AMERICA [Antropologia, Archeologia e preistoria, Etnologia, Lingue indigene, Arte e Musica, Storia]
AMERICA
II. ANTROPOLOGIA.
Due fatti distinguono l'antropologia dell'America: la mol;teplicità dei caratteri (polimorfismo) che presentano gruppi umani, anche ristretti, e l’assenza di quelle differenziazioni estreme che si verificano in altri continenti. Così, ad es., mancano in America colorazioni della pelle molto scure, forme assai arricciate di capello, stature molto basse, proporzioni somatiche ad arto inferiore molto allungato, fatti di rozzezza e di affinamento somatico estremi.
Tuttavia esistono molte ragioni per ritenere che non sia legittima l’opinione che asserisce esser l’uomo americano una forma indifferenziata, una forma cioè unitaria, contenente possibilità di uno sviluppo duplice, nel senso di forme affini al nostro tipo europeo (australo-caucasico) e mongoliche. Bensì sempre più appare esser esso una forma mista, proveniente dalla fusione di più tipi fondamentali (Biasutti, Sera). Ma, se così è, dati i due fatti morfologici generali sopra ricordati, ne provengono due conseguenze che sono molto importanti: 1°) che la fusione dei tipi diversi, che formano l'uomo americano, avvenne quando i tipi stessi erano in istato piuttosto precoce della loro specificazione; 2°) che la fusione avvenne in un tempo assai remoto, se essa ha potuto produrre un così notevole polimorfismo.
Queste conclusioni sono in contrasto con l'opinione dominante riguardo al popolamento dell'America, che dovette essere, per i più, assai recente, pleistocenico cioè o post-pleistocenico. Le ragioni esposte rendono singolarmente difficile il compito empirico di stabilire i tipi umani dell'America. La sistemazione dei tipi umani per questo continente è perciò la meno perfetta, nella dottrina degli antropologi che si occupano di tali questioni. I tipi che noi stabiliremo sono quindi approssimativi e fissati in buona misura per concretare una prima conoscenza degli uomini che popolano l'America. Del resto, riguardo alla natura e al valore delle determinazioni che seguono, vedi l’avvertenza analoga alla voce AFRICA.
Compiremo il nostro esame, andando dal sud verso il nord.
1. La parte più australe dell'America del Sud è abitata da gruppi etnici in cui prevale un tipo che possiamo dire fuegino, a ragione del nome del gruppo etnico che più completamente lo rappresenta o meglio lo rappresentava. Il tipo fuegino non ha nella faccia molto di «selvaggio» e di basso, come farebbero ritenere le forti arcate sopraccigliari che si notano sul cranio osseo. Naturalmente esiste prominenza della glabella e delle arcate, ma essa non produce sul complesso fisionomico e sull'aspetto dell'occhio l'effetto che produce invece nel tipo australiano. E insieme non abolisce neppure una disposizione dell'occhio ad assumere un aspetto mongoleggiante, aspetto che molti autori hanno notato nei Fuegini. Si deve affatto negare l'affermazione di alcuni autori, anche recenti, che attribuiscono un tipo australoide ai Fuegini. Tale affinità è esclusa da tutti gli altri caratteri somatici, dello scheletro ed esterni. La faccia è bassa: il naso abbastanza ben formato, la forma della testa mezzano-allungata (dolico-mesocefalica). I capelli sono neri, lisci, rigidi per lo più. La pelosità corporea è nulla, la pelle chiara, la statura piccola. L'arto inferiore è piuttosto corto. Alcuni caratteri nel tipo fuegino (come lo spessore delle arcate sopraccigliari) sono forse in relazione alla condizione d'ambiente molto freddo in cui essi vivono (Sera). Forse a questo tipo più che al seguente sono da associarsi gli Ona.
2. Il tipo patagone ha probabilmente affinità abbastanza strette col precedente, ma remote nel tempo. Senonché manifesta alcuni caratteri di affinamento somatico, che ne fanno uno dei tipi più belli dell'umanità. È da molto tempo nota e fu anzi assai esagerata la grande statura dei Patagoni. In complesso è un tipo piuttosto rozzo, ma con note di grande energia e dignità. Naso ben formato, senza arrivare però ad esser molto rilevato, alto e stretto. L'occhio è del tipo predominante in America, cioè non decisamente europeo di aspetto, ma neppure mongolico dichiarato. La faccia è alta, la fronte piena e quasi verticale; cranio cerebrale rotondeggiante ed alto. Capelli, pelle, presso a poco come nei Fuegini.
Per le regioni dell'America Meridionale a oriente delle Ande, l'analisi antropologica è poco progredita, e i tipi da ammettere più incerti. Si può dire che quanto sappiamo di scientifico per questa regione è limitato, per i popoli viventi, alle ricerche di tre autori: il Lehmann-Nitsche, l'Ehrenreich e il Ranke; ma le loro ricerche costituiscono in buona misura solo materiale allo state grezzo, non avendo essi determinato dei tipi. Tale determinazione tentiamo di dare qui di seguito.
3. Nella parte occidentale (ad occidente del Matto Grosso) e settentrionale di questa regione, noi ammettiamo l'esistenza, alle stato disperso (ma forse regionalmente concentrato), di un tipo a caratteri bassi e a morfologia facciale abbastanza caratteristica. Questo tipo è presentato dagl' Ipurina dell'alto bacino delle Amazzoni. Esso, però, specialmente in quelli è commisto con un altro tipo mongoleggiante, e di cui vedremo le affinità più oltre, che pare nella regione essere un tipo residuale. Presentano lo stesso tipo gli Yamamadi, i Paumari della stessa regione, i Macú nelle foreste comprese fra il Rio Negro e il Rio Yapur, e i Trumai, gruppo isolato dello Xingú.
Questo tipo è caratterizzato da un cranio facciale basso e largo, da un certo grado di prognatismo (tutto sommato, raro in America), ma soprattutto da una frequenza di conformazione della punta del naso, che si deve dire «papuasoide», cioè con la parte anteriore della base del naso (in corrispondenza dell'innesto del setto) spiovente in basso. È questa una caratteristica cui negli ultimi tempi è stata data molta importanza distintiva. L'altezza del cranio cerebrale (carattere questo che ha nella regione a oriente delle Ande una grande importanza distintiva) è medio-forte. Il colore della pelle è di un grigio-giallo chiaro. I capelli non sono così rigidi come è detto in genere dell'America. La statura è piuttosto bassa. Chiamiamo questo tipo Yamamadi.
4. Il tipo Caribo-Arawak-Tupi (che si potrebbe dire il tipo delle culture intermediarie) è un tipo in complesso abbastanza evoluto. Esso è caratterizzato, in confronto con gli altri della regione che esaminiamo, dal possesso di un cranio cerebrale basso (Sera). La radice nasale è spesso salientissima (così nei Paressi). Il dorso nasale è ben formato, il naso stretto e alto, la faccia è discretamente alta, ovale. L'occhio però è sempre in complesso americaneggiante, cioè difficilmente così bene aperto, come è presso di noi. Il colore della cute è più scuro che nel tipo precedente, e dà nel rosso. In questo gruppo si trovano talvolta capelli fortemente arricciati (Bakairi). La statura è un po' inferiore alla media.
5. Il tipo Bororó è uno dei tipi più interessanti dell'America. È fra i più mongoleggianti di questo continente, per l'aspetto fisionomico (la cui singolarità però è aumentata dal costume della epilazione). La radice del naso è mediocremente saliente, il dorso scarsamente prominente, retto e largo. Le narici spesso rivolte verso l'innanzi. La piega palpebrale superiore si prolunga talvolta all'interno in una vera piega mongolica, che copre la caruncola. La larghezza facciale forte, ma è notevole anche l'altezza, onde una faccia grande. La forma del cranio cerebrale è rotonda e alta. I Bororó presentano la minore frequenza di capelli ondulati, fra tutte le serie studiate dall'Ehrenreich. La pelle ha la stessa colorazione del tipo precedente. La statura è molto alta.
6. Il tipo Botocudo è uno dei più noti. Esso è il tipo palco-americano del Deniker, e quello predominante nella razza antica, cosiddetta di Lagoa Santa. La regione della radice nasale è spesso assai infossata, mentre la regione sopraorbitale è prominente. Il dorso del naso è concavo nel profilo, e la punta rivolta un po' verso l'alto. Il naso perciò è assai diverso da quello del tipo Yamamadi. Gli zigomi sono prominenti verso l'innanzi, più che di lato, onde una pienezza nei pomelli, che ricorda il Negro. Gli occhi ravvicinati sono siti piuttosto profondamente. La rima palpebrale è stretta a mandorla, tuttavia la piega della palpebra superiore è piccola e non copre la caruncola. Il capello è grossolano, duro, rigido. Il suo colore non va però nel nero-bleu, come è spesso negli Americani, ma nel rossiccio; anche il colorito scuro della pelle dà nel rossiccio piuttosto che nel giallo. La statura è bassa. A questo tipo l'Ehrenreich unisce i Cayapó, che sarebbero però diversi dai Botocudo per la testa più rotondeggiante, la statura più alta, la pelle talvolta chiara.
7 e 8. Il tipo Aymarà è localizzato nelle zone più alte dell'altipiano andino, e soprattutto nella Cordigliera Reale, mentre il tipo Quechúa è proprio della zona dell'altipiano meno elevato, fino al livello del mare. Nel primo la radice nasale è meno saliente, rispetto ai globi oculari, l'altezza del naso più forte, la fronte più stretta e sfuggente, l'occhio, per alcuni caratteri almeno (obliquità), più mongoleggiante. L'altezza della faccia è più forte e la forma di essa è ovalare, mentre nel Quechúa è squadrata. Anche la larghezza bizigomatica è più forte. Il tipo Aymar. ha labbra altissime. Il cranio cerebrale è basso e più lungo che non sia nel tipo Quechúa. Si può dire che la differenza fra i due tipi è massima per questo carattere e molto minore per gli altri. Anche per la statura, piuttosto bassa (sotto 1,60), vi sono poche differenze, mentre per le proporzioni l'Aymarà ha gambe un po' più corte. Del resto però anche il Quechúa ha tronco lungo. I capelli sono più lisci e la pelle più chiara. Per dirla con poche parole, il tipo Quechúa è più europeizzante, l'Aymarú, più mongoleggiante: ma occorre dire che esso lo è in misura molto minore di quello che sia ad esempio nei Bororó e ciò è tanto più notevole, in quanto il mongolismo degli Americani è sempre un mongolismo attenuato o, per dir meglio, sui generis.
9. Il tipo centro-americano ha affinità strette col Quechúa. Ma le somiglianze con gli Europei o, per dir meglio, con gli Eurasiatici, divengono anche più forti. Il naso prende talvolta una salienza assai forte nella regione della radice ed è ben formato. L'occhio è quasi del nostro tipo. La faccia però diviene assai bassa in generale. In qualche punto, come fra i Mosquitos del Nicaragua, avendosi un certo sviluppo di barba, l'insieme fisionomico assume un aspetto simile a quello del tipo indo-afgano (v. ASIA), il quale non può esser dovuto che ad una convergenza, per affinamento somatico, sopra un fondo comune originario. Sono note le fisionomie del tutto europee dei Maya. I capelli sono talvolta arricciati più che ondulati, le proporzioni corporee manifestano però sempre tendenza al tronco lungo, essendo ciò forse dovuto in parte alla statura, fra le più basse dell'America. Noi crediamo di poter dire che questa zona è quella ove sono meno evidenti le tracce di mongolismo. Queste si ripresentano andando verso il nord (Navajo, Apache).
10. Il tipo californiano noi crediamo possa caratterizzarsi come la forma di rozzezza del centro-americano; tuttavia, forse, i caratteri di un tipo mongoleggiante sottostante sono frequenti. A questo tipo, più o meno obliterato, si può forse attribuire il rialzarsi della statura ed il farsi la forma della faccia più lunga. È inesatto chiamare il tipo predominante in questa regione australoide, meglio forse si potrebbe dire melanesoide.
11. Il tipo del Grande Bacino c'introduce di nuovo a forme in cui si hanno caratteri mongoleggianti, e insieme piuttosto rozze (Shoshoni, Ute, Pah-Ute). Facce grandi, larghe, angolose, con nasi non grandi, come nel tipo seguente. È frequente in questo tipo il cranio cerebrale basso (platicefalia). Proporzioni medie, con tendenza però al tronco lungo.
12. Il tipo dei cosiddetti Pellirosse è ben conosciuto. Il naso è pronunciatissimo, ma spesso, più che saliente alla radice, in confronto del globo oculare, esso è saliente in basso, cioè il ponte nasale è molto ben formato. In realtà la radice non presenta che raramente gradi estremi di prominenza. L'occhio non è così bene aperto, come si riscontra spesso nei Centro-americani, e sono talvolta visibili disposizioni che arieggiano un occhio mongolico, soprattutto nella strettezza della rima. Pliche mongoliche sono frequenti nel sesso femminile e nei bambini. I pomelli sono ben marcati lateralmente, la fronte sfuggente, ma la salienza della glabella e degli archi non è forte. La fisionomia ha spesso un'espressione di crudeltà, più che di energia. In complesso il mongolismo di questo tipo è medio, mentre esso può dirsi un tipo gerarchicamente evoluto. I capelli sono lisci, fra i più lunghi dell'umanità, anche nel sesso maschile. Scarsissima la pelosità corporea. La statura elevata.
13. Il tipo del Pacifico settentrionale (Salish, Tlingit, Aleuti ecc.), ha forme con tratti mongoleggianti fra i più notevoli d'America. Esiste una certa varietà di tipi locali, dovuti alla frammentarietà dell'abitato (Biasutti). La platicefalia e la forma rotonda ben dichiarata del cranio differenziano questa zona dalle altre mongoleggianti. La tendenza al tronco soprallungato è, in questo tipo, fortissima.
14. Il tipo eschimese è un tipo mongolico ben dichiarato. Tutto il suo somatismo, sia per i caratteri esterni, sia per gli osteologici, lo riconduce al tipo mongolico propriamente detto (v. AsIA). Soprattutto l'occhio mongolico ben netto, i capelli rigidi, spessi e lisci, le proporzioni a gambe corte, lo fanno attribuire al detto tipo. Un carattere ad esso specifico è la forma lunga ed alta del cranio cerebrale unita a fortissima capacità encefalica.
BIBL.: J. Deniker, Races et peuples de la terre, Parigi 1926, pp. 626-697; R. Biasutti, Studii sulla distribuzione dei caratteri e dei tipi antropologici, in Memorie Geografiche, Firenze 1912, pp. 128-143; G. L. Sera, L'altezza del cranio in America, in Arch. per l'antrop. e l'etnol., LXII-LXIII (1913); G. L. Sera, I caratteri della faccia ed il polifiletismo dei Primati, in Giorn. Morfologia Uomo, Primati, 11 (1918), pp. 169-182; G. Seigi, Gl'indigeni americani. Ricerche antropologiche, Roma 1928; A. Hrdlièka, Early Man in South America, in Bul;letin Bureau of American Ethinology, LII, Washington 1912. G. S.
III. ARCHEOLOGIA E PREISTORIA.
La questione dell'antichità dell'apparizione dell'uomo in America trova, nell'archeologia preistorica del continente, la stessa insufficienza di dati positivi che è presentata dai resti scheletrici. Quando ci si accosta all'archeologia americana non si deve presumere che oggetti i quali ci appaiono molto primitivi per la fattura sieno, per ciò solo, da collocarsi molto indietro nel tempo. Un manufatto di pietra può essere classificato di tipo paleolitico, ma non ne segue che esso sia di età paleolitica nel senso che in Europa ha tale espressione. Occorre tener presente che in America le esplorazioni archeologiche non hanno in alcun luogo trovato tracce sicure di popolazioni appartenenti ad uno stadio di civiltà più basso di quello che è ancora attualmente attraversato da alcune delle tribù americane, come, ad esempio, i Fuegini o i Botocudo. Se in Italia si scoprono nel terreno i resti di un'abitazione neolitica, sappiamo senz'altro che essi risalgono ad una età assai remota; ma se una scoperta analoga è fatta in America, supponiamo a Buenos Aires, è possibile che essa ci riporti semplicemente agl' Indiani che occupavano il luogo quando i Bianchi giunsero al Río de La Plata, perché tali indiani erano ancora nell'età della pietra.
Le corrispondenze con l'archeologia preistorica europea sono dunque senza valore, se i dati archeologici non sono combinati con determinazioni geologiche. Ma la possibilità di determinazioni cronologiche esatte per i terreni più recenti incontra ancora ostacoli molto gravi. Nell'America del Nord, dove l'epoca glaciale ha lasciato tracce perfettamente paragonabili alle europee, nell'estensione e nella molteplicità degli episodi di avanzata e di ritiro dei ghiacciai (e si deve considerare non solo analoga, ma probabilmente contemporanea e parallela, in tutte le sue fasi, all'epoca glaciale europea), è ormai possibile riconoscere a un dato terreno, per la sua origine o per i caratteri della fauna contenutavi, un'età anteriore o posteriore allo stabilirsi del clima e della fauna attuali. Ma non è risultata ancora alcuna chiara successione di livelli faunistici quaternari, che pure, in armonia con le grandi e bene accertate oscillazioni climatiche, non può essere mancata. E nell'America Meridionale quella stessa prima approssimativa determinazione è resa difficile dalla mancanza o dalla lontananza dei terreni di diretta origine glaciale e dall'ignorare quanto a lungo e quanto vicino a noi abbiano vissuto le specie animali caratteristiche di certi depositi e scomparse dalla fauna attuale. È molto istruttiva, a questo ultimo riguardo, la scoperta fatta da vari esploratori, tra i quali il barone Nordenskitild, nella caverna Eberhard, nella Patagonia australe, dei resti di un grosso sdentato estinto (Neomylodon), che conservavano ancora la pelle e i peli.
In queste condizioni, mentre cioè il criterio tipologico offerto dai resti dell'industria umana, e la cronologia geologica e paleontologica offrono una base così malsicura alla preistoria, s'intende facilmente come si sieno potute stabilire correnti scientifiche di eccessivo scetticismo o di eccessiva fiducia. Così tra gli archeologi dell'America del Nord si è affermata un po' alla volta la tendenza a togliere ogni valore di autenticità o di antichità alle vecchie scoperte e a considerare come dovuti alle popolazioni « attuali » tutti gli oggetti dati dai terreni, e quindi «attuale» anche l'arrivo dell'uomo in America; nell'America del Sud, invece, le scuole locali, pur con diversità notevoli di sistemi cronologici, insistono in interpretazioni che assegnano alle industrie preistoriche di quelle regioni un'antichità pari e superiore a quella delle più antiche industrie europee.
Le più antiche industrie umane. – I rinvenimenti che tengono ancora il campo della discussione, sono specialmente i seguenti. A Trenton (New Jersey) una notevole quantità di manufatti Etici è stata rinvenuta in alluvioni fluvio-glaciali della valle del Delaware. Dopo le prime scoperte dell'Abbott (1871), il giacimento è stato molte volte esplorato, e ha dato indicazioni stratigrafiche di un certo valore. La valle ha alla superficie un deposito di terra vegetale, che contiene numerose tracce della cultura neolitica degli Indiani Lenape. Al di sotto, un deposito giallo sabbioso-argilloso, con resti di fauna in parte attuale, in parte emigrata (bue muschiato), presenta resti di occupazione da parte di una cultura prelenapeana, con quarziti e argilliti scheggiate, senza asce levigate, forse senza ceramica. Inferiormente, appare il conglomerato fluvio-glaciale con abbondanti resti di una fauna fredda scomparsa o emigrata (renna, alce, mammuth, mastodonte, bue muschiato) e numerosi pezzi di quarzite grossolanamente scheggiati: l'origine artificiale, umana, della scheggiatura è tuttavia dubbia (Boule).
In ogni caso lo strato intermedio deve risalire alla fine del pleistocene, e parrebbe paragonabile, per età, alla fine del paleolitico europeo. Altri vecchi rinvenimenti di «paleoliti» sono meno soddisfacenti (Claymont, Del. e Medora, Penn.: Cresson 1887-88; Little Falls, Minnesota: Winchell 1887, Miss Babbitt 1888-89; Madisonville, Ohio : Metz 1885 ; New Hampsshire, Haynes ecc.). In qualche caso si è segnalata la presenza di manufatti in terreni con;tenenti resti della fauna pleistocenica, specialmente proboscidati (Nebraska, Aughey 1874; lago Lahontan, Nevada, Mac Gee 1889; Messico, Franco e Pinart), e all'America non mancherebbero nem;meno le rappresentazioni grafiche di elefanti (Holly Oak, Delaware, « Lenape Stone » di Doylestown, Penn.), così significativi nell'arte paleolitica europea. Si è detto anche che nell'America del Nord il mastodonte, unico superstite fra i proboscidati del continente, abbia vissuto fino all'alba dei tempi storici: ma a tale ipotesi, per territori della zona temperata che hanno subito forti oscillazioni climatiche, l'esperienza europea è nettamente sfavorevole. Si deve riconoscere, invece, che per tutti i reperti sopra ricordati le interpretazioni sono malsicure e discordi, e che una revisione critica delle vecchie scoperte dovrebbe appoggiarsi soprattutto su nuovi e ben verificati rinvenimenti. Essi sono invece divenuti assai rari. Vanno segnalate tuttavia, dopo la prima scoperta (1895) di una punta di selce in un deposito quaternario del Kansas, con una specie estinta di bisonte (Bison occidentalis), vari rinvenimenti di questi ultimi anni (1924-27) in depositi consimili dei grandi piani centrali (Renaud); la fauna contiene anche varie specie di cavallo, scomparso alla fine del Quaternario, e il mammut, una fauna fredda, dunque, che deve segnare il declinare dell'ultima glaciazione; il tipo degli oggetti, a scheggiatura piuttosto minuta, è assai diverso dai veri o supposti strumenti amigdaloidi, e potrebbe rappresentare un livello finale del paleolitico. È da aggiungere che le caverne nord-americane, pur ricche di fauna fossile e anche dí tracce di occupazione umana recente, non hanno dato finora livelli umani antichi. Infine, manca anche un ordinamento puramente tipologico di tutti i manufatti litici forniti dai terreni o dai ritrovamenti superficiali, che non abbiano diretta connessione con le culture storiche indigene, ed è stato possibile a taluno di affermare che gli apparenti «paleoliti» sono soltanto le schegge di fabbricazione delle officine degl'Indiani. Il responso ufficiale dell'archeologia nord-americana può essere riassunto nel giudizio sommario e poco conclusivo di W. H. Holmes: che i manufatti del Delaware e di altri luoghi attribuiti ad un' età glaciale o alle fasi precoci del post-glaciale «non sono specificamente diversi da quelli delle tribù indiane», e «quale che sia la loro antichità, rappresentano un'ininterrotta occupazione della regione da parte di tali tribù, o di tribù affini»; responso parallelo a quello dato da Hrdlièka sui documenti osteologici.
Per trovare altre tracce discusse di un'alta antichità dell'uomo bisogna recarsi nelle regioni della Pampa e nella Patagonia. La grande pianura dell'Argentina (v.) ha fornito, nella cosiddetti formazione pampeana, in vari luoghi e a diversi livelli stratigrafici oltre i numerosi resti scheletrici umani già ricordati nella sezioni antropologica, anche manufatti di pietra e d' osso (e forse tracce di focolai, «terre cotte»).
La regione è assai lontana dal campo di sviluppo e di azione del glaciale andino-patagonico, ma gli studi recenti (Frenguelli) avrebbero mostrato nella formazione pampeana una regolare alternanza di depositi fluviali ed eolici sincronizzabili con fasi climatiche glaciali e inter. glaciali. I resti industriali si rinvengono (a Miramar) già nei livelli quasi basali dell'alta pila di sedimenti («hermoseano», chapadmaliano-preen. senadiano) con schegge triangolari od ovali di quarzite e bolas scanalate, identiche a quelle usate dagl'indigeni attuali; nei livelli immediatamente successivi (ensenadiano) si rinviene inoltre un'abbondante relativamente evoluta (ami, punteruoli) industria dell'osso. L'età degli strati in questione è molto discussa sui luoghi e dagli studiosi europei che li hanno visitati, a seconda che si dà maggior peso al criterio paleontologico o morfologico o archeologico. Le reliquie umane, negli strat inferiori della formazione, apparirebbero contemporanee ai primi elementi della fauna olartica immigrata dell'America del Nord (mastodonte equidi, cervidi, ursidi): ma questo elemento è ancora insufficiente a stabilire una correlazione diretta con gli orizzonti faunistici europei. È da notare però che il divario di opinioni sull'età dei terreni ha qualche riscontro con quello che esiste nella nostra parte del mondo per i livelli corrispondenti alle prime fasi glaciali, perché i depositi marini o lacustri contemporanei a quelli sono generalmente attribuiti al pliocene superiore Per la formazione pampeana il livello inferiore è appunto considerato dai più (Boule; Mochi, Rovereto, Bonarelli; Scott, Matthew, Brown Steimann, Keidel, v. Jhering, Kraglievic) come un livello pliocenico Outes e Frenguelli lo considerano come pleistocenico, ma lo fanno corrispondere al primo episodio glaciale europeo, vale a dire ad un orizzonte che per la maggior parte dei paleontologi è, anche in Europa, pliocenico e trascendente in ogni modo di gran lunga l'età dei più antichi resti dell'uomo. Nessun ritrovamento europeo, infatti, consente di portare l'antichità dell'uomo oltre il grande interglaciale mindelrissiano, e nessun ritrovamento africano o asiatico o australasiatico è stato ancora dimostrato potersi collocare in età geologica anteriore a quella dei ritrovamenti europei. La cronologia Frenguelli-Outes assegnerebbe perciò ai reperta pampeani (anche dopo aver eliminata la loro originaria attribuzione da parte di F. Ameghino, al vero terziario), un'antichità superiore a quelli di qualsiasi resto umano finora dato dalla Terra; e tale singolare testimonianza sarebbe data da un'industria non solo poco primitiva, ma benché forse più rozza e meno «finita», non dissimile nei suoi prodotta essenziali da quella delle stazioni superficiali recenti (paraderos). Esempio unico, in tutta la conoscenza finora raccolta sulla preistoria umana di stupefacente immobilità culturale. L'industria è considerata (Oute: e Frenguelli) come di tipo mousteriano: è infatti una lavorazione di schegge, con ritocchi assai fini, come quella delle stazioni superficiali. Le bolas però rappresentano un tipo nettamente neolitico (pietra levigata), e non sono affatto paragonabili ai ciottoli e agli sferoidi di grès che sono stati interpretati come bolas del Mousteriano europeo.
Holmes e Hrdlièka ( I 912) , portando nel continente meridionale i concetti critici già applicati nel loro paese, hanno giudicata neolitica, e identica a quella delle tribù storiche, l'industria che fino a quel tempo era stata raccolta. E poiché l'antichità geologica del terreno e il carattere «attuale» dell’industria costituiscono termini inconciliabili, essi hanno concluso che la seconda non appartenga in proprio ai terreni del Pampeano, ma sia contenuta in depositi di origine o di rimaneggiamento recente avvenuti in tasche superficiali dei vari livelli affioranti dei terreni pampeani, o scivolati dall'alto lungo le pareti che questi presentano al mare e che costituiscono il campo principale dei ritrovamenti. Dal suo canto la scuola sud-americana è andata compiendo in questi ultimi anni un altro sforzo per la dimostrazione della contemporaneità degli oggetti col terreno, e ritiene di averla raggiunta (Outes e Frenguelli, 1926).
Un'industria litica in massima parte superficiale è quella che l'Outes aveva già in precedenza ottimamente illustrata per la Patagonia (1905); lo studio delle forme che essa presenta, gli aveva consentito di distinguere fra una « facies paleolitica » rappresentata da poche località e da un numero limitato di oggetti e comprendente due manufatti rinvenuti nel Río Observación dentro a uno strato assimilabile per età al Pampeano superiore, e una «facies neolitica», ricchissima e strettamente affine alla cultura dei Patagoni. Gli oggetti classificati come paleolitici si accostano, per la fattura, ai livelli finali dell'Acheuleano europeo (scheggiatura bifaciale su pezzi di scarso spessore, contorno ovale, largo, ecc.), e hanno anche una notevole somiglianza con le argilliti di Trenton. Gli studi morfologici di tal natura sono forse quelli che, per il momento, hanno maggior significato come preparazione per l'analisi delle future scoperte.
I cumuli di rifiuti (shell-heaps, sambaquis, paraderos). — Su tutto il doppio continente, dalle sponde artiche alla Terra del Fuoco, sono disseminati gli ammassi di gusci di molluschi, che rappresentano l'accumulo dei rifiuti dei pasti dei primitivi occupatori delle rive (Kjiikkenmaddinger, shell-heaps). In Europa ve ne sono, che risalgono alle ultime fasi della cultura paleolitica (Epipaleolitico). In America nessuno di essi ha mostrato una cultura sostanzialmente diversa da quella incontrata sui luoghi dagli Europei. Questi residui di abitazione dell'uomo attuale, come i più rari residui di villaggi o di officine litiche, possono tuttavia avere una notevole antichità; ma, d'altra parte, possono anche appartenere per intero, o con le porzioni più superficiali dell'accumulo, a tempi posteriori alla scoperta dell'America. I più interessanti sono quelli che mostrano di contenere tracce di stratificazione di elementi culturali diversi e sovrapposti. Ma le differenze sono in generale di scarsa entità, o sensibili, più che altro, nei territori, come la regione orientale degli Stati Uniti, che gli Europei hanno trovato occupata da culture più sviluppate: prova dunque dell'origine recente di tale progresso. Si può dire, in via generale, che tanto i shell-heaps del N. quanto i sambaquis del Brasile o i paraderos della Patagonia, riflettono un periodo nel quale i primitivi del continente avevano differenze regionali un poco meno accentuate e culture spesso più povere: il che è pure conciliabile con la loro origine «recente», perché l'acculturamento, cioè la diffusione delle forme più recenti ed evolute della cultura, era ancora in atto all'arrivo degli Europei e fu interrotto (o sostituito con altra facies)appunto dall'intervento di questi. Sotto questo rispetto, il contenuto archeologico dei relitti «recenti» ha una grande importanza, perché permette di ricostruire le culture indigene quali erano prima dei mutamenti portati dalla colonizzazione europea, o avvenuti comunque nello stesso tempo di questa, mutamenti talvolta rapidissimi, non di rado anteriori ai contatti diretti, molto spesso anteriori alle prime osservazioni accurate. Ma la considerazione di tale contenuto preistorico non può essere isolata dalle osservazioni etnografiche sulle culture indigene storiche e attuali: sono fonti diverse di studio per un unico fondamentale livello cronologico.
I precedenti delle maggiori civiltà. — La successione cronologica delle forme culturali si è ricercata, e comincia ad apparire (e apparirà certo più nettamente in avvenire), nei territori occupati dalle più alte civiltà indigene, dal Messico al Perù, e dalle loro propaggini settentrionali (Pueblos, Cliff-Dwellers) e meridionali (Diaguiti). Sono i territori classici dell'archeologia americana, che trova in essi i resti di civiltà monumentali con architettura, metallurgia, ceramiche, sculture, principi di una scienza astronomica, istituzioni degne di figurare, sotto molti riguardi, accanto alle civiltà estinte del mondo antico. Il Messico, il Perù, il Yucatàn hanno anche lasciato documenti epigrafici e storici, dai quali si son potute trarre cronologie soddisfacenti; la storia dei Maya (Yucatàn) consente così di risalire sino all'inizio dell'èra volgare ; quella del Messico, più incerta, sino al 300 circa; quella del Perù sino al 1200 d. C. I dati forniti dagli scavi e dalla sovrapposizione stratigrafica di alcuni livelli archeologici son giunti a proporre due termini massimi comuni per il Perù e per il Yucatàn: 2 secoli circa a. C. L'archeologia è già in grado di distinguere vari periodi culturali in ciascuna delle regioni che furono centro di civiltà, e di cogliere quasi agli inizi alcune delle loro arti più caratteristiche. La esposizione più particolare di questi risultati spetta alla descrizione morfologica e storica delle antiche civiltà americane, e il lettore le troverà alle voci geografiche relative alle loro sedi principali (v. MESSICO, COLOMBIA, ECUADOR, PERÙ, ecc.) e ai loro portatori (V. AZTECHI, MAYA, CHIBCHA, INCAS, ecc.). Qui è necessario aggiungere che i primi e gli ultimi termini di tale sviluppo storico e culturale non sono separabili dall'orizzonte cronologico complessivo della etnologia attuale dell'America; ne riempiono anzi soltanto una porzione mediana, perché, mentre la successione geografica delle culture indigene ci presenta ancora sopravvivenze di forme di gran lunga più arcaiche, cioè più antiche, dei primi inizi conosciuti delle maggiori culture monumentali, l'arrivo degli Europei non ha interrotto, nel momento stesso in cui ha arrestato o distrutto queste ultime, lo sviluppo locale delle aree più isolate. Onde rispetto alla conoscenza delle culture americane, la data della scoperta dell'America, pur avendo avuto su di esse enormi conseguenze, non consente di spartire in due campi nettamente separati di trattazione l'etnologia precolombiana e quella post-colombiana e contemporanea.
Interesse particolare hanno le antichità di certi distretti, che potremmo dire marginali o esterni ai centri maggiori di cultura. Anche in questi la colonizzazione europea ha rapidamente eliminato le forme indigene di civiltà: i Pueblos dell'Arizona, del Nuovo Messico e della regione messicana adiacente sono forse i soli che con le loro cittadine permanenti abbiano mantenuta viva sino ad oggi, se anche in forme minorate, una cultura precolombiana assai elevata. Ai villaggi moderni si collega tutta una serie di rovine che coprono intorno ad essi un maggior territorio: sono, in parte, costruzioni adattate in caverne naturali aprentisi sulle pareti a picco delle valli, o scavate nella roccia; in parte, come tra i Pueblos attuali, ma con strutture più complesse, erette sulle pianure e sugli altipiani rocciosi vicini (v. PUEBLOS). Resti analoghi si son trovati fin nel Messico centrale; essi permettono di collegare, anche geograficamente, questa cultura in parte sopravvissuta con la estinta civiltà messicana della quale è un riflesso. A una particolare fioritura culturale, che sembra aver avuto il massimo sviluppo in tempi anteriori alla scoperta, ma continuò certamente per qualche tempo anche dopo questa, si attribuiscono i Mounds (v.), tumuli funerari raggiungenti talora dimensioni grandiose, sparsi in tutto il bacino del Mississippi, l'esplorazione dei quali ha molto giovato a lumeggiare i rapporti esistenti fra la civiltà degli altipiani e quella degl'Indiani agricoltori della regione orientale. Rapporti analoghi intercedono fra l'antica civiltà peruviana e il territorio archeologico di Calchaquí o Diaguiti, occupante la regione andina settentrionale dell'Argentina. Le sue abbondanti rovine ci mostrano una cultura fortemente impressa da influenze andine, ma, come quella dei Pueblos rispetto al Messico, riflettente queste in forme ridotte o in uno stadio anteriore al loro massimo sviluppo. Si sono anzi rilevate interessanti analogie e somiglianze fra la cultura diaguita e quella dei Pueblos, che sono da riportare probabilmente alla diffusione delle civiltà degli altipiani in una fase un po' arcaica e quindi meno differenziata di esse. Nel Chile (Deserto di Atacama, Puna di Jujuy) si trovano pure tracce di una estensione meridionale della cultura peruviana, che ci aiutano ad interpretare anche la posizione culturale degli Araucani (v.) dell'epoca storica. Non v'era tuttavia, come è facile intendere, alcun distacco assoluto fra le aree di maggior civiltà e archeologicamente oggi più interes;santi, e le altre culture barbariche o primitive del continente.
Alcune arti, come ad esempio l'architettura, l'allevamento, la metallurgia, erano il privilegio di un territorio limitato; ma il complesso dell'esistenza materiale e le istituzioni sociali e politiche dei loro portatori erano costituiti, anche in tale territorio, da elementi culturali aventi larga diffusione nel continente e ancora rappresentati dalle tribù meno trasformate dalla colonizzazione europea. La perdita del patrimonio culturale indigeno e la rapidità stessa di questa perdita sono state, con poche eccezioni, in proporzione diretta alla sua elevatezza. Ma forse in nessun luogo tale perdita è stata totale e anche lo studio degli attuali discendenti degli antichi dominatori del Messico, della Colombia o del Perù è in grado di fornire qualche elemento utile per la conoscenza delle estinte civiltà. Vi sono poi innumerevoli gradi di trasformazione; e le popolazioni meno trasformate dalla civiltà europea sono ancora quelle che vivevano e vivono più isolate, in ambienti di difficile penetrazione, quindi le più primitive. Il quadro completo delle civiltà americane all'epoca della scoperta e della conquista, è perciò in ugual misura offerto dall'esplorazione del terreno e dalle tribù viventi: e l'etnologia e l'archeologia si presentano, come si è detto, su di un unico grande piano cronologico. Né l'archeologia ha importanza soltanto per le aree di più intensa cultura. La perdita di certi elementi culturali indigeni e l'introduzione di elementi nuovi e stranieri (europei, in qualche caso anche africani) si sono estese molto rapidamente a vastissime porzioni del continente, e dànno quindi valore archeologico anche ai residui industriali recenti di molte tribù primitive. Fra le perdite più diffuse e frequenti il Nordenskitild cita giustamente la forma originaria dell'abitazione: è da aggiungere anche l'interessante e sviluppatissima industria litica, che la veloce trasmissione del ferro ha eliminato quasi per intero. Fra le introduzioni, basta ricordare quella del cavallo, che ha tanto e così rapidamente trasformato la vita materiale delle tribù dei paesi aperti e steppici, nelle praterie settentrionali e nella Patagonia. R. B.
IV. ETNOLOGIA.
L'industria litica e i metalli. — La maggior parte dell'America era, all'arrivo degli Europei, in possesso di culture litiche. Faceva eccezione il territorio messicano-andino, nel quale, senza che la lavorazione della pietra fosse abbandonata, si era sviluppata una vera industria del rame e poi del bronzo e si lavoravano attivamente i metalli nobili: e, inoltre, un'area abbastanza grande dell'America del Nord, che aveva appreso a trattare il rame nativo (abbondante specialmente in giacimenti prossimi al Lago Superiore), e usava anche oggetti d'oro d'importazione messicana o cubana, e in qualche caso anche il ferro meteorico, trattato come la pietra. La lavorazione di quest'ultima si presentava in uno stadio tecnico generale che si può assimilare al neolitico europeo: molti oggetti su lama con piccoli ritocchi, punte di varia grandezza a fine scheggiatura bifaciale, frecce peduncolate, e una notevole quantità di manufatti di pietra levigata, sebbene l'abbondanza di questi variasse assai da regione a regione. Anche nei materiali (pietre dure, ossidiana, ecc.) si possono rilevare analogie con l'industria neolitica dell'Europa e dell'Asia. Molte forme particolari sono invece esclusive del territorio americano, o rare fuori di esso. Fra queste, le bolas a solco mediano, già ricordate, assai diffuse nel continente meridionale (Ande, Patagonia); l'ascia levigata a solco equatoriale, completo o parziale che, fuori dell'America, si conosce nell'Australia centro-orientale e nel territorio archeologico cinese; le asce forate; i coltelli a lama semilunare (anche di rame), ricorrenti dall'area eschimese al Perù, anch'essi con qualche riscontro neolitico asiatico (Mongolia orientale: ricerche di Torii e Anderson). In generale, la singolarità dell'industria litica americana, che sembrava dapprima notevole, si va fortemente riducendo con le scoperte archeologiche dell'Asia orientale e sud-orientale e con lo studio comparativo del territorio oceanico. Con quest'ultimo l'America (Ande) ha in comune, p. es., le mazze con testa di pietra sferica o stellata, forme invero troppo specializzate per essere il prodotto d' invenzioni separate: e, identiche in ogni particolare, anche le clave piatte di tipo neozelandese. Imbelloni ha dimostrato che anche la nomenclatura dell'ascia litica è comune alle due aree.
Nei rapporti interni risulta in complesso che le forme litiche di tecnica più perfetta, sia nella scheggiatura sia nella pulitura, si rinvenivano nelle aree a cultura più elevata possedenti anche l'industria metallurgica, fenomeno ben noto all'archeologia europea e nord-africana (età eneolitica). Le aree più povere rappresentano invece un neolitico incipiente, e in esse hanno gran parte anche gli utensili e le armi di legno e di osso (zona artica e sub-artica, California, Brasile orientale, Terra del Fuoco).
Nella lavorazione dei metalli diversi distretti avevano raggiunto notevole sviluppo. Nella Colombia erano gli orefici più valenti, tra i Quimbaya, p. es., i quali fondevano l'oro col procedimento «a cera perduta», un processo assai complicato che sorprende incontrare tanto nell'antico quanto nel nuovo mondo. Nel Perù si otteneva il bronzo, aggiungendo al rame, in generale, una percentuale di stagno inferiore a quella usata nell'età del bronzo in Europa. Si conosceva anche l'arte, assai difficile, di saldare il rame: la solidità degli utensili e delle armi di rame e di bronzo era ottenuta con la battitura a freddo. L'argento era pure largamente usato. La metallurgia indigena è scomparsa da lungo tempo. Il ferro era ignoto a tutto il doppio continente: solo dopo la scoperta una tribù indiana, i Campa del Perù, come ha riferito l'italiano Raimondi, apprese dai bianchi a fondere il ferro e a fabbricarsi i propri utensili.
La ceramica. — L'uso del termine «neolitico» ci fa subito pensare a quegli altri elementi culturali che lo caratterizzano in Europa e costituiscono un così netto distacco dalle culture paleolitiche: la ceramica, l'agricoltura, gli animali domestici. Ma nell'America si ha la sorpresa di trovare in assai ampie regioni un neolitico privo di tali acquisti culturali.
Alla ceramica americana sono rimasti dovunque ignoti il tornio e, in senso proprio, la verniciatura; essa mancava inoltre in un'area settentrionale (comprendente la maggior parte degli Eschimesi e dei cacciatori canadiani, tutta la California e una fascia centrale della zona delle praterie), in alcuni distretti del Brasile, specie orientale, e nell'estremità meridionale del continente. Tra le tribù dell'Alasca si trova però una ceramica con affinità siberiane, le quali, per certi riguardi, si presentano anche nel Canadà e nella regione dei grandi laghi. Nella Patagonia la ceramica, scomparsa con l'adozione del cavallo e di una maggiore mobilità, è data dai reperti archeologici. Nell'insieme, nei fatti più recenti di distribuzione, sembrano esistere due centri d'irradiazione per la ceramica indigena: la Siberia e la regione messico-andina.
Agricoltura. — La conoscenza dell'agricoltura aveva una distribuzione molto simile a quella della ceramica, con la sola differenza, imputabile a ragioni climatiche, di una minore estensione verso il nord e verso il sud. Gli strumenti agricoli erano dappertutto molto primitivi: era ignoto l'aratro; nei distretti meglio coltivati si usava la zappa e forme molto semplici di piccole vanghe, negli altri solo il bastone da scavo. La coltura del terreno tuttavia non presentava dovunque gli stessi caratteri o la stessa importanza. Il territorio messicano-andino si potrebbe dire ad agricoltura relativamente intensiva, benché non uscisse dalla categoria generale della coltura con la zappa: esso era caratterizzato però dalla molteplicità delle piante coltivate accanto all'unico cereale indigeno, il mais (e, nel Perù, la patata) e da procedimenti vari, tra cui la coltura a terrazze (andenes del Perù), l'irrigazione e la concimazione.
Fuori di quest'area, separata da essa dalla zona delle praterie, era la regione compresa tra il Mississippi, i grandi laghi e l'Atlantico, nella quale l'agricoltura aveva minore importanza come mezzo di sussistenza e si basava sostanzialmente sulla coltivazione del mais. Nelle Antille e nella maggior parte dell'America Meridionale umida a oriente delle Ande, la pianta coltivata fondamentale era ed è la manioca (cassava). Finalmente nel Chaco e nelle regioni adiacenti verso l'Atlantico si aveva un'agricoltura ridotta e incostante.
Un elenco delle piante coltivate in America prima dell'arrivo degli Europei mostra come, pur senza giungere al valore di quella del mondo antico, l'agricoltura vi avesse utilizzato con larghezza la flora indigena. Dopo la scoperta, si sono introdotte molte altre colture (banano, ecc.), ma nessuna nuova utilizzazione della flora americana, mentre le piante domestiche americane sono naturalmente entrate nell'agricoltura mondiale.
L'agricoltura presenta due sole specie comuni con l'Oceania: la patata dolce e una zucca (Lagenaria vulgaris). Il cotone era dato da una specie indigena. Nell'area amazzonica si coltiva tuttora anche una varietà velenosa di manioca (m. amara), le cui radici non sono commestibili se non eliminando, col pestarle, la sostanza venefica (acido idrocianico). Tra i narcotici sono notevoli la coca e il tabacco; anche quest'ultimo era, in ampie regioni, come risulta dalla letteratura dell'epoca delle scoperte, più spesso masticato che fumato, e con metodi (miscela di foglie e di sostanza alcalina) identici a quelli usati per il betel nell'Asia sud-orientale e nella Melanesia. L'uso del tabacco era universale, fuori che nell'estremità settentrionale e orientale dell'America. La pipa a gomito (anche di pietra) era diffusa in due aree marginali e simmetriche nel nord (Mississippi-Atlantico) e nel sud (Parana, Brasile orientale), rispetto a una zona centrale (Amazzonia-America Centrale-Messico-Colombia), che aveva il sigaro e la pipa tubulare, prototipo della nostra sigaretta.
Animali domestici. - La vera inferiorità dell'economia indigena era nella scarsità di animali domestici. Il cane si trova dovunque ed era nel nord, tra gli Eschimesi e gl'Indiani delle foreste canadiane e delle praterie, anche animale da tiro (slitte, toboggan, travois), come nell'Asia settentrionale. I Messicani e i Pueblos avevano inoltre addomesticato il tacchino. I Peruviani antichi, oltre che dal porcellino d'India e da un'anatra (Anas moschata), traevano grande utilità dall'allevamento del lama, anche per la lana e come animale da soma, e del suo parente, l'alpaca. La renna domestica e il cavallo non avevano, dall'Asia, passato lo stretto di Bering.
