano, e rovinosamente sconfitto. Secondo le cronache bolognesi gli uccisi tra le sue fila ammontarono a duemila uomini (per lo più annegati nel Panaro).
A partire almeno dalla primavera del 1373 Ambrogio fu dislocato dal padre a Bergamo, con trecento lance, per opporsi all’avanzata di Amedeo di Savoia. Nell’estate entrò nelle vallate bergamasche per domare una rivolta promossa dalle locali fazioni guelfe, combattendo in particolar modo a Pontida e Caprino Bergamasco. Qui, in agosto, fu vittima di un’imboscata e morì a ventinove anni soltanto, ucciso da un colpo di lancia. Le sue solenni esequie si tennero a Bergamo; seguì da parte di Bernabò una durissima rappresaglia.
La figura di Ambrogio è emblematica di un momento di transizione nella storia militare della penisola: la sua carriera fu breve ma intensa e si pose a metà tra quella tipica di un combattente professionista e quella politico-militare di rampollo di una delle più importanti casate al potere in Italia. Egli godette indubbiamente di alcuni margini di autonomia nella scelta degli obiettivi, ma per la maggior parte, la sua azione fu diretta dal padre e volta a favorire la politica espansionistica viscontea.
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