L'abitazione. - Grande varietà di forme presentava la costruzione dell'abitazione, con tutti i tipi fondamentali di struttura diffusi nelle altre regioni della Terra: ripari-paraventi tropicali, fatti di una sola parete; capanne cupoliformi od ovali, molto diffuse anche come forme trasportabili (tenda-capanna), caratteristiche di tutte le tribù più primitive o più mobili dalla Fuegia alla California; costruzioni piu̇ complesse ed evolute, con una chiara distinzione fra le pareti e il tetto, come la capanna cilindrica a tetto conico e la capanna quadrangolare con tetto a terrazza o a spioventi. ll Nordenskiöld ritiene che quest'ultima abbia avuto notevole diffusione soltanto in tempi post-colombiani e per influssi europei: ma essa risulta in ogni caso tipica, se anche non esclusiva, delle culture precolombiane messico-andine, in seno alle quali si era anzi sviluppata in grandi strutture architettoniche di pietra o di mattoni seccati al sole.
Varietà di costruzioni particolari all'America non mancano. Nella categoria dei rifugi-paravento è da porre tra quelle il toldo della Patagonia, una tenda-paravento di pelli, largamente aperta sul davanti: ne usano di simili ora gl'indigeni dell'Australia, traendo partito da cenci di europei per sostituirli alle loro antiche tettoie di frasche o di scorza d'albero. Caratteristica è pure la capanna cupoliforme di neve degli Eschimesi; lasciando da parte questa, che è da collegare alle primitive capanne ad alveare, tutte le forme di abitazione del N. (capanna di terra, tenda conica, ingresso dal tetto, porta-corridoio) ripetono con varianti quelle dell'Asia settentrionale. Della capanna amazzoniana, a pianta quadrangolare ma senza tetto separato, si trovano riscontri in tutta l'Oceania, come, del resto, delle forme più complesse, cilindriche o a spioventi. Le case per più famiglie, fenomeno tipicamente oceanico, erano pure molto diffuse, e sono ancora una caratteristica del Brasile nord-occidentale (v. abitazione).
Nell'arredo interno della casa un posto importante aveva, e conserva, per tutto il territorio tropicale umido, l'amaca (v.), la quale è conosciuta anche nella Nuova Guinea. Il letto-piattaforma, oltre che tra le genti più civili degli altipiani, si era diffuso fra le tribù meno nomadi del NE., e in qualche distretto prossimo alle Ande.
Il fuoco era dovunque ottenuto rotando a mano un bastoncino in un altro pezzo di legno: metodi più complessi (a trapano, ad arco) sono probabilmente effetto d'introduzioni post-colombiane. Ma nell'estremo N. (Eschimesi e alcune tribù vicine) e nell'estremo S. (Fuegia) si otteneva il fuoco anche battendo selci e piriti di ferro. Nelle regioni umide dell'America del Sud è comune l'uso di scottare e affumicare il pesce o la cacciagione su una specie di gratella (babracot) per conservarla: e la conservazione di carni seccate e pestate, talvolta insieme con altre sostanze (pemmican), era molto praticata dovunque, sia presso le tribù di cacciatori sia presso gli agricoltori.
Armi e utensili. - La caccia e la pesca, occupazioni di grande importanza in tutto il territorio americano, avevano il necessario largo corredo di utensili e d'armi: gli strumenti per la caccia essendo sovente anche le armi per la guerra. Fra questi era l'arco, usato in tutto il continente con la sola eccezione di qualche tribù dell'alto Rio delle Amazzoni (Jibaro) e degli Andini, presso i quali nemmeno le ricerche archeologiche lo han rinvenuto: la decadenza dell'arco in questa regione trova riscontro nell'area polinesiana. Anche nella Fuegia l'arco era però poco adoperato e non da tutte le tribù, mentre nella Patagonia gl'Indiani lo usarono finché dovettero condurre la caccia a piedi, lo abbandonarono appena ebbero dai Bianchi il cavallo. La bola (non molto dissimile da quella dei Ciukci) divenne allora l'arme da caccia più importante. Le forme fondamentali dell'arco si ricollegano assai bene a quelle del mondo antico (v. arco e freccia), con affinità equatoriali per le forme del centro e del sud, e affinità asiatiche per quelle del nord. Molto diffuso era anche il bastone-propulsore, con una notevole varietà di tipi non chiaramente classificati (v. armi): è noto che esso è comune ai popoli dell'Oceania e a quelli dell'Asia nord-orientale. Presentemente è andato quasi del tutto in disuso. Il bastone da getto (affine al bumerang, ma di tipo non elicoidale e quindi non ritornante al cacciatore) era assai adoperato per la piccola caccia (rabbit-stick) nella zona arida dell'America settentrionale. Ancora in uso è, per contro, la cerbottana, l'arme indonesiana, nella zona forestale dell'Amazzonia e nei distretti adiacenti sino al Pacifico e al mar delle Antille; ed essa era adoperata anche dalle tribù orientali degli Stati Uniti (Muschogi, Cherokee, Irochesi).
Nella Guiana e nei paesi vicini ancora si usa per le frecce il curare, il terribile veleno ottenuto dalla liana Strychnos toxifera: e gli Spagnuoli trovarono anche tribù che per la guerra infettavano le frecce con i bacilli del tetano, uso ancora vivo tra i Goajiro.
Per le armi a mano, clave mazze lance arponi, oltre la varietà di materiali (litico, metallico, osseo tra i pescatori artici e australi, ligneo nelle foreste) si trovano alcune forme molto diffuse, altre a localizzazione limitata, ma nessuna forse esclusiva dell'America. L'immanicatura dell'ascia nell'ansa di un legno ripiegato e legato alle due estremità, metodo assai comune, è, p. es., tipica della cultura australiana: altre ricorrenze comuni con l'Oceania, nelle forme litiche, si sono già segnalate. Lo scudo, oggi quasi abbandonato, era di due forme: grande e rettangolare, o piccolo e rotondo (Indiani delle Praterie, Pueblos, Messico, forse antico Perù): corazze di assicelle di legno, con evidenti parentele asiatiche si trovano usate tra gli Amerindî del NO., d'imbottiture di cotone nel Messico e nel Perù. Nel regno degli Incas si costruivano fortilizî di pietra, le cui rovine sono ancora visibili, e a scopi difensivi è stata anche attribuita la scelta delle caverne dai Cliff-Dwellers. In molte parti della regione atlantica settentrionale e fra i Guarani-Tupi del sud, i villaggi erano, al tempo della conquista, circondati da palizzate elaboratamente costruite: e alcune tribù indiane del N. (Apache) e del S. (Araucani) opposero anche agli Europei una difesa valorosa e ostinata: si sa invece quanto fosse relativamente facile agli Spagnuoli la conquista del Messico e del Perù. Ancora oggidì ci sono, nelle foreste che si estendono ai piedi orientali delle Ande, tribù indipendenti, e le loro condizioni di esistenza sono certamente migliori di quelle degli Indiani che si sono sottomessi. I costumi più feroci sono quasi scomparsi, sopravvivendo in poche tribù. Tra essi sono da menzionare la scotennatura (scalping) del nemico caduto, già molto diffusa nel N. e ancora praticata nel Chaco, la conservazione di cranî-trofei (accompagnata fra i Jibaro da una specie di mummificazione, come nell'Oceania), e l'antropofagia (Parentintin del Brasile): tutti costumi, connessi a particolari concetti religiosi, che si ritrovano nell'area indonesiana e melanesiana.
Fuorché in alcune regioni interne e povere di acque, la pesca, ora specialmente fluviale, ha una grande importanza. I metodi usati erano varî. L'amo era diffuso specialmente nella zona del Pacifico, l'arpone aveva largo uso in molti distretti ed è ancora tipico delle culture eschimese e fuegina; nella California, nella regione dei Grandi Laghi e nel Brasile, è o era molto praticata la pesca per mezzo di veleni o con l'arco e la freccia a punte multiple. La pesca con le reti, o più raramente con grandi canestri, è pure praticata un po' dovunque, dall'Alasca al Capo Horn.
Interessante è l'esame dei mezzi di navigazione posseduti dagli Amerindi per il problema delle loro relazioni culturali con le aree contermini. La generale povertà di essi costituisce, in complesso, un grande contrasto con l'area oceanica. I due tipi principali americani sono la piroga scavata in un unico tronco d'albero, che troviamo naturalmente diffusa specialmente in regioni provviste di grossi alberi (Amazzonia, Columbia Britannica), e l'imbarcazione di scorza d'albero cucita o legata, della quale i tipi più rozzi sono quelli dei Fuegini, i più perfetti sono le sottili e svelte canoe dell'America nord-orientale (Ojibway). Il cayak eschimese, il cui scheletro è coperto di pelli, rientra nella stessa categoria. Una forma circolare, coperta di pelli, usata per traghetti, ricorreva nelle praterie settentrionali e nelle steppe australi.
A questi tipi sono da aggiungere varie specie di zattere, tra le quali si può mettere anche la balsa di giunchi legati insieme, segnalata al tempo delle scoperte su molti punti della costa del Pacifico, dalla California centrale al Chile. La vela, per l'epoca precolombiana, è accertata soltanto per le balse della costa peruviana e del lago Titicaca (v. aymará). Ignoto era il cardine fisso per il remo, tranne che presso gli Eschimesi per importazione dalle tribù nord-asiatiche. Lo scarso sviluppo dell'arte nautica è da attribuire, in parte, alla povertà di forme insulari nell'ambito delle culture meno primitive: le imbarcazioni maggiori erano infatti sulle coste del Pacifico settentrionale, ove si aveva anche (isola di S. Barbara) lo scafo composto di assi, e nelle Antille.
Arti tessili. Vesti e ornamenti. - La fabbricazione delle reti per la pesca e per la caccia agli uccelli ci conduce all'industria della tessitura. Più elementare ancora di questa è l'intrecciatura di erbe o vimini per fabbricare panieri, stuoie o altri oggetti: la troviamo in tutta l'America, se si escludono le aree (Eschimesi, Canadà orientale, praterie del nord, Patagonia) dove aveva preso il sopravvento il lavoro delle pelli, e dove la corda di fibra vegetale era sostituita dai tendini e dalla fibra animale. L'intrecciatura, a tipo attorcigliato o a rotoli concentrici, era particolarmente serrata e perfetta presso quelle tribù primitive, prive di ceramica, che ne traevano recipienti per l'acqua e per bollirvi, con sassi infocati, le vivande (Alasca, Rocciose, California, Patagonia meridionale).
I primi elementi della tessitura, con la fabbricazione del filo ottenuto torcendo la fibra vegetale, erano pure noti dovunque: ma la filatura della fibra era fatta a mano, e il fuso (non libero, ma tenuto fisso al suolo o in una mano) appare soltanto col materiale speciale a fibre corte fornito dalla lana e dal cotone, e forse nemmeno su tutto il dominio di questi due prodotti. La diffusione della coltura e della tessitura del cotone copre all'incirca l'area della coltura del mais, e mostra d'essere, come questa, un prodotto della civiltà andina. Quella della lana presenta tre distinte aree principali: la Columbia Britannica (lana di capra selvatica), il basso Mississippi (lana di bisonte) e il Perù (lama). I metodi della tessitura erano però molto uniformi, e i telai americani sono dei più semplici. Tuttavia, alcuni dei tessuti peruviani, e in particolare quelli forniti da alcune tombe costiere, appaiono ammirevoli per la loro finezza, la grazia dei disegni e la bellezza dei colori. Soltanto l'Asia meridionale presenta un così ricco sviluppo indigeno di quest'arte. Nell'Oceania, d'altra parte, si rinvengono le forme analoghe a un'altra industria americana: la lavorazione delle penne di uccelli (molto usate anche per l'acconciatura della testa) nell'area messico-andina era combinata con finissimi lavori d'intrecciatura e tessitura. Affinità oceaniche mostra pure la preparazione di vesti con la battitura della corteccia d'albero, in uso fra le tribù del versante orientale delle Ande.
La regione messico-andina era la sola, in ogni modo, che adoperasse per l'abbigliamento tessuti di cotone o di lana, essendo altrove il loro uso limitato a scopi minori (amache di cotone nell'Amazzonia, coperte di lana nella zona delle Rocciose). I tessuti per le vesti avevano la forma quadrangolare data ad essi dal telaio, e, con appositi tagli per infilarvi la testa e le braccia, venivano a cadere sciolti intorno alla persona: strettamente affine è il poncho, il mantello di pelli che era usato in ampie regioni contermini a quelle menzionate, e cioè nella parte mediana dell'America del Nord e in quella terminale dell'America del Sud. In entrambe le regioni tale mantello era portato sopra una spalla in modo da lasciare libero un braccio. Un dominio culturale distinto, con spiccate affinità asiatiche, è quello degli Eschimesi e dei cacciatori delle foreste settentrionali, che presenta abiti di pelli cucite insieme con vere giacche, cappucci, calzoni, gambali e scarpe.
Per il piede, al mocassino di pelle del nord fa riscontro la calzatura di pelle patagonica, mentre nell'area messico-andina si usavano i sandali di cuoio, più adatti al suolo duro.
In connessione esterna con l'abbigliamento, ma in reale dipendenza col ritualismo religioso, sono da menzionare la coloritura, il tatuaggio e le numerose mutilazioni e deformazioni del corpo. Fra queste sono le molto diffuse deformazioni del cranio, che hanno riscontri sud-asiatici ed oceanici, ma sembrano aver avuto nell'America, in ispecie sul versante del Pacifico, uno sviluppo maggiore che in qualsiasi altra parte della Terra.
Forme sociali e politiche. - Ancora molte tribù amerindiane vivono in famiglie isolate o in piccoli gruppi locali, e non sono raccolte in villaggi. In molte altre tribù l'uso delle case collettive fa che il villaggio sia, per così dire, costituito da una sola casa. Soltanto le aree delle medie e alte culture ci presentano il villaggio in senso proprio, le federazioni di più tribù sotto un capo (regione nordatlantica) la costituzione di principati dispotici e di monarchie ereditarie (regione messico-andina). All'altro estremo delle forme politiche, esistono tribù, come i Fuegini e i Chocó del Darien, che non riconoscono l'autorità di alcun capo.
Per l'analisi delle forme sociali e della loro distribuzione manchiamo di lavori comparativi e comprensivi. Fuori delle tribù più primitive, è o era comune la divisione della tribù in "clan" esogamici a discendenza materna, o in "gentes" a discendenza paterna. Quest'ultima era in vigore anche nel Messico e, più chiaramente, presso gli Aymará e i Quechua delle Ande, con distinzioni totemiche che si ritrovano del resto su gran parte del continente. In molte tribù del nord si avevano distinzioni in fratrie o classi, con forme richiamanti quelle dell'omonimo ciclo culturale oceanico. Di regola le tribù indiane erano monogame, essendo la poligamia il privilegio dei capi, e anche questo soltanto nelle aree di media e alta cultura.
Religione. - Il quadro della vita individuale e sociale degli Amerindî, come per ogni altra popolazione terrestre, è del resto inseparabile dalle concezioni e dai riti religiosi.
Lo studio di questi ha mostrato notevoli differenze regionali, ma anche la larghissima diffusione di alcuni particolari riti o concetti. Accanto alla nozione di un essere supremo, che, nonostante alcune interpretazioni tendenziose in questo senso non può rappresentare una credenza monoteistica, in generale il panteon religioso degli Americani contiene un gran numero di esseri superumani, benefici o malvagi, e la loro mitologia appare assai complessa.
Un posto particolare spetta agli eroi civilizzatori, non sempre forniti degli attributi della divinità, ma creatori del mondo, apportatori di piante coltivate, ecc. In tutta l'area delle maggiori civiltà, dal Chile al Rio Grande, il mito del demiurgo (Viracocha, Bochica, Kukalcàn, Quetzalcoatl) si ripete con caratteri simili, ed esso si ritrova, meno completo, nella regione delle praterie settentrionali (Arapaho, Cheyenne, Blackfeet), come pure nel Venezuela e fra i Tupi. Sotto l'influsso del cristianesimo, gli eroi nazionali sono stati poi spesso identificati col Dio dei cristiani. Gli dei in senso proprio hanno, invece, più spesso forma animale (corvo, coyote, coniglio, serpente piumato o cornuto) o s'identificano con qualche fenomeno celeste (sole, luna, fulmine) o naturale (terra, mare) e sono frequentemente rappresentati in forme mostruose. Analogie notevoli sono apparse nelle leggende sparse nel doppio continente e anche fra quelle del nuovo e dell'antico mondo: tra quest'ultime è da ricordare la leggenda, diffusissima, di un diluvio universale, sopravvenuto a distruggere il mondo, e della successiva ricostruzione di questo.
Un tratto che si può dire comune a tutti gli Amerindî è il timore del mondo degli spiriti presenti intorno al vivente: innumerevole è soprattutto l'orda degli spiriti malvagi, e alle loro macchinazioni sono attribuiti l'insuccesso, la malattia e la morte. Perciò l'uomo ricorre ad ogni mezzo concepibile per difendersi da essi: gli amuleti, la stessa ornamentazione e pittura del corpo, gli scongiuri, i riti propiziatori, le danze sacre, i sacrifici, sono tutti mezzi di protezione contro i demonî. E un'importanza sociale grandissima assume, nello stesso riguardo, il medico-stregone (medicine-man), medico, profeta e veggente. Si ritiene che egli sia dotato di poteri sovrumani e capace, per mezzo di canti e d'incantesimi, di combattere l'ostilità dei demonî; ma che sia in grado anche di portare ai vivi, con l'aiuto dei demonî, l'infortunio, la malattia e la morte. Nelle società più primitive (Eschimesi, Athabaska del nord, tribù californiane e amazzoniane) lo stregone o sciamano è, al tempo stesso, il prete della tribù, custode e regolatore dei riti sacri e delle danze: come nella Siberia, nelle occasioni di maggior momento, egli entra in trance, è scosso da tremiti e convulsioni, o esegue alcuni dei ben noti portenti dei fachiri dell'India (sospensione della fune, maneggio del fuoco, insensibilità alle ferite, ecc.). Ma nelle regioni nelle quali il ritualismo religioso era più evoluto lo stregone aveva minore importanza, sussisteva solo in margine all'organizzazione religiosa. Nel Perù antico, infatti, come pure tra i Chibcha, i Maya, gli Aztechi, l'organizzazione del clero aveva formato una classe dominante parallela a quella politica, talora intimamente legata a questa. Templi sontuosi erano eretti agli dei principali, al di sotto dei quali veniva una serie interminabile di feticci, investiti di qualche qualità sacra: il ritualismo religioso, con cerimonie continue, riempiva tutto l'anno. Il calendario dei Maya e dei Messicani aveva appunto lo scopo di fissare il programma religioso per ogni giorno dell'anno, e un calendario analogo, ormai perduto, sembra esistesse nell'antico Perù. Offerte, doni e sacrifici erano deposti o immolati giornalmente sugli altari degli dei: i Maya e i Messicani sono rimasti tristamente celebri per l'estensione data in talune particolari occasioni ai sacrifici umani, ma il costume, associato a residui di antropofagia rituale, vigeva anche nella Colombia e, presso qualche tribù, anche fuori dell'area della civiltà messico-andina.
Il ritualismo religioso sembra essersi sviluppato soprattutto nell'area di diffusione dell'agricoltura e molte delle sue cerimonie avevano funzione propiziatoria per i raccolti e contenevano al tempo stesso indicazioni pratiche per le operazioni agricole. Gli indiani dei Pueblos ci hanno conservato sino ad oggi, se anche in una scala ridotta, questo sistema mitico e ritualistico delle maggiori civiltà indigene. Ma alcuni elementi di esso si ritrovano anche fra le tribù incolte, come tra gl'indigeni del Brasile, e permettono di riconoscere una fondamentale affinità con le concezioni ed i riti religiosi degl'isolani del Pacifico; nello stesso senso sono da menzionare i riti d'iniziazione, il costume amazzoniano della couvade, il largo uso delle maschere nelle danze sacre. Particolare interesse ha la grande diffusione dei riti di purificazione, in capanne sudatorie, o con l'offerta del proprio sangue, con violenti emetici, con fumigazioni di tabacco: nella stessa categoria può entrare la pubblica "confessione dei peccati" che s'incontra dagli Eschimesi sino all'antico Perù. Fra le tribù di cacciatori o pescatori che avevano conservata l'organizzazione in clan totemici, come tra i cosiddetti indiani del NO. (Tlingit, Haida, ecc.), il ritualismo religioso era pure abbastanza sviluppato, ma con forme particolari per ciascun clan e rivolto agli antenati-animali. Le maschere usate nelle danze e nelle "rappresentazioni sacre" di questi indiani sono tra le più belle e immaginose che ci abbia dato l'America.
Le danze con le maschere sono praticate altresì, anche da molte tribù primitive del sud, nei riti funebri. Il concetto più generalmente diffuso è che il morto rimanga sulla terra, in forma di spirito benevolo o maligno: in alcune tribù esiste, invece, l'idea di un mondo a parte nel quale le anime dei defunti si raccolgano.
Molti erano i metodi usati per la sepoltura, talora promiscuamente in una stessa area. Il semplice seppellimento nel terreno (in posizione distesa o rannicchiata) si completava in talune regioni con la erezione di tumuli o mounds (Mississippi, Ande), o era sostituito dalla esposizione del cadavere (nella Patagonia e nella regione settentrionale delle Praterie su un'apposita piattaforma, come in Australia) sino alla totale scomparsa delle parti molli, e dal successivo seppellimento delle ossa. Nella Florida e in una larga fascia atlantica dell'America meridionale prevaleva l'uso del seppellimento in urne o del cadavere (come tuttora fra i Chiriguano della Bolivia) o delle sole ossa. La mummificazione caratteristica del Perù, favorita dal clima asciutto, si ritrova inaspettatamente fra gli Aleuti dell'Alasca. La cremazione era invece rara, mentre, come ancora nel Brasile nord-occidentale, era più diffusa la incinerazione secondaria delle ossa del defunto, venendo poi le ceneri ingerite dai parenti in particolari cerimonie.
In relazione con le manifestazioni religiose stava anche la medicina indigena; e gl'Indiani avevano scoperto un numero non piccolo di sostanze mediche. La razza bianca, che è debitrice loro di non poche importanti acquisizioni culturali, ha tratto così da essi anche la conoscenza del più potente febbrifugo che si conosca: il chinino.
Provincie culturali. - Entro a questi caratteri generali la civiltà degl'indigeni americani presentava tipi regionali, aventi una notevole corrispondenza con l'ambiente fisico e biologico, che si possono definire tenendo conto specialmente della prevalente occupazione. Già si è localizzata una regione messico-andina di agricoltura più progredita con allevamento di qualche animale: essa ha tra i caratteri tipici anche l'architettura muraria e la metallurgia. La regione presenta a sua volta varie concentrazioni locali a caratteri distintivi, e consente una divisione in quattro sottoregioni principali: il territorio dei Pueblos, la zona Azteca-Maya, il territorio dei Chibcha, e quello degl'Incas. Con essa confinavano al N. due regioni culturali assai più povere: quella dei cacciatori del bisonte, o Indiani delle praterie (Sioux, Caddo), che fu dopo la scoperta notevolmente modificata dall'introduzione del cavallo e la regione comprendente la California meridionale e centrale e una porzione adiacente delle Rocciose (Shoshon), con molte tribù linguistiche isolate e caratteri di forte arcaismo, dedita soprattutto alla raccolta dei frutti e dei grani selvatici. Il Mississippi e i distretti dei Grandi Laghi e dell'Atlantico costituivano la regione nord-atlantica dei coltivatori di mais con caratteri culturali più elevati (ceramica). Archeologicamente, è la regione dei mounds; etnicamente, dominio principale delle nazioni degli Irochesi, degli Algonchini, dei Muschogi. La regione del NO., costituita dal bacino del Columbia e dalla costa occidentale dal 47° al 60° N. (Salish, Chinook, Haida, Tsimshian, Tlingit, e varî altri gruppi linguistici), si può denominare col Wissler del salmone, data l'importanza assunta dalla pesca di esso: regione a caratteri culturali assai complessi, che, nonostante l'interruzione geografica, par mostrare rapporti con le civiltà elevate meridionali e forse qualche maggiore contatto diretto con l'area polinesiana. Seguono al N. la regione canadiana dei cacciatori del caribù (renna americana) a cultura assai povera con molti elementi artici (Dené e Algonchini settentrionali), e la regione dei cacciatori artici (Eschimesi e Aleuti) con una cultura fortemente specializzata in relazione al peculiare ambiente polare. Le Antille e gran parte dell'America tropicale umida formano la regione caratteristica della coltivazione della manioca, con differenze regionali poco accentuate e molte tribù appartenenti a gruppi linguistici distinti, fra i quali sono dominanti gli Arawak, i Caribi e i Tupi (Guarani). Numerose tribù brasiliane, tuttavia, non coltivavano affatto, ma vivevano di piccola caccia, di pesca e di raccolta e presentavano, e conservano tuttora, caratteri culturali molto più primitivi, com'è del grande gruppo dei Gês del Brasile orientale. Il Chaco con un territorio adiacente verso l'Atlantico introduce alle culture povere del S.; è una regione dove la raccolta aveva maggiore importanza e diffusione che l'agricoltura. Segue ad essa la regione patagonica, che il Wissler denomina dal guanaco, oggetto principale della caccia, la quale era l'occupazione dominante (Pampeani e Patagoni), anch'essa trasformata dall'introduzione post-colombiana del cavallo; infine, la ristretta, povera e primitiva regione dei pescatori della Fuegia.
I rapporti culturali fra l'America del Nord e quella del Sud non appaiono molto evidenti: la regione continentale di comunicazione era, all'epoca della scoperta, occupata da organismi politici assai stabili aventi scarsi rapporti reciproci. Le Antille formavano una regione di scarso movimento etnico, presentando più che altro gli effetti di una doppia colonizzazione sovrapposta di origine meridionale, Arawak e Caribica. Pertanto, le somiglianze fra le regioni culturali meno evolute delle due aree continentali, quando non riflettono elementi comuni a tutta l'America e mancano all'area centrale, tradiscono parentele e contatti anteriori allo sviluppo delle maggiori civiltà messico-andine. Gli elementi comuni sono numerosi specialmente fra le aree e per le fattezze culturali più primitive, e quindi fra le popolazioni delle parti settentrionali e mediane dell'America del Nord e quelle meridionali e sud-occidentali dell'America del Sud. Tali tratti fanno parte dello strato più antico delle culture americane, ma contengono anche elementi che si debbono collocare ad un piano culturale meno primitivo (cerbottana). Ma la peculiare forma del continente americano ha fatto sì che, mentre le alte terre orientali hanno costituito una zona di attiva evoluzione della cultura sino a determinare, nella porzione mediana di esse, con le culture sedentarie e la densa popolazione, un blocco umano che chiuse la via ad ulteriori scambî, le due maggiori aree del N. e del S. sono rimaste assai precocemente isolate ed esposte ad influssi culturali diversi.
Affinità e origini delle civiltà americane. - L'esame comparativo degli elementi costitutivi delle culture americane è stato affrontato soltanto nelle fasi più recenti degli studî etnologici, ed ha appena cominciato a dare i suoi frutti. Per lungo tempo gli etnologi americani han negletto di proposito i riferimenti alle aree culturali fuori del continente, e sono rimasti sotto il dominio di due concetti fondamentali affermati dalla scuola nord-americana: origine indipendente della civiltà americana e spiegazioni "evoluzionistiche" di tutte le analogie più palesi con le culture esterne. D'altra parte, gli etnologi europei non avevano mai posto su larghe basi, prima di pochi lustri fa, il problema delle relazioni culturali fra l'Antico e il Nuovo Mondo, se non con tentativi, prematuri e mal diretti, di ricercare nel mondo antico, e anzi nelle sue storiche massime civiltà, l'origine delle culture americane più elevate. Si trattava di un errore troppo evidente ai conoscitori dell'etnologia americana perché non rinforzasse per reazione l'indirizzo tradizionale di questa. Le maggiori civiltà del Nuovo Mondo sono infatti fuori di ogni dubbio, nel loro essenziale contenuto, una maturazione indigena. Sono anzi sotto molti rispetti le forme "locali" più differenziate e quindi più spiccatamente distinte dalle aree culturali esterne. Basta ricordare la lavorazione dei metalli in contrasto alla grande provincia oceanica che la ignorava, e alle regioni nord-asiatiche passate dall'età litica a quella del ferro in tempi certo recenti poiché la conoscenza del ferro non aveva oltrepassato lo stretto di Bering. Ora, a giudicare obiettivamente da tutti i dati disponibili, la scoperta del rame e della non facile arte di combinare il rame e lo stagno per ottenere il bronzo fu fatta in modo indipendente nel Nuovo Mondo, e probabilmente dopo che il Mondo antico era entrato dovunque in possesso del ferro (Nordenskiöld). Tratti culturali esclusivi dell'America. in varie provincie e a livelli diversi di civiltà. sono abbastanza numerosi, e non c'è ragione alcuna di rifiutare agl'Indiani la capacità di contributi originali e anche quella di ritrovare, indipendentemente, forme e beni culturali conosciuti anche fuori dell'America. È tuttavia sempre difficile decidere per la dipendenza (contatti etnici) o l'indipendenza (evoluzione culturale) di un tratto della cultura, quando esso si considera da solo. Alcuni etnologi contemporanei hanno la tendenza a decidere per la seconda quando si tratta di forme ed oggetti che mostrano legami con l'ambiente fisico o morale (Nordenskiöld), e concedono l'acculturamento per pochi oggetti singolari di fattura complessa, l'insorgenza dei quali non sia giustificata da tali legami: in base a questi concetti, si è ammessa l'origine oceanica del propulsore (Rivet), della cerbottana (Rivet, Nordenskiöld), del flauto di Pan (Rivet, Nordenskiöld), del grande tamburo amazzoniano da segnali (Nordenskiöld), delle mazze di pietra stellate (Nordenskiöld), dell'uso dei cranî-trofei (Rivet). Questi raccordi sarebbero sufficienti a dimostrare la esistenza di parentele fra il dominio culturale americano e quello oceanico; per l'America settentrionale, una più larga comunanza di elementi artici e sub-artici di cultura è di solito ammessa con l'Asia nord-orientale.
Ma la presenza di pochi "apporti" isolati e aventi, nell'America una distribuzione varia e discordante e un'intima connessione con altri innumerevoli oggetti che si vogliono di origine locale, costituisce un problema inestricabile: migrazioni con effetti così ridotti sono ben più difficili ad ammettersi che non la derivazione in blocco delle culture americane da regioni esterne. In modo analogo l'antropologia e la linguistica sono oggi costrette a respingere la teoria degli apporti minori e parziali, e cercano la soluzione dei rapporti americani con l'antico mondo su basi più larghe.
In realtà, gli elementi culturali comuni fra l'America e il mondo esterno aprentesi ad occidente di essa non formano l'eccezione, ma la regola. Varî accenni ne sono stati dati nelle pagine precedenti, e la trattazione particolare di alcuni lati più caratteristici del problema si troverà negli articoli riguardanti i singoli elementi della civiltà (v. abitazione, arco, armi, ecc.) e nella discussione generale storico-geografica della cultura (v. culturali cicli). La ricerca è, però, appena iniziata, e innumerevoli punti sono ancora oscuri: ma i contributi della scuola tedesca Foy-Graebner-Schmidt, le mirabili analisi del Nordenskiöld e, ora, dall'America stessa, gli acuti suggerimenti del nostro Imbelloni, sono già sufficienti a profilare le prime fattezze della soluzione. E questa si prospetta nel senso che nell'America si trovano segni evidenti di un passaggio d'interi complessi culturali, che si soglion dire oceanici, ma sono localizzati (in uno stato vario di conservazione) in porzioni più o meno vaste di tutto il territorio che dalle più eccentriche isole oceaniche va sino alle oasi di primitivi dell'Asia sud-orientale. Inoltre è già chiaro che i cicli culturali più antichi, che nel mondo antico sono ancora assai bene distinti (come il ciclo australiano del bumerang, quello afro-asiatico dell'arco primitivo, ecc.) sono nelle aree più arcaiche dell'America fusi e sovrapposti: e che anche i complessi culturali successivi, pur presentando aree di relativa concentrazione, si sono in generale notevolmente mescolati. La causa è da ricercare nella forma del continente, che, al contrario dell'Oceania, non ha offerto aree di sufficiente isolamento protettivo alle susseguentisi ondate culturali. Ne segue che, se, p. es., i tratti fondamentali della cultura dell'Amazzonia si ritrovano tutti in qualche regione dell'area oceanica, con particolari e più numerose corrispondenze con la Melanesia, nessuna tribù amazzoniana può rappresentare l'esatto parallelo di una tribù melanesiana.
Nell'America del Nord, le culture indigene hanno ricevuto un particolare aspetto per il fatto che alle persistenze dei cosiddetti cicli oceanici si è sovrapposto un complesso culturale artico e subartico, venuto evidentemente più tardi, che rappresenta anch'esso il passaggio in massa di una cultura esterna nell'America.
Tuttavia, sia nel caso dei più remoti passaggi, sia in quello dei più recenti contatti settentrionali, quello che noi osserviamo oggi è il resultato di rapporti genealogici che spingono le loro radici nel tempo, in periodi nei quali la distribuzione delle forme culturali non era precisamente quella trovata dagli Europei nell'Asia o nell'Oceania. Forme di cultura contemporanee non sono del resto, di regola, derivate l'una dall'altra; la parentela è costituita dall'esistenza di progenitori comuni. Così le culture americane hanno in comune con le oceaniche e con le asiatiche gli antenati: e i complessi culturali migranti dall'una all'altra area non sono in alcun luogo della terra rimasti inalterati, né alcuno di essi occupa oggi esattamente l'area del suo primo sviluppo. Questo è necessario ricordare, perché la comunanza di oggetti o di costumi, supponiamo, fra il Brasile e la Melanesia non permette senz'altro di supporre che sia avvenuto un passaggio diretto, per la via più breve, dalla Melanesia al Brasile: gli oggetti in questione possono essere partiti ed aver marciato in pari tempo e in direzione divergente da una regione intermedia e lontana da ambedue le mete (p. es., dall'Asia meridionale od orientale), dalla quale poi l'invasione di nuove forme può averli eliminati. L'Oceano Pacifico, infatti, non sembra aver fornito la via principale di penetrazione dei cicli culturali nell'America. La civiltà polinesiana, che è la cultura più espansiva e attiva del Pacifico, la sola dotata di mezzi nautici capaci di stabilire più che qualche contatto casuale con le terre che circondano l'Oceano, è del resto recente, e, nonostante il concorso delle correnti e dei viaggi involontarî di deriva, ha lasciato disabitate non poche terre insulari, tra le quali anche le isole più vicine al continente americano (Revilla Gigedo, Cocos, Galápagos, Juan Fernández e varie altre minori); queste segnano lungo la costa occidentale dell'America una lacuna antropogeografica che ne conferma lo stato "ordinario" d'isolamento dalla parte dell'Oceano. È vero che l'analisi delle culture oceaniche mostra, anche nelle isole più lontane, anzi di preferenza in queste (I. di Pasqua, Nuova Zelanda), forme sia somatiche sia culturali meno "recenti" che si sono volute considerare effetto d'una prima più antica serie di migrazioni marittime, condotte dai Melanesiani, che si sarebbero spinti più volte fino al continente americano. Ma residui di Melanesiani ulotrichi, dei quali anche deboli tracce sarebbero ben riconoscibili nei caratteri fisici esterni, mancano totalmente nell'area polinesiana, come mancano nell'America, e i caratteri anatomici di qualche popolazione, che hanno ispirato le moderne teorie di migrazioni melanesiane (Rivet, Verneau), si spiegano ottimamente con la remota discendenza da forme parentali comuni.
Perciò, mentre si può ammettere che fra gli arcipelaghi oceanici e le rive americane abbiano avuto luogo alcuni contatti diretti accidentali (derive o incursioni senza ritorno e senza regolarità) nel periodo di espansione della civiltà marinara polinesiana, si può con ragionevole sicurezza escludere che attraverso l'oceano Pacifico sia avvenuto un passaggio continuo e regolare di ondate culturali verso l'America. La stessa distribuzione geografica di molti oggetti che portano una chiara impronta oceanica (si noti, p. es., la localizzazione orientale della cerbottana, che manca anche all'area polinesiana), e la ricordata miscela di elementi che si collegano ai diversi cicli culturali primitivi, sono fatti contrarî all'ipotesi di un loro diretto passaggio marittimo, mentre sono facilmente comprensibili se immaginiamo che i detti cicli culturali abbiano dovuto compiere uno dopo l'altro lo stesso viaggio obbligato dal N. al S., con le necessarie diramazioni laterali, attraverso il continente americano.
Infatti, se la via oceanica ci appare per lo meno inadeguata, non rimane disponibile che la via dello stretto di Bering, perché la strada dell'Atlantico settentrionale, pure scelta in passato per ipotetiche migrazioni dall'Europa di genti caucasoidi e di culture paleolitiche (Keane, Martin, Sollas), ha la sua continentalità rotta per lo meno dal Terziario. La via nord-asiatica, ancor oggi in un ambiente polare e subpolare, non poté certo essere utilizzata durante le fasi glaciali dell'epoca quaternaria. Anzi la stessa disposizione, nelle attuali sedi, dei popoli dell'Asia e dell'America settentrionali non può essere avvenuta che alla fine dell'ultimo episodio glaciale, cioè all'inizio dell'epoca geologica attuale: e si è compiuta certamente movendosi da ambe le aree che convergono allo stretto di Bering, dall'Asia e dall'America, e con forme somatiche e culturali già differenziate, e con varie successive spinte. In altre parole, durante l'ultimo episodio glaciale non solo l'Asia settentrionale, ma anche l'America doveva essere già popolata, e i loro gruppi umani devono aver seguito a distanza il graduale ritiro dell'ambiente fisico e biologico polare verso il N., bloccando con le loro culture caratteristiche la regione degli scambî. In questo periodo anche l'Asia orientale, salvo qualche rara oasi di persistenza (Ainu), vide sostituire le sue genti e le sue culture arcaiche, di affinità meridionali, da genti e civiltà di origine continentale, e dai cicli culturali seriori. Perciò nessun passaggio di forme primitive e meridionali dall'Asia all'America è concepibile, per questa via, se non è collocato in tempi molto più antichi e climaticamente molto favorevoli; cioè in una fase interglaciale. Questo può essere stato l'ultimo interglaciale (Riss-Wurmiano), o soltanto un ottimo climatico posteriore al massimo dell'ultima glaciazione (Post-Wurmiano): ma in ogni caso, la presenza dell'uomo in America, con forme e culture differenziate, nel Quaternario, è un'illazione che scaturisce necessariamente dall'esame delle sue culture indigene. Durante il periodo del popolamento e dei passaggi delle culture dall'Asia all'America, tutta l'Asia sud-orientale e orientale dovette essere occupata, in momenti successivi, dalle culture epipaleolitiche e neolitiche che gli Europei han trovato ben conservate soltanto nell'Oceania e, meno bene, nelle parti più isolate dell'Insulindia e della penisola Indo-cinese: di modo che talune delle miscele di cicli culturali che appaiono caratteristiche delle culture americane possono essere avvenute anche prima del passaggio. Va tenuto inoltre presente che l'eguaglianza civiltà neolitica = clima attuale, che vale per la preistoria dell'Europa, non ha di necessia applicazione universale, e che le culture neolitiche sud-asiatiche e americane possono datare da tempi anteriori al definitivo assetto del clima attuale.
Il problema del popolamento dell'America riceve dunque dall'etnologia qualche lume. I suoi risultati sono, in complesso, contrarî all'ipotesi di una larga utilizzazione delle vie marittime, e chiariscono quindi anche lo scarso sviluppo dell'arte nautica nelle culture americane; conducono, d'altra parte, ad invocare per l'antichità del passaggio dell'Uomo in America, sebbene ne manchi ancora una sicura prova geologica, una data più remota di quella ammessa dalla scuola nord-americana contemporanea.
Alle ricerche future spetterà precisare quali strati ed elementi culturali abbiano seguito la via, quasi del tutto terrestre, del N.O., e quali siano giunti alle rive americane dal mare. Ai primi si devono supporre antichità, durata e continuità di gran lunga maggiori: è possibile che sino a tempi assai recenti, già storici per la nostra civiltà occidentale, l'America non abbia avuto altri rapporti con il mondo esterno, e fosse dominio delle culture primitive, della cultura patriarcale totemistica dei cacciatori superiori, e di una fase arcaica (o minorata, senza agricoltura) delle culture matriarcali. Sono le culture delle quali si trovano le tracce fino all'estremità australe del continente. Fra gli elementi di origine marittima dobbiamo porre, invece, indubbiamente l'agricoltura, e con essa le arti figulina e tessile, la casa quadrangolare con tetto a spioventi, l'arte muraria: sono gli elementi che nell'America mostrano d'aver avuto i centri d'irradiazione nella regione messico-andina e nei quali è facile riconoscere una diretta connessione con una cultura polinesiana o proto-polinesiana. L'intervento di questa fu dunque tardivo e limitato a contatti fortuiti, in modo da non produrre sensibile effetto nella compagine antropologica delle genti americane: ma era destinato a modificare profondamente la composizione e l'evoluzione delle culture americane.
I gruppi etnici e la loro distribuzione. - Le tribù americane sono state classificate in base al loro linguaggio, e l'analisi di questo lato della cultura vien fatta nel capitolo seguente. È stato possibile stabilire l'affinità linguistica esistente fra certe tribù e raggrupparle in famiglie linguistiche. Alcune di queste hanno una distribuzione molto vasta: così poche famiglie, Eschimesi, Athabaska, Algonchini, Sioux, Muscogh, Uto-Aztechi (Shoshoni, Pima, Nahua), occupavano i 9/10 dell'America settentrionale, compreso il Messico. La famiglia Maya prendeva un buon tratto dell'America Centrale: il Chibcha (l'unico idioma comune, al tempo della scoperta, all'America del Nord e del Sud) e il Quechua erano le lingue più diffuse nella regione andina. Anche nel Brasile e nell'Amazzonia quattro gruppi: l'Arawak, il Caribi, il Tupi-Guarani e il Gês hanno rappresentanti un po' dovunque e fanno testimonianza di energici moti etnici che è assai difficile ricostruire. Nel caso particolare di queste famiglie linguistiche e della loro compenetrazione, bisogna ricordare che nell'America umida meridionale i fiumi costituivano, prima che essi fossero occupati dai Bianchi, la via unica di comunicazione e consentivano grandi spostamenti e facili contatti. Grandi migrazioni tanto nell'America del Nord (quasi tutte le tribù degli Stati Uniti) quanto in quella del Sud (Guarani) sono avvenute anche nell'età postcolombiana. Nelle regioni australi il Tehuelche domina quasi da solo l'ampia regione delle steppe.
Accanto alle famiglie linguistiche diffuse su ampî territorî, compaiono nelle due aree continentali varî distretti nei quali s'incontra una straordinaria varietà e diversità di linguaggi. In qualche caso sono aree arcaiche per la cultura (California, Chaco, Fuegia), o angoli morti non raggiunti dall'espansione delle lingue più fortunate, e quindi regioni più o meno isolate o periferiche, come la costa nord-occidentale e la costa andina; o, comunque, territorî con condizioni topografiche favorevoli alla separazione locale o regionale, come tutta l'America Centrale e la zona giacente ai piedi orientali delle Ande.
Il progresso degli studî di filologia americana va tuttavia riducendo sempre più il numero delle "famiglie" linguistiche. Ma con tutto ciò l'America mostra, in contrasto con la maggior parte della Terra, entro ai tratti generali che ne fanno un vasto territorio linguistico particolare, una diversificazione interna molto forte.
Un calcolo esatto del numero attuale degli indigeni è molto difficile, ed è ormai impossibile far quello dei tempi della scoperta. Nell'America Settentrionale, a N. del Messico, le statistiche odierne dànno 383.000 indiani, venendo in ordine d'importanza numerica primi gli Algonchini (91.000), poi i Dené o Athabaska (53.000), gli Irochesi (50.000), i Sioux (41 .000), gli Eschimesi (30.000), i Muschogi (29.000), i Salish (18.000), i Shoshoni (17.000) e i Tlingit o Coliusci (4400). Nel Messico e nell'America centrale, si dànno per contro alle popolazioni che ancor parlano le lingue indigene, cifre molto più elevate, ma poco sicure: circa 4 milioni di individui. Si tenga presente che larghi nuclei di popolazione indigena o di meticci parlano ormai le sole lingue europee, onde la statistica delle lingue indigene dà spesso cifre inferiori a quella della razza, anche tenendo da parte i meticci (il calcolo dei quali risulta però assai difficile). Le stesse condizioni prevalgono nell'America meridionale. Le tribù più numerose sono i Quechúa e gli Aymará, che sommano a circa 3 milioni (quasi 4, probabilmente, con gl'ispanofoni e 5 ½ con i meticci), e gli Araucani del Chile con circa 100.000 individui. Tribù numericamente importanti sono poi tuttora ai piedi delle Ande (Chiriguano della Bolivia 20.000, Campa del Perù 10.000, Jivaro dell'Ecuador 20.000, Uitoto della Colombia 25.000) e nel nord (Goajiro 25.000). Per contro, molte tribù amazzoniane o australi di grande interesse per la cultura o la lingua sono rappresentate da poche migliaia, e talora da poche centinaia di individui. Gl'indigeni sono dunque concentrati specialmente sugli altipiani della zona tropicale. Il 70% dell'odierna popolazione indigena (indiani e meticci) dell'Ecuador, del Perù, della Bolivia vive fra 2000 e 4500 m., cioè più in alto del limite superiore delle abitazioni nelle Alpi; e come oggi, anche in passato la popolazione è stata alquanto densa soltanto nella parte mediana della fascia montana occidentale dell'America (la regione ad agricoltura più progredita) essendo, per il resto, localizzata specialmente lungo i corsi d'acqua e le coste. La cifra globale per gl'indigeni che hanno conservato gl'idiomi originarî, si può stabilire fra 8 e 9 mil. di individui: quella degli Amerindî di "razza" è certamente superiore, e si suol computare a sedici milioni.
Bibl.: Archeologia e preistoria: H. Beuchat, Manuel d'archéologie américaine, Parigi 1912; F. F. Outes, La edad de la piedra en Patagonia, Buenos Aires 1905; T. A. Joyce, South American Archaeology, Londra 1912; A. Hrdlička, W. H. Holmes e altri, Early Man in South America, Boll. n. 52 del Bureau of American Ethnology, Washington 1912; W. H. Holmes, Handbook of Aboriginal American Antiquities, Boll. n. 60 del Bur. of Amer. Ethn., Washington 1919; M. Boule, Les hommes fossiles, 2ª ed., Parigi 1923; J. Frenguelli e F. F. Outes, Posición estratigráfica y antigüedad relativa de los restos de industria humana hallados en Miramar, in Physis (Rev. de la Soc. Arg. de Cienc. Nat.), VII (1924); E. B. Renaud, L'antiquité de l'homme dans l'Amérique du Nord, in L'Anthr., 38°, Parigi 1928.
Prime fonti letterarie e vecchi lavori: per la conoscenza della civiltà indiana è molto importante la vecchia letteratura, e alcuni dei migliori lavori datano dal sec. XVI. I missionari cattolici, molti dei quali italiani, hanno pure reso grandi servizi, oltre che per la protezione degli indigeni, per la loro conoscenza. B. de la Casas, Apologética Historia de las Indias, Madrid 1909; Relaciones geográficas de Indias, I-IV, Madrid 1881-1897; B. Cobo, Historia del Nuevo Mundo, I-IV, Siviglia 1890-1895; G. F. Oviedo y Valdés, Historia general y natural de las Indias, Madrid 1851-55; F. S. Gilji, Saggio di storia americana, Roma 1780-1784; A. D'Orbigny, L'Homme américain, Parigi 1839; A. Raimondi, El Perú, Lima 1878-79.
Lavori recenti: W. Krickeberg, Amerika, in Illustrierte Völkerkunde di G. Buschan, 2ª ed., 1922 (con bibliogr. e carte); C. Wissler, The American Indian, Oxford Univ. Press, 2ª ed., 1922; F. W. Hodge, Handbook of American Indians, Boll. n. 30 del Bureau of Amer. Ethn., I-II, Washington 1907-1910; P. Ehrenreich, Die Ethnographie Südamerikas, in Arch. f. Anthr., 1904; W. Schmidt, Kulturkreise und Kulturschichte in Südamerika, in Zeitschr. f. Ethn., 1913; E. v. Nordenskiöld, Comparative Ethn. Studies, I-VII, Göteborg-Londra 1919-1928 (Bibl. e carte); R. Karsten, The Civilisation of the South American Indians, Londra 1926.
Problema delle origini: P. Rivet, Les Mélano-Polynésiens et les Australiens en Amérique, in Acad. d. Inscr. et Belles Lettres de Paris, 12 dicembre 1924; id., Les éléments costitutifs des civil. du NO. et de l'O. Sud-Américain, XXI° Congresso Intern. degli Americanisti, Göteborg 1924; id., Les origines de l'homme américain, in L'Anthropologie, XXXV, Parigi 1925; J. Imbelloni, La esfinge indiana, Buenos Aires 1926; id., Einige konkrete Beweise über ausseramerikanische Kulturbeziehungen der Indianer, in Mitt. d. anthrop. Gesellsch., Vienna 1928; K. Täuber, Die neuesten Forschungen über die Herkunft der Indianer, in Pet. Mitt., LXXIV (1928), con carta.
V. Lingue indigene.
Le lingue indigene dell'America sono molto numerose, sebbene non poche si siano estinte senza che ce ne sia pervenuto alcun saggio. Il primo compito della linguistica americana consiste dunque nella classificazione genealogica di tanti idiomi, l'unica, come osservava D. Brinton, che possa avere un valore scientifico.
Classificazione. - A tale compito si dedicava già nel 1836 Gallatin nella Synopsis of the Indian tribes (Archaelogia Americana). L'opera sua fu proseguita da Latham, Buschmann, Hale, Gatschet e altri, finché nel 1891 J.W. Powell nell'opera Indian linguistic families of America north of Mexico diede una classificazione completa di 58 "linguistic families" nord-americane adottando una nomenclatura piuttosto monotona in -an, come Eskimauan, Chinookan, Piman, Salinan, ecc. Le classificazioni del Powell rimasero poi per lungo tempo indiscusse quasi fossero definitive. Il merito di aver dato una classificazione completa delle lingue americane spetta a Daniel Brinton (The American Race: a linguistic classification and ethnographic description of the native tribes of North and South America, Philadelphia 1901). Il Brinton distribuì gli stocks americani in cinque grandi aggruppamenti: I. Nord Atlantico; II. Nord Pacifico; III. Centrale; IV. Sud Pacifico; V. Sud Atlantico. Ed egli osservava: "Questo ordinamento non è soltanto comodo; io annetto una certa importanza etnografica a questa classificazione. C'è una somiglianza spiccata tra i due gruppi atlantici, e un contrasto del pari spiccato tra essi e i gruppi del Pacifico, che si estende al temperamento, alla cultura e alle caratteristiche fisiche". Ciò in parte è vero. Ora ecco le suddivisioni stabilite dal Brinton per l'America settentrionale e centrale.
Gruppo Nord Atlantico. 1. Eschimo e Aleuto. 2. Beothuk. 3. Athapaska (Athabaska) o Dené. 4. Algonchino. 5. Irochese. 6. Choktaw-Muscoghi (Muskogee). 7. Catawba, Yuchi, Timucua, Natchez, Chetimacha, Tunica, Adaize, Atakapa, Carankawa, Tonkawa, Coahuilteco, Maratin. 8. Pawnee o Caddo. 9. Dakota o Siù (Sioux). 10. Kioway.
Gruppo Nord Pacifico. 1. Costa nord-ovest e California: Tlingit, Haida, Salish, Sahaptin o Nez Percés, ecc. 2. Yuma. 3. Pueblos.
Gruppo centrale. 1. Uto-Azteco (rami Ute o Shoshoni, Sonora e Nahuatl). 2. Otomi. 3. Tarasco. 4. Totonaco. 5. Zapoteco e Mixteco. 6. Zoque e Mixe. 7. Chinanteco. 8. Chiapaneco e Mangue. 9. Chiontal e Popoloca, Tequistlateco e Matagalpa. 10 Maya. 11. Huave, Subtiaba, Lenca, Xinca, Xicaque, "Carib", Mosquito, Ulva, Rama, Paya, Guatuso.
Le lingue dell'America meridionale sono distribuite in quattro grandi regioni:
Gruppo Sud Pacifico. Regione della Colombia.1. Istmo e coste adiacenti: Cuna, Changuina, Chocó, Caraca, Timote, ecc. 2. Chibcha. 3. Paniquita e Paeze. 4. Colombia meridionale: Cauca, Coconuco, Barbacoa, Andaqui, Mocoa, Cañari.
Regione del Perù.1. Quechúa. 2. Aymará. 3. Puquina. 4. Yunca. 5. Atacameño e Chango.
Gruppo Sud Atlantico. Regione delle Amazzoni. 1. Tupi. 2. Tapuya. 3. Arawak. 4. Caribico. 5. Cariri. 6. Coroados, Caraja, ecc. 7. Bacino dell'Orenoco: sottogruppo Caribico, Saliva, sottogruppo Arawak, Otomaco, Guama, Guayba, Guarauno, Betoya, Churoya, Piaroa, Puinave. 8. Bacino dell'alto Amazzoni: Záparo, Jibaro, Mayna, Yameo o Lama, Arda, Peba, Yagua, Itucale, Ticuna, Hibito, Pano, Paumari, Araua, Ipuriná. 9. Altipiani della Bolivia: Chiquito, Yurucare, Mosetena, Tacana, Samucú, Canichana, Cayubaba, Apolista, Otuké, Ite, ecc.
Regione della Pampa. 1. Gruppi del Chaco: Guaycurú, Lule, Mataco e Payagua; Lengua, Guato, Calchaqui. 2. Pampa e Araucano, Chono. 3. Tsoneca; Yahgan, Ona e Alakaluf.
Una rivista di tutte le lingue americane diede P. Rivet nell'opera Les langues du Monde (Parigi 1924). Entro le divisioni principali geografiche dell'America settentrionale, centrale e meridionale, i gruppi linguistici e le singole lingue sono disposti in ordine alfabetico. All'America settentrionale vengono assegnate 26 "famiglie", alla centrale 20, alla meridionale 77, in tutto 123 famiglie.
La più recente rivista delle lingue americane è quella di W. Schmidt in Die Sprachfamilien und Sprachenkreise der Erde (Heidelberg 1926). Nell'America settentrionale egli distingue i seguenti gruppi disposti in un certo ordine geografico (l'Eschimo-Aleuto viene posto erroneamente tra le lingue uraloaltaiche, p. 55).
1. Algonchino: a) gruppo della California comprendente il Wiyot e lo Yurok; b) gruppo principale della pianura e dell'Atlantico. Qui si deve osservare che il Wiyot e lo Yurok, già collegati tra di loro da Latham nel 1856, furono poi collegati al gruppo Algonchino indipendentemente da E. Sapir e da A. Trombetti. La connessione però è assai remota, come ha dimostrato di recente C.C. Uhlenbeck. Remota è anche la connessione dell'estinto Beothuk di Terranova, considerato da Fr. G. Speck come appartenente al più antico strato dell'Algonchino (Beothuk and Micmac, New York 1922); mentre J.P. Howley aveva voluto collegare i Beothuk agli Athapaska e Dené.
2. Na-Dené: a) Dené proprio o Athapaska, suddiviso in ramo settentrionale, del Pacifico e meridionale; b) Tlingit; c) Haida. Il Tlingit e il Haida furono aggiunti al grande gruppo Athapaska da E. Sapir. Tale connessione fu messa in dubbio da Goddard.
3. Irochese: Seneka, Tuscarora ecc., Cherokee. L'appartenenza di quest'ultimo al gruppo Irochese fu dimostrata nel 1883 da H. Hale.
4. Lingue del Golfo: a) gruppo Muscoghi, suddiviso in Muscoghi proprio e Natchez-Taensa; b) gruppo Tunica, comprendente il Tunica, Atakapa e Chetimacha; c) gruppo Coahuilteca cioè Coahuilteca-Comecrudo e Karankawa, Tonkawa e Cotoname. Secondo Swanton i gruppi b e c sono probabilmente collegati tra loro e ambedue ulteriormente con a. Si noti però che E. Sapir collegò più diretiamente b e c col grande gruppo Hoka, come vedremo.
5. Timucua. Considerata da Gatschet e Brinton come affine al Caribico, questa lingua sembrò a Swanton poter avere una remota connessione col Muscoghi, col quale la collega anche Sapir.
6. Caddo: a) gruppo meridionale Caddo-Wichita-Kichai; b) centrale o Pawnee; c) meridionale o Arikara. I Caddo delle praterie furono certamente dispersi e divisi in tre gruppi geograficamente separati dalle incursioni dei Dakota o Sioux irrompenti dalle regioni orientali.
7. Dakota o Sioux: a) a sud Biloxi e Ofo; b) ad est Tutelo, Catawba e altri idiomi estinti; c) al centro Dakota, Hidatsa, ecc.
8. Tsimshian. Con il Tlingit e il Haida comincia la lunga serie delle lingue dell'ovest, che fino a pochi anni fa si ritenevano isolate e ora vengono riunite in pochi grandi gruppi. Il Tlingit e il Haida vennero collegati al gruppo Dené o Athapaska, come si è detto; lo Tsimshian secondo Sapir va col Penuti.
9. Gruppo Mos: a) Wakash, cioè Nutka e Kwakiutl; b) Chimacua estinto e Quileute; c) idiomi Salish dell'interno e della costa. Il nome di "Mosan" per questi tre gruppi, prima ritenuti isolati, fu proposto da L. Frachtenberg e deriva dal numerale mōs "quattro": Nutka mūh, moh, Kwakiutl mōh, mūk, Chimacua méēs, Salish moas, mos. Giova però osservare che forme simili si trovano anche altrove, per es. Tepehuana maukao, Cora moakoa.
10. Gruppo dell'Oregon: a) Sahaptin; b) Wailatpu o Cayuse-Molele; c) Lutuami o Klamath-Modoc. Questo gruppo fu riconosciuto da Gatschet, Hewitt e Frachtenberg, e il nome di gruppo dell'Oregon fu proposto da W. Schmidt.
11. Gruppo Yakon: a) Yakon; b) Coos ossia Coos e Takelma; c) Kalapuya. Secondo Frachtenberg e Sapir questo gruppo va col Penuti.
12. Siuslaw. Collegato generalmente col gruppo Yakon e quindi col Penuti.
13. Gruppo Penuti: a) gruppo della California o Pen-uti proprio, comprendente nel sotto-gruppo Pen il Wintun o Copeh e il Maidu o Pujuna, e nel sotto-gruppo Uti il Miwok o Moquelumne, il Costano e il Yokuts o Mariposa; b) gruppo Yakon, cioè Takelma, Coos-Siuslaw-Yakon, Kalapuya; c) Chinook alto e basso; d) Tsimshian. Il gruppo Penuti proprio fu stabilito da Dixon e Kroeber e determinato in base al numerale 2: Wintun pan-, Maidu pen; Miwok ōtta, ōtī-ko, Costano uti-s, uti-n, ecc. Gli ampliamenti del gruppo sono dovuti a Frachtenberg e Sapir e sono in parte provvisorî.
14. Yuki nord e sud (Wappo). 15. Kutenai o Kitunaha. 16. Kiowa (Kioway). 17. Yuchi. 18. Beothuk. Sono lingue "isolate", 14 e 15, all'ovest; 16, nel centro; 17, nel sud-est; 18, nel nord-est. Però il Kioway ha stretta affinità col gruppo Tano dei Pueblos come, dopo A. Trombetti, riconobbe Harrington, e il Beothuk va con l'Algonchino, come abbiamo già osservato.
19. Gruppo Hoka: a) Karok; b) Cimarico; c) Shasta, Achomawi e Atsugewi; d) Pomo o Kulanapo; e) Yana; f) Esselen, estinto; g) Yuma diviso in molti dialetti. Anteriormente erasi stabilito un gruppo Salina-Chumash (detto "Iskoma"), cui ritenevasi affine il Washo. Il primo nucleo di questo grande gruppo fu determinato da Dixon e Kroeber e denominato in base alle forme del numerale 2: Karok aχak, Cimarico χoku, qâqū, Shasta yokwa, hoka, Achomawi hak, Atsugewi hoki, Pomo χō-s, akō, Yana uχ-, ecc. Kroeber aggiunse poi al gruppo Hoka il Seri della Sonora e il Tequistlateco o Chontal di Oaxaca (ma per questo v. Trombetti, Elementi di Glottologia, p. 176 seg.). Sapir, dal canto suo, aggiunse le lingue del gruppo Coahuilteco (v. 4.) e più tardi, con W. Lehmann, il Subtiaba del Nicaragua. Ma ecco come risulterebbe il gruppo ampliato Hoka-Sioux secondo il valente americanista:
A. Hoka-Coahuilteco. - I. Hoka proprio.1. settentrionale: a) Karok, Cimarico, Shasta-Achomawi, b) Yana, c) Pomo; 2. Washo; 3. Esselen, Yuma; 4. Salina, Chumash, Seri; 5. Chontal.
II. Subtiaba (e Tlapaneco).
III. Coahuilteco: Tonkawa, Coahuilteco-Cotoname-Comecrudo, Karankawa.
B. Yuki. C. Keres. D. Atakapa-Tunica-Chetimacha. E. Irochese-Caddo.
F. Gruppo orientale: I. Natchez-Muscoghi, Timucua; II. Sioux (Dakota); III. Yuchi.
Ritiene poi il Sapir che questo vastissimo aggruppamento Hoka-Sioux possa in seguito ampliarsi in direzione meridionale, comprendendovi, per es., anche il Maya. Struttura notevolmente diversa avrebbero le lingue dei gruppi Eschimo-Aleuto, Na-dené, Algonchino-Wakash e Penuti. Prima del Sapir le lingue dell'America settentrionale erano state distribuite dal Radin in questi tre grandi aggruppamenti:
I. Salish, Kwakiutl, Kutenai, Algonchino;
II. Penuti, Lutuami, Sahaptin, Shoshoni, Tano, Yuki, Mixe, Zapoteco, Caddo, Irochese;
III. Athapaska, Hoka, Maya, Sioux, Muscoghi. Questi aggruppamenti del Radin sono prematuri e meno giustificati di quelli del Sapir. In ogni modo va notato il grande progresso compiuto dai tempi del Powell, il quale contava 58 "famiglie distinte" senza apparente unità d'origine. E ora passiamo all'America centrale.
1. Uto-Azteco: a) dialetti Shoshoni; b) lingue della Sonora; c) Azteco o Nahuatl.
2. Pueblos: a) Tano suddiviso in Tewa, Tiwa e Towa; b) Keres; c) Zuñi. I popoli dei Pueblos formano una unità culturale più che linguistica. Lo Hopi (Moqui) appartiene al Shoshoni.
3. Guaicurú e Pericú. Questi due linguaggi della penisola di California sono estinti.
4. Otomí-Mangue: a) Nord: Otomí, Pame, Tepehua, Mazahua, Pirinda o Matlatsinca; Chocho-Popoloca, Chinanteco; Mazateco e Izcateco; b) Sud: Chiapaneco, Chorotega-Diria-Ortina-Mangue. Il Mangue è presso l'istmo, a grande distanza dall'Otomí. Il Chiapaneco è nel mezzo.
5. Mixe-Lenca: a) Nord: Mixe e Zoque, Huave; b) Centro: Tapachulteco, Aguacateco; c) Sud: Xinca, Xicaque, Lenca. Secondo P. Radin e W. Lehmann probabilmente col Maya.
6. Tarasco. Secondo Lehmann probab. col Huave e col Maya.
7. Mixteco-Zapoteco con Amuzgo e Cuicateco.
8. Totonaco. Va probabilmente col Maya. Già nel 1907 A. Trombetti segnalava le seguenti importanti concordanze fra il Totonaco e il Mame (gruppo Maya): Totonaco -a tu, -ū noi, -go essi - Mame -a tu, -o noi, -χu essi (nel verbo).
9. Gruppo Maya: a) Maya con varî dialetti; Chontal, Chol; Tzental, Tzotzil, Chañabal; b) Mam, Ixil, ecc.; Quiché, Cakchiquel, Tzutuhil, Uspanteco; Kekchi, Pokomchi, Pokoman; c) Huaxteco.
10. Mosquito-Xinca: a) Paya, Xicaque; Lenca, Xinca; b) Mosquito, Sumo con Twaka, Matagalpa e Cacaopera. Il Lenca e lo Xinca sembrano avere rapporti col gruppo Hoka; d'altra parte Lehmann pensa che l'intero gruppo Mosquito-Xinca provenga da mescolanze col gruppo Chibcha.
Nell'America meridionale è meno progredito il processo di riduzione, perciò i gruppi sono ancora numerosi e non pochi sono gli idiomi "isolati".
1. Gruppo Chibcha: a) Nord-ovest: Guatuso, Rama; Cabecar, Bribri, Terraba, Boruca o Brunca; Dorasco-Changuina, Guaymi, ecc.; Cuna; b) Est: Köggaba, Tunebo, Andaqui, Betoi, ecc.; c) Centro: Chibcha; d) Ovest (Chocó): Noanama, Andagueda, ecc.; e) Sudovest (Barbacoa): Paez, Paniquita, Totoro, Coconuco; Cara, Mocoa, Esmeralda. Dell'Esmeralda si fa anche una lingua "isolata".
2. Yunca-Huancavilca. 3. Quechúa o Runa-simi e Aymará o Colla. 4. Gruppo Cunza-Diaguita (Atacameño). 5. Allentiac-Millcayac.
6. Lingue isolate al nord dell'Amazzoni: Warrau o Guarauno Timote o Muku, Saliba e Piaroa, Otomaco o Totomaco (Taparite), Yarura, Guahibo (e Churoye), Puinave, Macú, Širiana (Guaharibo) e Waika, Kuliana, Auake.
7. Gruppo Tucano, già Betoya: a) ovest: Tama, Correguaje, Pioie, Encabellado, Icaguate; b) est: Kobeua, Tucano (con Tuyuca, Uanana, Urikana), Buhagana, ecc.
8. Lingue isolate degli affluenti occidentali dell'Amazzoni: Miranya (probabilmente col Tupi), Uitoto, Juri, Mura, Coche o Mocoa, Cofane, Záparo (e Conambo, Iquito, Gae, Andoa, secondo Rivet probabilmente col Tupi), Arda, Jibaro o Šivora (probabilmente con l'Arawak), Jebero (gruppo Cahuapana), Cholona.
9. Gruppo Pano: a) Nord: Conibo, Šipibo, Cassibo, Casinaua, Culino, ecc.; b) Centro: Canamari, Catoquina; c) Pacaguara, Caripuna, Sinabo, Chacobo, Kapuibo; Atsahuaca, Yamiaca, Arazaire.
10. Gruppo Tacana: Araona, Arasa, Guariza, Cavineño, Maropa, Sapibocona, Tacana, Tiatianaga, Chama. Congruenze grammaticali col Pano, lessicali con l'Arawak.
11. Catoquina (con Kanamari, ecc.). V'è anche un Katukina del gruppo Tupi e un Katukina presso il fiume Gregorio. Probabile parentela col Puinave-Macú.
12. Lingue isolate al sud dell'Amazzoni: Leca, Mosetena, Cayubaba (qualche rapporto col gruppo Guaicurú), Canichana estinto, Itonama, gruppo Chapacura (Iten, Pawumwa, Chapacura-Kitemoka, ecc.) probabilmente con l'Arawak, Chiquito (secondo Lafone-Quevedo probabilmente col Guaicurú), Huari, Mashubi, Yurucare, Nambicuara, Orari (Bororo del Matto Grosso) e Otuké, Guato, Trumai, Carajá.
13. Ges-Tapuya: a) nord e nord-ovest: Cayapo, Apinages, Aponegicran, ecc., Chavantes, Cherentes, Chicriabá, Acroa-Mirim; sud: Bugres, Caingang, Came, Malali; est: Camacan, Cotoxo, Maxacara; Maxacali, Capoxo, ecc.; b) Botocudo; c) Puri, Coroados, Coropo. Diverso dal Chavante è l'Eo-Chavante o Oti, ritenuto isolato. 14. Cariri o Kiriri (estinto) coi dialetti Kipea, Dzubucua e Sabuya.
15. Guarani-Tupi: a) nord-ovest: Omagua, Cocama, Yurimagua, Parentintin; b) centro: Tura, Mundurucu, Apiaca; Acipaya, Anambe, ecc.; Kamayura, Tapirape, Aueto, Canoeiros; c) sud: Chiriguano, Guarajo; Guarani, Guayaki, ecc.; d) est: Tupi, Tupinamba, ecc.; Oyampi, Emerillon, Araquaju.
16. Arawak: a) nord: Goajiro, Parauhano, Caquetio; Arawak delle isole; Lokono della Guiana; Arua (isola Maranhão); b) nord dell'Amazzoni: Marawan (Palicur); Vapichiana, Atorai, ecc.; Achagua, Piapoco, Maipure, Bare, ecc.; Manao, Carutana, Siusi, ecc.; Uirina, Uainuma, Passe, ecc.; c) Ticuna; d) Jibaro; e) sud dell'Amazzoni: gruppo Jurua-Purús, gruppo pre-Andino, gruppo della Bolivia; f) Puquina, Uru, Chango; g) sud: Saraweka, Paressi; Guana; Custenaú, Mehinacu.
17. Caribico: a) nord dell'Amazzoni: Caribico delle isole, gruppo dell'Orinoco e della costa (Cumanagoto, Tamanaco, Galibi, ecc.), gruppo dell'Amazzoni (Trio, Apalai, ecc.), Bonari e Yauapery, gruppo Roroima, gruppo Ventuari; lingue del nord-ovest: Motilon, ecc., Yameo, Yagua e Peba; b) sud dell'Amazzoni: Palmella, gruppo Madeira, Bacairi e Nahuqua, Pimenteira.
18. Waicuru o Guaicurú: a) nord: Mbaya, Guaicurú, Cadiueo, Payagua; b) centro: Toba, Pilaga; c) sud: Mocovi, Abipon.
19. Samucú o Chamacoco. 20. Mascoi. 21. Cochabot (Lengua, Enimaga, Guentuse) estinto. 22. Mataco-Mataguayo (Nocten e Vejoz) probabilmente affine al precedente. 23. Lule e Vilela. 24. Sanaviron, estinto. 25. Charrua, estinto. 26. Querandi, estinto. 27. Puel-che (Pampa). 28. Mapu-che (Araucano) coi dialetti Picun-che, Pehuen-che, Molu-che, Huilli-che.
29. Gruppo Cion: a) Tsoneca o Tehuel-che con varî dialetti; b) Ona coi dialetti Shelknam e Manekenkn o Hauss.
30. Yahgan o Yamana con quattro dialetti. 31. Alakaluf probabilmente col Chono, estinti.
Accanto a pochi gruppi molto vasti (Arawak, Caribico, Tupi-Guarani) abbiamo dunque nell'America meridionale un grande numero di piccoli gruppi e un numero considerevole di lingue isolate. Conviene però considerare una cosa assai importante, perché non si abbia un'idea falsa delle lingue isolate. Prendiamo l'esempio dell'Orari. Esso ha copiosi elementi in comune con le più svariate lingue di ogni parte dell'America, ma non concorda in modo speciale con nessun'altra lingua o gruppo di lingue, cosicché il volerlo subordinare ad altri aggruppamenti sarebbe come introdurre, per esempio, il latino o il greco nell'ambito delle lingue germaniche. Esso sta a sé, pur essendo legato ad una moltitudine di linguaggi americani per cognate radici profonde. Come ciò si sia prodotto, è facile comprendere. Quando, in tempi remoti, i primi uomini immigrati occuparono le vaste solitudini dell'America in masse estremamente rare rispetto all'estensione immensa dei territorî, il frazionamento in un grande numero di tribù divenne inevitabile, e con tale frazionamento andò di pari passo una evoluzione indipendente dei linguaggi. Così si spiega il grande numero di idiomi americani perfettamente distinti e isolati, ma non disconnessi dagli altri, anzi legati agli altri in ogni direzione, indizio certo di differenziamento iniziatosi in epoca molto antica.
Non di rado tra le lingue remote le concordanze sono più precise che tra lingue prossime. Il Yana lā́-lagi "oca" è la-lo nel Cimarico, la-la nel Pomo. Assai più lontano il Karankawa ha lā́-lagi, più lontano ancora il Natchez ha la-lak così simile al Yana ldlagi e alle forme asiatiche come Jacutico lyg-lyk, ecc. La parola ata "casa" in uso presso i Huastec dell'America centrale ricompare tale e quale presso gli Alakaluf della Terra del Fuoco. In generale si può dire che nelle lingue più meridionali dell'America si trovano molte forme arcaiche, le quali però non appartengono esclusivamente a quelle regioni. Valga come esempio il numerale "due" del gruppo Pano:
Molti elementi sono invece proprî delle lingue settentrionali e poco si estendono verso sud. Questi fatti importantissimi si spiegano riflettendo che le più antiche ondate migratorie pervennero nell'America meridionale, ove si trovano perciò i linguaggi più arcaici, che conservano gli elementi primitivi più diffusi.
Infinite sono le concordanze di ordine grammaticale e lessicale che si riscontrano da una estremità all'altra dell'America. Concordanze della prima specie si vedranno in seguito. Come saggio delle concordanze lessicali si vedano le parole significanti "neve, ghiaccio, freddo, inverno" raccolte a pp. 178-179 degli Elementi di Glottologia di A. Trombetti (per es. Chinook il-kápa "neve" - cfr. l'asiatico Ghiliaco kábi "neve" - fino allo Alakaluf della Terra del Fuoco a-kape, a-kabe "neve"). Una medesima forma del numerale "uno" si trova all'estremo nord come all'estremo sud: Aleuto taγa-taq - Alakaluf taku-taku. Perciò il Trombetti sostiene da molti anni l'unità fondamentale del gruppo linguistico americano, unità verso la quale tendono, del resto, con crescente successo e ritmo accelerato, anche gli studî di altri glottologi cultori di lingue americane.
Fonologia. -1. I sistemi fonetici delle lingue americane presentano non poche particolarità, fra cui la frequente mancanza di suoni altrove comuni. Però ai sistemi poveri di suoni si contrappongono altri ricchissimi, e in generale si nota una grande varietà che va da idiomi relativamente dolci fino ai più aspri fra quanti si conoscono.
2. Le vocali sono di regola le cinque normali. Le due vocali "anormali" ö ü hanno una diffusione limitata nell'America settentrionale: Dené ö ü (esclusi il Tlingit e Haida), Takelma ü, Klamath ö ü, dialetti Shoshoni, Hopi e Tanos ö ü, Maidu, in parte Miwok, Yokuts e Chumash ö ü, Opata ö ü. Esse si trovano dunque esclusivamente in regioni occidentali. Anche nell'America centrale la diffusione di ö ü è limitata: Mixe e Zoque ö (ü üö), parte del gruppo Maya ö, Xicaque e Xinca ü, Lenca ü. Invece tali suoni hanno una considerevole diffusione nell'America meridionale, ad oriente delle Ande, a nord e a sud del Rio delle Amazzoni. Fa riscontro a questo fatto la frequenza di ü in molte lingue asiatiche: nell'Uraloaltaico, nelle lingue Munda-Khmer, nell'Indocinese e in lingue paleoasiatiche; e la cosa è tanto più notevole, in quanto che in altre regioni del globo le vocali ö ü sono rare.
Conviene anche segnalare la presenza della vocale gutturale y (= y slavo) in molte lingue dell'America settentrionale e meridionale, poiché questa vocale può considerarsi come caratteristica di molte lingue del nord e nord-est del continente asiatico. Il Tupi ha kyrá "grasso" che corrisponde all'Ostiaco del Jenissei kyt. Lo y come vocale gutturale ha stretta affinità con a gutturale larga, come nelle lingue turche, ma anche con la corrispondente palatale i e d'altra parte con le vocali labiali o u. Così nel gruppo Maya abbiamo: Chontal q'yb mano, Mame q'ob, Maya q'ab.
3. In molte lingue americane mancano le consonanti sonore g d b o alcune di esse, oppure vi è confusione o oscillazione tra le sorde e le sonore. Secondo W. Schmidt vi è oscillazione nei gruppi Dené e Algonchino (qui lo Yurok manca di sonore, l'Arapaho ha solo b), mancanza di sonore nel Chinook, Takelma, Klamath e Yakama ad occidente, nel Choctaw ad oriente, mentre nello Yuchi v'è oscillazione. L'una cosa o l'altra si osserva nelle lingue della California, cioè nel gruppo Penuti, nella maggior parte del gruppo Hoka e nell'isolato Yuki; nel gruppo Uto-Azteco (dialetti Shoshoni, Nahuatl, Tepehuano, Tarahumara, Cora) e in parte nel Mixteco-Zapoteco, Totonaco e Maya dell'America centrale. Lo stesso stato di cose continua nell'America meridionale: Chiquito, Trumai, Carajá, Cayapo, Botocudo, Mataco-Mataguayo, Lule, Yamana e Yahgan. Il Quechúa e l'Aymará, l'Uro-Puquina e l'Atacameño non possiedono le consonanti sonore. Lacune di questo genere si notano in alcune lingue paleoasiatiche e uraloaltaiche. Nel gruppo Dakota e in molte lingue della California vi è una classe intermedia fra le sorde k t p e le sonore g d b, in quanto l'occlusione è sorda e l'esplosione sonora: k/g, ecc. Nel Chiapaneco e nel Tupi le sonore occorrono solo nasalizzate: ng nd mb.
In compenso v'è una classe di consonanti forti con occlusione laringale, per la quale dagli americanisti furono scelti i simboli poco felici k! t!p! (Kroeber propose giustamente k' t' p' col segno del glottal stop posposto anziché sovrapposto per ragioni tipografiche). Tali consonanti si trovano nell'Athapaska e in molte lingue della California, nel Dakota, poi nel gruppo Maya ("letras heridas") e nell'Otomí dell'America centrale. mentre nell'America meridionale sono segnalate soltanto nel Quechúa e Aymará, in cui si trovano anche le aspirate come nel Dakota e altrove. Così si ristabiliscono due o tre serie di esplosive perfettamente distinte. Per esempio: Ponca (gruppo Dakota) te "bufalo", t'e "morto", t‛e segno del futuro; Maya nak "corona", nak' "ventre"; Quechúa tanta "riunione", t'anta "pane" t‛anta "cencioso". Se non che le alternazioni ci avvertono trattarsi spesso di varianti fonetiche del medesimo suono. Così nel Takelma a b d g s corrispondono rispettivamente le forti p! t! k! ts!, p. es. gō″l scavare: aor. k!olo-l. Nel Wishram (Chinook) variano le consonanti nella formazione dei diminutivi e aumentativi.
4. La serie labiale è ridotta a w e m nel Tlingit (e ancora m è solo dialettale), Cherokee e Mixteco, e al solo f. nell'Irochese. Nell'Aleuto è ridotta al solo m. Rarissime le labiali nel Haida.
5. Molte lingue americane possiedono una sola delle liquide, r o l. Spesso manca r ove mancano le sonore g d b. Prive di ambedue le liquide sono alcune lingue del gruppo Algonchino, il Dakota, Totonaco, Mixteco e Chibcha. Manca r insieme con g d b nel Cherokee e Choctaw, nel Chimacua, Selish, Sahaptin-Wallawalla, nell'Azteco e nel Lule. Manca inoltre r nel Tlingit, Chinook, Maya, Köggaba, Paeze nonché nell'Eschimo-Aleuto. Manca l nell'Irochese, Otomi e Matlatsinc, Tarasco, Goajiro e Moxa, Yarura, Betoi, Tupi, Cariri, Botocudo, Chiquito, Quechúa. Caratteristici delle lingue del nord-ovest sono i suoni laterali del tipo azteco tl, che si trova anche nel Chontal di Oaxaca o Tequistlateco, presso l'istmo di Tehuantepec. Furono indicati con tl, χl, tχl e altri modi simili, ma ora gli americanisti (Boas, Goddard, Swanton, ecc.) li concepiscono come suoni semplici e come tali il rappresentano con L spirante, L affricata, ecc., cioè come varietà di l.
6. Fra i suoni spiranti f è raro, ma soprattutto va notata la mancanza di s, suono non primitivo che manca nei linguaggi più arcaici. Nell'America meridionale sono prive di s le lingue arcaiche del gruppo Tapuya (Cayapo, Aponegicran, Caraho, Caingang-Ivahy, Capoxo, Botocudo, Coroado), alcune del gruppo Tupi (Kamayura, Guayaki, cui mancano anche le altre spiranti), il Pampa-Puelche. A questo elenco di W. Schmidt si deve aggiungere l'Araucano, il Cašinaua del gruppo Pano e l'Orari del Matto Grosso. Né si può dire che nell'America settentrionale tutti gli idiomi posseggano la spirante s, poiché questo suono manca nel Chiwere e nell'arcaico Waikura della penisola di California.
7. In generale le lingue del nord-ovest sono molto aspre, specialmente il Chinook e Salish. Il carattere fonetico dipende in massima parte dalla presenza o assenza di gruppi consonantici più o meno aspri. Nell'America settentrionale hanno iniziali semplici ad occidente il Kwakiutl, Coos, Siuslaw, Kutenai (con qualche eccezione), Kioway; a oriente l'Irochese, Yuchi, Timucua, Muscoghi-Choctaw, Tonkawa-Caddo. I grandi gruppi Dené e Algonchino hanno pure di regola iniziali semplici, mentre nel Karankawa-Comecrudo-Cotoname sono ammessi i gruppi consonantici più semplici (muta con liquida). Gruppi più aspri appaiono nella sezione orientale dell'Algonchino, nel Cherokee, nel Tunica e nel gruppo centrale Dakota. Poi vengono le lingue del nord-ovest che, come abbiamo detto, sono aspre e talune asprissime: dal Tlingit fino alle lingue dell'Oregon. Le cose cambiano nella California, in cui pochi idiomi ammettono gruppi semplici iniziali, mentre anche questi sono esclusi dalla maggior parte dei linguaggi di quella regione. Lo stesso può dirsi delle lingue del Messico e dell'America centrale, fatta eccezione del Seri nel Messico e delle lingue più settentrionali del gruppo Chibcha presso l'istmo di Panamá. In tutta l'America meridionale predominano di gran lunga le iniziali semplici. Gruppi iniziali si trovano nel Piro e Campa, due lingue Aravrak, nel gruppo Mascoi, nello Yahgan e Alakaluf, molto aspri nel gruppo Chon, infine gruppi di muta con liquida in tutte le lingue Tapuya nonché nel Cariri e Caraiá.
Esito delle parole in vocale hanno pochissime lingue dell'America settentrionale: Yuchi, Cherokee e Timucua nel sud-est, poi nei Pueblos il Tewa e, con esito anche in nasale e liquida, Zuñi e Piro-Tano. Numerose sono le lingue dell'America centrale che hanno tale esito, e ad esse si aggiungono alcune poche con esito anche in nasale e liquida. Esito in vocale hanno pure moltissime lingue dell'America meridionale dall'estremo nord fino al Chaco: le lingue Chibcha, la quasi totalità delle lingue isolaie, la maggior parte del gruppo Arawak e Caribico, parecchie del gruppo Tupi e alcune del Tapuya. Esito in nasale o liquida hanno alcune lingue appartenenti ai grandi gruppi Caribico, Arawak, Tupi e Tapuya, nelle quali, del resto, le nasali e specialmente le liquide finali sono rare. In tutto il resto dell'America si trovano esiti in consonante (esplosiva) semplice, oppure in gruppi di consonanti. Quest'ultimo esito predomina sull'altro nell'America settentrionale, specialmente nella regione del nord-ovest, poi ricompare in parecchie lingue dell'America meridionale e specialmente in lingue del Chaco, nel gruppo Chon e nello Alakaluf. Si nota dunque un certo parallelismo tra le iniziali e le finali della parola, poiché dove si trovano gruppi consonantici iniziali si trovano anche gruppi finali. Nel mondo antico tali gruppi sono proprî dei linguaggi boreali.
8. Del resto i gruppi consonantici sono dovunque di regola una conseguenza del dileguarsi delle vocali atone, fenomeno che alla sua volta è determinato dal forte predominare delle sillabe accentate. Dileguandosi le vocali atone, le parole tendono a ridursi a monosillabi. Tra le lingue americane hanno manifesta tendenza al monosillabismo quelle del gruppo Otomí e affini. A ciò si accompagna nel Tewa lo sviluppo dei toni musicali (low falling, mid falling, high level, ecc., secondo Harrington). Anche nelle lingue Athapaska e nel Tlingit esistono i toni come nelle lingue dell'Estremo Oriente (v. E. Sapir, Pitch accent in Sarcee, in Journal de la Soc. des Amér. de Paris, Parigi 1925).
Morfologia -1. Osserva D. Brinton: "L'identità psichica degli Americani è bene illustrata nelle loro lingue. Certo vi sono divergenze innumerevoli nel lessico e nella morfologia esteriore; ma nell'ossatura logica, in quella che lo Humboldt chiama innere Sprachform, esse sono straordinariamente simili" (The American Race, p. 55 seg.). Questa somiglianza generale si manifesterebbe soprattutto nei due processi della polisintesi e della incorporazione.
La polisintesi consiste nella facoltà di riunire in un'unica parola l'espressione di molte idee distinte. F. Boas dà questo esempio dell'Eschimo: takusar-iartor-uma-galuar-ner-p-â "pensate voi che egli realmente intenda di andare ad occuparsi di ciò?" Questa parola-frase o parola olofrastica è composta dei seguenti elementi: takursar- (pâ) "he looks after it", -iartor- (poq) "he goes to", -uma- (voq) "he intends to", - (g)aluar- (poq) "he does so.... but", -ner-p(oq) "do you think he", -a interrogativo per la 3a persona. Si citano anche parole più mostruose come qasu-er-sar-fi-gssar-singit-dluinar-narx-p-oq "non si è affatto trovato di che fare un luogo ove la fatica sia tolta" = "non si è affatto trovato un luogo di riposo". Però L. Adam considerava questa "derivazione all'infinito" come l'esagerazione di un processo comune a tutte le lingue polisillabiche e diverso dal vero polisintetismo (composition emboîtante) delle lingue americane, per esempio dell'Algonchino. Il Tsimshian ha t-yuk-ligi-lo-d'Ep-dāLE-t "egli cominciò a deporlo in qualche luogo internamente", frase composta di t- "egli", yuk- "cominciare", ligi- "qualche luogo", lo- "in", d'Ep- "giù", dāL "deporre", -t "esso". Tale polisintetismo è più frequente nell'America settentrionale che nella centrale e meridionale e non può essere considerato come una caratteristica di tutte le lingue americane (tra gli idiomi settentrionali ne è privo, per esempio, il Chinook). D'altra parte fenomeni simili si notano anche in lingue asiatiche, per es. nel Mikir (gruppo indocinese) abbiamo ē-pā-cithu-koi-làng "egli ci ha fatto ammazzare tutte (le nostre vacche)", frase composta di ē- "noi" (inclusivo), pā- prefisso del causativo, thu- "uccidere", koi- "interamente", làng suffisso temporale. Ma sorge poi la questione dei limiti tra parola e proposizione, poiché si può ritenere che degli aggregati come in Groenlandese a-ner-quwaa-tit "egli vi prega di uscire" costituiscano delle unità più apparenti che reali, presso a poco come in italiano "egli d'uscir pregavi".
L'incorporazione consiste nell'unire al verbo l'oggetto nominale o pronominale, per esempio nell'Azteco ni-k-mačtia "io t'istruisco", ni-naka-kwa "io carne mangio" (più comunemente ni-k-kwa in naka-tl "io la mangio la carne"), nell'Oneida g-nagla‛sl-i-zak-s "io cerco un villaggio": g- io, -nagla "vivere", -sl- formativo di nomi astratti, -i- caratteristica verbale, -zak "cercare", -s durativo. Come idioma incorporante tipico può essere citato l'Irochese, che suole includere il sostantivo nel verbo. Tale caratteristica si trova più o meno sviluppata nel Tsimshian, Kutenai, Caddo, Shoshoni, mentre nell'Eschimo, Algonchino e Kwakiutl l'incorporazione è limitata ai pronomi. Anche così limitata l'incorporazione manca all'Athapaska, Haida e Tlingit, idiomi polisintetici, e a molte altre lingue. Né il fenomeno è proprio soltanto delle lingue americane.
Le questioni qui accennate furono discusse ampiamente da D. Brinton, in opposizione alle vedute di L. Adam, nell'opera Essays of an Americanist (Philadelphia 1890, pp. 349-389), né si può dire che siano finora ben chiarite.
2. La formazione dei temi avviene più spesso per mezzo di suffissi; tuttavia abbondano i prefissi nel Dakota, nelle lingue degli "aborigeni" dell'America centrale e in parecchie lingue del nord-ovest. Dove esistono insieme prefissi e suffissi si trova anche il processo della "incapsulazione" per mezzo di pre-suffissi, per es. Algonchino n-os "mio padre": n-os-inān "nostro padre", Dakota ni-siha "il tuo piede": ni-siha-pi "il vostro piede", Totonaco kin-xtlat "mio padre": kin-tlat-kan "nostro padre", Maya a-dzak "il tuo letto": a-džak-eš "il vostro letto", Chayma (Caribico) a-zan "tua madre": a-zan-kon "vostra madre", Cariri a-byro "il tuo ventre": a-byro-a "il vostro ventre", Abiponi le-ta "suo padre": le-ta-i "loro padre". Similmente col verbo: Algonchino ki-pimose "tu vai": ki-pimose-m "voi andate", Dakota yakaška "tu leghi": ya-kaška-pi "voi legate", ecc. Fuori dell'America i pre-suffissi non sono frequenti; essi si trovano specialmente nel Camitosemitico e nel Basco-Caucasico, per es. arabo ia-qtul "tu ucciderai": ta-qtul-ū "voi ucciderete", Basco da-bil "egli va" da-bil-tsa "essi vanno", Georgiano w-ar "io sono: w-ar-th "noi siamo". Però si trovano anche in lingue indocinesi, come Limbu k-pēg "tu vai": k-pēg-ī "voi andate".
3. Le distinzioni del genere o delle classi dei sostantivi si trovano nella maggior parte delle lingue americane. Gli esseri possono distinguersi in: a) animati e inanimati, b) ragionevoli (persone) e irragionevoli, c) maschili e femminili. Nei primi due casi la distinzione ha luogo di regola solo nei sostantivi e non nei pronomi personali, nell'ultimo caso la distinzione si estende anche a questi o comprende solo i pronomi personali. Vi sono anche altre classificazioni, come vedremo.
a) La distinzione del genere animato e inanimato più che altrove è comune nell'America, specialmente settentrionale e centrale. Talvolta il genere animato viene poi suddiviso in maschile e femminile. L'inanimato non ha di regola alcun segno per il plurale. Fuori dell'America questa classificazione si trova con una certa frequenza soltanto nell'emisfero boreale. Alla sua base starebbero le primitive concezioni animistiche (v. Genere).
b) La distinzione fra persone e cose è rara e sporadica in ogni parte del globo. Nell'America settentrionale trovasi col sostantivo nelle lingue Dené. Nel Hupa, per esempio, i numerali da 1 a 5 sono Laε 1, nax 2, tak 3, diñk 4, tcwōlaε 5 per le cose, Lūwûn 1, nanin 2, tak???ûn 3, diñkin 4, tcwōlane 5 per le persone (Goddard suppone giustamente che -ni o -ne abbia significato "gente", cfr. -n da ni-u "persona" nell'Ainu, p. es. tu-n 2, re-n 3, e nel lontanissimo Aymará mai-ni "una persona", pai-ni "due persone" di fronte a may-a "una cosa", pay-a "due cose"; v. Trombetti, Elementi di glottologia, p. 188 e seg.). Nel Bellacoola e nello Tsimshian i numerali hanno pure speciali suffissi per le persone, per gli animali e per varie specie di cose. In alcune lingue del gruppo Hoka hanno un suffisso del plurale soltanto i nomi di persona, mentre il Salina distingue persone da una parte, animali e cose dall'altra. Nell'America centrale questa classificazione non si trova; nella meridionale occorre soltanto nel Mobima e Cayubaba (persone: animali e cose) e nel Cariri, in cui il suffisso del plurale si adopera solo coi nomi di persona.
c) La distinzione fra maschile e femminile è la più diffusa nel globo e vi si aggiunge talvolta il neutro per le cose. Se queste invece vengono comprese nel maschile o femminile, il genere dicesi grammaticale. Molto spesso la distinzione del maschile e femminile è limitata ai pronomi e specialmente al pronome di terza persona singolare, mentre è rara nel pronome di seconda, rarissima in quello di prima. Passiamo ora in rapida rassegna la distribuzione seguendo W. Schmidt.
Il Chinook distingue maschile, femminile e neutro nel pronome di terza singolare e nei sostantivi per mezzo di prefissi. Similmente il Chimacua, pare, e alcune lingue Salish della costa. L'Irochese distingue maschile e femminile nei sostantivi, lo Yuchi maschile, femminile e neutro nel pronome di terza singolare. Nel gruppo Tunica la distinzione fra maschile e femminile si estende al pronome di seconda singolare. Il Taensa avrebbe un sistema simile a quello del Chinook. Il Maya suddivide i sostantivi animati in maschili e femminili, similmente il Bribri. Fra le lingue dell'America meridionale si comporta allo stesso modo il Saliba-Piaroa. Lo Yarura ha maschile e femminile nel pronome di terza, così pure l'Uitoto, che però estende la distinzione ai nomi di parentela per mezzo di suffissi. Il gruppo Tucano ha maschile, femminile e neutro nei pronomi, mentre i sostantivi sono distribuiti in classi con suffissi variabili dal singolare al plurale. Il Miranha ha maschile e femminile nel pronome di terza singolare, ma anche nel sostantivo. Molto singolare il maschile e femminile nel suffisso "mio" del Mobima. L'Itonama ha maschile e femminile nel pronome di seconda e terza persona singolare, nel sostantivo e nel verbo. Fra i Chiquitos soltanto gli uomini distinguono maschile e femminile, le donne usano solo le forme femminili. Mocovi e Abiponi hanno forme di terza singolare per persone, animali e nomi di parentela. Il Vejoz ha maschile e femminile nel pronome di terza singolare. Infine il grande gruppo Arawak ha maschile e femminile nel pronome di terza singolare e nei sostantivi per essere animati (il Campa e Piro aggiungono il neutro nei pronomi e sostantivi). E dalle lingue Arawak la distinzione sarebbe passata ad alcune lingue caribiche.
Ma è interessante vedere la distribuzione degli indici del genere, specialmente vocalici. Troviamo a come caratteristica del femminile nel Cocopa (gr. Yuma), per es. quanú-ko "ragazzo": quanu-ka "ragazza", maišawe-unko "mio fratello": maišawe-unka "mia sorella". Poi nell'America meridionale: Orari ore-ddo "vir": are-ddo "mulier", Colorado oni-la "vir": s-ona e s-ona-la "donna", Abiponi akigèk "cocinero": akigiga "cocinera", oarank "casado": oaranga "casada", Mataco e-dasó "aquel": a-dassó "aquella", Mbayá yonigi "figlio": yonaga "figlia", Tsoneca I nu-ken "uomo": na-kuna "donna", Alakaluf a-ckini-š "uomo": a-ckhana-š "donna" In suolo asiatico troviamo formazioni simili nel Ciukcio e Camciadalo, per es. Ciukcio ïmpïč-in "più vecchio": ïmpïč-a "più vecchia", Camciadalo akχr "avus": akχra "ava", sud ilχ "marito": ilχa "moglie". In parecchie di queste lingue si trova anche e in luogo di a, per es. Colorado akó "fratello": s-oké "sorella", Abiponi akanai "envidioso": akanai-é "envidiosa", kerai-k "viejo": kerai-é "vieia", Mocovi eogoda-k "pobre": eogoda-é f., Mbayá beiagi "sucio": e-beiake "sucia", Mataco yasa "figlio": yase "figlia", Ona a-in "padre": e-in "madre" Femminili in -e anche nel Goajiro (gruppo Arawak), p. es. anaši "buono": anase "buona".
Alcuni esempî si hanno anche di i femminile, come Baure (gruppo Arawak) re-ti "egli": ri-ti "essa", Cumanagoto wara-zo "uomo": wari-če "donna" (Caribi wori, cfr. Somali wår "uomo": ōri "donna", Basco urri-ča "femmina"), Yahgan d-abu "padre": d-abi "madre" (come nell'indocinese Kabui apu "padre" apui "madre"), inoltre Maya a-χ articolo maschile: i-š id. femminile, Ulwa (Nicaragua) all "uomo" y-all "donna" Yarura χu-di "egli": χi-na "esso", Mohawk r-ongve "uomo": yo-ngwe "donna" (=Oneida l-ongwee: y-ongwee), Seneka hu-ksaa "ragazzo": yi-ksaa "ragazza".
Frequente è l'inversione degl'indici, per cui gl'indici che generalmente denotano il femminile passano al maschile e viceversa. Così il Chinook ha i- ò- oppure ē- ÿ- per il maschile, ō- õ- per il femminile. Il Tucano occidentale ha te-i "uno": te-o "una", i-e "questo": i-o "questa", ziba-e "fanciullo": ziba-o "fanciulla". Arawak elon-ti "bambino": elon-tu "bambina", Achagua ri-ya "egli": ru-ya "essa", Campa i-ri-ro "egli": i-ro-ro "essa". Nello Mbayá i participî maschili escono in -ogo-di, i femminili in -ogo-do. Nel Dakota čiṅ-š "figlio": čuṅ-š "figlia" (Dhegiha ijinge: ijange), ecc. Questi fatti si spiegano col diverso concetto in cui fu tenuta la donna nei varî tempi e luoghi in corrispondenza con l'ordinamemo sociale di tipo patriarcale o matriarcale (del matriarcato il linguaggio serba chiari indizî in espressioni come "figlio di mamma" - "fratello" in idiomi africani, "madre della mano" - "pollice" in lingue dell'America centrale, "madre delle dita" - "pollice" in lingue papuane). In casi come Guaicurú e-thahá "padre": a-thehé "madre" si nota un contrasto fra l'alternazione del tema e del prefisso. Quella è più antica, questa più recente, e insieme attestano il passaggio da una concezione ad un'altra.
Ma anche gl'indici consonantici sono interessanti. Il Kinai ha kun-en "egli": kun-ti "essa". Ora -en corrisponde a - in del Ciukcio, ïmpïč-in "più vecchio", e a -n dei nomi proprî d'uomini del Ghiliaco, mentre il -ti del femminile sembra corrispondere a -ti dell'Arawak, elon-ti "bambino": elon-tu "bambina", con distribuzione inversa. Inoltre nel Mosetena come nel lontanissimo Camciadalo -t è segno del maschile, -s del femminile, per esempio Mosetena vogi-t "fratello": vogi-s "sorella", nana-t "ragazzo": nana-s "ragazza", pire-t "vecchio": pire-s "vecchia"; Camciadalo ov. χumiši-t "pronubus": χumiši-s "pronuba". Secondo ogni verosimiglianza -t e -s derivano rispettivamente da -tu e -ti, cosicché la vera caratteristica era in origine la vocale. Nell'Arawak il prefisso possessivo di 3a singolare è li- per il maschile, tu- per iI femminile. Con li- cfr. Tonkawa he-el "egli" (: ne "ella"), inoltre Oneida l-ongwee "uomo" (: y-ongwee "donna").
d) Vi sono poi altri sistemi di classificazioni più ricche e complicate. Nel gruppo Otomi dell'America centrale si trovano distinzioni di classi per mezzo di prefissi come nelle lingue Bantu dell'Africa. I nomi degli animali, particolarmente, sono formati in tal modo, p. es. Popoloco ku-yee "vipera", ku-šinda "toro", ku-nia "cane", ku-mistu "gatto", ku-šise "mosca", Chocho u-šide "mosca", u-šre "passero", Amuzgo ke-tsue "cane", ke-tsoho "scorpione", Mixteco ti-duku "coniglio", ti-koliši "farfalla", ndi-čitu "gatto", ndi-kutu "toro", Cuicateco iti-yain "ape", ecc. Con variazione dal singolare al plurale, Amuzgo ke-tsue "cane": ke-n-due "cani", ecc. Con nomi di frutta: Popoloco tu-satsu "arancia", tu-hundi "cipolla". Nell'Itonama i nomi di parti del corpo hanno ka- o ma-, p. es. ma-četuru "gomito" (invece ni-četiri "ginocchio"). Nel gruppo Pano sono frequenti i suffissi di classe: -tay -ti -te per oggetti fabbricati, -ka -ke ecc. per parti del corpo, e molti altri. Anche nel gruppo Chapacura, -či -če per parti del corpo, e inve e di -če il Kitemoka ha anche -yu e -ko, quest'ultimo forse proprio dei nomi di parti del corpo degli animali, per es. turu-če "naso": iuru-ko "becco". Nel Cariri gli aggettivi hanno varî prefissi secondo la classe del nome cui si riferiscono, per es. pi "piccolo" e ku "bianco" fanno be-pi e be-ku per monti, scodelle, ecc., bu-pi e bu-ku per case, vasi, frecce, animali, kro-pi e kro-ku per uccelli, pietre e cose rotonde, kru-pi e kru-ku per liquidi, ecc.
Infine la tendenza alla classificazione si manifesta spesso nella formazione del plurale, nella numerazione (e qui si tien conto non di rado della forma degli oggetti) e nell'espressione del possessivo. Così si distinguono i nomi di parentela dagli altri e il possesso naturale e inalienabile viene distinto da quello accidentale ed alienabile, per es. Cimarico mī-sam "tuo orecchio": āwa-mi "casa tua".
e) Anche i nomi denominali formati per mezzo di prefissi o di suffissi costituiscono delle classi. Oltre agli esempi dati alla lettera d) si notino i seguenti: Huaxteco a-kam accanto a Maya kam "piede", Arecuna a-pok: Copeh pok "fuoco", Tupi a-óba accanto a óba "veste". Dakota nomi di strumento come i-yumdu "aratro": yumdu "arare", i-čahṅite "scopa": kahiṅta "spazzare"; Otomí nomi di agente come y-opχo "scrittore": opχo "scrivere"; Orari nomi di strumento come i-koddo "ala": koddo "volare" Dakota o-sni "il freddo": sni "freddo", o-ape "colpo": apa "battere, colpire". Per k- v. sopra. Il suffisso gutturale forma diminutivi dall'estremo nord all'estremo sud, p. es. Eschimo sawā-úā-q "pecorella", sawall'e-xa-q "coltellino": sawi-q "coltello", Tlingit ā-k!u "laghetto", Klamath ánku-a-ga "alberino": ánku "albero", awaló-ka "isoletta": awalua-š "isola", Mixteco tai-ka-či "uomo piccolo", "ragazzo", Orari po-ga "fiumicello": po "fiume", Ona (frequente) visne-ká "cagnolino". Distinto da questo è il suffisso -go che nell'Orari forma dei nomi di animali, per es. kio-go "uccello", oro-go "Cervus campestris" (concorda in modo stupefacente col greco ὄρυ-γ- "antilope", Tuareg úri-k "antilope, gazzella", Somali or-gi, ur-gi "caprone", ecc., e si noti che il suffisso -go per nomi di animali è frequente, per es. in Africa il Gurma ha o-tata-go "locusta", o-sia-go "ape", ecc.).
Un prefisso t- si trova nel Takelma t‛a-wãxa "sua sorella minore": wãxa "suo fratello minore", wi-t‛-tobī "mia sorella maggiore": wi-εeobī "mio fratello maggiore". Cfr. Otuke -ti femminile in vuane-ti "donna": vuani "uomo". Nel gruppo Caribico abbiamo t-amo, t-amo-ssi "nonno, vecchio, capo", Cumanagoto t-um "padre" accanto a umo e y-um (Maya y-um). Il Tupi ha uba, e t-uba "padre", il Yahgan d-abu id. Frequentissimo è il suffisso nominale -l: Athapaska (Beaver), Takelma, Wappo, Wasno, Cimarico, Pomo, dialetti Shoshoni, Mutsun, Diegueño (-ly), Azteco (-li, -tli), gruppo Maya, ecc. Talvolta si trova -r in luogo di -l come nel Cimarico, nel Gabrielino, nel gruppo Caribico, ecc. Il Saraveka ha -ri con nomi di parti del corpo, il Paressí coi medesimi nomi ha -ri -re o -li. L'Orari del Matto Grosso ha bu-re "piede" da *m-pu-re, come nell'Africa il Mose ha na-po-re "piede". Distinto è il suffisso -a-lla -o-lla -ŭ-lla che nel Cimarico forma diminutivi, specialmente da nomi di animali. Con nomi di parti del corpo il Saraveka ha pure -ši -še -š e il Paressí -se; cfr. le forme come aχu-ssi, n-ako-sy "occhio" del gruppo Arawak e si noti che -s come semplice suffisso nominale ha una diffusione quasi paragonabile a quella di -l, col quale spesso coesiste nelle medesime lingue. Infine molto frequente è -s (-š, -č) nella classe dei diminutivi.
4. Ma la persistenza più tenace degli antichi segni delle classi si trova nella formazione del duale e del plurale. Il duale in complesso non è molto frequente nelle lingue dell'America e occorre più nei pronomi personali che nei nomi. Pieno duale si trova nell'Eschimo-Aleuto come nel Corjaco, poi nel complesso Muscoghi-Tunica-Timucua, mentre nell'Irochese e Cherokee sembra essere meno sviluppato. Il Tonkawa ha forme di duale nel verbo. Nel gruppo Dené si trova duale limitato, pieno invece nel Chinook e Takelma, mentre è limitato al pronome personale nel Siuslaw. La maggior parte delle lingue Penuti ha il duale nel pronome (il Maidu anche nel nome) e così pure parte del gruppo Hoka. Il Tano ha forme di duale anche nel nome. Raro è il duale nell'America centrale: si ha col verbo nel Mazahua, col nome nel Matlatsinca, col pronome personale nel Lenca e Cuna. Relativamente ancora più raro è nell'America meridionale: col pronome di prima e seconda nel Tacana, col pronome personale nel Cayapó, esteso anche al nome nell'Araucano, Chon-Ona, Yahgan e Alakaluf. Vi sono poi alcune concordanze notevoli negli indici del duale, per es. Aleuto -ki - Eschimo -k - Athapaska -kē- Irochese -ke, Irochese te- (cfr. te-keni "due") = Matlatsinc te-.
Un processo molto arcaico per formare il plurale consiste nel raddoppiamento totale o parziale del nome. Tale processo è frequente nell'America settentrionale, per es. Tsimshian haš-hās "cani", šī-šī "piedi", e con raddoppiamento iniziale ši-šaip "ossa", lik-lēkš- "grandi", an-anīs "rami", Sahaptin pi-pitin "ragazze", a-atwai "vecchie", Azteco te-teō da teo-tl "dio", Pima ho-hota, Dakota ksa-ksapa "sapienti" (invece wašte-šte "buoni" con raddoppiamento finale). America meridionale: Quechúa runa-runa "uomini", ljama-ljama "gregge di lama", Dzubucua ñu-ñu "figli". Il medesimo processo si osserva nei pronomi, p. es. Irochese i-i "noi" (cfr. ī- in Hopi ī-tamo id.), Kinai na-nna, Cuna ne-n, Tepehuana ane-ane, ecc., "noi", Salina mo "tu": mo-m "voi", Uitoto kué "io": ko-ko "noi", Pima tu-tu "noi", Lule teo-to "essi" Il Comanche mue-m "voi" è formato come il Bantu mwi-mwi id. Si notino anche i raddoppiamenti finali come Amuzgo do "io": do-o "noi", Guaicurú akami "tu": akami-i "voi". Cfr. nell'Azteco nemi "egli vive": nemī "essi vivono".
Esaminiamo ora i suffissi del plurale cominciando dalle vocali.
Nel Yuki -a designa il genere animato, per es. tok-a "pulci", koy-a "gophers", op-a "due" animato: op-i "due" inanimato. Cariri ware-a "preti", rute-a "vecchie donne". Mocovi pinak-a da pinéh "osso", Abiponi ketelγ-a da ketelk "mulo". Frequente è -i. Yuki mil-i "cervi", šip-i "salici", p'al-p'oil (con i internato) "farfalle". Mataco guole-i "capelli", zotté-i "denti", teslo-i "occhi"; Abipon lekatš-i da lekat "metallo". Anche Yokuts -i, Pomo -ya, Hupa -yu. Variante del precedente è -e: Haida šantlanē "giorni", kungē "mesi", Bribri diké da diká "spino" dičé da dičá "osso", Orari kare da karo "pesce", Abipon naetγat-e da naetcat "figlio".
Frequentissimo è -k come segno del plurale (talvolta del duale). Abbiamo: -k Eschimo (duale), Tlingit, Kwakiutl, Kato, Pomo, Miwok, gruppo . ilgonchino; -ka Caddo, Paiute mer. (-qa), Chiquito, Araucano (-i-ka), ecc.; -ke Irochese, Miwok (?), Azteco, Itonama; -kī Kato; -ko Miwok, Tucano (-ko-a), anche Chipewayan -kw-ē in nomi di parentela. Talvolta g per k come Ojibway e Natick -g, Haida ge, Creek -gi, Campa -gei per nomi maschili. Concordano in modo speciale l'Eschimo -i-k e Kutenai -i-k col lontanissimo Araucano -i-ka. E vi sono anche suffissi composti come 1° Chinook -ks o -kš (con vocale precedente -u-ks e -i-ks), Salina -u-ks, Washo -kiš, Paeze -ks; 2° Tsimshian -khoan, Takelma -k!an e -gan, Cuna -gana, gruppo Caribico -kon, -gun, Quechúa -kuna; 3° Mutsun -kma, gruppo Caribico -konto, -kemo. - Altrettanto frequente è -t. Abbiamo: -t Eschimo (come Ciukcio e Camciadalo), Copeh, Biloxi; -ta Caddo, Mixe; -te Wappo (nomi di persona), Cora, Kipea e Dzubucua; -ti Miwok, dial. Sierra meridionale; -to Maidu. Concordano in modo speciale l'Eschimo (e Ciukcio) -i-t e il Takelma -i-t. Suffissi composti o combinazioni sono Takelma -t‛an, Salina -ten.-tin, Azteco -tin, Totonaco -i-tni. - Nel Bribri -pa forma il plurale dei nomi di persona e corrisponde a -pa dell'Ainu e del Jucaghiro. Il Dakota ha -pi per il genere animato, per es. wičašta-pi "gli uomini", koška-pi "i giovani", šũka-pi "i cani". A questo -pi corrisponde esattamente nell'America meridionale -pi del Maina-Cahuapana, per es. sana-pi "donne". Guaicurú -i-pi. Né punto diverso è -pei, -pi- duale del Yahgan, per es. kipa-pei "due donne", ua-pei "due uomini", ua-pi-kin "i due uomini". Nell'America centrale le lingue del gruppo Maya hanno -b, p. es. Quiché ačiχ-o-b "uomini", Maya winik-o-b id. ič-o-b "occhi" (per -o- cfr. Bribri naũ-o-pa "zii").
Liquide come indici del plurale. Abbiamo -ra nel Mosquito (inska-ra "pesci") e nel Chocó, p. es. ta o ta-n "egli": ta-ra "essi", sa-n "egli": sa-ra "essi", tái-ra "voi", uarra-ra "ragazzi", tama-ra "serpenti". Suffisso -ri nel Cora e Abiponi, p. es. Cora searate-ri "api", kanaš-e-ri "pecore", Abiponi pana-ri "radici". Il Goaiiro ha -i-ru. Parallelo a -ra è -la nel Colorado, šušu-la "i cani", onila-la "gli uomini". Il semplice -l trovasi nel Micmac e Lenni-Lenape, nel Salina e Hupa (Wappo -lε, Hiciti -a-lji), poi nel Mocovi: pekió-l "piedi".
Una certa diffusione ha anche -s come segno del plurale: Wappo -s, Chinook e Karok -š, Irochese -s; Yuki nae-s da nai-p "ragazza", iwi-s da iwo-p iuomo", mo-s oggetto, mo-si-a "voi", u-s "noi", Wappo i-si id.
Grande diffusione ha l'elemento n. Troviamo -ni per il vocativo nell'Eschimo asiatico (Ai'wan) sciamanistico. Opata uri-ni da uri "uomo". Nell'America centrale: Totonaco -na, -ne, ecc.; nell'America meridionale: Arawak -na, -nu, -nu-ti, Campa -ni, Moxa -no, Baure -no-we, Mucik -än, Aymará -na-ka. Prefisso: Cherokee a-ni-, u-ni-, Matlatsinc ne-. Kwakiutl -e-m, Chinook -ma, Wallawalla e Sahaptin -ma, Mutsun -ma, -ma-k, Costano -me, Pomo -ma, Luiseño -m, dopo consonante -o-m, Paiute mer. -mï, Azteco -mē, Sonora -me, Chiapaneco -me, Ponka -ma, Calinago -e-m, -ü-m.
5. I casi sono formati in generale per mezzo di suffissi o posposizioni. Raramente s'incontrano preposizioni, come nel Cariri: dz-u-ka do tupã "yo amo a Dios", Dzubucua mo rada "sulla terra". Cfr. il comitativo del Ciukcio: γ-úttä, ergativo úttä "albero".
Il nominativo e l'accusativo di regola non hanno segni speciali, distinguendosi unicamente per il posto che occupano nella proposizione (nominativo in principio, accusativo prima del verbo). Per il soggetto attivo, operante, si trova nel Ciukcio e nell'Eschimo un caso "ergativo", che nell'Eschimo ha il segno -m (nei pronomi -ma) alternante con -b o -p, però trovasi -a come nel Ciukcio nell'interrogativo ki-a "chi?". Altrove manca un vero ergativo; però si distinguono in alcune lingue forme attive e inattive degli affissi pronominali nel verbo, p. es. Dakota w-a-kaška "io lego": m-a-ta "io muoio". Per questo fatto interessantissimo, e per la questione del "passivismo" che vi si connette, v. A. Trombetti, Elementi di glottologia, p. 284 segg.
Di rado il nominativo, più spesso l'accusativo è caratterizzato da un segno speciale. Nelle lingue del gruppo Muscoghi il nominativo è in -t, l'accusativo in -n, nel Maidu il nominativo è in -m. Il vocativo (che propriamente non è un caso) termina in -e nell'Azteco, Quiché, Totonaco e Tarasco, in -ey nel Cholona, in -y nel Mixteco, in -i nello Aymará (cfr. -ai, -ī nel Ghiljaco). Notevole è il fatto che nell'Azteco la terminazione è -e se il parlante è uomo, così pure -y nel Mixteco (-ya se è donna). Distinzioni simili si trovano anche altrove.
Il genitivo è spesso indicato soltanto dalla collocazione delle parole, la quale di regola è inversa ("del padre la casa").
Non rare sono le espressioni come "la sua casa, (dell') uomo" oppure "l'uomo, la sua casa", per es. Guarani aba r-ugy "uomo, il suo sangue", Abiponi Dios l-até "Dio, sua madre" (si noti la corrispondenza r- e l-). Perciò molti indici del genitivo non sono altro che possessivi di terza persona, p. es. Kwakiutl is preposto al nome = Totonaco iš-, Mixteco si- = Zapoteco ši-, Cariri s-, Tupi s-, se- "eius" (posposto Bribri -tš-a, Köggaba e Colorado -tši); Quechúa -p, -pa, = Aymará -pa, Lule -p "suo". Concordanze notevoli vi sono pure negli altri indici che derivano da locativi, p. es. Tsoneca -ka, Eudeve, Betoya -ke, Maidu, Jivaro -ki, Betoya -ko (Mucik -n-go), Opata -ku. Klamath -ti = Eudeve, Cahita, Opata -te. Invece il Klamath -m del genitivo possessivo (che trovasi pure nelle altre lingue dell'Oregon) corrisponde a -m dell'Aleuto e a -ma del genitivo possessivo del Timucua. Anche l'indice n è abbastanza frequente, e si noti in particolare Aymará auki-na "del signore": Yahgan Manezi-na "di Manezi".
I casi non grammaticali sono di regola forme di locativo nate dall'unione di avverbî di luogo al nome o al pronome, le quali per loro natura indicano l'ubi, mentre il quo e l'unde sono indicati piuttosto dal verbo. In linguaggi molto arcaici può anche mancare qualsiasi segno esteriore, per es. Ona igua Orkauke čennén maχes "noi ad Orkauke fuggimmo tutti".
Indicheremo ora le concordanze più notevoli prendendo per base la forma.
Yuki, Yokuts, Paiute mer., Choctaw -a per l'oggetto (Yuki anche strumentale). Miwok e Luiseño -i oggetto, gruppo Tupi -i locativo. Cfr. nel Ciukcio *jara-i "nella tenda", donde jarai-te "nach dem Zelte", Jarai-pu "aus dem Zelte". Nell'orari -i indica l'oggetto, p. es. i-i "me, mi", a-i "te, ti", če-i "ci", pa-i "vi"; così i-tt-aiddu a-i "io amo te", a-ro inno če-i "tu facesti così a noi". Il medesimo -i è contenuto nella posposizione composta -ai "a, verso", la quale ha riscontro nel Cariri e Guaicurú.
Algonchino -k, -n-g, Irochese -ke, Timucua -kwa, Mucik -k, gruppo Caribico -ka per il locativo, cfr. la posposizione dell'Orari ka, kwa "a, verso". Per lo strumentale: Sahaptin -ki, gruppo Caribico -ke, -ge, Yahgan -a-ki (= Bacairi -a-γe). Klamath, Costano, Dakota, Calinago, gr. Caribico, Lule -ta, Paeze -te (cfr. Ciukcio -te), Miwok, Orari -to per il locativo, Wappo, Caddo -tu "a", Natick -t locativo, Salina -t, Chinook t- "a". Esprimono l'oggetto: opata -ta accusativo e dativo, Cholona -te, -tu acc., Colorado -te, -ti dat., Quechúa -ta acc. L'Aymará ha -ta per l'ablativo. Chinook -pa, -ba, Sahaptin -pa loc. (cfr. Wallawalla -w e Mutsun -wa dat.), Tupi -pe loc. e "con", Kecluca L Yahgan -pi. loc.; Tupi -be dat. coi pronomi, -bo dat., Caribico -we e -po, -bo loc., Colorado -be, -bi loc. Nell'Orari -po, -bo "con". Eschimo -ne loc.; Mosquito -na loc. e "con", Chibcha -na loc., Mucik -n "con", Aymará -na loc. e "con". Cfr. Maidu -ni strum., Ojibway -n-g loc. Nel Bakairi -na, -a-na, -i-na forma l'allativo. Esprimono l'oggetto: S. Juan Bautista -ne acc., Hiciti -n acc., Tarasco -ni acc. e dat., Sahaptin -na acc., Betoya -ni dat., Mutsun -me loc., Tupi -me variante nasale di -pe, Araucano -mo, -meu dat. e abl., Lule -ma loc. (cfr. Yahgan -ma acc., Opata -mi acc. e dat.).
6. Poco numerosi sono i veri aggettivi. Gli aggettivi predicativi hanno di regola forma verbale, onde si rende superfluo il verbo sostantivo, la copula. Ma anche usati come attributi gli aggettivi appaiono di origine verbale, formati spesso mediante suffissi appartenenti a queste serie:
-i -ti -di -ri -li -ni -ki -bi
-e -te -de -re --le -ne -ke -be
Isleta b'atu-i "bianco", baku-i "verde chiaro", uatiamu-i "grande", poni-i "nero", kuni-i "buono"; Tehua I tše-i "bianco, giallo", tehe-i "grande"; Tehua II tsá-i "bianco", hīnya-i "piccolo" Mayoruna fera (gruppo Pano) huiza-i "nero", šina-i "rosso, giallo"; Apinages outi-i "gravis", omtou-i "malus"; Peba misala-y "nero", papase-i "bianco", selure-y "rosso"; Mosetena aiba-i "bianco", metse-i "azzurro" (cfr. Peba miša-la-y "nero"), nesne-i "giallo".
Tehua II fen-ti, hen-ti "nero"; Moreno bimi-t "dolce", siu-ti "caldo", huari-ti "grande", buidu-ti "buono", ure-ti "nero", funá-te "rosso" (cfr. Tehua II fen-ti mero"); Cuna arrá-ti "azzurro", čiči-ti "nero"; Guana karinai-ti "ammalato", honna-ti "buono" (cfr. Isleta kuni-i id.) = ouna-ti "bello", madja-ti "brutto"; Carahó meo-ti "ammalato", im-pai-té "buono", iapašo-ti "triste", Apinages pai-ti "buono", baa-ti "bello"; Acroa Mirim aimböse-tí "bello", saucó-te "poco", Chicriabá aïmoap-té"grande", aicu-té "piccolo"; Tacana e-mada-tti "brutto" (cfr. Guana madja-ti id.).
Baniva Iç. heúmo-de "caldo", iápi-de "lungo", ewá-di "giallo", irei-di "rosso", ntatši-d "cattivo" (cfr. Guana madja-ti "brutto"), tára-di "duro"; Acroa Mirim packüsé-de "lungo"; Chicriabá oïpre-dé "rosso", dapsi-de "bello"; Cherente cucu-di "freddo n, pleapo-di "pesante", šien-di = Cayapó seen-di "buono", Chavante waam-di "pingue".
Guaymi Sabanero dabe-re "rosso", le-ré "verde", mooi-re "giallo", χut-ré "bianco", gere-re "nero" (cfr. Miwok Sierra gulu-li "nero": gele-li "bianco"); Wainumá amoi-ri "caldo", ári-ri "bianco", číči-ri "duro", ebá-ri "giallo", baité-ri "brutto"; Mariaté pyáče-ry "lungo", ypune-ry "verde" (cfr. Isleta poni-i "nero", Moreno funá-te "rosso"); Aymará usu-ri "ammalato".
Klamath mú-ni "grande, largo", stá-ni "pieno", kinká-ni "scarso", komûš-ni "fuggitivo, selvatico"; Zambo C. pi-ne "bianco", pau-ne "rosso", sua-ne "agro"; Zambo H. dau-ní "dolce", suac-ní "bianco", lalag-ní "giallo"; Sumo H. dam-ní "dolce", degi-ní "caldo", pig-ní "bianco"; Sumo N. nay-ni "grande", koko-ni "vecchio", siak-ní "verde", piχa-ní "bianco"; Guaymi N. gua-ne "bianco", tai-n, kai-n "rosso", koro-n "verde"; Baré tikí-ne, balí-ne "bianco", kusa-ni "molle", hyto-ny "giallo", paii-ny "piccolo"; Tucano anyoö-ni "buono", má-nii "cattivo", yoá-nii "lungo"; Botocudo Djiop. arô-ne "alto", orô-ne "lungo", gue-ne "magro"; Paravilhana donula-né "giallo", dölöma-né "nero", tama-n id., kuelipa-né "verde"; Catoquina para-ny "bianco", zai-ny "lungo"; Tacana pasa-ne "bianco".
Esselen nkus-ki "piccolo", putu-ki "largo", sale-ki "buono"; Cherente osa-ké "malato" (cfr. Aymará usu-ri id.), uapoli-ké "leggero"; Chavante aeujea-ki "malato", guanìa-ke-u "buono" (cfr. Isleta kuni-i id.), uapure-ké "leggero", ue-ki "bello"; Guaicurú lüdi-gî "dolce", napidi-gi "nero n, lani-gi-gi "odoroso", necńo-gi-gi "oscuro"; simile anche Tacana tsetse-χi-χi "ubbriaco", uri-χi-χi "scolorito", cfr. puna-χi "effemminato".
Moqui bālang-bue "rosso", saskuan-bue "azzurro chiaro"; Miranha Oirá-açu-Tapuya jebä-be "magro", muguhú-be "grande", thitzi-bä "verde", kamöhm-bä "lungo"; Moqui gaska-vi "giallo", šehe-vi "verde chiaro", holm'-vi "nero". Cobeu bo-wi "bianco", aahar-wi "duro", erhér-we "freddo", oar-wi "lungo".
Questo elenco, tolto da una raccolta di C. Vischi, potrebbe essere notevolmente ampliato, ma anche così illustra bene una categoria assai importante anche per la connessione e classificazione delle lingue americane. Tale categoria occorre anche in lingue asiatiche, nell'Ainu, Jucaghiro, in lingue indocinesi, ecc. Jucaghiro keile-i e keile-ni "rosso", čomo-i e čomo-n "grande": čomo-č "è grande", amy-bei "nero": emi-č "è oscuro"; Ghiljaco kolla "ricco": kolla-č "è ricco", čolla "povero" čolla-č "è povero"; Ostiaco del Jenissei tum "oscuro": tum-s "è oscuro".
Vi sono naturalmente anche degli aggettivi denominali, fra cui molto notevoli quelli formati col suffisso -o -yo, p. es. Nahuatl šall-o "arenoso", a-yo "acquoso", soki-yo "fangoso"; Taino siba-o "lapidosus" (cfr. siba-yo "nux, putamen"); Chibcha muisk-o "scimmia": muiska "uomo"; Mucik oχ-o "focoso", pup-o "legnoso", up-o "salato", χa-io "acquoso"; Quechúa rumi-yo-χ "pietroso", unu-yo-χ "acquoso". Cfr. nell'Ainu ki-o "pidocchioso", taiki-o "pieno di pulci", nisir-o "nodoso" (da nisir-i "nodo"), ecc.
Spesso gli aggettivi hanno forme con raddoppiamento: così Maidu lak-lak "rosso" (cfr. Zambo H. la-lag-ní "giallo"), dal-dal "bianco", Miwok L. koi-koi, C. kai-kai "amaro" (cfr. Quiché kay "fiele" = Ona kay "fegato"), L. mulu-mul "nero", awa-awa "rosso", P. wel-wel "buono", pudu-du "bianco", kulu-lu "nero", wete-te "rosso". Ma è questo un fenomeno universale (come si può vedere in A. Trombetti, Elementi di glottologia, p. 612) e al kai-kai "amaro" dell'America fa riscontro nel cuore dell'Africa il Sandeh ka-kai "acidità": cfr. anche hiá-hia e ká-hia "amaro". Tali raddoppiamenti avevano in origine un significato intensivo.
Interessanti sono gli aggettivi negativi derivati dai corrispondenti positivi. Secondo la posizione dell'elemento negativo si possono distinguere tre casi.
Cocimí a-kal "nero": kala "bianco", Azteco a-mikini "immortale". Cfr. Coriaco a-pleèk "scalzo": pleèki "stivale", Ciukcio a-rinni-kelen "senza denti": ritti "dente", Corjaco o-wiho-köl "senza orecchi, sordo" (lingue indocinesi: Gurung ā-sā-ba, Chang ā-mai-bu, Sengmai a-kur-mo "non buono, cattivo"), Tlatskanai inte-yék "cattivo": yek "buono", Isleta ue-kun "cattivo": kuni-i "buono", Eudeve ka-deni "non buono", Mucik ts-ūts "piccolo": uts "grande", Yahgan pap-aima da aima "buono", Canamirim matenu-ty "corto": tenu-ty "alto" Quechúa man-al'in "non buono". Forme negative con ma- anche nel gruppo indocinese, p. es. Sunwar ma-rim-so, Magar madža-ti, Dhimal ma-el-ka, Thulung ma-nyu-pa "non buono, cattivo".
Baniwa Iç. matše-ra-di "non cattivo": matší-di "cattivo", Cobeu oár-bo-wi "breve": oár-wi "lungo", Chavante seen-kon-di "cattivo" (Cayapó seen-di "buono"), forse Wainuma bai-té-ri "brutto". Col --te- di quest'ultima forma concorderebbe il -ta del Meithei (Indocina) pha-ta-oa "cattivo".
Dené son-a "cattivo": son "buono", Tunica sama-ha "non maturo" (ma lapū-hū "non buono"), Dakota wašte-ka "buono non, cattivo". Nell'Ainu ison-a-p "infelix": ison "felix". Concordano esattamente con son-a le forme indocinesi come Bodo ham-ā, Dimasa hami-ā, Shö pai-ā "buono non, cattivo". - Waikura ataká-ra e ataká-mma-ra "buono non" (cfr. Baniwa Iç. -ra-). Con -ra si può confrontare -lo indocinese, p. es. Cepang pi-lo "buono non": pi-to "buono", Lai a-ta-lo id. (che si avvicina assai al Waikura a-taká-ra). - Dené tezo-n "dolce non": tezo "dolce".
7. La massima concordanza che presentano le lingue americane tra loro sta senza dubbio nei pronomi personali di prima e di seconda persona: dall'estremo nord all'estremo sud il pronome di prima ha per caratteristica n, quello di seconda m nella grandissima maggioranza delle lingue del nuovo mondo. Spesso si nota un parallelismo perfetto come nel Chinook nai-ka "io": mai-ka "tu", n-dai-ka "noi due": m-dai-ka "voi due", alto Chinook ni-ka "io": mi-ka "tu", ni-sai-ka "noi": mi-sai-ka "voi".
Prima di indicare la distribuzione dei pronomi personali conviene accennare alla distinzione del "noi" duale e plurale inclusivo, che comprende anche la seconda persona, ed esclusivo che la esclude. Tale distinzione trovasi generalmente ove sono in uso le forme del duale; ma in America è la diffusione maggiore. Nell'America settentrionale hanno inclusivo ed esclusivo i gruppi Algonchino, Irochese-Cherokee, Dakota, Muscoghi-Choctaw e il Timucua, lingue del versante orientale. Ad ovest trovasi la distinzione nel Kwakiutl, Chinook, Siuslaw, Coos, in California nello Yuki, Wintun-Yokuts-Miwok, Cimarico e Washo, poi Shoshoni, Tesuque (Tano). Nell'America centrale solo Chiapaneco, Mosquito e alcune lingue del gruppo Chibcha. Nell'America meridionale, ad ovest, Quechúa ed Aymará, ad est alcune lingue sporadiche a nord e più a sud delle Amazzoni fino al Chaco. Ecco un breve elenco.
a) Algonchino "io" e "noi" escl., Yurok ne-k "io" ne-, no, "mio", -m "tu" con verbi intransitivi; Irochese: Mohawk ni "io", Irochese õ-ki "noi"; Muscoghi: Creek ani "io", Timucua "io", e "noi"; Atakapa ne "io", Karankawa nái, Comecrudo na id., Coahuilteco am "tu"; Caddo: Riccari nan-to "io"; Dakota ũ-ki- "noi" = Irochese õ-ki; Athapaska "noi" però Haida, dial. Skitt., nā-ga "mio" e Tlingit dial. maé "tu". In tutta la parte orientale e centrale si ha dunque, con pochissime eccezioni, soltanto n di prima persona e manca m di seconda. Nei gruppi occidentali abbiamo invece di regola n- di prima e m- di seconda, e la stessa cosa si osserva nelle lingue dell'America centrale e meridionale. Una raccolta delle forme ha dato A. Trombetti: Pronomi personali (in Saggi di glottologia generale, I, in Mem. Acc. di Bologna, 1908).
Strettamente collegato al tipo con m è il tipo con p o b del pronome di seconda, e in alcune lingue si nota una singolare pluralità di temi ora affatto diversi e ora affini. Così nel Chiquito per "voi" si hanno le forme am-, ap-, aw-, au-. Ciò dimostra che i pronomi come Tepehuaana api "tu" fanno parte di un sistema antichissimo, che ha esatto riscontro in Asia col sistema delle lingue Mon-Khmer, p. es. Mundari iń "io": am "tu": abe-n "voi due": ape "voi".
b) I pronomi possessivi sono generalmente prefissi al nome, cosa notevolissima perché poche lingue (in Asia le indocinesi) possiedono tali prefissi. Vi sono concordanze vastissime come risulta dalla tabella seguente:
Nell'Algonchino la serie k- vale "tuo" e "nostro" inclusivo altrove "nostro", nel Cariri inclusivo come nell'Algonchino, nell'Orari esclusivo. Il Cherokee ha o-ki- "noi" escl. e i-ki- "noi" incl. precisamente come l'indocinese Kiranti ha o-k "noi" escl. e i-k o i-ki "noi" incl. Si aggiunga o-x "noi" del gruppo Maya = Mbaya o-ko e Guaraúno o-ko.
Interessanti sono le forme ampliate o composte, come Cree ni-t. "mio", ki-t- "tuo, nostro" incl., o-t- "suo". Con ki-t- cfr. Orari če-d-, Dzubucua ke-d- "nostro" (= Osibway ki-d-), Mocovi ko-d-, ecc. Il secondo elemento è il riflessivo "suus", cfr. nell'arcaico Waicura della penisola di California ti-áre "suo padre": be-d-áre "mio padre", e-d-áre "tuo padre", ke-pe-d-áre "nostro padre". Botocudo ni-t-nēm "mio arco", a-t-nēm "tuo arco".
Sarà opportuno citare qualche concordanza con le lingue asiatiche. Algonchino k-os "tuo padre" come Limbu k-s-ā "tuo figlio", Azteco i-čiči "suo cane": Yakka i-pā suo "padre", Chipewayan bē-thi "sua testa": Ghiljaco p-raf o p-šaf "sua casa" (ń-raf "mia casa"), Bodo bi-fa "suo padre", ecc.
c) Grande sviluppo hanno i pronomi dimostrativi nella maggior parte delle lingue americane. Oltre che la vicinanza o lontananza essi esprimono spesso il sito (in alto, in basso, ecc.), il modo di stare dell'oggetto, se esso è visibile o invisibile, ecc., e ciò per la tendenza all'espressione concreta che caratterizza i linguaggi arcaici e in particolare quelli dell'America. Questi infatti mirano a descrivere gli oggetti e le azioni nello spazio nella stessa maniera plastica e grafica del sign language così comune presso gl'indigeni dell'America settentrionale. Nel Kwakiutl i dimostrativi "questo, codesto, quello" hanno forme diverse secondo che indicano oggetto visibile o invisibile, nell'Eschimo i medesimi dimostrativi variano per esprimere sette situazioni dell'oggetto rispetto al soggetto: centro, alto, basso, davanti, dietro, a destra, a sinistra. Distinzioni anche più complicate si osservano nell'Aleuto. Il Cherokee ha pronomi di terza persona che indicano lo stato in cui uno si trova. Nell'Abiponi i dimostrativi vadano per indicare persona presente, assente, sedente, giacente, stante, camminante.
Questa tendenza spiccatissima all'espressione concreta e incapacità di astrarre si manifesta anche in molti altri casi. Coi nomi delle parti del corpo l'uso dei possessivi è di regola obbligatorio, né si può dire, p. es., "mano" in astratto, ma si deve dire "mia mano, tua mano", ecc. In talune lingue americane, ove manchi il possessivo determinato, si usa l'indeterminato dicendosi "mano di qualcuno". Similmente in molte lingue è obbligatorio l'uso dei pronomi oggettivi col verbo transitivo, e resta escluso l'intransitivo assoluto. Nell'Azteco, per esempio, non si dice "io batto", ma solo ni-te-witeki "io batto qualcuno" oppure ni-tla-witeki "io batto qualche cosa". Frequente è il caso che manchino parole per "fratello" e "sorella", essendo in uso dei termini per "fratello" e "sorella" "maggiore" o "minore". Esempî di espressioni molto concrete si hanno anche nel verbo e nei numerali.
8. Le lingue americane più arcaiche conservano i primitivi temi verbali bisillabi con armonia vocalica. A. Trombetti in Elementi di glottologia, p. 183 seg., ha dato molti esempî del Quechúa come awa "tessere", apa "portare", kata "coprire", waka "piangere", maka "battere", nana "dolere", para "piovere"; h'iri "ferire", wisi "attingere", siri "giacere", ńit'i "premere"; h'utu "rodere", muyu "voltare", p'ucu "soffiare", suru "trascinare", tusu "ballare". Similmente nel Winnebago (gruppo Dakota) pára "separare", pana "odorare", kíri "come back", kere "go back", púru "polverizzare". Lo stesso fenomeno - che ha riscontro nell'armonia vocalica delle lingue uraloaltaiche e, più o meno, si osserva in tutti i gruppi linguistici - trovasi nel gruppo Maya. Nel 1922 E. Sapir (A characteristic Penutian form of stem, in International Journal of American Linguistic, II) segnalava il medesimo fenomeno, esteso anche ai nomi, nelle lingue del gruppo Penuti.
Frequenti sono i verbi composti di due temi verbali. Il Tiwa ha töă-män "egli andò a cercare", composto di töă "raccogliere" e män"andò". Il Nahuatl ha ke-tsoma "mordere", in cui il primo termine corrisponde al Paiute mer. qï- "mordere". In questo caso si tratta di un composto di sinonimi, categoria frequente nelle lingue indocinesi, nata dal bisogno di precisione e dalla tendenza all'espressione concreta. Tale tendenza si manifesta anche nei verbi che per mezzo di affissi (di regola prefissi) esprimono l'azione determinando se è fatta con le mani, coi piedi, con uno strumento, ecc. P. es., nel Dakota da Rsa "separare, rompere, tagliare" si ha: ba-ksa "tagliare in due con un coltello" (p. es. un bastone), ka-hsa "recidere con una scure", pa-ksa "rompere con la mano", ha-ksa "rompere col piede", ecc. Vi sono anche notevoli concordanze nell'uso dei prefissi, come Cimarico tu- Atsugewi to- "con la mano", Pomo da- du- Washo de- id.: Washo -ādu "mano". Il verbo può anche variare secondo l'oggetto dell'azione, come nel Haida in cui si hanno espressioni diverse per esprimere il concetto di "portare": portare acqua, legna ecc.; (v. R. de la Grasserie, Cinq langues de la Colombie britannique, Parigi 1902, p. 54 segg.).
Ma la tendenza all'espressione esageratamente concreta si manifesta soprattutto nell'uso del verbum plurale. In nessuna regione tale uso raggiunge una estensione così grande. Il fenomeno consiste nell'uso di forme distinte per il singolare e plurale del soggetto o dell'oggetto. Se il verbo è intransitivo, si regola sul soggetto; se è transitivo, sull'oggetto. Nel primo caso possiamo rappresentarcelo con A andare per il singolare: A e B andare andare (cioè A andare + B andare) per il plurale, ossia in forma suppletiva A e B marciare. Se il verbo è transitivo, si può rappresentare con uccidere A per il singolare, uccidere uccidere A e B (cioè uccidere A + uccidere B) per il plurale, ossia in forma suppletiva sterminare A e B. Per la forma si possono distinguere tre casi: 1. raddoppiamento, per es. Tsimshian məsəm wulā́y "voi conoscere me", n-wulwulā́-səm "io conoscere-conoscere voi"; 2. forme suppletive, p. es. Creek alaχ-ä-s "io vengo": yedžīs "noi veniamo", ilidžäs "io uccido uno": pasatäs "io uccido (stermino) molti", Yahgan kātaka plur. ūtušū "andare"; 3. con affissi, p. es. Klamath á-tpa plur. í-tpa "portare".
9. Vediamo ora le principali categorie del verbo, cominciando dai verbi derivati deverbali e denominali.
a) I verbi derivati si formano per mezzo di prefissi o di suffissi, e non di rado il medesimo elemento in una lingua è preposto e in un'altra posposto al verbo. Esaminiamo prima i prefissi, che sono meno frequenti.
Nel Dakota a-u "portare": u "venire", Botocudo a-kuhu "soffiare": kuhu "vento", Jibaro (h)a-, Yahgan a-kataka "far andare": kataka "andare". Sono forme di causativo. Nel Klamath e nello Huave i- è prefisso di verbi transitivi: Klamath i-ggáya "sospendere", Huave i-rrah "illuminare". Yahgan u- (accanto a tu-) causativo. Siuslaw t-, Salina t-, Wappo tε-, Dakota t‛a- formano il passivo, invece Pirinda tu- e Yahgan tu- (anche ta-) formano il causativo. Winnebago d-, r- riflessivo. Tsimshian na-, Paiute mer. n- riflessivo. Frequente p- del causativo: Salina p- transitivo, Pomo S.W. pa-kum "far morire, uccidere"; Chiapaneco pa-w‛i id. (la-w‛i "morire"), pa-te "far scendere", po-rikame "abbellire" (a-rikame "bello"). Chibcha b-šike "seccare" da šike-n "seccarsi", b-to "spezzare" (intensivo come Chiap. po-relame "battere spesso, flagellare", da lelame "battere"); Cariri pe-buâga "far peccare", pe-dzikié "far tacere", pe-podzo "svegliare". Wiyot m-, Dakota m-, Wappo me- passivo; ma- riflessivo Azteco, m- intransitivo statico e aggettivale nel gruppo Hoka.
Orari kodd-a "cammino": kodd-u "camminare", mug-a "abitazione" mug-u "abitare", ett-a "villaggio": ett-u "stare", reru-ja "ballo": reru "ballare"; Chipaya etúk-a "cibo": etúk-u "mangiare", kamen-a "linguaggio": kamen-u "parlare", kuriš-a "sputo": kuris-u "sputare" si-a "sonno": si-u "dormire", ecc. Orari aidda-e "amore, desiderio", korigodda-e "offesa". Sono sostantivi verbali. Anche gli aggettivi sono generalmente di origine verbale e terminano assai spesso in -e -i, come abbiamo veduto. Frequenti sono i causativi in -i -ya. Dakota ečõ' "dare": ečõ-ya "far dare", waš'a'ka "forte": waš'ag-ya "fortificare". Cora eh-m "bagnarsi": eh-iya "bagnare un altro", Tarahumara ko "morire": ko-yá "uccidere (molti),". Chontal di Oaxaca -i transitivo, p. es. tomu-i "abbassare", toš0u-i "far girare". Cholona tupa-n "egli va": tupe-n "egli fa andare", mi-čma-n "tu sai": mi-čme-n "tu insegni". Aymará hihua- "morire": hihua-ya- "uccidere", laru-ya- "far ridere", manta-ya- "far entrare", iki-ya- "addormentare". Strettamente collegati a tali verbi causativi sono i nomi di agente e di strumento come Tlingit tagun-í "venditore", jecinég-i "lavoratore", Cahita hibeb-ia "frusta", hipon-ia "martello", Quechúa happ-i-na "manubrio". Anche i nomi di azione come Cahita mak-a K dare": mak-i "dono", Maya sata-l "perdersi": sata-i "perdizione", mol "riunire": mola-i "riunione". Nel Kágaba (gruppo Chibcha) infiniti in -i, p. es. gu-i "fare", tu-i "vedere". Nel Quechúa infiniti in -y.
Blackfoot ni-táino-k "egli mi vede": ni-táino-ko "sono veduto", kitáino-k "egli ti vede": ki-táino-ko "tu sei veduto", Algonchino ki-sakih-i-go "tu sei amato". Nell'Azteco il passivo termina in -o, p. es. mak-o da mak-a "dare", tek-o da tek-i "gliare", an-o e ana-l-o da an-a "raccogliere". Cahita tah-a "brucio": tah-i-wa "sono bruciato", Tarahumara pagó-t-ue "essere lavato". Mosquito lai-k-aia "versare": lai-w-aia "essere versato".
Nell'Arawak passivi in -ua, al presente -oa. Nomi verbali corrispondenti come Eschimo tok-o "morte", sege-o "menzogna", Caribico ene- "vedere": eno- "occhio", Chiquito iša-no-ka "io dormo": ma-no-ko-s "sonno".
Choctaw ạla bimbo: ạla-χ "è un bimbo". Pima sihori "dolce": sihori-ka "essere dolce", huma-ga "avere mais", Cahita kova-k "aver capo", Cora péri-ke "avere un bambino", Chiquito pee-ts "fuoco": i-pee-ka "ho fuoco, sono caldo", i-poo-ka "ho una casa". Distinti da questi denominativi sono i causativi come Mosquito pa-k-aia "mutrire" (pa-w-aia "crescere"), Mucik nam-ko "far cadere", ssiad-ko "addormentare", ap-ko "insegnare" (ap "imparare"), gruppo Tupi -ká, Arawak -i-ki-, nell'America settentrionale Pomo -e-‛ga, Winnebago -kε, ecc.
Causativi: Tsimshian -sə, Wappo -si, Mutsun -si, -se, gruppo Maya -s-, -is-, -es-, Cavineño (gruppo Tacana) -isa; p. es. Mutsun oio-si "far prendere", Maya kim-s-aχ "uccidere", Quiché ok-is-, ok-es "far entrare", Cavineño rara-isa "seccare". Hanno č in luogo di s: Huave mul-ič "far entrare", Amueixa -č, Quechúa -či- e -ča, Aymará -ča-, suma-ča- "far bello". Frequenti sono pure i causativi e transitivi con -t. Si trovano nel Salina, Coos, Wappo, Fox, Arawak; -ta nel Wappo, Yokuts, Tarasco, Dakota, con denominativi nel Pima, Amueixa, Yahgan; -te nel Cahita e Tepehuana; -ti- nel Maidu; -ti e -ti-a nell'Azteco (cfr. Eschimo -tí-), ecc. Takelma -an riflessivo, Siuslaw -n-aw reciproco. Nutka causativo -a-p, gruppo Caribico -pa -po, p. es. Tamanaco yene- "vedere": yene-po- "mostrare". Passivo: Siuslaw -ī-mE, Takelma -ma', Wappo -mε. Costano -mu riflessivo, Wappo -mu-χu reciproco.
b) Tra i modi del verbo quello che appare meglio caratterizzato è l'imperativo. Un suffisso molto diffuso è -ka -ke -ko, p. es. Mosquito yap-ka "dormi", bal-ka "venite", Bacairi eni-ga "bevi", Mosetena -ka; Tamanaco y-are-ke "portalo", Carijona eni-ke "bevi", Paravilhana enne-ke "mangia", Galibi i-kuma-ke "chiamalo", Tacana tia-ke "dà", iba-ke "chiama", Maina-C. -ke, Ona šeji-ké "dà"; Galibi aboi-ko "prendi", Carin. eni-ko "bevi", Cavineño mera-ku-e "lavora", Ona jer-ko "parla". tn altro suffisso dell'imperativo troviamo in Maidu önõ-p(a) "va", öno-po "andiamo!", Mosquito wa-pi id., Mosetena doroye-ba "volgi".
Per il congiuntivo ottativa e condizionale ha una notevole diffusione l'elemento li le oppure ri re. Si noti anche la seguente serie: Mucik -ma, -e-ma, Quechua -ma-n, Arawak -ma, Lule -mai-, Yahgan -mö-s.
c) Le particelle temporali sono ora prefisse e ora suffisse. Molto diffusa è la caratteristica s, per lo più di presente: Irochese -s, Sahaptin -sa, Wallawalla -ša, Mosquito -is, Goajiro -ši -še presente, Salish -is -iš durativo, Azteco -s, Quechua -s'- futuro, invece Mutsun -s preterito. Athapaska š imperfetto, Totonaco iš- š- imperfetto e piuccheperfetto, Otomí š- perfetto, gruppo Maya iš- š- passato.
Frequente è -t come caratteristica del passato: Chinook -t, Wappo Miwok, Costano -ta, Takelma -t‛a, Salin -to, Karok -a-t. Con questo -a-t cfr. -a-t del Mosquito e -a-te del Lule, p. es. Mosquito dauk-a-t-ne "io facevo", dauk-a-t-ma "tu facevi", Lule amaitsia-te-s "io avevo amato".
Più frequente è -k, pure come caratteristica del passato: Azteco e Tarahumara -ka, Paiute mer. -qa; Pomo, Chiapaneco, Mosetena -ke; Washo, Costano, Winnebago, Campa -ki; Mutsun -ku-n; Miwok, Costano, Cahita -k, Maidu -ya-k: p. es.: Costano ka riča-ki "io parlai", Campa no minta-ki "io amai"; Chiapaneco i-ko "egli dice": i-ko-ke "egli diceva", Mosetena uča-i-ké njus "peccai io".
La caratteristica n, per lo più del passato, è di regola posposta: Wallawalla, Bribri, Tacana, Aymará (3a persona) -na, Athapaska -ni e Irochese -ne piuccheperfetto dal perfetto, Opata -ne, Totonaco e Lule -ni-, Sahaptin e Mutsun -n, Mosquito -a-n (3a persona, p. es. dauk-a-n ha fatto), Yarura -a-n, cfr. Tacana -a-na. Il Siuslaw ha -n per il presente, cfr. Chiquito -na, Tupi -ne, Lule -n per il futuro. Prefissi per il futuro sono en- nell'Irochese e na- nel Totonaco.
Interessanti sono i prefissi vocalici. Nell'Azteco o- è prefisso del perfetto e corrisponde a o- del Tlinkit, Wappo, Hupa e Mixe, suffisso del preterito; il Salish ha ū- per l'imperfetto e l'Irochese u-a- per il passato. Il Chiapaneco ha i-ko "egli dice": y-a-ko "egli disse". Ma la caratteristica più diffusa per il perfetto è -i. Esempî: Pima gah-a preterito gah-i "asar", koh-o preterito koh-i "morir muchos", nuok-u preterito nuok-i "hablar", Azteco ni-čiva "io faccio": ni-čiva-ya "io facevo", Cahita ne eria "io amo": ne eria-i "io amavo", Opata ne hios-ia "io scrissi"; Maya nak-i "egli si alzò", ten nak-i "io mi alzai", kim-i "è morto", Ixil v-ul-e "io venni", Mame -e-m infinito presente: -i-m o -i-n infinito passato; Bribri aoristo del passato in -e;.-Cumanagoto hu-are-i "io l'ho portato" Chayma gu-are-i id., Galibi s-nu-i "io l'ho mangiato", Wayana n-ama-i "egli è caduto", Accaway m-pun-da-i "tu hai seminato", tah-pu-ia "egli ha detto", Galibi n-ata-pu-i "egli è arrivato", n-irom-bu-i "egli è morto". Esempî di vera flessione si hanno nel Cholona, come cota-n "è": preterito cote-n (e coti), presente a-tpa-n "vado": a-tpi "andai", cfr. a-lupo-n: preterito a-lupo-y "yo le aborrecí". Questa è la caratteristica più diffusa anche fuori dell'America.
In parecchie lingue americane gl'indici temporali possono unirsi anche ai nomi. Così nell'Algonchino si può dire Zabie-ban "il fu Saverio", nell'Ojibway n-ōs-i-ban "il fu mio padre", mokesin-i-ban "la mia scarpa usata" (-ban col verbo forma l'imperfetto). Tsimshian qsâ'-dee "il canotto che fu", dem naks "il futuro marito", cfr. Guarani aba-râm "l'uomo che sarà". Quechúa sumajca-ska "la bellezza passata", sumaj-ca-na "la bellezza futura".
c) La coniugazione è in prevalenza prefiggente, cioè formata per mezzo di prefissi personali. Suffissi soggettivi si trovano nell'Eschimo, in parecchie lingue occidentali dell'America settentrionale, nel Hichiti e Creek, in alcune lingue dell'America centrale (Tarasco, Zapoteco, Chiapaneco, ecc.) e in parecchie lingue, specialmente occidentali, dell'America meridionale, fra cui il Quechúa. Dove si fa uso di prefissi, il segno del plurale si pospone, p. es. Dakota kaška "egli lega": kaška-pi "essi legano", ya-kaška "tu leghi": ya-kaška-pi. Così si ha una specie di verbum plurale.
Parecchie lingue americane hanno nel verbo tanto forme prefiggenti quanto forme suffiggenti, e spesso con significato diverso. Nell'America settentrionale hanno doppia collocazione lo Tsimshian e Salina a ovest, l'Algonchino, Muscoghi e Timucua a est; nell'America meridionale il Moxo-Baure, Yurucare, Arawak e Guarani. Nello Tsimshian i verbi transitivi sono prefiggenti, gl'intransitivi sono suffiggenti, così pure nell'Arawak; al contrario nel Muscoghi e Yurucare i transitivi sono suffiggenti e gl'intransitivi sono prefiggenti. Come osserva il Boas (Handbook of American Indian Languages, I, p. 76), le lingue americane tendono a distinguere nettamente i verbi in due classi, verbi attivi-transitivi e inattivi intransitivi, ma la distinzione si fa più spesso per mezzo di serie distinte di pronomi personali affissi, di cui una è identica o affine alla serie degli affissi possessivi.
Fra i prefissi soggettivi del verbo e il verbo stesso, come fra i prefissi possessivi del nome e il nome, si trova spesso una delle cinque vocali normali. Nel Cariri abbiamo s-a-rankré "egli si vergogna", s-e-ikó "egli si riposa", s-i-pá "egli è morto", s-u-ka "egli ama", cfr. s-a-mysã "sua mano", s-e-bayá "sua unghia", s-i-baté "sua casa", s-u-byro "suo ventre". Nel Chiquito ap-atomoe-ka "voi legate" verbo assoluto, ma ap-i-tomoe-ka se seguito dall'oggetto. Queste vocali non sono altro che pronomi di terza persona, distinti per classi e con funzione di soggetto o di possessivo secondo che si uniscono ad un verbo o ad un nome. Nel Sáliva, infatti, i prefissi possessivi formano un sistema fondato sul possessivo di terza, che può essere a- e- i- o- u- "eius". Di qui ku-a- ku-e- ku-i- k-o- k-u- tuo, ecc. Così fra le lingue del gruppo Arawak il Mehinakú distingue *u-teve "suo dente (d'uomo)", donde n-u-teve "suo dente di me, mio dente", e i-teve "suo dente (di pesce)", e il Paressí ha n-u-kiri "naso": e-kiri "becco".
Esempio di coniugazione prefiggente: Azteco nemi "egli vive", ni-nemi "io vivo", ti-nemi "tu vivi"; nemī "essi vivono", ti-nemī "noi viviamo", an-nemī "voi vivete". Esempio di coniugazione, suffiggente: Araucano elu-n "do", elu-i-mi "dai", elu-i "dà", elu-y-u "noi due diamo", elu-i-mu "voi due date", ecc.
Quando al verbo si uniscono nello stesso tempo le particelle temporali e i pronomi soggettivi, si possono avere sei combinazioni: 1. particella-verbo-pronome, p. es. Zapoteco na- "scavare", pres. ta-na-, fut. ka-na-, perf. ko-na-, donde ta-na-ya "io scavo", ta-na-lo "tu scavi", ta-na-ni "egli scava, essi scavano", ecc.; 2. particella-pronome-verbo, p. es. Quiché k-a-logo-χ "tu ami", k-u-logo-χ "egli ama"; š-a-logo-χ "tu hai amato" š-u-logo-χ "egli ha amato"; 3. verbo-particella-pronome; 4. verbo-pronome-particella; 5. pronome-verbo-particella, p. es. Quiche nu-logo-m "io amai", a-logo-m "tu amasti", u-logo-m "egli amò"; 6. pronome-particella-verbo.
10. Nell'America sono rappresentati tutti i sistemi di numerazione. L'imperfetta numerazione binaria occorre soltanto nell'America meridionale. Essa è propria specialmente del gruppo Gês-Tapuya, poi si trova nel Trio, lingua caribica, nel Chipaya e Guayaki (gruppo Tupi), nel Záparo, Orari, Chiquito e giunge fino alla Terra del Fuoco. Rarissimo nell'America settentrionale (Haida e Bellacoola, Caddo e alcune lingue della California), il sistema vigesimale domina nell'America centrale e meridionale, mentre nella settentrionale domina il sistema decimale, specialmente quinario-decimale.
Come dai pronomi personali, così anche dai numerali appare l'originaria unità del gruppo linguistico americano. Già abbiamo visto che alcuni gruppi furono da americanisti denominati con forme del numerale 2 (Pen-uti e Hoka) o del numerale 4 (gruppo Mos), ma tali forme trascendono i limiti dei relativi gruppi e alcune sono addirittura pan-americane. Ciò apparirà dalla seguente raccolta delle forme principali del tipo che ha per caratteristica p.
Yuki ō-pi anim. ō-pa, Huchnom ō-pe, Wappo hō-pī; Huave e-poe-, Subtiaba a-pu-; Guaiiquiro pee, Lenca pee, pae, Similaton pe, Xinca pia-r; Colorado pa- in 20, Cayapa pai- in 200, Aymará pay-a, pai-ni, Atacama poy-a, Amneixa e-pá; Guaná pia, Moxa a-pi, a-pió, Yuri peia, Goajiro pia-mu, Parauha pi-mu, Ipuriná i-pi, i-pi-ká, ecc.; Cholona i-p; Yahuna i-po, i-po-i, Tucano piá-na, Wanana pia-ro, Waíkana pia-dó, Bará paá-ga, ecc.; Catoquina u-paua; Araucano e-pu, Puel-che poē-či, Yahgan kom-bei (cfr. -pei suffisso del duale).
Con b: Cuicateco u-bi; Bribri bo, bui, Terraba kra-bu; Sumo buú, Ulua bō, Matagalpa buyo; Cilanga oso-bé; Mocochis ka-bó.
Con w: Klamath wo-nip, vú-nep 2 × 2; Piro wi-yit, Isleta wi-si, Taos wíì-na, Jemez wi-š, S. Ildefonso wí-ye; Kauvuya vuy, Paiute mer. vay, Pavant wy-une, Gabrielino we-he; Tätätl wo, wah; Cahita woi, Cora wa-po, Azteco o-me per *wo-me; Amuzgo u-we, Mixteco u-wui; gruppo Chocó o-me; Tsoneca wa-me (dunque Azteco o-me = Chocó o-m = Tsoneca wa-me).
Sahaptin la-pit = Walawala na-pit, Whulw. ni-pit, Klamath la-pit; Pani pit-ko; Quechúa pitu "paio"; Campa a-piti. Con b: Caddo bit, Tacana beta. Con w: Natchez a-wēti, á-witi, Chacobo (gruppo Pano) da-vita.
Dakota na-pin "ambedue" (cfr. nõ-pa, Winnebago nõ-pa, nõpi 2); Klamath pän, pēn "di nuovo, una seconda volta", lā́-pĕni 2; gruppo Maidu pÿne, pen, peni-m, Cushna pani-m; Aymará paini, pani (persone); Mosetena paná; Moxa a-pina. Per molte altre forme v. A. Trombetti, Elementi di Glottologia, p. 505 seg.
La classificazione degli oggetti numerati si manifesta spesso nei numerali. Si hanno notevoli concordanze nei suffissi di classe. Per la classe delle persone il suffisso è -ni nello Aymará, p. es. mai-ni "una persona", pai-ni "due persone" (may-a "una cosa", pay-a "due cose"). Cfr. Yarura ka-ni-1, noe-ni 2, tara-ni 3, kewe-ni 4, Guahiba kahe-ne 1, acueya-ni 4, ecc. Il Moxa ha -na. Questo suffisso corrisponde a -n dell'Ainu, p. es. tu-n "due persone", re-n "tre persone": niu "persona". Abbiamo ancora per le persone Tsimshian -al, Lummi -ala, Bribri -l. Per i giorni: Yurok -en, Blackfoot -ni, Bribri -n, ecc.
Sintassi. Tratteremo qui della collocazione delle parole nella proposizione. Diciamo diretta la collocazione quando precede la parola determinanda e segue la determinante (A-B), inversa nel caso contrario (B-A): La costruzione A-B è propria della maggior parte delle lingue africane e oceaniche, la costruzione B-A domina nel resto delle lingue del globo. Caratteristica è la collocazione del genitivo e del pronome possessivo, che rappresenta il genitivo del pronome personale.
Nelle lingue dell'America il genitivo e il possessivo si prepongono generalmente al nome. Nell'America settentrionale la costruzione A-B trovasi solo in due regioni, debolmente e in modo incompleto rappresentata ad est, più ampiamente e in modo più completo ad ovest. Nell'Irochese si dice, p. es., ne hoauak ne Dauit "il figlio di Davide" ma .nioo ro-iẽha "Dio suo figlio, il figlio di Dio", cfr. rao-sita "il suo piede". Nel Timucua, Tunica e Muscoghi è invece il possessivo che si pospone, così pure nel gruppo Caddo. Ad ovest, costruzione A-B completa nello Tsimshian, gruppo Mos e Kutenai, poi vengono i gruppi dell'Oregon e Yakon e il Siuslaw, infine a sud, in California, il Yana e il Salina-Chumash del gruppo Hoka. Si aggiunga al nord l'Eschimo per quel che riguarda i pronomi possessivi, che sono sempre posposti.
Quasi tutte le lingue degli aborigeni del Messico e dell'America centrale hanno la costruzione A-B, poiché B-A si trova al nord solo nel Tano e Zuñi, lingue dei Pueblos, poi al sud nel Zoque, Matlatsinca e forse in qualche altro idioma.
Nell'America meridionale la costruzione A-B è poco diffusa e si trova più specialmente nelle regioni occidentali. Lungo le coste del nord-ovest l'Esmeralda ha in pieno A-B, invece il Yunca Quechua e Aymará prepongono il genitivo nominale, ma pospongono il possessivo; così pure fra le lingue Arawak il Ticuna, Chapacura e Cahuapana, mentre il Jivaro ha in pieno A-B. Un centro di posposizione del genitivo si ha anche nel nord-est, ma il centro principale è nel sud-est. Notevolissimo poi è il fatto che in lingue dell'America meridionale e centrale il genitivo si pospone mentre il possessivo si prepone. Ciò avviene fra le lingue dell'America meridionale nel Goajiro e Paranhano, nel Caribico delle isole e in parte nel Galibi, nel Moxo-Baure, Campa, Chapacura e Cariri, e fra le lingue dell'America centrale nell'Otomí Huaxteco, Totonaco, in parte nel gruppo Maya e nello Xinca, infine nel Mangue e Rama. In nessun' altra parte del globo, nemmeno nell'America settentrionale (con la probabile eccezione dell'Irochese e Chumash secondo W. Schmidt), avviene un fatto simile, poiché quando vi è disaccordo nella collocazione del genitivo e del possessivo, sempre si osserva altrove che il genitivo si prepone (B-A) e il possessivo si pospone (A-B). In generale si può dire che la costruzione normale e originaria è B-A, come nella maggior parte delle lingue dell'Asia. Talune eccezioni sono più apparenti che reali. In una espressione come "la di lui casa, (del) padre" la costruzione è diretta solo in apparenza. Così si dice nell'Azteco i-tlaškal okitštli "il suo pane, (dell') uomo", nel Totonaco is-tšik Pedro "la sua casa, (di) Pietro", nel Maya u-pok Petlo "il suo cappello, (di) Pietro". Nella parte centrale dell'America del Nord si ha invece l'espressione "padre, la di lui casa". Infine è da notare che, ove il genitivo si pospone, spesso la costruzione inversa è conservata quale arcaismo nei composti. Così nel Cariri si dice era tupã "la casa (di) Dio", ma i-po-kú "di occhio acqua, lacrima" da i-pó "occhio" e i-kú "acqua".
La collocazione dell'accusativo, cioè dell'oggetto, suole essere in accordo con quella del genitivo, poiché l'uno e l'altro esprimono una relazione analoga rispettivamente col verbo e col nome. Ciò avviene di regola in tutte le lingue del globo. Per quel che riguarda l'America in particolare si può dire che, ove il genitivo si pospone, si pospone anche l'accusativo senza eccezione, mentre si hanno parecchie lingue che, preponendo il genitivo, pospongono l'accusativo. Molto più indipendente è invece la collocazione dell'aggettivo attributivo, che spesso si confonde con l'aggettivo predicativo, da cui deriva.
Origine. All'unità del gruppo linguistico americano, sostenuta dal Trombetti, corrisponde l'unità della razza americana ammessa da alcuni antropologi insieme con la stretta affinità di essa con la razza mongolica. Con ciò si accorda, d'altra parte, la provenienza delle popolazioni indigene d'America dall'Asia orientale. Pochi, infatti, hanno creduto o credono che gl'indiġeni d'America siano autoctoni: i più autorevoli studiosi li ritengono immigrati dall'Asia attraverso lo stretto di Bering. Le più antiche immigrazioni sarebbero incominciate circa 15.000 o 10.000 anni or sono, dopo l'ultimo periodo glaciale. Naturalmente non avvenne un'unica immigrazione, bensì si susseguirono più migrazioni in epoche diverse e in varia direzione, prevalendo in generale quella da nord a sud; ed è ovvio che le popolazioni più lontane dal luogo d'origine appartengono in generale alle prime onde migratorie e le più vicine alle ultime in ordine di tempo.
I fatti linguistici sono in perfetto accordo con queste teorie. Immediatamente al di qua dello stretto di Bering si trovano le lingue paleoasiatiche dei Ciukci, Coriachi e Camciadali che, insieme con altre più occidentali, presentano la massima affinità con l'Eschimo, il quale, d'altra parte, non si può disgiungere dalle lingue americane. Il tentativo di collegare l'Eschimo direttamente con l'Uraloaltaico (in particolare con l'Uralico) deve considerarsi come fallito. Ulteriormente, poi, il grande gruppo americano presenta la massima concordanza con le lingue indocinesi, secondo quanto sostenne il Trombetti al XXII Congresso degli americanisti tenutosi in Roma nel 1926 (v. la sua memoria nel volume degli Atti). Il grado considerevole di affinità dell'Indocinese specialmente coi gruppi settentrionali dell'America si spiega col fatto che questi appartengono alle migrazioni più recenti, mentre i gruppi meridionali appartenenti alle migrazioni più antiche hanno in Asia radici assai più profonde.
P. Rivet, pure ammettendo che il grosso delle popolazioni e lingue americane sia di origine asiatica, crede di avere scoperto due nuclei di origine oceanica, uno a nord rappresentato dal gruppo Hoka, l'altro a sud rappresentato dal gruppo Chon. Il primo sarebbe di origine melano-polinesiana, il secondo di origine australiana. Che le lingue dell'estremità meridionale dell'America abbiano molti elementi in comune anche con lingue dell'Australia e affini, fu già dimostrato dal Trombetti nel 1907, ma ciò si spiega non già con una connessione diretta né con migrazioni degli Australiani attraverso il Pacifico, come vuole il Rivet, bensì con la comune origine da suolo asiatico. Le lingue meridionali d'America conservano appunto, come abbiamo detto, elementi molto arcaici. Quanto al gruppo Hoka - che del resto Sapir ha ampliato nel modo che abbiamo visto - valgono press' a poco le medesime considerazioni.
Bibl.: Di tutte le lingue americane tratta l'opera importante di Daniel G. Brinton, The American Race: a linguistic classification and ethnographic description of the native tribes of North and South America, Philadelphia 1901. Una rivista completa e accurata di tutte le lingue americane per opera di P. Rivet trovasi nel volume Les langues du monde, Parigi 1924, sotto il titolo Langues américaines, pp. 597-707. Una rivista chiara e pregevole è pure quella di W. Schmidt nell'opera Die Sprachfamilien und Sprachenkreise der Erde, Heidelberg 1926, pp. 163-267. Importante è pure l'opera di Clark Wissler, The American Indian, an introduction to the anthropology of the New World, 2ª ed., New York 1922. Preziosi per limpidezza sono gli schizzi grammaticali che di molte lingue americane diede F. Müller nel suo Grundriss der Sprachwissenschaft, II, i, Vienna 1992 e IV, i, Vienna 1888. Della comparazione interna ed esterna delle lingue americane si occupò a lungo A. Trombetti, specialmente nei Saggi di glottologia generale comparata: I. I pronomi personali, Bologna 1908; II. I numerali, 1913; III. Comparazioni lessicali, 1920; Elementi di glottologia, 1923; La lingua dei Bororos Orarimugudoge secondo i materiali pubblicati dalle missioni salesiane, studio comparativo, 1925.
Per lo studio delle lingue settentrionali è utile il lavoro di C. C. Uhlenbeck, Die einheimischen Sprachen Nordamerikas bis zum Rio Grande, in Anthropos, III (1908), V (1910), con esame dei caratteri linguistici e ricche bibliografie. Ottime grammatiche contiene il Handbook of American Indian Languages pubblicato da F. Boas, I, Washington 1911; II, Washington 1922. Per l'America centrale, dopo il vecchio lavoro, vasto ma difettoso, di F. Pimentel, Cuadro descriptivo y comparativo de las lenguas indígenas de México, 1ª ed., Messico 1862-1865, I-II; 2ª ed., Messico 1874-1875, I-III, abbiamo ora il lavoro eccellente di W. Lehmann, Zentralamerika, I: Die Sprachen Zentralamerikas in ihren Beziehungen zueinander und zu. Südamerika und Mexiko, Berlino 1920. Per l'America meridionale ricorderemo i Beiträge zur Ethnographie und Sprachenkunde AMerikas zumal Brasiliens, II. Zur Sprachenkunde (Lipsia 1867), di F. Ph. von Martius, ricca ma difettosa raccolta di materiali lessicali, e gli Studies in South American Languages di D. Brinton. Riviste generali delle lingue sudamericane diede A. F. Chamberlain, ma coloro che più contribuirono a mettere ordine nel caos sono L. Adam, Koch-Grünberg e P. Rivet.
Della bibliografia delle lingue americane trattò Hermann E. Ludewig, The Literature of American aboriginal Languages, Londra 1858, più recentemente il Conde de la Viñaza, Bibliografía Española de las lenguas indígenas de América, Madrid 1892. Ricche indicazioni bibliografiche si trovano nelle opere già citate di Brinton, Rivet, Schmidt, ecc. Esaurienti bibliografie di lingue settentrionali diede J. C. Pilling.
La cartografia linguistica dell'America ha progredito col progredire degli studî linguistici. Una carta dei Linguistic stocks of North America north of Mexico accompagna l'opera di J. W. Powell, Indian Linguistic Families of America north of Mexico, Washington 1891. Per il Messico e l'America centrale abbiamo una carta di C. Thomas in Indian Languages of Mexico and Central America and their geographical distribution, Washington 1911, e le carte nell'opera monumentale di W. Lehmann. Per l'intera America vi sono quattro tavole (15-18) in Les langues du monde, che però non riuscirono soddisfacenti nemmeno per P. Rivet. Più chiare sono le due carte dell'atlante che accompagna l'opera di W. Schmidt. Ma un buon atlante linguistico dell'America resta un desideratum, e il voto ne fu espresso, su proposta di A. Trombetti, al XXII Congresso internazionale degli americanisti (Roma 1926).
VI. Arte; Musica.
Nei tessuti, negli oggetti di metallo o di legno o d'osso, nelle ceramiche, si avevano, e sono in parte conservate, le principali manifestazioni dell'arte decorativa indigena. Ogni area culturale presenta particolarità di applicazioni o di disegni o di colori che han permesso di distinguere talune grandi provincie di "decorazione", corrispondenti, con deviazioni non forti, ai principali complessi culturali. Il disegno geometrico è, in generale, più diffuso di quello realistico ed è, secondo il Wissler, più antico: questo può essere infatti avvenuto nell'arte dell'intrecciatura e in quella tessile (che presenta disegni realistici soltanto nel Messico e nel Perù) e nelle applicazioni decorative (ceramica) che ne hanno subito l'influsso. Di una più primitiva arte realistica, della quale altre parti del mondo serbano numerose tracce, l'America è molto povera.
La pittura, oltre che nella decorazione delle ceramiche e dei tessuti, ebbe un certo sviluppo nella scrittura pittografica. La scultura in pietra ebbe un'area particolare di notevole evoluzione nell'antico Messico, nell'America Centrale e nella Colombia, e si troverà considerata alle voci corrispondenti: invece, sul Mississippi, nel Perù e in qualche distretto brasiliano, l'archeologia dà oggetti modellati in terracotta, e nell'estremo NO. esiste ancora una scultura nel legno e nell'avorio con affinità rispettivamente oceaniche ed asiatiche (Tlingit, Haida, Eschimesi occidentali).
Presso i Pellirosse, popoli di civiltà primitiva, di musica non s'avevano manifestazioni gran che superiori a quelle d'una semplice successione ritmica o, al più, di canti nati dalla danza e d'indole guerriera o religiosa.
L'aspirazione melodica trovava soddisfazione nell'ambito di qualche nota più volte ripetuta e in qualche timido slancio lirico. Ma l'assenza d'un gusto comunque educato e una vita consacrata quasi esclusivamente alla guerra e alla caccia furono d'ostacolo allo sviluppo intellettuale e artistico dell'Indiano del Nord-America. Percio non poteva nascere in questo popolo una musicalità paragonabile a quella dei popoli di antica civiltà; come i Cinesi, gl'Indo-cinesi, i Malesi, gl'Indù, i Persiani e gli Arabi.
L'Indiano d'America (e noi qui lo consideriamo tale quale era prima della conquista degli Europei) fu essenzialmente nomade, e non aveva alcun vicino il cui contatto potesse innalzarlo a un livello più alto di civiltà, mentre guerra e caccia occupavano tutto il suo tempo; ora è spiegabile come, nel suo folklore musicale, sulla melodia avesse una netta prevalenza il ritmo, nato dalla marcia e dalla danza e per così dire connaturato con l'esercizio di molti mestieri manuali.
La danza dei Pellirosse è quasi sempre guerriera, e si svolge in ritmo binario come in ternario; al qual proposito bisogna osservare che in generale i primitivi preferiscono il ritmo binario come quello che è segnato dallo stesso camminare dell'uomo. È quindi notevole il fatto che l'Indiano pratichi, come il ritmo binario, anche il ternario, ed ami singolarmente certe figurazioni ritmiche, nel ternario, sullo schema a croma puntata e semicroma.
Si può pensare, per chiarirne il motivo, che un cavaliere dotato di acutissimo udito, qual'è il Pellerossa, deve aver notato nella solitudine delle praterie le diverse cadenze ritmiche del passo del cavallo, sì da ispirarsi a queste nei suoi canti. Presso questi popoli primitivi, il segnare i ritmi deve poi essere considerato come un sostegno, o come un ornamento del quale si potrebbe fare a meno, oppure come un coefficiente indispensabile nell'esecuzione delle danze? Avrebbe esso la funzione che hanno i movimenti dei nostri direttori d'orchestra, dirigendosi all'udito, anziché alla vista degli esecutori? Certo è che il costante predominio del ritmo, attraverso l'uso preponderante degli strumenti a percussione, è una conferma della rudimentalità della musica dei Pellirosse. Superfluo anche dire che non esiste per questa musica alcuna notazione grafica. Si consideri, del resto, che gli stessi Cinesi, pur essendo così progrediti, si servono di una scrittura musicale affatto rudimentale.
Per quanto considerevole possa essere il repertorio musicale dei Pellirosse, la "quantità" vi ha più importanza della "qualità": com'è naturale in una musicalità così povera e priva di quelle raffinatezze che rendono originale e attraente la musica dei popoli orientali.
Quanto a tempi, i Pellirosse praticano, non senza abilità, misure a 2/4, 3/4, 2/8, 3/8, 6/8.
E quanto a tonalità, essi hanno tonalità maggiori ben distinte dalle minori. Il modo minore è anche presso i Pellirosse acconcio ad esprimere la tristezza e la serietà: e lo troviamo quindi nelle arie funebri, nei canti religiosi (specialmente in un tono quasi confondibile col nostro sol minore). Ma, mancando la melodia (come anche l'espressione della poesia lirica), essi manifestano poco spirito creativo, e riescono monotoni.
I Pellirosse in nessun dominio intellettuale hanno avuto individui capaci di stabilire regole d'arte. E perciò la loro melodia manca di ogni regolarità di struttura. Ogni grado della scala è atto a cominciare o a terminare un canto. In questo i nostri musicisti di più moderna scuola vorranno forse scorgere, al contrario, una liberazione da ogni vincolo tonale; e in verità nella musica esotica il caso di questa inosservanza delle funzioni tonali non è isolato.
Nella frase musicale l'Indiano procede, in generale, diatonicamente, come i musicisti del nostro Medioevo, che non osavano procedere per salti arditi. Questa regola ha, però, qualche eccezione. Non saremmo lungi dal supporre che i frequenti salti di quarta, di quinta e di sesta, quali, ad esempio, compaiono nel seguente canto religioso, siano probabilmente ispirati al canto di taluni uccelli:
In questo canto il pedale di dominante (il re delle voci di donna) dimostra l'aspirazione, ridotta, è vero, alla più semplice espressione, verso una timida polifonia. Anzitutto i popoli esotici hanno una generale conoscenza di alcuni pedali di quinta, pedali immutabili, data la natura. degli strumenti cui son proprî (tamburo, tamtam, ecc.). La scala pentafonica, che è la base delle musiche dell'Estremo Oriente (Cina, Indo-Cina), fu ugualmente conosciuta e seguita dai Pellirosse; ed è interessante osservare come questi popoli sapessero servirsene senza ricorrere a estranei.
Non è possibile, in molti casi, costringere le melodie esotiche nel letto di Procuste dell'analisi tonale europea: da questo nasce la difficoltà di dare alle melodie dei Pellirosse (ed anche a quelle dei popoli orientali) la forma armonica che converrebbe loro, come si vede dalla seguente melodia.
Abbiamo gia fatto allusione alle diversità dei ritmi, che compensano la monotonia melodica. E dall'esempio che segue, tratto da una danza religiosa, ci si renderà conto di quanto l'Indiano sappia giuocare coi valori ritmici.
Alcuni Americani, ai quali fu possibile studiare in un'epoca favorevole la musica dei Pellirosse, attestano che l'Indiano canta con voce rauca e malferma. Se ne fece l'esperimento accompagnando col pianoforte questi cantori, che da loro stessi corressero gli errori di un'intonazione falsa, o, per meglio dire, mitigarono, male a proposito, le scale indiane, alterando le inflessioni che non figurano nel nostro sistema tonale. Ma, in realtà, bisogna dire che lo studio della musica degl'Indiani del Nord-America fu cominciato in un'epoca poco propizia. Gli Europei che si stabilirono sul principio della penetrazione in America non erano né eruditi, né musicisti abbastanza esperti da poter condurre a buon termine simile studio d'investigazione: a ciò si aggiunga l'ostilità assoluta degl'indigeni. Quando gl'Indiani si accostarono alla civiltà occidentale, il loro patrimonio intellettuale era già alterato e deformato. E gli eruditi americani, come ad esempio J.C. Fillmore, Alice Hetcher, e soprattutto A. Farwell, benché sinceramente desiderosi di risolvere il problema, più di una volta furono tratti in errore dagli stessi aborigeni che avevano dimenticato le proprie melodie antiche. La venuta in America dei Negri, con la loro musica, non favorì certo lo sviluppo della musica degl'Indiani, che adottando infine alcuni nostri strumenti (violino, flauto, fisarmonica, chitarra) attratti anche dalle nostre melodie, finirono per confondere tutti i sistemi musicali. E non è, forse, esagerato affermare che la maggior parte delle melodie indiane è ormai perduta per sempre.
Presso gl'Indiani le frasi musicali sono accennate da qualche istrumento di costruzione primitiva.
L'Indiano non poteva, per costruire questi strumenti, usare con facilità se non materie che si offrissero a lui spontaneamente: la corda, o la pelle tesa, dischi di metallo o di osso, tronchi d'albero incavati. Sotto questo aspetto esso non è al disotto dei popoli d'Europa dei tempi preistorici. Si pensi a un osso di maiale, preso da una spalla della bestia, spogliato della sua carne e disseccato. Così disseccato. esso è come una paletta e offre una superficie di una certa sonorità, sulla quale il suono si produce mediante sfregamento a mezzo di un bastone dentellato. Col nome di čikawastli gli antichi Peruviani conobbero uno strumento simile, ricavato da legno di cerro, che si è ritrovato in Colombia col nome di cáscara (dallo spagnolo). A volte l'Indiano costruisce uno strumento formato da un piccolo sacco di cuoio disseccato, gonfiato d'aria ed ermeticamente chiuso nel quale egli versa una piccola quantità di grani o di piccolissime briciole. Messo in movimento questo sacco emetterà una sonorità da castagnette: in sostanza un giuoco per bambini, che può tuttavia segnare efficacemente il ritmo.
Un tamburo si ottiene, colà, per mezzo di un tronco d'albero cavo, ricoperto d'una pelle di animale, che potrà essere battuto con le mani, o a mezzo di bacchette: è il tinya dei Peruviani dell'epoca antica. Dei pochi strumenti indiani fa parte, inoltre, un tamburello fabbricato grossolanamente, e che si fa risuonare con l'aiuto di un piccolo mazzuolo.
Resterebbe a parlare di una specie di sistro, formato da quattro dischetti metallici, strumento di scarsa importanza artistica. Ma son per noi da considerare piuttosto oggetti da museo che non veri e proprî strumenti musicali.
Manca in questo catalogo di strumenti dell'America Settentrionale il flauto. È sorprendente questo fatto, se si pensa che tale strumento è stato foggiato istintivamente da tutti i popoli, anche da quelli della più remota antichità; il flauto si ritrova ovunque, persino presso i Peruviani, che possedevano il kena, ricavato da una canna o da un osso, e il tlapitsali fatto di terracotta.
Per riepilogare, bisogna considerare che se la musica di molti popoli esotici è veramente un'arte, essa non fu, per i Pellirosse, che un passatempo tra due partite di caccia o due guerre. Dovremmo risalire fino all'impero degl'Incas, per trovarci alla presenza di una civiltà artistica. Ma della musica di quest'epoca manca poi ogni documento. Benché appartenenti alla stessa razza, gli antichi Peruviani stabiliti in ricche città, e i Pellirosse delle praterie dell'America Settentrionale differivano tra loro così profondamente da far dubitare della connessione radicale fra le due civiltà.
Bibl.: E. Seler, Mittelamerikanische Musikinstrumente, Altamerikanische Knochenrasseln, in Globus, Brunswick 1874; O. Comettant, La musique en Amérique avant Christophe Colomb, in Atti del Congresso degli Americanisti di Parigi, II, 1875; T. Baker, Die Musik der nordamerikanischen Wilden, Lipsia 1882; Sapper, Volkmusik bei den Indianerstämmen, in Neue Musik-Zeitung, Stoccarda 1892; A. C. Fletcher, Indian story and Song, Boston 1900; W. Matthews e J. C. Fillmore, Navaho Legend, in Mem. of the Amer. Folklore Society, 1897; id., Indianergesänge, in Beitr. für. Akk. und Musikwiss., III, Berlino 1901; J. Tiersot, La Musique chez les peuples indigènes de l'Amérique du Nord, in Recueil de la Soc. int. de mus., II (1910); id., Negro melodies, in Zeitschr. d. Intern. Musik-Gesell., VIII; Abraham e Hornbostel, Phonographierte Indianermelodien aus British Columbia, New York 1906, estratto dal Boas Memorial volume; E. Hornbostel, Phonographierte Indianermelodien, in Vierteljahr. f. Musikwiss., Lipsia 196; N. Curtis, Songs of ancient America, New York 1906; F. Ferrero, La musica dei Negri americani, in Rivista musicale italiana, Torino 1906; B. J. Gilmore, Hopi Songs, in Journal of Amer. Ethn. and Arch., New York 1908; E. Fischer, Musica patagone, in Riv. mus. ital., Torino 1909; F. R. Burton, Amer. Prim. Music, New York 1909; R. Lehmann-Nitsche, I canti e la musica in Patagonia, in Riv. mus. ital., Torino 1909; R. e M. d'Harcourt, La musique indienne chez les anciens civilisés d'Amérique, in Lavignac, Encycl. de la musique, Parigi 1922; G. Knosp, La musique des Indiens de l'Amérique du Nord, in Lavignac, Encycl. de la musique, Parigi 1922.
VII. Storia dell'America anglosassone.
Il nome di America anglosassone, che suole darsi al continente nordamericano dai confini settentrionali del Messico alle estreme regioni boreali di esso, non implica - a differenza dell'altro "America latina" - quella omogeneità etnico-culturale, quella comunanza secolare di vicende storiche, quella coscienza di un'affinità morale e sociale la quale costituisce invece una specie di comune denominatore di tutti gli stati (pur così diversi fra loro per clima, suolo, prodotti), che vanno dal Messico alla Terra del Fuoco, lungo la distesa immensa dell'America Centrale e Meridionale. L'America anglosassone invece, se non è proprio una pura e semplice espressione geografica, equivalente ad America settentrionale, è tutto al più un'espressione etnico-linguistica, perché i due grandi stati che la compongono nulla hanno di comune, salvo, in parte, la lingua e il primo popolamento anglosassone. Per il resto, ciascuno di essi ha svolto in modo autonomo almeno fino a tempi recentissimi, la propria speciale fisionomia storica, politica, culturale. I due stati, com'è ben noto, sono: gli Stati Uniti d'Amenca, con il loro possedimento nord-americano dell'Alasca; ed il Dominio del Canadà con la vicina colonia inglese di Terranova e dipendenza del Labrador.
Quando il grande navigatore Giovanni Caboto, ligure naturalizzato veneziano, al comando di navi inglesi, toccava nel 1497 l'isola di Terranova, sulla costa atlantica toccata già certamente nei secoli X-XI da audaci avventurieri normanni in viaggi leggendarî di cui però non restava in Europa neppure la memoria; l'immensa distesa di terre che vanno sotto il nome di America anglosassone, o America settentrionale che dir si voglia, nonché occupata in tutto o in parte da stati organizzati, non era quasi nemmeno abitata. Secondo i calcoli più attendibili, la razza indigena che l'abitava non raggiungeva il milione e mezzo d'individui, di cui meno di mezzo milione nell'odierno Dominion del Canadà e colonie vicine, ed un milione circa negli attuali Stati Uniti d'America; e di questi ultimi, soltanto circa 180.000 ad oriente del Mississippi. Erano ripartiti in numerosissime tribù, più o meno sparse, che oggi, dopo oltre quattro secoli di colonizzazione bianca, con relativa distruzione della maggior parte di esse, migrazione o sminuzzamento di altre, riesce estremamente difficile localizzare con esattezza. Affatto primitiva la loro vita, basata economicamente sulla caccia, la pesca, la raccolta dei frutti spontanei del suolo. Nel SO. solamente degli Stati Uniti di oggi, nel Nuovo Messico, gl'Indiani Pueblos, più avanzati in civiltà, conoscevano l'agricoltura e praticavano perfino l'irrigazione del suolo; ma in nessuna parte dell'America del Nord esistevano vere e proprie civiltà, popolazioni relativamente dense, società politiche di tipo superiore, come si trovarono invece, all'epoca della scoperta, sugli altipiani del Messico e del Perù. Per tale ragione, gl'Indiani, che formano invece oggi ancora - puri o incrociati con Europei e con Negri importati come schiavi dall'Africa - addirittura il sostrato della popolazione in alcune regioni dell'America Centrale e nella regione andina dell'America Meridionale, non hanno avuto e non hanno alcuna importanza rilevante come fattore etnografico e politico-sociale nell'America anglosassone. Distrutti o respinti a poco a poco verso le regioni più aride dell'interno, incapaci generalmente di passare dallo stadio di popolo cacciatore a quello di popolo agricoltore, vittime delle repressioni spietate seguenti ad ogni loro attacco o insidia contro i coloni europei e facile preda delle malattie da questi importate ed inoculate, limitati ormai a zone sempre più ristrette o confinati addirittura in riserve territoriali indiane; essi andarono di secolo in secolo diminuendo, con l'avanzarsi della colonizzazione bianca. Ed oggi non superano i 455.000 individui in cifra tonda: cioè 350.000 negli Stati Uniti, al 30 giugno 1925; e 106.000 nel Canadà, secondo il censimento del 1921.
L'America anglosassone è quindi, praticamente, tutta di origine europea e la sua storia è tutta quanta solo di origine coloniale.
Dal punto di vista politico-costituzionale invero la storia dell'America del Nord può dividersi in due periodi, il periodo coloniale e quello nazionale, il quale ultimo s'inizia, per gli Stati Uniti, col riconoscimento della loro indipendenza, nel 1783; e per il Canadà, con la costituzione nel 1867 del Dominion of Canada, federazione coloniale dipendente ormai solo di nome dall'Inghilterra. Ma, da un punto di vista storico più generale, essa può dividersi in due periodi, di cui il ventennio fra il 1763 e il 1783 segna cronologicamente e logicamente per tutta l'America del Nord, cioè Stati Uniti e Canadà, il momento di transizione. In quel ventennio infatti, con la definitiva conquista inglese del Canadà, consacrata nella pace di Versailles del 1763, e col riconoscimento internazionale degli Stati Uniti d'America, ereditieri inevitabili, sul continente, di dominî coloniali europei basati più su pretese storiche o su sporadiche e fittizie occupazioni coloniali, cioè nominali, che non su una colonizzazione effettiva, il destino storico del continente è fissato. L'America del Nord è fatta allora potenzialmente e diventerà poi effettivamente, nel corso d'un secolo appena, l'America anglosassone: per quanto, non la razza anglosassone sola abbia iniziato il popolamento e la colonizzazione dell'immenso paese; per quanto diversi si presentino, nell'epoca successiva, gli sviluppi politici, territoriali, demografici, economici, sociali dei due grandi rami storici dell'America anglosassone, gli Stati Uniti e il Canadà, nella cui storia ulteriore si sdoppia dopo di allora quella dell'America anglosassone.
Anche nell'America Settentrionale, come nella Centrale e Meridionale, gl'inizî della colonizzazione si riconnettono col predominio delle nazioni iberiche nel sec. XVI. Ché, se i viaggi di Giovanni Caboto, giunto nel 1497 a toccare l'isola di Terranova, e, più, del figlio Sebastiano, il "grande pilota d'Inghilterra", che nel 1498 discendeva la costa atlantica fino all'odierno Maryland, davano alla corona inglese, con la priorità della scoperta, un titolo politico al dominio del continente; Spagna e Portogallo, tra i quali la famosa raya o linea di demarcazione di papa Alessandro VI del 1493 aveva ripartito tutte le terre scoperte o da scoprire, cercavano affannosamente di accaparrarsi anche la parte settentrionale del Nuovo Mondo, ciascuno dei due popoli per la porzione eventualmente rientrante nell'emisfero ad esso assegnato: l'orientale, il Portogallo; l'occidentale, la Spagna. Così, mentre il Cabral navigava a mezzodì, ignoti navigatori portoghesi, intorno al 1501, compivano scoperte nel continente nord-americano lungo le coste della Florida e, forse, delle Caroline e, fra il 1500 ed il 1502, il Cortereal ne navigava le acque settentrionali, per incarico ufficiale della corona. Morto esso, massacrato forse col suo equipaggio dagl'Indiani, il governo portoghese non pensò più all'America Settentrionale. Ma vi pensarono gli Spagnoli, divenuti, dopo i viaggi di Cristoforo Colombo e degli altri grandi navigatori dell'epoca, signori delle Antille e delle coste occidentali e settentrionali del Golfo del Messico, il Mediterraneo americano.
Uno dei più intraprendenti e feroci conquistadores, il vecchio Ponce de León, già governatore di Portorico, armate a proprie spese tre navi per conquistarsi un regno e per ritrovare al tempo stesso quella fonte di giovinezza eterna, di cui parlava una leggenda indiana, guidava verso la costa settentrionale del grande golfo i suoi avventurieri sitibondi di oro e con essi sbarcava, il giorno di Pasqua di Rose del 1513, su quella penisola, che dalla ricorrenza festiva appunto veniva chiamata Florida. Ottenuto dal re di Spagna il governo della Florida, col patto di conquistarla e colonizzarla, il Ponce de León compì una seconda spedizione. Ma, ferito dagli lndiani, invece della giovinezza perduta e delle miniere d'oro sognate, trovò la morte nel 1521. Né più fortunati di lui furono i successori: massimo fra tutti quel Ferdinando de Soto, il quale, geloso dei bottini peruviani di Pizarro, sotto cui aveva servito, navigava da Cuba alla volta della Florida nel 1539 alla testa d'una spedizione militare di oltre seicento Spagnuoli. Caccia altrettanto vana, quanto affannosa, dolorosa e cruenta, alla ricerca dei vantati tesori auriferi, più che conquista territoriale, la spedizione del de Soto arrivava tra stenti indicibili al Mississippi e lo risaliva fino al Missouri. Qui egli morì nel 1542 e fu gettato nel gran fiume, quasi consacrando alla conquista spagnuola il bacino centrale dell'America del Nord.
Chiuso però ed impenetrabile a guerrieri come a missionarî (il padre domenicano Cancello, fra gli altri, morto nel 1549), continuava intanto a rimanere l'interno della Florida, contro le cui miasmatiche paludi ed i bellicosi abitatori si spuntavano del pari l'orgoglio e la ferocia castigliana ed il vibrante entusiasmo ugonotto. Anche i Francesi infatti tentavano, ma invano, nello stesso sec. XVI la conquista della Florida e terre adiacenti. Una colonia ugonotta, guidata da un ardito navigatore di Dieppe, Giovanni Ribault, intraprendeva l'opera ideata dall'ammiraglio Coligny, il quale sognava un impero francese protestante, quale rifugio dei perseguitati ugonotti: essa sbarcava nel 1562, al N. della Florida, e in onore di Carlo IX chiamava Forte Carlo lo stabilimento coloniale creatovi; Carolina il paese. Lo stabilimento del Ribault presto languì; ma lo rianimò il Laudonnière, sbarcatovi con nuovi emigranti ugonotti nel 1564 e riuscito ad attrarre nell'orbita francese alcune tribù locali. Contro Forte Carlo, però, rifugio di eretici calvinisti e di pirati francesi alla caccia di navi spagnuole, moveva il fanatismo politico e religioso ad un tempo del feroce capitano spagnolo Pedro Meléndez de Aviles: il quale, ottenuta da Filippo II la carica di governatore della Florida, al patto di conquistarla entro un triennio, di ridurla al cattolicesimo e di colonizzarla, assaliva ancora nel 1565 e massacrava senza scrupolo i coloni francesi, impiccandone agli alberi quanti ne trovava, colla scritta "non come francesi, ma come eretici". Distrutta ogni vestigia della colonia francese e preso formalmente possesso in nome del re di Spagna anche dell'America Settentrionale, che nelle carte spagnuole dell'epoca infatti verrà rappresentata dal Golfo del Messico al Canadà col nome generico di Florida, il restauratore del dominio spagnolo procedeva subito alla fondazione di Sant'Agostino, la più antica città degli Stati Uniti attuali e il primo centro coloniale permanente dell'America del Nord.
Ancora meno fecondi di risultati coloniali immediati, quantunque importanti per l'espansione successiva dei due popoli nel secolo seguente, furono i tentativi coloniali di Francesi ed Inglesi nel resto dell'America Settentrionale, durante il Cinquecento. Se invero la navigazione gloriosa del fiorentino Giovanni da Verrazzano, che nel 1524 esplora e descrive dal 34° al 50° grado di latitudine la costa atlantica dell'America del Nord nella vana speranza di scoprirvi il passaggio marittimo per il regno asiatico del Catai, non aveva pei Francesi risultati pratici; le navigazioni e prime esplorazioni dell'interno da parte di Dionigi d'Honfleur nel 1506 e più assai di Giacomo Cartier, nel quarto e quinto decennio del secolo, aprivano alla Francia la porta stessa di accesso al Canadà, cioè il Golfo del San Lorenzo e il grande fiume omonimo che in esso scarica le acque dei grandi laghi canadesi. Nonostante però queste spedizioni e le successive, ancora alla fine del Cinquecento, la Francia non ha nessuna occupazione coloniale effettiva nell'immenso territorio nord-americano, compreso tra la spagnola Florida e l'estremo settentrione, che nelle carte francesi dell'epoca era pure battezzato col nome di Francesca o Canadà o Nuova Francia. Anche la storia delle occupazioni coloniali inglesi sulla costa atlantica degli attuali Stati Uniti d'America, durante il regno di Elisabetta, si riduce ad una lunga serie di tentativi falliti, per quanto tenaci ed eroici: notevoli soprattutto quelli di sir Umfredo Gilbert nel 1579 e 1583 e quelli promossi o capeggiati da sir Gualtiero Raleigh nel 1584, 1587, 1590. In onore della "vergine regina", gli Inglesi denominavano Virginia il paese che i Francesi, nei tentativi analoghi sopra ricordati, avevano chiamato Carolina. Nella stessa epoca, essi, col secondo circumnavigatore del globo, l'ammiraglio-pirata Francesco Drake, dando la caccia alle navi e assalendo i forti spagnuoli dell'Oceano Pacifico fra il 1577 ed il 1580, toccavano anche momentaneamente e denominavano Nuova Albione la costa occidentale dei moderni Stati Uniti. Che se pure il Drake nel 1579 non si spinse proprio fino al 48° grado di lat. N. (da quel viaggio appunto daterà la pretesa inglese sul territorio attuale dell'Oregon); certo egli raggiunse l'attuale Capo Bianco al 43° lat. N., il punto probabilmente più settentrionale della costa americana del Pacifico raggiunto o per lo meno cognito agli Europei sino a tutto il sec. XVII. Insomma, attaccata da E. e NE., come da O. e da S. da navigatori, da esploratori, da avventurieri e persino da arditi pionieri coloniali; sfruttata già economicamente con la pesca nelle sue acque e col commercio delle pellicce sulle coste nord-orientali; l'America Settentrionale, a differenza della Centrale e Meridionale, alla fine del sec. XVI è pur sempre un continente vacante, anche se vi hanno affermato diritti o pretese a S. e SE. gli Spagnoli, ad E. e NE. Inglesi e Francesi.
Col successivo sec. XVII, si passa dalle esplorazioni marittime e dalle affermazioni nominali alle occupazioni coloniali effettive e durature. Gli Spagnuoli, anzitutto, occupatori e colonizzatori primi della penisola sud-orientale della Florida, dal Messico si avanzano nel continente nord-americano anche dalla parte di SO., risalendo da un lato le coste del Pacifico al N. della penisola di California, rimontando dall'altro le vallate del Rio Grande del Norte e del Colorado, sino ai piedi delle Montagne Rocciose. Scoperta ormai dal 1533 la penisola della California (Bassa California) e risalita qualche anno dopo, col Cabrillo, la costa del Pacifico sino al 42° e mezzo di lat. N. per lo meno; gli Spagnoli avevano condotto già nel 1540, col Coronados, una prima spedizione militare nell'interno, sugli altipiani dell'Arizona e nel Nuovo Messico, alla vana ricerca d'una favolosa città di Cibola, tutta risplendente di oro, senza però - dalle scoperte geografiche in fuori - raggiungere alcun risultato coloniale concreto. Soltanto alla fine del sec. XVI e al principio del XVII, in seguito ai nuovi tentativi ripresi col 1581, venivano assoggettate le popolazioni indiane di quelle regioni, organizzate fra esse le missioni religiose e fondato San Juan de los Caballeros alla foce del Río Chama (al 36° lat. N.) e più tardi, fra il 1609 ed il 1611, Santa Fé. Intorno al 1630. le missioni francescane, prime colonizzatrici del Nuovo Messico, si estendevano nelle vallate del Rio Grande e del Piccolo Colorado dal 34° al 38° di lat. N. Ma doveva passare un altro secolo e più, perché la colonizzazione spagnuola, il cui elemento dinamico propulsore era dato ormai soltanto dalle missioni religiose, occupata e colonizzata coi domenicani la Bassa California, raggiungesse - lungo le coste del Pacifico - anche l'Alta California. Qui, tra il 1769 ed il 1781, sorgevano fra il 35° e il 38° di lat. Nord parecchie stazioni, come quelle di San Diego, Los Angeles, Monterey e San Francisco, raggruppate amministrativamente coi loro tenui retroterra nel cosiddetto Presidio San Francisco. Mentre si pensava a congiungere col Messico anche questa seconda striscia di occupazione coloniale effettiva, risalendo la valle del Colorado, dove missionarî e Coloni si scontravano nella fiera ostilità degli Yuma; spedizioni spagnole si spingevano lungo la costa molto e molto più al N., raggiungendo nel 1774 col Pérez il 55° grado, nel 1775 il 57° 20', nel 1779 infine, con l'Orteaga, un punto anche più settentrionale denominato Puerto de Santiago, non identificabile con certezza. In base appunto a tali spedizioni, gli Spagnoli, nel sec. XVIII, spingeranno sino allo Stretto del Principe Guglielmo (circa 60° lat. N.) le loro pretese su quella costa settentrionale del Pacifico, al N. della stessa California, su cui si appuntavano anche le aspirazioni russe e le inglesi.
Mentre invero gli Spagnoli prendevano nominalmente possesso della costa occidentale e colonizzavano di fatto le due strisce territoriali della California e del Rio Grande; Inglesi, Olandesi e Svedesi fondavano nel Seicento e Settecento, sulla costa orientale del continente, quegli stabilimenti coloniali che - unificati politicamente dall'Inghilterra - diventavano la culla degli attuali Stati Uniti d'America. La spinta decisiva era venuta dalla costituzione in Inghilterra (1606), ai tempi di Giacomo I Stuart, di due compagnie coloniali rivali, quella di Londra e quella di Plymouth, cui erano date patenti larghissime per la colonizzazione del territorio americano compreso fra il 34° ed il 45° grado di lat. N., dal Capo Fear a Halifax, salvo il piccolo cono dell'Acadia (il Sud della Nuova Scozia) posseduto allora dai Francesi. Alla prima delle due compagnie, composta di nobili, di personaggi influenti e di negozianti di Londra, veniva assegnata la parte fra il 34° ed il 38°, vale a dire dal Capo Fear alla frontiera meridionale dell'attuale Maryland; alla seconda, composta di cavalieri e di mercanti dell'O., la parte fra il 41° ed il 45°. Il territorio intermedio doveva rimanere aperto a tutt'e due, col patto - ad evitare contese - che una zona neutra di 100 miglia intercedesse fra gli stabilimenti estremi delle due compagnie.
La Compagnia di Plymouth falliva nell'intento, giacché le piantagioni tentate nel 1607 alla foce del Kennebec River, nell'odierno Maine, venivano pel rigido clima abbandonate dai coloni l'anno dopo; e questi per di più, tornati in patria, dissuadevano gli altri dal ritentare la prova. Ma una nuova Compagnia, formata di quaranta sudditi inglesi, tra cui i più ricchi ed influenti della nobiltà e qualche membro della stessa casa reale, le succedeva in seguito nel privilegio monopolistico di possedere, sfruttare, governare e popolare con suoi dipendenti l'immenso paese estendentesi, in larghezza, dal 40° al 48° grado di lat. N. e, in lunghezza, dall'Oceano Atlantico al Pacifico (il Consiglio stabilito a Plymouth, nella contea di Devon, per colonizzare, amministrare, organizzare e governare la Nuova Inghilterra in America). Se non che, due mesi prima di ciò, salpava alla volta della Nuova Inghilterra, senza alcuna garanzia del sovrano, senza alcuna carta di compagnie proprietarie, senz'altro capitale che le braccia ed il cuore, un manipolo eroico di perseguitati religiosi, di puritani, fuggenti dalla loro patria d'origine per crearsene un'altra dove adorare in pace il loro Dio. A questi pellegrini (i Pilgrim Fathers) che, prima di sbarcare, il 16 dicembre 1620, dal Mayflower sulla costa del Massachusetts attuale, deliberavano sulla forma di governo ad essi più convenevole, costituendosi in corpo politico per mezzo d'un covenant (patto volontario e solenne), si doveva appunto la fondazione dello stabilimento di New Plymouth; mentre i coloni inviati in America dalla Compagnia di Londra (nella massima parte avventurieri della peggior specie, gentlemen spiantati in cerca di fortuna, perfino antichi reclusi) avevano fondato tredici anni prima (il 13 maggio 1607) sotto auspici ben diversi lo stabilimento di Jamestown, alla foce del fiume virginiano chiamato James in onore del re, là dove trovasi tuttora, con una chiesa rovinata, la misera borgata dello stesso nome.
Nel territorio intermedio fra quelli assegnati alle due compagnie coloniali, si stabilivano però, prima che vi si stanziassero coloni inglesi, altre genti europee, cioè Svedesi ed Olandesi. Gli Olandesi più al N., nel territorio già scoperto da Enrico Hudson, navigatore inglese al servizio della Compagnia olandese delle Indie Orientali: territorio da essi denominato Nuovi Paesi Bassi, dove sorgeva nel 1623, alla confluenza del Hudson e dell'East River, il centro commerciale di Nuova Amsterdam. Gli Svedesi più al S., sulle rive del Delaware, nel territorio da essi denominato Nuova Svezia (stati attuali del New Jersey e del Delaware), con capoluogo Cristina, presso l'odierna città di Wilmington (1638). La fondazione di questi stabilimenti olandesi e svedesi, se arricchiva di nuovi elementi etnici preziosi la sorgente società nord-americana (importante in ispecie l'elemento olandese, che in seguito darà, fra l'altro, due presidenti agli Stati Uniti, il Van Buren ed il Roosevelt, come darà la grande famiglia di finanzieri Vanderbilt), non impediva tuttavia a lungo l'espansione anglosassone anche su quella parte della costa atlantica. Mentre infatti gli stabilimenti svedesi venivano nel 1655 occupati dal governatore dei Nuovi Paesi Bassi, dietro ordine della Compagnia olandese delle Indie Occidentali; gli stessi Nuovi Paesi Bassi, dove l'infiltrazione dei coloni inglesi aveva minato alle basi il dominio della Compagnia olandese, cadevano senza lottare nel 1664 in mano dell'Inghilterra, la quale, nonostante fosse allora in pace coll'Olanda, vi aveva mandato una squadra navale a rivendicare quel paese tra il Connecticut ed il Delaware, di cui il re inglese aveva già investito il duca di York. Nuova Amsterdam mutava così il suo nome in New York, Orange in Albany: i Nuovi Paesi Bassi si smembravano col tempo nelle quattro colonie di New York, New Jersey, Pennsylvania e Delaware; ed il paese tutto, dalla Nuova Inghilterra alla Georgia, veniva territorialmente unificato.
All'epoca della seconda rivoluzione inglese (1688), le colonie americane erano salite al numero di 12, con circa 200.000 abitanti: le quattro della Nuova Inghilterra al N. (New Hampshire, Massachusetts, Rhode Island e Connecticut); le tre colonie del S. (Virginia, Carolina Settentrionale e Carolina Meridionale); e le cinque colonie di mezzo (New York, New Jersey, Delaware, Pennsylvania e Maryland). Ad esse si aggiungeva nel secolo successivo, sull'estremo margine meridionale della Carolina, una nuova colonia, la Georgia, contro cui invano mossero gli Spagnoli della confinante Florida. Era, questa nuova colonia, opera del generale Giacomo Oglethorpe, che voleva fondarvi un rifugio in ispecie pei disgraziati colpiti dalla feroce legislazione dell'epoca contro i debitori insolventi. E a tal fine otteneva, nel 1732, una patente dal re Giorgio II. Unificata così politicamente, sotto il dominio britannico, quella lunga striscia di territorio costiero continuava a rimanere divisa dal punto di vista amministrativo, variando la forma del governo locale da colonia a colonia a seconda che si trattasse di colonie con "carta", di colonie di proprietari o di colonie regie. Le prime (Massachussetts, Rhode Island, Connecticut) erano governate a norma della Carta regia o statuto concesso dalla corona direttamente ai coloni, o al momento della fondazione o in seguito; per la quale carta, i coloni potevano eleggersi i proprî ufficiali pubblici e perfino i governatori e darsi la legge locale, così da costituire una sorta di repubbliche sotto l'alta sovranità inglese. Le seconde (Maryland, Pennsylvania, Delaware, Georgia), essendo state concesse dal re a proprietarî o possessori, i quali insieme con la proprietà delle terre avevano ottenuto il diritto di governarle e darvi la legge, avevano anch'esse carte costituzionali; ma concesse però ai coloni non dalla corona, sibbene dal proprietario o dai proprietarî, i quali nominavano essi il governatore. Sotto ogni altro rispetto, tuttavia, si può dire che anche qui il governo fosse esercitato dai coloni, con la più ampia libertà politica ed autonomia legislativa e amministrativa. Le rimanenti, infine, erano poste direttamente sotto il potere della corona, che vi nominava il governatore ed i pubblici ufficiali, pur avendo esse pure le proprie assemblee elettive e godendo della maggiore libertà politica e legislativa. Solo che col tempo il terzo tipo veniva a prevalere sugli altri due ed a sostituirsi ad essi. Profondamente diverse, invece, seguitarono a rimaner le tredici colonie inglesi dal punto di vista sociale, data la differenza delle origini, del suolo, del clima, e soprattutto delle forme economiche dominanti. Nella Nuova Inghilterra, colonizzata da puritani, da dissidenti religiosi e politici, una società democratica, egualitaria, prevalentemente costituita da piccoli proprietarî-agricoltori entro terra, da pescatori, marinai e commercianti sulla costa. Nelle colonie centrali, già campo dell'attività commerciale olandese, una società mista, agricola all'interno, commerciale sulla costa. In quelle meridionali, una società aristocratica, esclusivamente agricola, basata sul latifondo e la schiavitù dei Negri importati dall'Africa, i quali, in mancanza di braccia lavoratrici, sia bianche sia indigene, sufficienti alla produzione di quelle speciali derrate che venivano richieste in quantità sempre maggiori dalla metropoli (tabacco soprattutto, poi indaco, riso, zucchero, cotone), avevano finito col costituire l'unica forza di lavoro.
Ove se ne eccettui la regione costiera, ricca di porti e invitante alla pesca, alla navigazione e industrie relative, che costituivano le forme quasi esclusive di vita economica delle città litoranee; l'agricoltura era, insieme col taglio dei boschi, l'industria predominante nella Nuova Inghilterra. Nella stessa agricoltura, per di più, non permettendo il suolo magro e il clima freddo la coltura su vasta scala dei prodotti d'esportazione, ma soltanto quella dei cereali necessarî al fabbisogno famigliare o locale, non potrà attecchire il latifondo e nemmeno la media proprietà fondiaria. Prospera invece, costituendo la forma di gran lunga predominante, il farm, cioè il pezzo di terra coltivato direttamente dal proprietario e dalla sua famiglia. Le forme economico-sociali, imposte alla Nuova Inghilterra dalle stesse condizioni fisiche locali e dalle generali condizioni di vita dei secoli XVII-XVIII, soffocavano in essa la schiavitù dei Negri, ivi pure importati, e salvavano per lunga età i germi democratici portati dai primi coloni. Ché anzi, sulla triplice base del protestantesimo piu̇ puro, della eguaglianza delle condizioni economiche e del più largo sell-government o autonomia coloniale e soprattutto locale (il township o municipalità sarà la cellula della vita stessa politica oltreché amministrativa), quei germi si sviluppavano nel più florido e vigoroso organismo democratico che la storia forse ricordi. Qui calvinismo e democrazia, ascetismo religioso e ascetismo politico si perpetueranno quasi come patrimonio ereditario; e dal loro connubio uscirà quel tipo yankee, il tipo storico americano, dalla veduta limitata ma tenace e forte delle cose, che, con la sua energia, informerà alla sua volta di sé l'intero popolo anglo-americano. Grazie infatti ai germi straordinariamente vivaci del secolo XVII, a un primo movimento di concentrazione seguirà un moto di espansione tanto più notevole, quanto più densa diventerà la popolazione della Nuova Inghilterra: nel 1754, circa 436.000 abitanti, di cui soli 11.000 schiavi negri. Così, mentre l'E. e il NE. dei futuri Stati Uniti saranno figli diretti della Nuova Inghilterra, l'elemento neo-inglese guadagnerà, o materialmente con l'immigrazione o moralmente col suo influsso, le popolazioni della zona atlantica centrale e perfino meridionale, condannate, quelle dalla poca coesione ed omogeneità, queste dalla mancanza assoluta d'istruzione e di lumi, a subire l'ascendente di una superiorità intellettuale, morale e sociale. Lo yankee farà l'americano: tanto sarà il peso del solido nucleo democratico della Nuova Inghilterra sui destini sociali della intera gente anglo-americana.
Invece, dalle frontiere settentrionali del Maryland a quelle meridionali della Georgia, sotto l'azione di opposti fattori climatico-territoriali, viene costituendosi nei secoli XVII-XVIII - nonostante la comunanza di razza e le stesse analogie politiche e culturali originarie - una società profondamente diversa da quella settentrionale; una società la quale, per quanto diverse siano le origini delle colonie inglesi in cui è divisa, presenta una straordinaria conformità di vita e una perfetta omogeneità di interessi e di tendenze. La schiavitù dei negri importati dall'Africa (a cominciare dal 1619) per fornire la mano d'opera necessaria alle pingui piantagioni producenti le derrate alimentari o industriali richieste in copia sempre crescente dal mercato europeo (zucchero, tabacco, indaco, cotone, ecc.), o da quello stesso americano delle Antille (riso, per es.), sarà il cemento di quella società. Essa è basata economicamente sul latifondo coltivato da schiavi abbrutiti; è dominata socialmente da un'aristocrazia fondiaria, casta più che classe, proprietaria degli schiavi; possiede solo attività e interessi agricoli ed è priva di industrie sia pure locali e rudimentali; priva, o quasi, anche di commerci, salvo nei rarissimi porti di esportazione (Baltimora per il Maryland e la Virginia; Charleston per le Caroline; Savannah per la Georgia). Non ha classi medie, non scuole, non stampa o in limitatissima misura (fino al 1776, la Virginia non avrà che una sola stamperia e per di più in mano del governatore): riassume insomma, nella vita materiale ed in quella morale, le caratteristiche della società feudale del Medioevo e di quella schiavista dell'antichità, più che non riproduca in America la società moderna europea.
Nelle tredici colonie originarie della regione costiera dell'Atlantico, fra questo e il sistema montagnoso degli Appalachi, che era freno ad una rapida dispersione degli abitanti, si andava formando - matrice etnica e storica degli Stati Uniti attuali -, la nuova società agricola che procedeva lenta ma salda verso occidente con la scure e con l'aratro, mettendo radici inestirpabili su ogni palmo di terreno conquistato e fecondato. Intanto sull'altro versante degli Appalachi, dai Grandi Laghi canadesi al Golfo del Messico, si andava sviluppando, da NE. a SO., sia pure in modo fittizio, la colonizzazione francese, iniziatasi definitivamente ai primi del Seicento nella vallata del San Lorenzo (come nel New Brunswick e nella Nuova Scozia attuale) dopo gli approcci od i tentativi falliti del secolo precedente. Ne era stato iniziatore fervido quanto tenace un eroico navigatore e pioniere basco, Samuele de Champlain, che aveva fondato nel 1608 il primo stabilimento duraturo canadese, alla confluenza del San Carlo col San Lorenzo, là dove ora sorge Quebec, ed in Quebec era morto nel 1635, dopo aver dedicato alla grande opera un trentennio intero della sua vita. L'avevano in seguito promossa e attuata alcune compagnie commerciali e coloniali che avevano il monopolio del traffico delle pelli ed erano munite di poteri sovrani.
Prima, la Compagnia della Nuova Francia (1627), capeggiata dallo stesso cardinale di Richelieu; sotto la quale sorgeva nel 1642, alla confluenza del San Lorenzo coll'Ottawa River, Villemarie de Montréal, l'odierna Montreal. Più tardi (1664), la Compagnia d'Occidente, nata per impulso dell'onnipotente ministro Colbert. Revocata nel 1674 la carta sovrana di concessione elargita a questa compagnia, il Canadà, che ancora nel 1643, all'ascensione al trono di Luigi XIV, aveva solo circa 2300 abitanti di razza europea, e 3418 nel 1666, diventava, per le grandi speranze in esso riposte e per la potenza dei gesuiti in esso impegnati a fondo, la colonia prediletta del Re Sole. In essa egli voleva fondare una nuova Francia, in tutto simile all'antica. Leggi speciali venivano a tal fine emanate pel Canadà, allo scopo di incoraggiarvi, con premî in danaro e altri modi, i matrimonî e la prolificazione dei coloni. Appositi agenti percorrevano le provincie della vecchia Francia in cerca di emigranti liberi o coatti. Convogli di donzelle, d'ogni classe sociale, venivano mandate ad accasarsi nel Canadà. Centinaia di soldati del reggimento Carignano vi erano spediti, per mutarsi, essi in coloni, e i loro ufficiali in signori feudali di vasti territorî.
Con tutto ciò, anzi appunto perciò, lo sviluppo del Canadà sotto il dominio francese procedeva quanto mai lento. Intorno al 1683, la sua popolazione arrivava faticosamente ai 10.000 abitanti circa; intorno al 1721, a 25.000. A prescindere anche, difatti, dal sistema commerciale monopolistico, contrario agl'interessi del paese, tre ostacoli inceppavano tale sviluppo, l'uno più dell'altro gravoso per una colonia di popolamento agricolo, quale soltanto poteva essere il Canadà, per clima, per suolo, per mancanza di copiosa e adattabile popolazione indigena. Erano essi: il sistema feudale di proprietà, contrario al massimo grado al libero stanziamento del colono sul suolo; l'eccessiva autorità e potenza del clero, precludente fra l'altro la colonia ad elementi colonizzatori di primo ordine (gli ugonotti in particolare), cacciati di patria dall'intolleranza religiosa; l'assenza completa infine di libertà politica e di autonomia amministrativa locale, condannante al ristagno anche economico, oltre che politico e morale, la collettività nascente. Conservata ai grandi signori feudali una tenue giurisdizione nell'ambito del loro feudo, il governo della colonia era affidato a due rappresentanti immediati della corona, il governatore generale e l'intendente: rivestito il primo (un nobile generalmente, datosi alla carriera militare) di ambedue i poteri, civile e militare; incaricato il secondo (borghese, non di rado, come nella metropoli) di dirigere le finanze, di presiedere alla giustizia, ai lavori pubblici, all'amministrazione in genere e di fare ogni anno un minuzioso rapporto alla corona su tutto l'andamento della colonia, non esclusa la condotta del governatore stesso. Quanto all'amministrazione locale, il Canadà veniva col tempo diviso in tre distretti, affidati ad un governatore locale (le attuali Quebec, Montreal e Three Rivers ne erano i capoluoghi).
Ma la costituzione politica ed economica del Canadà, se poco favoriva un largo sviluppo demografico del paese sulla base d'una fiorente agricoltura, molto invece promoveva un'espansione territoriale, sia pure poco solida, del dominio francese nell'America del Nord. Ben più che dell'agricoltura, infatti, il paese viveva del commercio delle pelli: donde la necessità di strade libere e d'uno spazio praticamente illimitato. A questa necessità si obbediva tanto più volentieri, in quanto la colonia era costituita, anziché di uomini liberi e indipendenti, attaccati saldamente al suolo della nuova patria col legame dell'affetto e dell'interesse, di coloni che vivevano in uno stato di servitù temporale e spirituale, di agenti di compagnie commerciali, di avventurieri d'ogni risma, di soldati, di missionarî; tutta gente che il desiderio di lucro, lo spirito di ventura, la disciplina militare, l'entusiasmo della fede spingevano sempre più addentro nel continente. La stessa conformazione geografica di questo favoriva la fittizia espansione territoriale della società franco-canadese; ché da N. a S., dai Grandi Laghi al Golfo del Messico, nessun ostacolo naturale sorgeva ad arrestarla; e i suoi figli non avevano che da seguire la corrente del Mississippi e dei suoi affluenti e subaffluenti, per disperdersi in tutta l'immensa contrada. Il disegno del Colbert di estendere la dominazione francese a tutto l'interno del continente nord-americano, limitando gl'Inglesi alla stretta zona costiera dell'Atlantico, gli Spagnoli alla Florida; questo disegno, diventato programma pratico dei governatori e intendenti canadesi (in ispecie dei Frontenac, dei Talon, dei De Courcelles), sembrò destinato ad attuarsi in modo duraturo con Roberto de la Salle. Questo illuminato e geniale avventuriero di Rouen dischiudeva alla colonizzazione bianca la vallata intera del Mississippi (già esplorata in parte dal canadese Luigi Jolliet alcuni anni prima, 1673), discendendo il corso del "padre dei fiumi" sino alla foce, coll'aiuto devoto e la valida assistenza d'un veterano italiano Enrico De Tonti, nell'aprile del 1682. Nei decennî seguenti, mentre un altro centro di colonizzazione francese sorgeva al S., nella Luisiana, la cui capitale, New Orleans, si ricollega nelle sue origini (1718) ai fasti e alle catastrofi finanziarie della Reggenza all'epoca del Law, procedeva rapidissima e ininterrotta l'opera di penetrazione francese nel cuore del continente dalla parte del nord.
Era tuttavia penetrazione fittizia, giacché ad essa non si accompagnava il popolamento del paese occupato e controllato dalla Francia. I coloni francesi, scarsissimi di numero, dovevano accontentarsi di appendere agli alberi piastre di piombo, in cui era incisa l'insegna francese; d'intagliare gigli e croci negli alberi più alti; di occupare militarmente gli sbocchi delle vallate e i punti strategici più importanti, dove il fortilizio fungeva ad un tempo da stazione commerciale, da casa per le missioni, da luogo di rifugio in caso di bisogno per gli agricoltori isolati che costruivano le loro case lungo la riva dei fiumi. Gli agenti di questa penetrazione erano nella massima parte avventurieri o mercanti di pelli; erano gesuiti missionarî; erano quei coureurs de bois o scorrazzatori di boschi, che facevano da intermediarî fra mercanti e Indiani e si inselvatichivano nella solitudine della foresta e nella dimestichezza coi Pellirosse, di cui impalmavano le donne e assumevano le abitudini, anche le più feroci, come quella dello scalp. Così la colonizzazione francese dell'America del Nord, dal bacino del San Lorenzo, attraverso ai Grandi Laghi, giù per la vallata e il bacino interno del Mississippi sino alla Luisiana, mancava di base. Determinata da moventi politici, religiosi e commerciali, anziché da una vera corrente immigratoria, essa non aveva capacità di resistere alla colonizzazione agricola degli Anglosassoni, svoltasi nella parte orientale del continente stesso, il giorno che questi agricoltori, procedendo oltre gli Appalachi, si fossero affacciati sulla vallata del Mississippi. La catena dei forti francesi della valle del Mississippi costituiva, è vero, una minaccia, potenziale ma seria, alle colonie inglesi: erano soldati di ventura, appoggiati a fortezze, che minacciavano coloni, militarmente, almeno in apparenza, male organizzati e timorosi di vedersi ricacciare in mare. Ma a decidere del destino delle colonie francesi, intervenne il declino della potenza politica e militare della Francia dal principio del sec. XVIII: declino a cui si contrapponeva invece il sempre più vigoroso incremento della potenza inglese. I coloni francesi non potevano essere sorretti dalla madre patria con sufficienti mezzi, e dovettero infine capitolare. Dopo una serie di guerre coloniali, tra cui più importante, per i risultati ottenuti, quella detta "della regina Anna" (1702-1713), che dava all'Inghilterra, con la pace di Utrecht (1713), la grande isola di Terranova (occupata già dagli Inglesi nel 1583, ma contesa loro per secoli dai Francesi) e la Nuova Scozia, cioè l'Acadia francese; cominciava nel 1754 sul suolo nordamericano, prima ancora che i governi delle rispettive metropoli si fossero dichiarati la guerra, l'ultima lotta fra il Canadà e le colonie inglesi. La sconfitta francese del 13 settembre 1759, nella pianura dell'Abraham sotto Quebec, per opera del Wolfe, e la resa della stessa Quebec, cui seguiva l'anno dopo quella di Montreal, distruggevano per sempre il sogno francese d'un immenso impero nord-americano. E l'8 settembre 1760, il marchese di Vaudreil consegnava alla corona inglese il Canadà con tutte le dipendenze.
La pace di Parigi del 1763, dopo la guerra dei Sette anni, riconosceva all'Inghilterra il Canadà e con esso tutto il paese fino allora di influenza francese, a oriente del Mississippi; le riconosceva anche la Florida, cedutale dalla Spagna insieme col forte di Sant'Agostino e la Pensacola Bay. La città invece di New Orleans e la Luisiana occidentale, sotto il qual nome si abbracciava non il solo stato omonimo attuale ma tutto l'immenso territorio a ovest del Mississippi fino alla spagnola California, non ancora di fatto colonizzato per quanto dalla Francia rivendicato, venivano cedute dalla Francia alla Spagna per compensarla delle grandi perdite subite durante la guerra dei Sette anni. Il Canadà aveva allora una popolazione d'origine europea non superiore ai 65 mila abitanti, raggruppati nell'attuale provincia di Quebec; la Luisiana ne aveva circa 20 mila, raggruppati quasi tutti sul basso Mississippi. La dominazione inglese, tuttavia, non si limitava solo alla zona orientale del continente, dall'Atlantico al Mississippi; ma si estendeva ormai, nella seconda metà del sec. XVIII, anche alle estreme regioni settentrionali di esso, a N. e NO. del Canadà, grazie non tanto ai diritti storici della scoperta, che per il Labrador rimontavano, come vedemmo, alla fine dello stesso Quattrocento, quanto all'esercizio della pesca nei mari e sulle coste boreali d'America; alle esplorazioni marittime e prime occupazioni costiere del Pacifico a N. dei possessi spagnoli; all'opera infine soprattutto di penetrazione commerciale e civilizzatrice di una compagnia coloniale, la Compagnia della Baia di Hudson, creata nel 1670, con un capitale sociale di circa diecimila sterline, per sfruttare e colonizzare il territorio posto a N. del Canadà come ad O. di esso sino al Pacifico. Datasi al commercio delle pellicce anziché alla colonizzazione agricola, per la natura stessa del territorio assegnatole, essa estendeva nel sec. XVII e nel XVIII ogni giorno più la sua sfera d'azione a N. e NO. del Canadà, organizzando via via rudimentalmente il paese ai suoi fini commerciali, mediante il controllo e la protezione delle tribù indigene, e realizzando enormi guadagni con la vendita delle pellicce che veniva acquistando dagl'Indiani a prezzi irrisorî. Dalla parte del Pacifico, gl'Inglesi ponevano piede il 1778 nell'isola di Vancouver e l'anno dopo nella Colombia britannica. Quando la Onorabile Compagnia, come sarà detta la Compagnia della Baia d'Hudson a riconoscimento delle sue benemerenze, cessava col 1870 di esistere, lasciando erede dei suoi territorî il Canadà, l'autorità di essa si estendeva sull'area immensa posta fra il Canadà propriamente detto e quella Columbia Britannica che nel 1858 era stata eretta a colonia della corona; dai confini settentrionali degli Stati Uniti al circolo polare. Oltre 200 forti presidiati da 12.000 agenti bianchi o meticci, di origine franco-canadese in massima parte, custodivano questo immenso territorio.
Solo all'estremo NO. del continente, il dominio inglese non riuscì ad affermarsi nel sec. XVIII, perché contrastato vittoriosamente dai Russi; i quali, dall'opposta sponda siberiana del Pacifico, dischiudevano proprio in quell'epoca alla conoscenza geografica europea la grande penisola di Alasca. Infatti, nel 1728 il navigatore danese Vitus Bering, cui lo zar Pietro il Grande aveva affidata la ricognizione delle terre boreali estreme dell'impero moscovita, scopriva lo stretto che da lui poi prese il nome; due anni dopo, il russo Gvozdev scopriva la costa americana opposta all'Asia; nel 1741, lo stesso Bering ed il Čirikov raggiungevano la costa meridionale dell'Alasca e l'arcipelago di Sitka; nel 1745, infine, venivano scoperte le Aleutine e nel 1760 la grossa isola Kodiak, a S. della penisola di Alasca. Dopo alcuni lustri soltanto, il grande navigatore inglese Giacomo Cook, nel suo terzo viaggio (1776-1779), esplorava per incarico del suo governo la costa americana del Pacifico fra il 48° ed il 60° parallelo, coll'intento di accertare se vi si aprisse un qualche braccio di mare in congiunzione con la Baia di Hudson e di prendervi possesso in nome dell'Inghilterra delle regioni ancora eventualmente sconosciute. Ora, proprio quando i viaggi e le relazioni del Cook richiamavano l'attenzione dell'Occidente europeo sull'estremo NO. dell'America Settentrionale e sulla grande sua ricchezza, che erano i preziosi animali da pelliccia; proprio allora s'iniziava in quelle contrade la prima penetrazione territoriale russa, per iniziativa di due eminenti commercianti siberiani, lo Selikov e il Golikov. Fra il 1784 ed il 1786, si fondano i primi stabilimenti russi nell'isola Kodiak, al Canale di Cook, nelle isole Pribilof; e Russi della Siberia, e sovrattutto del Camciatca, vi iniziavano lo sfruttamento economico dell'Alasca. Come già sulle terre opposte dell'Asia, anche qui organizzarono la caccia dei preziosi animali da pelliccia (lontre, castori, volpi argentate e simili), poi incoraggiarono o addirittura costrinsero le tribù indigene, via via attratte nell'orbita della loro influenza, a fornir loro tale prodotto, sia a titolo di tributo sia in cambio di altre merci importate. Verso la fine del secolo, i varî gruppi commerciali della Siberia orientale, del Camciatca e dell'Alasca, spesso in aspra concorrenza fra loro, venivano riuniti in un solo organismo politico-commerciale, la Compagnia russo-americana, alla quale lo zar Paolo, nel 1799, concedeva per un ventennio (e la carta sarà poi rinnovata) il monopolio commerciale in tutto il dominio del Pacifico, al nord del 52° parallelo di lat., insieme coll'esercizio dei poteri sovrani sui territorî occupati e da occupare. Sitka o Nuova Arcangelo, nell'arcipelago delle Tlinkiti, sarà la sede della compagnia; e la costa del golfo di Alasca, da Sitka alle Aleutine, il campo precipuo d'azione commerciale e politica di essa. Ma l'influenza russa, nei decennî seguenti, si spingerà sempre più verso l'interno, specialmente nell'Alasca su per il fiume Yukon, sin dove arrivava l'influenza della concorrente compagnia inglese della Baia di Hudson; essa cercherà, anzi, di guadagnare la stessa costa meridionale del continente, piantando nel 1811 un suo stabilimento e tenendolo poi per circa un trentennio - nonostante le proteste spagnole - sulle coste stesse della California: cioè Fort Ross, al 38° 18′ di lat. N., dai Russi venduto nel 1841 a un privato, il badese Sutter, che iniziò la colonizzazione della vallata del Sacramento. Il 141° meridiano di longitudine occidentale da Greenwich verso l'interno, ad oriente; ed il 54° 50′ di lat. N., sulla costa, a mezzogiorno, saranno gli estremi limiti territoriali del dominio russo d'America nel sec. XIX, in seguito agli accordi rispettivamente con l'Inghilterra del 28 febbraio 1825 e con gli Stati Uniti del 17 aprile 1824. Escludendo così la parte estrema di NO., aperta ormai all'influenza russa, tutto il resto dell'America settentrionale, dalle terre polari al Golfo del Messico, dall'Atlantico al Pacifico, veniva nel ventennio 1763-83 a trovarsi ripartito politicamente - se non effettivamente occupato - fra Inglesi e Spagnoli. Invadenti i primi; incapaci ormai i secondi di mantenere i proprî possedimenti, nella massima parte nominali, nonché di attentare agli altrui. Ma nello stesso ventennio, dal 1763 al 1783, maturava il fatto capitale che, mentre mutava i destini politici dell'America del Nord, doveva assicurarne per sempre il dominio esclusivo alla razza e alla lingua anglosassone: cioè la creazione degli Stati Uniti d'America.
La guerra dei Sette anni, che nell'America settentrionale era stata lotta per un continente fra la colonizzazione anglosassone e quella latina, era terminata col trionfo della prima. Ma quella guerra portava nel suo seno un altro fatto ancora più importante, il fatto decisivo per l'assetto politico dell'America Settentrionale: l'emancipazione delle tredici colonie inglesi originarie e la fondazione, ancora in quel ventennio, degli Stati Uniti d'America. La guerra vittoriosa iniziata dalle colonie inglesi contro il dominio francese nell'America del Nord, portava invero con sé, a non lunga scadenza, la caduta dello stesso dominio inglese sulle tredici colonie della costa atlantica, comprendenti, al 1763, una popolazione di circa 2 milioni di Bianchi e mezzo milione circa di schiavi negri. Essa infatti, affrancando le colonie da ogni timore sul continente, rendeva inutile la tutela inglese; alimentava poi nei coloni con lo sforzo comune, la coscienza della forza propria e mostrava la debolezza della metropoli, rivelatasi incapace di fare un grande sforzo militare sul continente americano. Non per nulla un popolo s'accorge di poter mettere in mare, come avvenne durante la guerra, ben 400 incrociatori; e una sola colonia, New York, può ricordare alla metropoli d'aver fornito essa sola 60 navi da corsa con 800 cannoni e 7000 marinai. Non per nulla le milizie provinciali americane, disciplinandosi alla guerra in quegli scontri, dove si formò il genio strategico di Washington e la valentia di Gates, Montgomery, Strak, Putnam, rivelarono alle colonie come i soldati regolari della madre patria, nonché invincibili, fossero inferiori agli stessi agricoltori ed artigiani del nuovo mondo. L'ultima guerra contro i Francesi, come fuse moralmente le colonie, così anche fece maturare il dissidio tra colonie e metropoli. Quelle si mostrarono capaci di una vita nazionale indipendente; questa s'indusse, anziché a rinunciare al vecchio sfruttamento economico, a stringere invece i freni anche nel campo politico, sottoponendo le colonie in tutto e per tutto alle decisioni del parlamento di Londra.
Trascurate dal governo inglese finché povere ed oscure, le colonie nord-americane, divenute prospere e ricche, avevano attirato sopra di sé l'attenzione della madre patria; l'ingerenza di questa era aumentata; gli statuti coloniali erano diventati sempre più uniformi; il tipo infine della colonia regia aveva terminato col prevalere. Nel campo politico però, nonostante siffatta evoluzione, le libertà dei coloni rimasero praticamente intatte: ché, se la corona inglese designava con scrittura privata il governatore della colonia ed una specie di gabinetto consultivo o consiglio, che era quasi la camera alta della legislatura coloniale, il popolo eleggeva pur sempre l'assemblea o camera bassa (donde emanava la legge e la tassazione coloniale e quindi la stessa remunerazione dei magistrati e funzionarî regi) e continuava a godere come della più larga autonomia municipale, per cui ogni comunità amministrava da sé i proprî affari, così della la più indiscussa libertà civile, compendiata nelle garanzie della common law inglese (libertà individuale, giudizio per giuria, responsabilità personale degli agenti del potere, ecc.). Invece nel campo economico in genere, e commerciale in ispecie, l'oppressione della metropoli si fece sentire sempre di più, fino a inceppare seriamente l'attività economica delle colonie, che venivano crescendo di popolazione e di ricchezze. Né fa meraviglia questo contrasto stridente fra l'ingerenza economica e la libertà politica, religiosa e civile, lasciata per secoli dall'Inghilterra alle sue colonie di razza. La prima era insita nella stessa concezione coloniale del mercantilismo, prevalente in Europa dal XVI al XVIII secolo; per la quale i possedimenti erano riguardati solo come sorgenti di provviste, come mercati privilegiati della madre patria.
Dischiusa la via al monopolio metropolitano del commercio coloniale, fin dal celebre "Atto di navigazione" di Oliviero Cromwell (1651), che pure non conteneva alcuna clausola relativa a un monopolio marittimo e commerciale della madre patria nelle colonie; questo veniva costruendosi negli atti di navigazione successivi, a cominciare da quello primo della restaurazione stuardica (1663) per culminare poi dopo la seconda rivoluzione inglese del 1688, come effetto diretto e immediato dell'onnipotenza del parlamento. Nel 1696, gli affari coloniali venivano affidati definitivamente all'Ufficio del commercio e delle piantagioni (Board of Trande and Plantations); e tutte le questioni concernenti non gli interessi soltanto ma le stesse libertà dei coloni vennero decise, dopo d'allora, dal punto di vista esclusivo dell'interesse economico della madre patria, coincidesse o contrastasse esso con quello delle colonie. Tutte le leggi anteriori concedenti qualche monopolio all'Inghilterra sul commercio delle colonie furono rinnovate e, per realizzarne la stretta esecuzione, si proclamò rigorosamente l'autorità suprema del parlamento in materia, cioè proprio l'autorità dei rappresentanti di quegli interessi metropolitani (armatori, commercianti, banchieri, industriali, ecc.) a cui beneficio doveva andare la politica economica restrittiva adottata e ogni giorno più inasprita nei riguardi delle colonie nord-americane. Non solo il commercio nei porti coloniali britannici era riservato a navi inglesi, con danno della marina coloniale; ma l'Inghilterra doveva costituire anche il solo mercato che fornisse i prodotti esteri consumati dalle colonie e il solo che ricevesse i prodotti coloniali più ricercati in Europa. Gli stessi prodotti stranieri destinati alle colonie dovevano dal paese di produzione passare in Inghilterra, ed essere scaricati nei suoi porti, prima di riprendere la via delle colonie: aumentando così i noli della marina ed i guadagni del commercio britannico a tutto scapito del consumatore coloniale. Le restrizioni non si limitavano alla marina e al commercio; ma si allargarono, col secolo XVIII, all'agricoltura e, più ancora, all'industria delle colonie, mirando a limitare la prima alle produzioni che solo potevano essere utili alla metropoli, e ad ostacolare lo sviluppo della seconda per impedirne la concorrenza a quella similare metropolitana anche nel campo coloniale, oltre che negli altri mercati. I provvedimenti più odiosi adottati contro l'incipiente industria laniera, in un paese produttore di lana come l'America del Nord. contro il cappellificio, nella patria stessa del castoro; contro l'industria soprattutto siderurgica e metallurgica, in colonie straricche di minerali, erano le manifestazioni più eloquenti del mercantilismo applicato alle colonie, di un sistema cioè che il maggiore economista inglese dell'epoca, Adamo Smith, definiva "una violazione manifesta dei diritti dell'umanità". Un solo campo era lasciato libero, ancora prima della metà del Settecento, alle colonie americane: il commercio degli schiavi, la tratta africana. Giacché favorire la tratta significava, da una parte, arricchire la classe coloniale - i latifondisti delle colonie meridionali - che aveva maggiori legami con la classe dominante in Inghilterra; dall'altra, confinare sempre più all'agricoltura tropicale, servita da schiavi, le colonie e ribadire con ciò le catene economiche e perfino politiche che le avvincevano alla madre patria. Così del resto si esprimeva, senza tante ambagi, un anonimo mercante inglese dell'epoca, in un opuscolo intitolato Il traffico degli schiavi africani, colonna e sostegno delle piantagioni inglesi in America.
Relazioni economiche siffatte, ponendo la proprietà, il lavoro, l'iniziativa e l'attività economica individuale, la marina ed il commercio, l'agricoltura e l'industria dei coloni alla mercé e sotto il potere assoluto del parlamento metropolitano a beneficio esclusivo della madre patria e con danno generalmente delle colonie, non potevano a lungo andare non spingere queste all'insurrezione. Ciò avvertivano, per i primi, gl'Inglesi stessi, ancora al principio del Settecento; ciò sentivano ormai i coloni americani nel corso di quel secolo; ciò proclamavano i viaggiatori stranieri alla metà di esso. "La sete d'indipendenza delle colonie è attualmente evidente" (dicevano già nel 1701 i lords del commercio, in un documento ufficiale). "Si parla d'un atto del parlamento avente per fine di proibirci di confezionare sbarre di ferro, perfino per nostro uso (diceva un lealissimo e conservatorissimo suddito americano - il Logan - nel 1728); ora io non conosco niente che possa contribuire più efficacemente ad alienare lo spirito delle popolazioni di questa contrada e a scuotere la loro sottomissione alla Gran Bretagna". "Non solo nativi americani (scriveva intorno al 1750 il viaggiatore svedese Pietro Kalm), ma perfino emigranti inglesi mi hanno detto apertamente che fra 30 o 50 anni le colonie inglesi dell'America Settentrionale formeranno forse uno stato separato, del tutto indipendente dall'Inghilterra".
Con la seconda metà invece del sec. XVIII l'Inghilterra, nonché allentare i freni economici, pensa di stringere anche quelli politici. Vari indizî di questa nuova volontà si erano manifestati già al principio del secolo, con le proposte di revoca delle carte o statuti concessi alle colonie americane dalla corona, di estensione ad esse, per atto del parlamento inglese, delle imposte vigenti nella madre patria, ecc. Ma ora, col nuovo monarca Giorgio III, salito al trono nel 1760, l'Inghilterra si accinge risolutamente a porre le colonie sotto la propria diretta e immediata dipendenza politica: a cominciare dall'imposizione tributaria per atto del parlamento inglese, anziché delle assemblee legislative coloniali. Era questo il modo più ovvio, come suggerivano alla metropoli i governatori e i realisti d'America, non solo per emancipare governatori, funzionarî e magistrati regi dalla sottomissione alle assemblee legislative locali, arbitre dei loro stipendî; ma anche di far contribuire direttamente le colonie americane alle spese, notevolissime per quell'epoca, sostenute, a vantaggio altresì delle colonie, nella guerra dei Sette anni contro la Francia, quando il debito pubblico inglese era salito da 75 a 133 milioni di sterline. A stretto rigore, l'imposizione di tasse alle colonie non era di per sé ingiusta. Se l'unione statale dell'America del Nord con l'Inghilterra doveva continuare, era logico che anche l'America fosse assoggettata ad imposte; altrimenti non solo essa sarebbe stata di fatto indipendente dall'Inghilterra, ma questa avrebbe dovuto anche pagarle l'amministrazione e la sicurezza interna. Ma quello che gli Americani non potevano accettare, nella loro coscienza politica, educata da secoli all'autonomia e ormai matura per l'indipendenza, era il metodo di tassazione, per opera di un parlamento metropolitano in cui essi non erano rappresentati: metodo rivelatore delle finalità che l'Inghilterra si proponeva, cioè l'unificazione dell'intero dominio nord-americano e la sua sottomissione totale, dal Canadà al Golfo del Messico, al potere effettivo della metropoli. Si deve d'altronde ricordare che il mutamento d'indirizzo della politica inglese di fronte alle colonie americane, era in dipendenza di un mutamento avvenuto in tutta la vita politica inglese. Era quella l'epoca in cui il parlamento aveva definitivamente imposto il suo pieno potere; l'epoca in cui si tendeva, per ogni verso, all'unificazione: si pensi alla Scozia. Ora, la condizione delle colonie era, o poteva sembrare per alcuni riguardi, condizione di privilegio: di qui la tendenza ad abolirla, per ridurre quelle al diritto comune. Di più, il parlamento non intendeva che la corona amministrasse fondi da esso non approvati; anche se questi fossero stati votati da altri. Insomma, mentre sotto gli Stuart la corona aveva lasciato fare ai coloni, ora il parlamento, virtualmente divenuto l'erede dei diritti della corona, tendeva sempre più a tradurli in pratica. Così si spiega come il trionfo del regime parlamentare in Inghilterra non significasse maggiore libertà per le colonie, ma al contrario maggiori restrizioni, da qui la grande lotta, che cominciava con la resistenza passiva e col lavorio di affiatamento intercoloniale contro la metropoli; s' intensificava poi con la resistenza attiva delle colonie; si sviluppava infine in una lunga guerra, il giorno che il parlamento inglese, il quale già nel 1764 aveva passato una nuova legge doganale per le colonie americane, approvava nel 1765 le famose risoluzioni del ministero Grenville che contemplavano i particolari d'una legge sul bollo (Stamp Act) per le colonie stesse e deferivano le infrazioni alla corte di giustizia dell'Ammiragliato britannico. La profezia del Franklin, a quell'epoca rappresentante ufficioso presso la metropoli delle colonie, da molte delle quali aveva ricevuto pieni poteri, che gli Americani non si sarebbero mai lasciati tassare senza loro approvazione e che la nuova misura avrebbe messo a grave cimento l'unità dell'impero britannico, si avverava negli anni seguenti. Diedero il segnale gli abitanti di Boston (la "società bostonese per il tè", come fu chiamato scherzosamente il gruppo di cittadini camuffati da indiani Mohawk, che eseguivano il colpo di mano) i quali s'impadronivano, il 28 dicembre 1773, d'un bastimento della Compagnia delle Indie Occidentali contenente 340 casse di tè, colpito di dazio contro la volontà delle colonie, gettandone in mare l'intero carico del valore di 18.000 sterline. La metropoli, di rimando, decretava nel 1774 la chiusura immediata del porto di Boston, da durare finché la città non avesse indennizzato la Compagnia del tè gettato in mare, e passava poi una legge "per un migliore assetto della costituzione del Massachusetts", che annullava la patente del Massachusetts, da oltre 80 anni legge fondamentale d'una colonia la quale era stata sempre il baluardo più saldo delle libertà americane, e sottoponeva questa a un regime militare assoluto. Il guanto di sfida era gettato: la società americana, che a ogni attacco dell'Inghilterra aveva risposto con un contrattacco, agli atti di navigazione col contrabbando, alla legge doganale colla rottura del traffico, alla tassazione illegale con la resistenza, all'impiego della forza non poteva ora rispondere se non con la forza; uso della forza cui però sarebbe stato vano ricorrere senza l'unione di tutte le colonie. Indipendenza e federazione, preparate così da cause secolari, nascevano ad un parto a gettare le basi d'una struttura statale nuova non solo pel continente americano, ma per la storia politica del mondo: gli Stati Uniti d'America.
Sullo scorcio d'aprile del 1775 avvenivano i primi scontri militari fra truppe inglesi ed insorti, a Lexington e a Concord, nei dintorni di Boston; il 4 luglio 1776 il congresso continentale americano di Philadelphia (questi congressi annuali si erano cominciati a tenere nel 1774) approvava la famosa Dichiarazione d'indipendenza e dei diritti, documento storico (opera del virginiano Tommaso Jefferson) memorando di per sé e per l'influenza esercitata sulla successiva Dichiarazione dei diritti della Rivoluzione francese; il 3 settembre 1783, dopo una lunga e aspra guerra nella quale, a favore degli Americani insorti, meravigliosamente guidati da Giorgio Washington, intervenivano anche le antiche rivali dell'Inghilterra (la Francia, la Spagna e l'Olanda), l'Inghilterra con la pace di Parigi fra essa e le antiche tredici Colonie Unite d'America (a Versailles, nel gennaio dello stesso anno si era conclusa quella tra l'Inghilterra e le Potenze europee) riconosceva l'indipendenza degli Stati Uniti d'America.
Nel 1776, allorché le colonie ribelli avevano proclamato la loro indipendenza, esse si limitavano alla zona costiera dell'Atlantico, non oltrepassando all'O. la catena degli Appalachi che per toccare le rive dei due grandi laghi Erie ed Ontario e le foreste rivierasche dell'Ohio: in tutto, un milione circa di kmq. Questa superficie veniva invece portata ad 820.680 miglia quadrate inglesi, cioè più che raddoppiata, nella pace del 1783; stipulandosi in essa che la linea mediana del Mississippi avrebbe limitato il territorio degli Stati Uniti lungo tutto il confine occidentale, sino al 31° grado di latitudine, col quale cominciava la Luisiana, appartenente allora alla Spagna. Al S., il loro territorio arrivava fino alla Florida, che nella precedente pace di Versailles, dello stesso 1783, era stata dall'Inghilterra restituita alla Spagna. Al N. il confine col Canadà, rimasto all'Inghilterra, veniva fissato al corso del Croix Saint River e rimaneva invece pel momento non precisato più oltre, dovendo esso correre a mezzogiorno dei Grandi Laghi, sino al Mississippi, lungo un territorio, nonché occupato, non ancora bene esplorato.
Fra il 1783 ed il 1790, gli Stati Uniti si davano il loro assetto politico definitivo, sostituendo alla vecchia confederazione, costituitasi durante la guerra contro l'Inghilterra, ma presto fallita politicamente per l'eccessiva autonomia delle singole parti del paese, un nuovo e più saldo ordinamento, cioè la costituzione federale del 1787, tuttora nelle grandi linee in vigore. Nel 1789, si nominava il primo presidente degli Stati Uniti nella persona di Giorgio Washington, da cui prendeva nome nel 1800 la nuova capitale costruita nel distretto federale di Columbia presso il Potomac River, su un territorio di 25.6 kmq. di area, ceduto a tal fine alla Federazione dallo stato di Virginia. Nel 1790, infine, anno in cui s'inizia la serie dei grandi censimenti decennali americani, l'Unione nord-americana era completa con l'entrata in essa dell'ultimo dei tredici stati originarî, fino allora riluttante, il Rhode Island. Essa si estendeva sopra un'area di circa 2 milioni e 144 mila kmq. e contava, gl'indigeni esclusi, una popolazione di 3.929.414 abitanti, di cui 3.172.206 Bianchi (nella quasi totalità d'origine inglese) e 757.208 Negri d'origine africana. Ma siffatta popolazione si raccoglieva quasi tutta, cioè il 95%, in quella striscia di terra, larga in media un 255 miglia e lunga dai 14 ai 15 gradi di latitudine, che si estende fra l'Oceano e gli Appalachi, dal Maine alla Florida. Oltre i monti, nelle nuove sedi, solo degli arditi pionieri sparsi qua e là nella Virginia occidentale, sul lago Ontario e presso le riviere e i laghi suoi tributarî; degli avamposti come Detroit, Vincennes, Green River e altri, nel territorio di NO.; dei nuclei più solidi di colonizzazione nel Kentucky settentrionale, lungo l'Ohio, e nel Tennessee lungo la vallata del Cumberland: in tutto, meno di 200.000 abitanti, avanguardia più che altro di quella fiumana che allora soltanto cominciava a riversarsi sul Far West dell'epoca, cioè sul lontano Occidente, per le quattro strade del Mohawk River e Ontario, del Potomac River superiore, della Virginia sudoccidentale e della Georgia occidentale.
Ma ecco, tredici anni dopo soltanto, nel 1803, il territorio nazionale degli Stati Uniti raddoppiarsi come per incanto, con l'acquisto della Luisiana. Questa vasta regione era stata nel 1800 restituita dalla Spagna alla Francia; e la Francia, piuttosto che lasciarla cadere in quel momento nelle mani della rivale secolare, l'Inghilterra, preferì venderla per 15 milioni di dollari, cioè quasi donarla, agli Stati Uniti. Si poteva, la Luisiana, valutare in 2 milioni e 287 mila kmq., e si estendeva dal Mississippi alle Montagne Rocciose, la culla dei futuri stati della prateria; a non contare la sub-tropicale Luisiana propriamente detta, col suo antico centro coloniale di New Orleans. Sedici anni dopo, nel 1819, era la volta della Florida, un'area di oltre 153 mila kmq., ceduta agli Stati Uniti per soli 5 milioni di dollari dalla Spagna, che stava ormai per perdere l'intero suo dominio nord-americano. Il trattato di Washington del 22 febbraio 1819, che cedeva agli Stati Uniti la Florida, definiva anche i confini tra la Luisiana e il Messico, ancora per poco (sino al 1822) spagnolo, lungo la linea seguente: la riva occidentale del fiume Sabine dalla sua foce nel Golfo del Messico al 32° parallelo; il meridiano di questo punto di incontro sino al fiume Rosso; questo fiume sino al 100° meridiano; questo meridiano sino all'Arkansas; questo fiume sino alla sorgente; il meridiano di questa sorgente sino al 42° parallelo e infine questo parallelo sino all'oceano Pacifico. Con l'acquisto della Luisiana (1803) e il trattato della Florida (1819), gli Stati Uniti diventavano anzi gli eredi anche di quei diritti, in verità discutibili, che Francia e Spagna avevano vantato sulla parte nord-occidentale degli Stati Uniti (gli attuali stati di Oregon e di Washington) a settentrione dello stesso 42° di lat. N. e più precisamente sino al 49° grado. Questo era infatti il parallelo fissato, appunto, come confine tra Stati Uniti e Canadà, in una convenzione anglo-americana del 1818 (rinnovata poi nel 1827), ma solo nella regione a oriente delle Montagne Rocciose (da queste al lago di Wood), lasciandosi impregiudicata la questione per la regione a occidente di essa, rimasta aperta alla colonizzazione di ambedue le nazioni. Se però si tiene conto di altri elementi di fatto, come la scoperta del fiume Columbia per opera del Gray (1792), le esplorazioni ufficiali del Lewis e Clarke nella vallata del Columbia (1804-1806), la retrocessione nel 1818 di Astoria (città occupata dagl'Inglesi durante la guerra contro gli Stati Uniti del 1812-14), gli stabilimenti americani estesi sul fiume dal 1832 in poi, si capisce come gli Stati Uniti potessero, di contro ai molto discutibili diritti storici spagnoli e francesi, affermare il loro diritto sulla regione del Pacifico, dal 42° al 49° grado. E ciò, anche di fronte alle aspirazioni russe, liquidate nel terzo decennio del secolo, e a quelle stesse dell'Inghilterra, signora dell'America Settentrionale dall'Atlantico al Pacifico.
Dopo lunghe e aspre controversie, trascese perfino a minacce di una nuova guerra (dopo quella ultima del 1812-14) fra Stati Uniti ed Inghilterra, la grossa questione territoriale, detta appunto "questione dell'Oregon", si chiudeva definitivamente nel 1846 col trattato dell'Oregon, che confermava agli Stati Uniti l'immenso territorio settentrionale, esclusa l'isola di Vancouver che rimaneva tutta all'Inghilterra. Nel 1845, un altro territorio, ancora più vasto, venne ad aggiungersi ufficialmente agli Stati Uniti: il territorio del Texas, staccatosi dal Messico alcuni anni prima (1836), dietro istigazione di piantatori americani quivi installatisi coi loro greggi di schiavi negri. Di esso, gli Stati Uniti si accollavano il debito pubblico, ammontante a 7 milioni e mezzo di dollari. Contestazioni territoriali relative ai nuovi confini portavano alla guerra fra il Messico e i suoi potenti e prepotenti vicini; guerra che, come era facilmente prevedibile, terminò con la vittoria degli Stati Uniti e la forzata rinuncia da parte del Messico agli ultimi dominî già spagnoli del continente nord-americano, dalle Montagne Rocciose al Pacifico (il Nuovo Messico e la Nuova California), conquistati nel 1847 e riconosciuti agli Stati Uniti nel trattato di Guadalupa Hidalgo del 1848, che stabiliva il confine al Río Grande del Norte. Fra Texas, Oregon e territorî messicani erano ben 3 milioni e 136 mila kmq. circa di superficie, venuti in meno di tre anni ad aggiungersi agli Stati Uniti: distesa immensa di terre, che veniva sei anni dopo arrotondata e completata con l'acquisto del territorio messicano del Gila (oltre 115 mila kmq.), preteso pur esso dagli Stati Uniti, mediante la "compra Gadsden" del 1853, per dieci milioni di dollari.
Così, nel corso di soli settant'anni, dal 1783 al 1853, senza quasi colpo ferire, con la spesa irrisoria di poco più di cinquanta milioni di dollari in tutto, l'edificio territoriale degli Stati Uniti continentali (come sono chiamati), il territorio cioè strettamente nazionale degli Stati Uniti, era completo. Da 2 milioni e 144 mila kmq. esso era passato a 7 milioni e 846 mila kmq., e incorporava in sé tutti gli antichi dominî francesi e spagnoli, amalgamati nella giovane nazione anglo-americana, nel cui crogiuolo venivano a fondersi via via e a ricevere l'impronta d' una lingua e d' una civiltà comune a tutte le vecchie stirpi europee, l'anglosassone dapprima (il 65,7% della popolazione bianca, al censimento del 1920, era di origine anglosassone), poi la tedesca, quindi la slava e infine la latina. La grande emigrazione europea, cominciata come fenomeno demografico di massa col terzo decennio soltanto del sec. XIX, era infatti l'altro gigantesco fattore della formazione degli Stati Uniti d'America. Dal 1820 al 1860, la media annuale dell'immigrazione passava da 6.000 a 260.000 individui, per raggiungere perfino i 524.661 di media annuale nel decennio 1881-1890, la cifra più alta raggiunta in qualunque altro decennio del secolo. In simile colossale processo d' immigrazione, si deve soprattutto mettere in rilievo l'elemento celtico, irlandese, che affluì in proporzioni enormi negli Stati Uniti, dal 1848 in poi, e che vi ottenne importanti posizioni politiche, specie nel governo locale; giacché gl'Irlandesi, sebbene di lingua inglese, hanno determinato spesso il formarsi d'uno stato d'animo antinglese negli Stati Uniti, approfittando anche di motivi storico-sentimentali (la campagna per il home-rule, p. es., fu alimentata soprattutto da essi). Inoltre, l'accrescersi dell'elemento irlandese, cattolico in buona parte, ha accresciuto l'influenza e l'importanza della chiesa cattolica negli Stati Uniti. Grazie a questo afflusso di nuove genti, accompagnato da un'alta natalità, il grande territorio poteva, in un secolo solo, venire popolato e valorizzato, con un processo di colonizzazione interna che, per ampiezza, rapidità e vigore, non trova riscontro nella storia intera dell'umanità. La popolazione degli Stati Uniti, meno di 4 milioni di abitanti (3.929.414, di cui 757.208 Negri), oltre agl'indigeni, nel 1800, secondo il censimento di quell'anno; meno di 10 milioni (9.633.822, di cui 1.771.656 di colore) secondo il censimento del 1820, era di quasi 31 milioni e mezzo, in quello del 1860 (31.443 .321, di cui 4.859.193 colored); di quasi 76 milioni (75.994.575, di cui 8.833.994 colored) nel 1900; di quasi 105 e tre quarti al 1920 (105.710.620, di cui 10.463.131 di colore). E intanto, i tredici stati originarî erano saliti a 17 nel 1802, a 24 nel 1821, a 31 nel 1850, a 48 nel 1920 (oltre ancora a due territorî e al distretto federale di Columbia). Nel 1867, con l'acquisto pacifico dell'Alasca (in essa comprese le isole del Mare di Bering orientale e le Aleutine a oriente del 193° meridiano), pagando alla Russia per 1 milione e 518.700 kmq. 7 milioni e 200.000 dollari, cominciava, se non nelle intenzioni certo nei fatti, l'espansione coloniale degli Stati Uniti, al tempo stesso che si suggellava la dominazione anglosassone dell'intero continente nord-americano, dall'Atlantico al Pacifico, dal Golfo del Messico e dal Rio Grande del Norte alle estreme terre polari.
Mentre invero gli Stati Uniti d'America si espandevano dalla costa orientale mediana al cuore del continente e da questo alla costa mediana occidentale, il Canadà, con un processo ancora più blando di acquisizione politica ed uno, per quanto più lento, non diverso d'immigrazione euro-americana (arrivata a superare i 400.000 individui per anno negli ultimi tempi precedenti la guerra europea) e di colonizzazione interna, dal grande Golfo del S. Lorenzo protendeva esso pure nel corso del sec. XIX le sue braccia gigantesche a settentrione e a occidente, nei territorî immensi di cui gli aveva spianato la via l'opera di penetrazione della Compagnia della Baia d'Hudson. Sentinella fedele della razza latina, pur nella sua evoluzione verso una coscienza canadese propria, fatta di lealismo politico verso l'Inghilterra e di attaccamento al tempo stesso alla propria razza, lingua, religione, costume, rimaneva solo il Basso Canadà, sul basso corso del fiume San Lorenzo (al censimento del 1921, la popolazione di origine francese, raccolta quasi tutta nella provincia di Quebec, rappresentava ancora il 23% della popolazione bianca totale del Canadà); mentre la razza anglosassone, ancora nel sec. XVIII, subito dopo la conquista inglese, si era venuta stanziando ad occidente dell'Ottawa River fra questo ed i Grandi Laghi, nel Canadà superiore (l'attuale provincia di Ontario), spingendosi poi, nella prima e più assai nella seconda metà del sec. XIX, verso occidente. Qui, attraverso territorî "controllati" dalla Compagnia della Baia di Hudson, essa dava la mano, oltre le Montagne Rocciose, agli stabilimenti coloniali inglesi della Columbia Britannica e dell'isola di Vancouver, creandosi per tal modo nella seconda metà dell'Ottocento la grande federazione coloniale anglosassone del Canadà. Costituito nel 1867, con le quattro provincie originarie di Quebec, Ontario, New Brunswick e Nuova Scozia; arricchitosi nel 1870 della provincia di Manitoba e dell'immenso territorio di NO., acquistato l'anno prima per un milione e mezzo di dollari dalla disciolta Compagnia della Baia di Hudson; aggregatasi nel 1871 la colonia inglese della Columbia Britannica coll'isola di Vancouver, in essa già incorporata precedentemente (nel 1866) e nel 1873 l'isola del Principe Edoardo; tagliate fuori nel 1905 dal territorio di NO. le due nuove provincie di Alberta e Saskatchewan; il Dominion del Canada veniva così a comprendere nel sec. XX nove provincie oltre ai due territorî del Yukon e di NO. La popolazione bianca del paese, passata da 413 mila abitanti nel 1814 a 3 milioni e 635 mila nel 1871, saliva a 5 milioni e un terzo circa (5.371.315) al censimento del 1901, a oltre 8 milioni e tre quarti (8.788.483) a quello del 1921. Unica colonia separata, ma anch'essa popolata dall'elemento anglosassone e dipendente dalla Gran Bretagna, rimaneva nel sec. XX l'isola di Terranuova (con 110.670 kmq. di superficie e 260 mila abitanti) che ha di fronte la desolata terra del Labrador (310.000 kmq. di superficie e 5 mila abitanti).
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Sulla vita economica: J. L. Bishop, History of American manufactures from 1608 to 1860, voll. 2, Philadelphia 1861-64; W. R. Weeden, Economic and social history of New England, 1620-1789, voll. 2, Boston 1890; C. D. Wright, L'évolution industrielle des États Unis, trad. franc., Parigi 1901; A documentary history of American industrial society, ed. da J. R. Cormons e U. B. Phillips, voll. 11, Cleveland 1910-11; E. R. Johnson, History of domestic and foreign commerce of the United States, voll. 2, Washington 1915: V. P. Clark, History of manufactures in the United States, 1607-1860, Washington 1916; R. M. Tryon, Household manufactures in the United States, 1640-1860, Chicago 1917.
Sulla vita religiosa e l'organizzazione ecclesiastica: M. Edwards, Material towards a history of the baptists in Pennsylvania, Philadelphia 1770; I. Backus, A history of New England, with particular reference to the denominations of Christians called Baptists, voll. 3, Boston 1777-96; J. B. Felt, The ecclesiastical history of new England, voll. 2, Boston 1855-62; R. Webster, A history of the Presbyterian Church in America, from its origin until the year 1760, Philadelphia 1857; F. Parkman, The Jesuits in North America, 20ª ed., 1885; W. S. Perry, The history of the American Episcopal Church (1587-1883), voll. 2, Boston 1885; W. Walker, A history of the Congregational Churches in the United States, New York 1894; H. C. Vedder, A history of the Baptists in the middle States, Philadelphia 1898; I. Sharpless, History of Quaker government in Pennsylvania, voll. 2, Philadelphia 1898-99; A. L. Cross, The Anglican Episcopate and the American colonies, New York 1902.
Su alcuni pionieri, Pilgrim Fathers, ecc.: F. Parkman, Pioneers of France in the New World, 23ª ed., 1885; J. P. Baxter, Sir Ferdinando Gorges and his province of Maine, voll. 3, Boston 1890; J. Winsor, Cartier to Frontenac, Boston 1894; C. W. Alvord e L. Bidgood, The first explorations of the Trans-Alleghany region by the Virginians, 1650-74, Cleveland 1912; R. G. Usher, The Pilgrims and their history, New York 1918; M. Johnston, Pioneers of the old South, New Haven 1921.
Sull'opera di governatori inglesi e precisamente su uno dei più caratteristici, l'Andros: R. N. Toppan, Andros records, in Annals Am. Antiquarian Soc., Worcester, XIII; C. M. Andrews, Narratives of the insurrection 1675-1690, New York 1915.
Sui bucanieri, pirati, ecc.: C. H. Haring, The buccaneers in the West Indies in the seventeenth century, Londra 1910.
Sul traffico dei negri: G. Scelle, Histoire politique de la traite négrière aux Indes de Castille, voll. 2, Parigi 1906.
Sulla lotta tra Francia e America: J. Winsor, The Mississippi basin and the struggle in America between England and France 1697-1763, Boston 1895.
Sulle origini della rivoluzione: A. M. Schlesinger, The colonial Merchants and the American Revolution, in Columbia University Studies in History, New York 1918; C. H. van Tyne, The causes of the War of Independence, 1922; H. E. Egerton, The causes and character of the American Revolution, 1923; C. M. Andrews, Colonial background to the American revolution, New Haven 1924.
Riviste e pubblicazioni periodiche generali: The American Historical Review, New York 1896 segg.; The Journal of American History, New York 1906 segg.; Annual Report of the American Historical Association; The Washington Historical Quarterly, Seattle 1909 segg.; The Journal of Nero History, Washington 1915; segg.; The Catholic Historical Review, Washington 1919 segg.; The Canadian Historical Review, Toronto 1919 segg.
Per le singole regioni degli Stati Uniti: The Essex Institute Historical Collections, Salem (Mass.) 1864 segg.; The Georgia Historical Quarterly, Savannah (Ga.) 1916 segg.; Illinois Catholic Historical Review, Chicago 1917; The Louisiana Historical Quarterly, New Orleans 1917 segg.; Maryland Historical Magazine, Baltimore 1905 segg.; Mississipi Valley Historical Review, Iowa 1907 segg.; The Missouri Historical Review, Columbia (Miss.), 1906 segg.; Quarterly Bulletin (The New York Histor. Society), New York 1916 segg.; The New York genealogical and biographical Record, New York 1869 segg.; Ohio Archaeological and Historical Quarterly, Columbus (O.) 1891; The Quarterly of the Oregon Historical Society, Portland (Oregon) 1899 segg.; The Pennsylvania Magazine of history and biography, Philadelphia (Pa.) 1876 segg.;
Southwestern Historical Quarterly, Austria (Tex.) 1897, segg.; Tylers' Quarterly Historical and Genealogical Magazine, Charles City (Va.) 1919 segg.; Western Pennsylvania Historical Magazine, Pittsburg (Pa.) 1917 segg.; The Virginia Magazine of history and biography, Richmond (Va.) 1892 segg.
Per più ampie indicazioni sulle fonti e sulla bibliografia, si vedano le guide bibliografiche, tra cui: E. Channing, A. B. Hart e F. J. Turner, Guide to the study of American History, 3ª ed., Boston 1912; J. N. Larned, Literature of American History. A Bibliographical Guide, Boston 1902; A. P. C. Griffin, Bibliography of American historical Societies (the United States and the Dominion of Canada), 2ª ed., Washington 1907; G. G. Griffin, Writing on American history. A bibliography of books and articles on United States and Canadian history during the year, New Haven; V. C. Evans, American bibliography. A chronological dictionary of all books, pamphlets, and periodical pubblications printed in the United States of America from... 1631 to 1820, voll. 9, Chicago 1903-25; T. L. Bradford e S. V. Henkels, Bibliographer's manual of American history, voll. 4, Philadelphia 1907-10. Inoltre G. Davies, Bibliography of British History. Stuart Period, 1603-1714, Oxford 1928.
Per l'esplorazione e colonizzazione francse, Les sources de l'histoire de France, III: L. André, Le XVII siécle, 1610-1715, I, Parigi 1913.
Inoltre, gli articoli: alasca, canadà, labrador, messico, stati uniti d'america, terranova.
VIII. Storia dell'America latina.
La storia dell'America latina s'inizia quasi subito dopo la scoperta e la conquista; ma non è la storia delle avventurose spedizioni, delle eroiche battaglie, delle lotte contro i primitivi abitatori, della progressiva penetrazione nell'interno, della navigazione dei grandi fiumi, del ritrovamento dell'oro e delle pietre preziose, dello stabilirsi della sovranità spagnola e portoghese ecc.: le quali cose sono certamente importanti - e come dati di fatto non possono trascurarsi per la conoscenza della storia dell'America latina - ma sono poi, in realtà, elementi della storia del Portogallo e della Spagna, con la quale fanno corpo, né possono esserne avulsi; così come la conquista delle Gallie è storia romana, non già storia delle Gallie. La vera storia dell'America latina, più intima, più particolare e, nell'apparenza, più umile, è quella che considera il lento formarsi di una nazionalità nuova, sorgente dagl'incroci degli Europei con gl'indigeni e con i Negri d'Africa, il suo graduale distacco dall'europeo puro, la sua sorda lotta contro la metropoli e i suoi rappresentanti, la sua avversione all'intolleranza delle missioni religiose; il suo tenace sogno d'indipendenza economica, il suo perenne desiderio di libertà comunali: amori, odî, aspirazioni, desiderî incerti e confusi sul principio, già nel Seicento capaci di manifestazioni della cui consapevolezza non è lecito dubitare, alla fine del Settecento prossimi a fondersi in una dottrina e nel primo quarto dell'Ottocento realizzati in pieno, attraverso una rivoluzione, con il formarsi degli stati attuali. Intesa in questo senso, la storia dell'America latina può considerarsi indipendentemente dalle singole regioni che, in forma di capitanerie, governatorati, viceregni, regni gesuitici, ne componevano la vasta estensione, dalla California e dal Messico allo Stretto di Magellano, dall'Atlantico al Pacifico. Le vicende esterne di queste regioni presentano, certamente, differenze notevoli: quelle del Brasile, p. es., si svolgono con sensibile diversità da quelle delle regioni del Plata; né la colonizzazione del Paraguay ha molto di comune con quella del Messico; ma la storia interna, la storia dello spirito nuovo, che si impernia su un nuovo elemento umano, il creolo, sorto dalla decomposizione della Spagna, ha un carattere unitario tale, che ci permette di considerare la storia dell'America latina come un blocco solo.
1. La ricognizione del nuovo continente, nella prima metà del sec. XVI, aveva dato risultati di molto superiori a quelli che potevano aspettarsi Cristoforo Colombo nei suoi sogni più audaci e la corona di Spagna quando lo nominava, con i capitolati di Santafé del 17 aprile 1492, ammiraglio a vita di tutte le terre da scoprirsi, con diritto di trasmissione ereditaria della carica, gli concedeva il decimo di tutte le ricchezze che vi si potevan trovare e gli dava poteri giuridici nelle vertenze relative al traffico fra la Spagna e quelle terre. Avventurieri d'ogni sorta, attratti dalle inaspettate ricchezze naturali di quei luoghi e dalla fama dei grandi tesori conservati dalle dinastie regnanti nel Messico e nel Perù, si erano lanciati sul nuovo continente con animo di conquistatori, non già di colonizzatori. La stessa conquista politica era un fatto secondario, subordinato alla conquista dell'oro e dei tesori e persino alla conquista religiosa che fin dal principio fu uno degli obiettivi degli Spagnoli del sec. XVI. Cortés, il grande conquistatore del Messico; Pizarro e Almagro, che conquistano il Perù, Valdivia, Garay, Martínez de Irala, Jiménez de Quesada, Alvarado, che, individualmente o congiuntamente, riconoscono e conquistano, via via, l'Araucania, la Colombia, il Guatemala, il Paraguay e le provincie del Plata; Martim Affonso e gli altri donatarî delle prime capitanerie del Brasile, sono mossi soprattutto dallo spirito di avventura e dalla febbre dell'oro, così che la loro azione non è sempre corrispondente agl'interessi della metropoli. Lo stesso Cortés, la cui impresa ha qualche cosa di fantastico e di epico, quando si pensi che con poco più di 300 Spagnoli sottomette prima Montezuma (Motecuhzoma), poi i successivi imperatori messicani, Quetlava (Cuitlahuac-zin) e Guatimozino (Cuauhtemoc-zin), fino alla completa vittoria del 1522 e alla nomina di luogotenente del re nella Nuova Spagna; lo stesso Cortés opera per sé più che per la monarchia di Spagna, tanto che, in un certo momento, il governo centrale è costretto a opporgli le truppe di Velázquez, governatore di Cuba, che egli sconfisse. Più tardi, lo sottopose a settennale processo per aver defraudato la corona; e, venuto egli in Spagna, il re finse di non riconoscerlo e gli domandò chi fosse. Egli rispose (se non è questa una spiritosa invenzione di Voltaire): "Sono un uomo che vi ha guadagnato, Signore, più provincie di quante città vi legarono i vostri avi!". La stessa sorte toccherebbe a Pizarro, il crudele conquistatore del Perù (1524-36), se la morte non lo salvasse dal minacciato processo per concussioni. E ancora prima, Núñez de Balboa è decapitato per avere, a quanto sembra, manifestato, nel Darien, velleità di indipendenza. Codesti conquistatori perpetuavano nel Cinquecento il tipo morale del condottiero italiano dei secoli precedenti. Il loro prepotente individualismo non si appagava nella conquista e nell'arricchimento, ma tendeva anche alla creazione dello stato e al governo personale. Quindi i conflitti con la metropoli e i conflitti fra conquistatori e conquistatori. Esempio tipico, quello di un luogotenente di Cortés, Alvarado, che, conquistati fra il 1523 e 24, il Guatemala e San Salvador, vuole tenerli per sé e governarli indipendentemente da ogni altro potere: sicché lo stesso Cortés deve combatterlo e vincerlo.
S'intende che non tutti quanti i pionieri dell'America latina obbedivano al richiamo dell'oro: taluni erano mossi da ragioni puramente scientifiche, come Vespucci, ossessionato dalla ricerca di un canale fra i due oceani; Magellano, che trova quel passaggio, ma nell'estremo sud; Caboto, che naviga i fiumi Uruguay, Paraná e Paraguay. Qualche altro ancora correva l'avventura con una finalità colonizzatrice, come l'adelantado Pedro de Mendoza, che, arricchitosi al sacco di Roma, organizza le spedizioni al Rio della Plata, e fonda la città di Buenos Aires.
2. Nelle terre che, a mano a mano, si venivano conquistando dagli Spagnoli, vivevano popolazioni indigene numerose e, in alcuni luoghi, pervenute a un grado notevole di civiltà. Le razze più progredite erano quelle degl'Incas del Perù, che, pur senza arrivare alla perfezione idilliaca immaginata da Marmontel (Les Incas o La destruction de l'empire du Pérou, 1778), avevano realizzato importanti progressi nell'agricoltura, nell'allevamento del bestiame e nell'estrazione dei minerali; quella dei Muiscas della Colombia e quella degli Aztechi del Messico, che erano, a quanto pare, ordinati in una federazione di tre regni, avevano industrie estrattive, metallurgiche e tessili progredite, esercitavano largamente l'agricoltura e avevano, in fine, esercito regolare, polizia, servizio postale e - quando non si tratti di un abbaglio dei primitivi cronisti spagnoli - un ordinamento corporativo, a guisa delle gilde medievali. Altre razze vivevano ancora in condizioni primitive; ma, verso il sud, gli Araucani dimostravano un ardente e tenace amore alla libertà e alla indipendenza con la lotta, protrattasi quasi per un secolo, contro i nuovi arrivati. La conquista del Chile, iniziata nel 1536 da Almagro, già luogotenente di Pizarro, fu terminata nel 1540-41 da Valdivia, che nel 1553 fu fatto prigioniero e martirizzato dagli Araucani, guidati da Lautaro. Questi, a sua volta, fu ucciso in battaglia dal successore di Valdivia, Villagran. Dopo un breve periodo di pacificazione, dovuta alla capacità e alla prudenza di un altro Valdivia, gesuita, la lotta fra Araucani e Spagnoli fu ripresa e durò ininterrotta, non senza rovesci dei conquistatori, fino ai primi anni del sec. XVII. Sarebbe ridicolo voler vedere, in questo secolare episodio, gl'inizî di quella lotta per la difesa della nazionalità, che avrà il suo sviluppo e la sua vittoria solo due secoli più tardi. La difesa del proprio territorio, invaso da stranieri, che non si dimostravano rispettosi né della proprietà, né degli usi, né delle credenze, è un fenomeno naturale, dovuto più all'indole bellicosa degli Araucani che ad una chiara coscienza del proprio diritto all'indipendenza e alla libertà. Pure, l'eroica difesa del territorio araucano e le gesta di Lautaro avranno un potente influsso sull'immaginazione dell'Americano, quando esso sentirà svilupparsi la coscienza e l'orgoglio della propria nazionalità. E certamente la rivolta peruviana del 1580, detta de los siete jefes, aveva, checché ne pensi qualche storico inglese, un contenuto sul quale non c'è da equivocare: i sette capi, infatti, nell'istituire un governo autonomo, dichiaravano non doversi obbedienza veruna al re di Spagna e ai suoi rappresentanti e doversi espellere, con le famiglie e i beni mobili, tutti i nati in Spagna. In questa rudimentale dichiarazione dei diritti dell'uomo americano, era stabilito nettamente il principio che hanno diritto alla terra quelli che vi sono nati o che l'hanno conquistata con il lavoro, non già quelli che se ne sono impadroniti con la forza e con la frode. I conquistatori, dominando spietatamente questa e altre insurrezioni, non si rendevano conto - o si resero conto troppo tardi - che preparavano altrettante ragioni storiche per le future rivoluzioni. Soltanto due secoli dopo, un'altra rivolta, pure nel Perù, fece aprire gli occhi al governo della metropoli. Gli indigeni, capitanati dal cacicco Tupac-Amaru, resistettero per tre anni, dal 1780 al 1782, alle forze armate del viceré del Perù, che, impotente a fronteggiarli da solo, dovette richiedere l'aiuto delle truppe del finitimo viceregno di Buenos Aires; così i ribelli furono sgominati e Tupac-Amaru giustiziato, dopo orrende torture. Allora il potere centrale cominciò a comprendere che tutta la storia della passata conquista era un'arma potente per eccitare i popoli soggetti alla ribellione, e ricorse al semplicistico espediente di proibire, nel viceregno, la lettura dei libri nei quali fosse narrata la conquista del Perù. Ma, più che dai libri, quella storia era tramandata dalla tradizione orale, che la trasformava in eroica leggenda, ed era intensamente ripensata e rivissuta, più che dagl'Indiani puri, dal creolo e dal meticcio.
3. Gli Spagnoli trovarono nelle nuove terre inaspettate ricchezze minerali e vegetali: fra le prime l'oro; fra le seconde, il legno detto verzino: Verzinum mercatores Itali, Hispani brasilum appellant (Pietro Martire, Dec. I, lib. IX), donde il nome Brasile alla vasta regione che tuttora lo conserva. Ma queste ricchezze naturali, trovandosi allo stato grezzo (i grandi tesori di metalli lavorati accumulati dalle dinastie messicane e peruviane erano stati saccheggiati dai primissimi invasori), richiedevano un certo sforzo per essere estratte o raccolte, né gli Spagnoli, invasati come erano, più che altro, dallo spirito di avventura, di preda e di dominazione, erano troppo disposti a compierlo. Il vescovo Zumárraga, apostolo del Messico, nel 1529 scriveva esservi colà ottomila spagnoli dei quali settemila "non hanno nulla da fare: non lavorano, non scavano le miniere, non arano la terra". Cosicché la loro attenzione si rivolse a un'altra ricchezza, a una ricchezza ausiliaria, che si sarebbe prestata, di buona o di malavoglia, allo sfruttamento: si rivolse, cioè, all'indiano. Fin dal 1512, nelle ordinanze di Burgos, re Ferdinando afferma esplicitamente: La principal hacienda que hay allí es el provecho de los tales indios. Egli parlava sulla fede delle relazioni dei conquistatori, i quali avevano già compreso il valore di quell'immenso capitale umano e già avevano preso a utilizzarlo, riducendolo in vero e proprio stato di schiavitù. Più tardi, le infinite cedole, provvisioni, ordinanze e istruzioni sugl'Indiani salveranno le apparenze e mostreranno molta sollecitudine per la cura del corpo e dell'anima degl'Indiani: chi legga, nel testo unificato delle varie e complicatissime leggi regolanti i rapporti fra metropoli e colonie (la Recopilación de leyes de los reinos de las Indias, ordinata da Carlo II nel 1680 e pubblicata l'anno successivo), quelle riguardanti le popolazioni indigene, può persino ammirarvi, nonché sapienza giuridica, un certo spirito umanitario, notevole per i tempi. Ma la realtà era ben diversa: quelle leggi venivano osservate solo nella parte che determinava, con cinica spietatezza, la "ripartizione" o la "riduzione" degl'Indiani, mentre erano e furono sempre lettera morta per tutto ciò che poteva rassomigliare, non diciamo a una vera e propria protezione (che non si ebbe neanche dopo il "grido di dolore" di Las Casas), ma a un semplice interessamento alla sorte delle tribù assoggettate: salvo, è vero, la salvezza delle loro anime, vedremo poi con quali metodi ottenuta. La verità era che "il solo diritto vigente era quello della conquista, per cui le persone e i beni dei vinti rimangono alla mercé dei vincitori" (Garcia, La ciudad indiana). Gl'Indiani delle terre a mano a mano conquistate venivano o circoscritti nelle reducciones o dati in encomienda, mediante la ripartizione. Le reducciones erano state escogitate per sottrarre gl'Indiani alla vita nomade e ridurli a quella sedentaria. Teoricamente essi erano sottoposti a sindaci o rettori indiani con una beffarda parvenza di libertà comunale; nel fatto, dipendevano dal parroco e dal funzionario civile spagnoli, che li sfruttavano in tutti i modi, e che essendo quasi sempre in conflitto di giurisdizione fra loro, facevano ricadere le conseguenze delle loro liti sui miseri amministrati. Ma, più ancora, erano sfruttati dagli esattori regi, che, abusando della loro ignoranza, riscuotevano i tributi fino a tre o quattro volte. La condizione degli Indiani nelle reducciones era così disgraziata, che quasi pareva preferibile quella degli indiani encomendados, sebbene nel primo caso si avesse una certa parvenza di libertà individuale. Con le encomiendas, che hanno origine al tempo del governatore Irala, gl'Indiani, anziché pagare i tributi con danaro o frutti del suolo, li pagavano con lavoro personale: una forma di schiavitù, mal rassomigliata al sistema feudale, giacché la Spagna, ammaestrata dalla esperienza europea (p. es., la turbolenza dei baroni nel viceregno di Napoli!), non volle mai piegarsi alle continue richieste degli encomenderos, che avrebbero voluto il loro diritto trasmessibile agli eredi, e tenne duro nel concedere le encomiendas per una vita sola, o al massimo per due, come nel Perù. Se questo fermo atteggiamento della metropoli valse a impedire la formazione di un sistema feudale propriamente detto (alcuni encomenderos del secolo XVI, nondimeno, non esitano a definirsi, in pubblici documenti, feudatarî), d'altra parte danneggiò gravemente la causa degli Indiani; giacché i padroni, trattandosi di possesso precario, non ne curavano la manutenzione e la riproduzione. La mortalità degli Indiani era pertanto altissima. Un passo di Zurita, riferito dall'Altamira, ha questa frase spaventevole: "Oí á muchos españoles decir en el Nuevo Reino de Granada, que de allí á la gobernación de Popayán no se podia errar el camino, porque los huesos de hombres muertos (indios) los encaminaba". Un familiare di Aracedo, tale Juan de Esquivel, si vantava di avere uccisi di sua mano, da sette a ottomila Indiani. In una relazione di padre Girolamo Descobar sulla provincia di Popayán, in data 1582, sono fornite le seguenti cifre sulla impressionante diminuzione degli Indiani: ad Antioquia, da centomila a ottocento in poco più di mezzo secolo; nella provincia di Anzerma, da quarantamila a ottocento; a Timaná, da ventimila a settecento in quarant'anni; ad Almaguer, da quindicimila a duemila in trent'anni ecc.
4. Le reducciones e le encomiendas erano state ideate dal governo spagnolo, in pienissima buona fede, con uno scopo altamente morale: sottrarre gl'Indiani al paganesimo e darli alla fede cattolica. Se poi la conversione avvenisse con la forza anziché con la persuasione; se i missionarî in taluni casi si mostrassero persino più spietati dei conquistatori, era cosa che non riguardava più il potere regio, pago soltanto di poter offrire annualmente alla chiesa un cospicuo numero di convertiti. Né importava, p. es., che il viceré Castro, scrivendo dal Perù nel 1665, assicurasse che di trecentomila battezzati solo quaranta potevano chiamarsi veramente cristiani, gli altri continuando ad essere idolatri come prima: l'interessante era che fossero stati battezzati. Nella raccolta delle leggi delle Indie, là dove si parla delle attribuzioni del viceré, è detto che, prima di qualsivoglia altra cosa, egli deve curare che "Dio N.S. sia servito e la sua santa legge predicata a profitto delle anime dei nativi". Come poi questa predicazione debba essere intesa, è spiegato in un altro passo delle suddette leggi, dov'è stabilito in qual modo la catechesi dovrà essere ausiliata dalle forze armate. Gli scrittori politici del tempo vedono in questa missione della monarchia di Spagna una specie di obbligazione contratta direttamente con Dio, al punto che il Solórzano (Política indiana, I) arriva a sostenere, con copia di argomentazioni, che quand'anche i re spagnoli volessero volontariamente abbandonare le Indie e rinunziare al diritto e al dominio ivi esercitato, non potrebbero farlo senza peccato. La catechesi fu affidata prima ai domenicani e ai girolamini, poi ai gesuiti, i quali - è giusto riconoscerlo - spiegarono un grande genio politico e colonizzatore, specialmente nel Paraguay, che venne loro affidato nel 1608 da Filippo III e ch'essi tennero fino all'espulsione dell'ordine, 1767, con una forma di curiosa repubblica agricola, che interessò molto gli scrittori politici del Settecento, e in Italia il Muratori (Il Cristianesimo felice nelle missioni dei Padri della C. di G. nel Paraguay, 1743-52). Anche nel Brasile, con il famoso collegio di Piratininga (odierno stato di S. Paulo), i gesuiti, pur continuamente insidiati e vessati dai cosiddetti bandeirantes, introdussero ardite teorie colonizzatrici e stabilirono un centro di cultura non indifferente, dati i tempi e l'ambiente. Ma neppure i gesuiti furono esenti dalla colpa di durezza verso i loro amministrati, sebbene in forma assai minore che nelle altre missioni (giova notare che, con aperta violazione del Concilio Tridentino autorizzata con un breve di Pio V, nelle colonie ultramarine i regolari erano ammessi a reggere le parrocchie). Il fatto è che gl'Indiani guardavano con terrore alla fede cattolica e ai suoi ministri, e accettavano la conversione solo per evitare guai maggiori. Bene esprime questo loro sentimento l'aneddoto storico che qui riferiamo, non a titolo d' inutile curiosità, ma come manifestazione sintetica di tutta una serie di erronee applicazioni della dottrina cristiana. Il cacicco cubano Hatuey, condannato a morte per ribellione ed esortato a convertirsi, chiede: "Vi sono cristiani nel Cielo?" e alla risposta affermativa, replica: "Non voglio andare in un luogo dove possa incontrarli". (J. B. Teran, El nacimiento de la América española, 194-5). Si aggiunga a questo che il patronato regio sulla chiesa americana - del quale i re di Spagna erano gelosissimi, fin da Ferdinando il Cattolico, che aveva chiesto, ed avuto sine re, il patriarcato delle Indie - creava una complicata ingerenza delle autorità temporali nelle cose spirituali. Ora, questa ingerenza ostacolava sempre più il fine principale, che era quello di evangelizzare i nativi. Si può istituire un istruttivo confronto con l'opera della Chiesa francese nel Canadà, la quale, occupandosi esclusivamente e con illuminata moderazione dell'apostolato e della predicazione evangelica, trasformò ben presto quel grande paese in un focolare di fede cattolica, quale ancor oggi si mantiene. Abbiamo già accennato alle discordie tra i funzionarî regi e i parroci, che rendevano impossibile la vita degl'indiani nelle reducciones. Più in alto, gli stessi dissidî scoppiavano, più rumorosamente e con più gravi conseguenze, fra i viceré e i vescovi: come tra il vescovo Zumárraga e gli uditori Matienzo e Delgadillo nel Messico, o come tra il Céspedes, governatore del Rio della Plata, e il vescovo Carranza.
Il primo compì addirittura una spedizione punitiva contro il secondo. Generalmente gli ecclesiastici, al pari dei funzionarî civili, miravano soprattutto al proprio arricchimento, al punto che lo stesso Pio V dovette proibire che i religiosi reduci dalle colonie portassero seco ricchezze personali. Tuttavia non mancarono, naturalmente, religiosi animati da puro zelo apostolico, dei quali, appunto perché operavano in silenzio e con umiltà, è perduto anche il ricordo del nome. Ma la storia coloniale può registrare, come esempî di alte virtù cristiane, i nomi di San Francesco Solano che operò nel Tucumán; di Ruiz Montoya, apostolo del Paraguay; di Pietro Gante e Martino Valencia, nel Messico, ecc. Tutti sovrasta il domenicano Bartolomeo Las Casas (1474-1566; v.), che con l'azione illuminata ed energica, con la predicazione e con gli scritti (largamente diffusi anche in Italia nel sec. XVII), con esperienze pratiche di libera colonizzazione, giovò moltissimo, se non a migliorare le condizioni contingenti degl'Indiani, a formare inizialmente il nuovo spirito americano. Le idee del Las Casas furono riprese, nel secolo successivo, dal vescovo Palafox (1600-1659), viceré del Messico, con il trattato Virtudes del Indio e nelle colonie alla dipendenza del Portogallo dal gesuita Antonio Vieira (1608-1697), con il suo instancabile apostolato nel Brasile. A proposito del Brasile, è opportuno avvertire che il regime coloniale vi fu sentito abbastanza meno duramente che non nelle colonie sotto il dominio di Spagna: cioè con minore intolleranza dal punto di vista religioso e con minor rigore nell'applicazione del monopolio commerciale. Perciò, forse, lo prescelse l'ammiraglio francese Villegaignon per stabilirvi, in un'isola alla imboccatura della baia di Rio (che egli chiamò Coligny e si chiama oggi Villegaignon), una colonia calvinista (1555)
5. La distruzione degl'Indiani, con i metodi ora accennati delle encomiendas e delle missioni, sarebbe divenuta totale nel corso del solo sec. XVI, se una circostanza speciale non l'avesse in parte arginata e non avesse perpetuato le tradizioni della razza nell'elemento meticcio, destinato a rappresentare una così gran parte, con il creolo, nella storia dell'America latina. Le spedizioni degli Spagnoli e dei Portoghesi erano, di regola, composte di soli uomini: rarissime donne seguivano i conquistatori nelle loro avventure. Secondo Bernal Diaz, dei compagni di Cortés, che erano 550, solamente 9 avevan condotto seco le spose. La stessa proporzione, più o meno, vale per le altre spedizioni, ed è, perciò, assai minore di quella stabilita nelle cedole; le quali disponevano ogni spedizione dover essere composta di 300 uomini e 30 donne. Ne nasceva, come naturale conseguenza, il concubinato degli Europei con le Indiane, a cominciare dallo stesso Cortés, che da una delle sue spose indigene ebbe il figlio Martino. E, come lui, tutti i capi e i gregarî. Qualche volta, il concubinato diventava poligamia, aumentandosi di non poco il numero degl'incroci (mestizos). Più tardi, il bianco non sdegnerà l'unione con le negre d'Africa, dando luogo a un terzo elemento della nuova razza americana (mulatos). Ma tanto i creoli, cioè i bianchi nati in colonia, quanto i meticci e i mulatti, erano perduti, fin dalla nascita, per la patria del padre. Affidati alla madre o a donne indiane che li allevavano e li educavano, ignoravano tutto di quel vecchio mondo dal quale i padri provenivano. Più adulti, passati sotto la ferula di un primitivo insegnamento nelle reducciones, che si risolveva quasi sempre in un meccanico apprendimento della dottrina cristiana, ne conoscevano soltanto la vessazione in materia religiosa: come, più tardi ancora, fatti uomini, dovranno conoscerne la rapacità fiscale. Assistendo, poi, alle crudeltà di cui erano vittime, se non le proprie madri, i loro parenti, i loro amici, gli uomini delle loro tribù, finivano col sentirsi solidali con essi e nemici della razza del padre, del quale, il più delle volte, ignoravano persino la figura fisica. Gli Spagnoli, pur abitualmente così ciechi su quanto avveniva nelle loro colonie, finirono col rendersi conto del pericolo che presentava il nuovo varón americano e già nel sec. XVI il più autorizzato trattatista della politica indiana, il Solórzano, combattendo la teoria della degenerazione formulata dal padre Juan de la Puente, è costretto a riconoscere le grandi qualità intellettuali e morali del meticcio e quindi a rappresentarlo come un costante e crescente pericolo per il regno. E il tesoriere Montalvo, visitando nel 1585 le regioni del Plata e il Chile, implorava l'invio di Spagnoli, perché "i nati di questa terra, creoli o meticci, aumentano sempre di numero, sono amici delle novità e si dimostrano ogni giorno più insolenti contro i loro superiori". Ai principî del sec. XVIII, il marchese di Linares, viceré della Nuova Spagna, nota che i creoli e gl'Indigeni messicani vivono nella persuazione che gli Spagnoli siano usurpatori e sfruttatori di quanto si appartiene, in America, a quelli che vi nacquero: è la tesi che, come abbiamo veduto, era stata la base della sollevazione dei sette capi. Nello stesso Messico, nel 1761, il visitatore Gálvez segnalava un evidente scontento nelle masse e un fremito di protesta contro gli Spagnoli, i quali "non ci lasciano partecipare al governo del nostro paese e si portano il nostro danaro in Spagna". Per i meticci e per i mulatti - i secondi particolarmente numerosi nel Brasile, ove l'introduzione degli schiavi africani fu operata su più vasta scala - la loro avversione agli Europei è perfettamente spiegabile. Più oscure sono le ragioni che determinano quella dei creoli per i loro padri, non potendosi ammettere la teoria naturalistica che inventa una cosiddetta "tropicalizzazione" dell'europeo, in virtù della quale lo Spagnolo stesso, dopo un certo periodo di permanenza in colonia, si costituirebbe una vita mentale e fisica da Americano, non più da Spagnolo. Né regge il confronto con le colonie nord-americane, dove, a parte le enormi differenze morali e religiose, il colono deduceva l'attaccamento alla terra dall'amore e dal sacrificio con cui la lavorava, caso assai diverso dalla passività lavorativa del creolo. Ragioni più oscure, non sempre possibili a determinarsi, spiegano la rivolta del creolo contro la Spagna. Ma poiché, come vedremo, in un primo tempo della rivoluzione, i capi manifestano schietti sentimenti lealistici verso la monarchia spagnola, è chiaro che essi miravano soprattutto al comando, al caudillismo, il concetto di indipendenza non essendo ancora ben formulato nella loro coscienza. In questo senso, la rivolta del creolo può considerarsi, salvo le proporzioni, non dissimile dalle ribellioni e dalle velleità di autonomia dei primi conquistatori: tanto ciò è vero che, secondo la giusta osservazione del García Calderón, la storia delle repubbliche sud-americane si identifica quasi con le biografie dei loro caudillos. Solo dopo le Cortes liberali di Cadice, il cieco assolutismo di Ferdinando VII faceva abbandonare ai creoli ogni fede nell'idea monarchica, ma la stessa repubblica assume un carattere oligarchico e spesso si trasforma in dittatura personale donde - come già quella dei creoli contro la Spagna - la rivolta dei meticci contro le oligarchie. Il meticcio, sempre meglio affinandosi e sempre più penetrando nella vita sociale, accostandosi agli studî e alle libere professioni con ardore di neofita, finirà col conquistare un posto predominante e opererà potentemente sullo svolgersi della storia sud-americana verso la metà del sec. XIX, fino a quando, attraverso più generazioni, le divergenze etniche e morali fra creoli e meticci andranno scomparendo per dar luogo ad una vera e propria razza latino-americana e alla formazione di nazionalità ben distinte.
6. Quanto all'organizzazione economica della colonia, basterà dire che in nessun tempo e in nessun paese si videro un più odioso regime monopolistico e più incredibili eccessi fiscali. Sul principio della conquista, l'oro e gli altri metalli preziosi rappresentarono la maggior sorgente di ricchezze dell'America latina; ma i primi funzionarî reali che seguivano passo passo i conquistatori e avanzavano le loro unghie ancor prima che la conquista fosse compiuta non riuscirono mai a monopolizzare, per la corona, l'estrazione del prezioso metallo. Già nel 1500 a S. Domingo il Bobadilla aveva vanamente tentato d'impedire la ricerca dell'oro da parte di privati, sicché aveva dovuto finire col permetterla, purché, trovatolo, se ne cedesse l'11 per cento alla corona. Più tardi, la percentuale fu portata a 20, donde il quinto dell'oro e il neologismo quintar el oro. Fu questa una delle maggiori entrate della corona di Spagna: basti pensare che l'America, dalla scoperta al 1825 - secondo i calcoli del Mayr - avrebbe dato oro per un valore totale di oltre 31 miliardi. Tutta la prima metà del sec. XVI è pervasa dalla febbre per la ricerca dell'oro e degli altri minerali; ma poi si cominciano a sfruttare anche le ricchezze vegetali che l'Olanda aveva valorizzate in Europa. Né in tutti i luoghi del vastissimo territorio esistevano giacimenti minerali; lungo la costa atlantica meridionale, specie all'estuario del Rio de la Plata e nelle pianure del retroterra o anche sulle rive del Pacifico la mancanza di metalli preziosi diede luogo, fin dal principio, alla vita agricola. Nella regione platense l'agricoltura e la pecuaria erano grandemente in fiore nella seconda metà del '500 soprattutto per merito dell'adelantado Garay (1580). Ed è curioso notare che, dove l'economia è basata sullo sfruttamento minerario, ivi la vita coloniale si presenta instabile, incerta, con risse continue fra i conquistatori; mentre nelle zone volte alla coltura, l'assetto sociale è più lento, sì, ma con carattere di maggiore stabilità. Industrie metallurgiche nella forma di artigianato si ebbero verso la fine del sec. XVI, nelle missioni del Paraguay; e nei due secoli successivi, poche industrie tessili apparvero timidamente, qua e là, nel Messico e nel Perù. È qui da ricordare che uno dei primi, se non il primo che, in pieno '500, introdusse nel Brasile meridionale l'industria estrattiva dello zucchero (engenhos), fu, secondo un documento trovato dall'Oliveira Lima, un Adorno dell'illustre casata genovese. Il governo della metropoli mostrava di favorire l'agricoltura e all'uopo aveva creata una legislazione, teoricamente perfetta, per la ripartizione della terra, secondo la quale gli agricoltori diventavano proprietarî dopo quattro anni. Ma le richieste fiscali per il passaggio di proprietà e l'inverosimile quantità di intermediarî che dovevano essere compensati erano tali e tante, che la legge risultava praticamente inattuabile. Grandeggiò quindi l'istituzione del latifondo, così dannoso all'economia del paese. Quanto al commercio, esso era paralizzato dagli eccessi monopolistici e fiscali. La coltura del tabacco era monopolio reale. I prodotti della metropoli (vino, olio ecc.) non potevano essere coltivati nelle colonie. Era proibito il commercio diretto fra le stesse colonie spagnole. Non potevano caricare merci se non navi di proprietà di Spagnoli e di "costruzione spagnola". Con l'aumentarsi del traffico, quest'ultima condizione fu dovuta, tuttavia, abolire. Potevano importare ed esportare soltanto i commercianti di Siviglia, mentre quelli di altri paesi della Spagna erano obbligati a far ricorso ai Sivigliani come intermediarî. Gli stranieri ne erano esclusi, e tanto severamente, che il principio fu consacrato in trattati internazionali, come quello con i Paesi Bassi del 1648. A capo di questa macchina commerciale, stava la Real Audiencia y Casa de contratación, fondata a Siviglia nel 1503, che ivi funzionò fino al 1717, a Cadice dal 1717 al 1790; essa era, nello stesso tempo, tribunale (audiencia) e organismo politico-economico, che assommava tutto il traffico con l'America (carrera de Indias). Nessun carico di merci poteva venire importato o esportato, senza l'autorizzazione della Casa, che aveva anche l'incarico di percepire le numerose e complicate tasse che gravavano i traffici, e aveva funzioni di assessore della corona per tutto quanto riguardasse il commercio con le Indie. I poteri giurisdizionali erano vastissimi, ma divisi con il Consolato del mare, emanazione della Università dei caricatori per le Indie, che era la corporazione dei commercianti di Siviglia. Contratti, fallimenti, assicurazioni, questioni sui cambî e sui noli, contravvenzioni alle leggi sul commercio delle Indie, e persino le cause civili di cui fossero parte gli armatori, i capitani e gli equipaggi della linea delle Indie, erano devoluti a questi due organismi, che furono potentissimi e che avevano grande interesse a far mantenere ad ogni costo il regime monopolistico. Per poter fiscalizzare il commercio d'oltremare, fu necessario venire al sistema delle flotas y galeones, iniziato con cedola reale del 1561 e regolato poi da una serie di ordinanze fino alla unificazione delle leggi. Con tale sistema, potevano recarsi nelle Indie soltanto le navi che, con licenza della Casa di contrattazione, viaggiavano di conserva sotto la scorta di una squadra della marina da guerra. Le spedizioni avevano luogo in epoche e con itinerarî prestabiliti. Generalmente, si organizzavano tre flotte all'anno: due mercantili e una militare. Delle prime, l'una era diretta alla Nuova Spagna e alle Antille, col capo linea a Veracruz; l'altra, al Venezuela e alla Nuova Granata, capo linea Porto Bello. Nel viaggio di ritorno, i galeoni, che avevano importato manufatti, imbarcavano prodotti delle colonie; e poiché bisognava riempire poco spazio con molto valore, si preferivano i metalli preziosi e i prodotti vegetali di alto costo, come l'indaco, il cacao, la china, la vainiglia. Perciò il Porto di Buenos Aires, che era lo sbocco, nonché dell'Alto Perù, delle fertili pianure del Plata, dove la pecuaria, migliorata per gli incroci con le razze europee, aveva preso un forte sviluppo, veniva ad essere particolarmente sacrificato, donde i tentativi, autorizzati o abusivi, di libero commercio, e le susseguenti repressioni. Il che non tolse che questa regione, la maggior vittima del sistema commerciale spagnolo, svolgesse nel sec. XVIII la sua vita economica con una rapidità miracolosa, fino a diventare, nel sec. XIX, la regina della produzione sud-americana. Il sistema a cui si è sinteticamente accennato doveva provocare tutti i modi, leciti e illeciti, per evaderlo; quindi, su vastissima scala, il contrabbando, che trovava alimento nella prodigiosa attività dei filibustieri, i quali riempiono delle loro gesta, spesso eroiche, tutto il sec. XVII. Filibustieri e contrabbandieri inglesi, olandesi, francesi, portoghesi assumono una grande importanza quando la Francia li favoreggia, durante la guerra con la Spagna; si ricordino le invasioni di Cuba, nel 1665 e 67, e dell'America Centrale, nel 1666. Il trattato del 1670 fra Spagna e Inghilterra, per reprimere la pirateria, non raggiunge nessun risultato, ché subito dopo di esso, il più celebre filibustiere, Morgan, s'impadronisce dell'isola di S. Catharina e della città di Panamá; nel 1683 un altro celebre capo, l'olandese Van Horn, occupa Veracruz, e le gesta si susseguono fino al tramontare del sec. XVII. La pirateria è strettamente connessa al contrabbando, essendo la prima il più valido strumento per il secondo: così si spiega la simpatia con la quale i filibustieri erano accolti dalle città spagnole delle isole e della costa, e talvolta dagli stessi funzionarî regi. Ragione per cui qualche scrittore ha potuto sostenere i filibustieri essere stati i fondatori del separatismo americano. Il giudizio è certamente esagerato; ma conviene tuttavia ricordare che si deve in gran parte ai filibustieri l'introduzione nelle colonie americane, dei libri condannati dalla Congregazione dell'Indice. Il contrabbando, che rappresentava la tacita protesta degli Americani contro il monopolio, aveva ben altri veicoli che non le navi filibustiere: esso era esercitato persino sugli stessi galeoni e dagli stessi funzionarî dipendenti dalla casa di contrattazione. La Spagna osservò gelosamente il sistema monopolistico, quasi fino alla perdita delle colonie: gli accenni di libertà commerciale, adombrati nelle ordinanze del 1784 e 1791, non avendo altro scopo se non quello di incoraggiare la tratta. Difatti, era concessa l'esportazione di frutti del paese soltanto a quelle navi straniere che vi avessero condotto schiavi. Nel Brasile, le cose procedevano non diversamente, ma con minore rigidezza fiscale: salvo, durante il periodo dell'unione del Portogallo alla Spagna, quando Filippo III, con legge 18 marzo 1605, comminava la pena di morte a quegli stranieri che avessero osato far atti di commercio o possedere beni immobili nel territorio brasiliano. I re portoghesi, a loro volta, estendevano il monopolio reale al commercio del pau brazil, alla importazione degli schiavi d'Africa ecc. e gravavano di tasse le industrie estrattive. Nel 1573 Tourinho, risalendo il Río Doce, aveva scoperto gli smeraldi nell'attuale stato di Minas Geraes. Oltre un secolo più tardi, nel 1693, furono scoperti i giacimenti auriferi, il cui quinto non fu neppur sufficiente al lusso sfrenato di Giovanni V. I re spagnoli, infine, come già praticavano con i paesi europei ad essi soggetti, richiedevano spesso graziosi donativi: così Filippo II, nel 1574, chiede ai suoi sudditi di America un soccorso per le lotte di Fiandra e la guerra contro il Turco, e nel 1598, alla vigilia della sua morte, torna alla carica e chiede contributi per il Tesoro reale, sotto forma di donativo o.... prestito! Ma il più delle volte, almeno con maggiore franchezza, il Tesoro si rinsangua procedendo alla confisca del carico dei galeoni, e dandone un secco avviso ai proprietarî. Si è tentato di recente, da studiosi molto serî, e in base a una vasta documentazione, di difendere il sistema coloniale spagnolo dalle molte accuse, che hanno specialmente origine dalla pubblicistica del sec. XVIII. Non è possibile accettare tutte le conclusioni, p. es. del Pereyra, che di siffatti studî è il miglior rappresentante: tuttavia sarebbe ingiusto considerare la politica economica della Spagna fuori del suo tempo, e quindi condannarla in base alle teorie moderne. Quelle che a noi sembrano colpe erano norme costanti negli stati europei e a più forte ragione dovevano essere applicate nelle colonie, territorî di conquista. L'insistere, che facciamo, sull'erroneo sistema coloniale della Spagna, non significa voler fare l'atto d'accusa alla sua politica d'oltremare, ma serve essenzialmente a ricercare le cause prime della rivoluzione sud-americana del sec. XIX.
7. Con il concetto, irremovibile, del paternalismo governativo e dello stato-provvidenza, la Spagna accentrava, nel Consejo de Indias, creato da Carlo V nel 1524, un "potere mostruos0", un "laboratorio dell'assolutismo" che era assistito, per le cose militari, da una Giunta di guerra, e per quelle commerciali - come si è detto - dalla Casa di contrattazione. Strettamente legati al consiglio, che era anche tribunale in grado di ultimo appello, erano i viceré e i capitani generali, i governatori e i presidenti delle audiencias, i corregidores e gli esattori regi, funzionarî che, salvo qualche rara e onorevole eccezione, vedevano nell'America solo un terreno da sfruttare per rivalersi delle molte coimas versate per guadagnare la carica. Nei secoli XVI-XVII, si ebbero i due viceregni della Nuova Spagna e del Perù; nel 1718, fu elevata a viceregno la Nuova Granata, nel 1776 fu creato il quarto viceregno di Buenos Aires, con le provincie del Plata, Paraguay, Tucumán e alcuni distretti peruviani. Vi erano inoltre, nel sec. XVIII, otto capitanerie: Venezuela, Chile, Porto Rico, Cuba, Luisiana, Florida, Guatemala e Santo Domingo. Alla vigilia della rivoluzione la situazione demografica dell'America spagnola era, su per giù, la seguente: 11.850.000 abitanti, di cui nel Messico 6.500.000; nella Nuova Granata 1.200.000; nel Venezuela 950.000; nel Perù 1.100.000; nel Chile 900.000; nella Plata 850.000; nella Banda Orientale e Montevideo 150.000; nel Paraguay 300.000. Di essi 1.700.000 circa erano Bianchi, 5.000.000 meticci e il resto Indiani. Il Brasile, poi, contava (1798) circa 3.250.000 abitanti, dei quali 1.010.000 Bianchi, 250.000 Indiani, 406.000 liberti e 1.582.000 schiavi, fra negri e mulatti. Uno dei pochi viceré di buon senso, il marchese De Croix, notando dal Messico, già nel 1768, le imperfezioni del sistema coloniale e gli enormi abusi che commettevano gli alti funzionarî, col conseguente malcontento degli Americani, propugnava l'istituzione di quelle intendenze che furono poi regolate con una Instrucción del 1786 e tolsero, ma oramai troppo tardi, parecchi di quegli abusi di potere. Anche il Campillo, ministro di Filippo V, in un suo libro pubblicato postumo nel 1789 (Nuevo sistema de gobierno económico para la América), notava che il sistema politico-amministrativo adottato per l'America era stato ideato in quel modo, a tempo di Carlo V, per la necessità di resistere all'elemento indiano, numeroso e bellicoso, ed aveva allora la sua ragione di essere; ma che tale ragione veniva meno, ora, ed era necessario addivenire a una completa revisione, basandola soprattutto sulla libertà economica. Ancor più innanzi andava il conte di Aranda, che, nel 1783, preoccupato dello spirito nuovo che circolava nelle colonie americane e prevedendone le conseguenze, propugnava, in un memoriale presentato a Carlo III, la creazione di tre regni indipendenti (Messico, Perù e Costa Firme), governati da infanti della casa di Spagna. Carlo III che pure, contro il parere dello stesso Aranda, aveva voluto riconoscere l'indipendenza degli Stati Uniti, non volle seguire il saggio consiglio; né lo seguì Carlo IV, quando, sotto il governo di Godoy, i creoli si indirizzavano sempre più verso l'idea di indipendenza. Amministrativamente, le colonie potevano vantare l'istituzione dei cabildos, introdotti in America dai re spagnoli, proprio quando li abolivano nella metropoli. "Triste parodia - li ha definiti qualcuno (Garcia, La ciudad indiana, 157) - dei cabildos spagnoli disciolti da Carlo V dopo Villalar!" E, certamente, non possono dividersi gli entusiasmi degli scrittori del secolo scorso, i quali vedevano in essi i campioni della libertà creola contro il regime coloniale. Sappiamo, per unanime affermazione dei cronisti contemporanei, che i posti di componenti quei parodistici consigli comunali erano sfacciatamente venduti e che le loro deliberazioni erano di regola suggerite dai governatori e dai vescovi, e quando così non era, i governatori e i vescovi le revocavano (qualche esempio è registrato nelle Actas capitulares de Buenos Aires, I). E quanto ai cacicchi delle reducciones si è già visto (§ 3) in qual modo fossero mani e piedi legati ai parroci e ai funzionarî civili. Nondimeno, pur riconoscendo l'inutilità pratica di quei cabildos, bisogna convenire che essi, idealmente, mantennero vivo il concetto di libertà, tanto che nelle rivoluzioni del 1809 e 1810 essi avranno una parte preponderante e non solamente simbolica: è il cabildo abierto (la municipalità e il popolo) che il 25 maggio 1810 proclama l'indipendenza dell'Argentina, dimette il viceré ed elegge la giunta rivoluzionaria.
8. Le condizioni culturali della colonia erano quali potevano aspettarsi dato l'ordinamento politico ed economico a cui si è accennato. Il fatto che qualche meticcio raggiungesse alti posti nel campo degli studî - si ricordi, per tutti, l'esempio illustre di Garcilaso de la Vega nato da un conquistador e da una principessa inca e rimasto nella storia letteraria per i suoi Comentarios (1609) - prova soltanto che l'ingegno trova sempre, individualmente, il modo di esplicarsi. La massa, per converso, rimaneva incolta, abbrutita, tale essendo l'interesse dei dominatori, i quali consideravano sospetto il creolo o meticcio fornito d'istruzione o di ricchezze: così fu denunziato come pericoloso il professore José Perfecto Salas, giacché l'istruzione e le ricchezze sono "cattive qualità in un vassallo indiano". Le poche università (anticamente ve ne erano soltanto due, a Messico e a Lima) non avevano altro compito se non quello di diffondere e difendere la teologia, quando addirittura non si assumevano - qualche secolo prima che la Chiesa ne facesse un dogma - la propaganda in favore dell'Immacolata Concezione. Ma verso la fine del Settecento, le università erano salite a 18. Se non che, generalmente, erano affatto inefficaci, dominate dalla scolastica. Alcune, di carattere tecnico, come la R. Scuola di botanica (1788) e la Scuola delle miniere (1791), entrambe nel Messico, come gli osservatorî astronomici e le altre scuole di scienze naturali ecc., erano scarsamente frequentate. Del resto, anche le facoltà scientifiche erano sottoposte alla sorveglianza religiosa; gli statuti dell'università di Santiago del Chile, p. es., imponevano la presenza di un teologo agli esami di medicina, per controllarne la ortodossia. Nessuna meraviglia quindi se, alla fine del '600, una città come Buenos Aires, che già contava un diecimila abitanti non avesse un medico e vanamente il suo cabildo supplicasse dal re i fondi per un ospedale. Piccoli centri di cultura erano stati i conventi dei gesuiti, i quali avevano portato alcune utili riforme educative, facendo anche tentativi di scuole tecniche, come le officine-modello, impiantate nel Chile dal padre Haymhaussen. Dopo la loro espulsione, il governo favorì la fondazione di alcuni collegi, come il Carolino di Santiago del Chile, il S. Carlos di Lima, un altro S. Carlos e altri due collegi a Buenos Aires ecc.; ma le autorità furono sempre, più o meno apertamente, avverse ad ogni avviamento della cultura che non fosse in un senso strettamente teologico. Gli avvocati, specialmente se creoli o meticci, erano guardati con grande sospetto e si opponeva ogni sorta di ostacoli allo svolgimento della loro professione: così, nelle università peruviane, era per legge proibita l'iscrizione di studenti meticci, negri o mulatti; e quando gli abitanti di Buenos Aires chiesero la creazione di una università, il vescovo De la Torre si oppose con ogni energia, quasi si fosse trattato di un sacrilegio. Nelle questioni universitarie, interveniva anche il tribunale dell'Inquisizione (introdotto in America da Filippo II nel 1569, insieme con la tortura, considerata mezzo legale per punire ed estirpare l'eresia), che aveva l'incarico di sorvegliare i professori sospettati di liberalismo e di perseguitare le pubblicazioni reputate perniciose, e che processò e condannò, nel Messico, i professori Abad y Queypo e Rojas, colpevoli di liberalismo. La caccia ai libri, nel sec. XVIII, può paragonarsi alla caccia agl'indiani nel sec. XVI: il terrore per la carta stampata, caratteristico in tutti i governi autocratici, in America confinava col ridicolo. I soli libri ascetici erano permessi; ma la spedizione di essi poteva essere fatta soltanto dal monastero dell'Escuriale, i viceré avevano l'obbligo di far visitare minuziosamente tutte le navi in arrivo, per vedere se vi erano nascosti libri pericolosi. Pericolosi, nel sec. XVII, erano stati considerati i libri di propaganda protestante, introdotti dai filibustieri, quasi tutti luterani; nel secolo successivo, apparvero ancora più pericolosi quelli che esponevano le nuove dottrine politiche. Particolarmente perseguitate erano due opere, che ebbero in effetti una grande influenza sul formarsi della mentalità rivoluzionaria americana: la History of America, del Robertson, che era apparsa nel 1777, e l'Histoire philosophique et politique des établissements et du commerce des europééns dans les deux Indes dell'abate Raynal, che è del 1774; importantissima, ancor oggi, la prima; verbosa, magniloquente e vacua la seconda, ma entrambe informate a uno spirito fieramente antispagnolo. L'avversione delle autorità per questi due libri (contro i quali il gesuita Giovanni Nuix scrisse in italiano le Riflessioni imparziali sopra l'umanità degli Spagnuoli nell'Indie ecc., Venezia 1780, tradotte in castigliano nel 1782 a Madrid), era tale da giungere a eccessi ridicoli, come il caso del frate Melchiorre de Talamante che, incaricato di studiare una questione di confini tra il Messico e gli Stati Uniti, chiedeva il permesso di leggerli, per gli importanti dati di fatto che contenevano, e la Inquisizione glielo negava. Altri libri assai ricercati e studiati dalla nuova società creola erano le opere di Montesquieu, di Rousseau, di Voltaire. Humboldt narra le persecuzioni cui eran fatti segno i cittadini che, negli ozî della campagna, li leggevano. Dopo l'89, com'è naturale, la persecuzione divenne più feroce, al punto di imprigionarsi, a Bogotá, tutti quelli che leggevano le gazzette francesi e di proibirsi l'impianto di tipografie nelle città di oltre 40.000 abitanti; ma è anche naturale che più severe erano le persecuzioni, più diffusione avevano le opere perseguitate. Nel 1796, destò grande scandalo il fatto che, facendosi l'inventario dei beni del defunto vescovo Azamor, si trovassero molti libri proibiti, fra cui il Paradiso perduto, le opere di Voltaire e di Montesquieu e La scienza della leaslazione del Filangieri. E aggiungeremo, per ricordare altri influssi italiani, che la mentalità economica dei capi della rivoluzione del Plata si era formata in gran parte sulle opere del Galiani e del Genovesi, del quale ultimo il Belgrano si professava ammiratore e discepolo. Così il Moreno, lo spirito più robusto della rivoluzione, derivava la sua conoscenza del Montesquieu dall'opera del Filangieri.
9. Si è cercato, fino a questo punto, di isolare i varî elementi politici, economici, religiosi e culturali che formarono nell'americano nuovo lo spirito della rivoluzione, e si è cercato di insistere specialmente su quelli, di tali elementi, che nascevano da condizioni particolari dell'ambiente e non erano, come altri molti, la derivazione dei grandi rivolgimenti europei tra la Riforma e la Rivoluzione. Converrà aggiungere, in ultimo, che l'Americano del sud si preparava alle lotte per l'indipendenza avendo potuto sperimentare, in varie occasioni, la sua capacità alla difesa armata del territorio. La Spagna e il Portogallo, incautamente, avevano provocato questa rivelazione, lanciando i loro sudditi coloniali contro i nemici esterni. Non vogliamo accennare alle annose querele diplomatiche e alle guerriglie provocate per la colonia di Sacramento e per la Banda Orientale, le quali non altro influsso hanno avuto sullo spirito americano se non forse quello di perpetuare, in quegli stati moderni, la tendenza ad allargare, talvolta tragicamente, le questioni di confini. Ma è opportuno, invece, insistere su due fatti di guerra, assai importanti per la formazione della coscienza militare luso-americana e ispano-americana. Il primo riguarda il Brasile ed è la lunga lotta contro gli Olandesi, la quale si svolse tra il 1624 e il 1654, ossia in parte sotto il dominio spagnolo e in parte sotto quello portoghese. Le grandi ricchezze dell'America Meridionale avevano, specialmente nel sec. XVII, suscitato le cupidigie della Francia, dell'Inghilterra (che sotto Cromwell si impadronirà della Giamaica e ne farà centro delle sue operazioni contro le colonie americane) e dell'Olanda che, nel 1624, fondava la Compagnia delle Indie, con lo scopo precipuo di impadronirsi del Brasile e far convergere sui Paesi Bassi il commercio della Spagna. Difatti, lo stesso anno, l'ammiraglio Willikens s'impadroniva della capitale del Brasile, che allora era S. Salvador (Bahia) e iniziava la lotta trentennale. Nel periodo spagnolo, fino al 1641, la metropoli opponeva agli Olandesi truppe regolari: e fra esse, alcuni tercios napoletani, comandati dal marchese di Torrecuso e dal conte Sanfelice di Bagnoli. Ma, dopo la restaurazione del Portogallo, Giovanni IV, già impegnato contro gli Olandesi a Malacca, a Colombo, al Capo, non poteva intervenire direttamente con forze armate e perciò favoriva la riscossa dei Brasiliani, cominciata alla partenza di Maurizio di Nassau (1644). Anima del movimento era il mulatto Fernandes Vieira, secondato dall'indiano Camarão, dal bianco Vidal de Negreiros e dal valoroso negro Henrique Dias. Dal 1647, anno della battaglia di Guarapes, vinta clamorosamente dal Vieira, al 1654, con la resa di Recife al generale Barreto, i Brasiliani non soltanto liberarono il loro paese dagli stranieri e dai protestanti (un gesuita siciliano, Benedetto Amodeo, fu l'apostolo e il profeta di questa guerra), ma acquistarono la piena coscienza della loro nazionalità. Ancora più infelice il tentativo degli Olandesi nel Chile: occupata Valdivia nel 1643, dovettero sgomberarla l'anno seguente. Egualmente incauta fu, più tardi, la Spagna, quando, cresciuti i bisogni militari delle colonie e non potendo fronteggiarli con tutte le truppe ordinarie, favorì la creazione di una milizia creola accanto a quella metropolitana. Se ne ebbe subito la prova: nel gennaio 1806, Buenos Aires era stata occupata da una spedizione inglese al comando del brigadiere Beresford e il viceré Sobremonte era stato costretto a fuggire; ma il 12 agosto dello stesso anno, gl'Inglesi furono battuti dalle truppe creole, prontamente organizzate dal capitano di vascello Santiago Liniers, di nascita francese. L'Inghilterra, anziché sconfessare il tentativo di Beresford, che era stato spinto all'impresa dal commodoro Home Popham, inviò a Buenos Aires due forti divisioni comandate dal tenente generale John Whitelock; ma anche queste furono respinte dalle truppe di Liniers. Il governo spagnolo si compiacque non poco della reconquista di Buenos Aires e nominò Liniers viceré, senza rendersi conto che, in quelle file e in quelle battaglie, avevano fatto la prova del fuoco i capi dell'imminente rivoluzione.
10. Allo stato d'animo creato da queste condizioni di vita dell'America latina contribuì molto il clero creolo, con la sua persistente opposizione alle autorità civili. Specialmente i francescani di Montevideo avevano apertamente adottate, e pubblicamente discutevano, le nuove idee politiche provenienti di Francia. Così bisogna ricordare - benché nati in Galizia - i due sacerdoti Fernández, che, nel collegio di San Carlos di Buenos Aires, educavano la gioventù a spiriti liberi; come pure l'influenza della stampa periodica, che faceva la sua apparizione, opponendo al retrivo Telégrafo mercantil, fondato a Buenos Aires nel 1801, il Semanario de agricoltura, industria y comercio, iniziato nel 1802 sotto la direzione di Vieytes. Infine gli elementi stranieri, dalla Spagna stessa, dall'Inghilterra, dagli Stati Uniti, e soprattutto dalla Francia, portavano il contributo della loro esperienza personale delle lotte politiche del vecchio mondo. L'Altamira ha compiuto una diligente distinzione delle numerose cospirazioni e rivolte dell'America latina, nel corso del sec. XVIII, separando quelle che erano motivate da personale ambizione di comando, ma senza spirito separatista, e con il fine di protestare contro gli atti del governo e delle compagnie, dalle altre che avevano evidenti scopi di indipendenza. Fra le prime, sono da ricordarsi la sollevazione dei comuneros nel Paraguay (1721), terminata con l'esecuzione del loro capo, il giudice José de Antequera (1731); la rivolta degl'Indiani della missione di Chanchamayo, che massacrarono varî religiosi; la ribellione dei Venezolani, capitanati da Juan Francisco de León, contro gli abusi della Compagnia Guipuzcoana (1749); la sollevazione delle milizie di La Rioja e Catamarca (1752) contro l'obbligo periodico del servizio militare; la sollevazione degl'indigeni di Quito contro le imposte (1755); la sollevazione degl'Indiani di Izúcar (1781) e, più importante, la rivolta degl'Indiani dello Yucatán (1765), capitanata da un panettiere, Giacinto Canek, la quale fu una vera e propria guerra mossa contro gli eccessi delle imposte e i rigori dei tribunali di giustizia, e finì soffocata in molto sangue. Delle seconde - quelle, cioè, che miravano chiaramente all'indipendenza - non è possibile fare l'elenco completo. Basterà ricordare le più importanti, come la rivolta degl'Indiani Chunchos nel Perù (1742) e, sei anni dopo, anche nel Perù, una seconda rivolta di Indiani di altre tribù, spalleggiati dagli schiavi negri, con l'intento di ripristinare l'impero degli Incas. Nello stesso Perù, la rivolta di Tupac-Amaru, alla quale si è già accennato (§ 2), fu continuata, dopo il martirio di quel capo, da un suo fratello e dai fratelli Catasí, nelle provincie di Cuzco e La Paz (Bolivia), fino a tutto il 1782. Anche nel 1781, una nuova rivolta di comuneros scoppiava nella Nuova Granata. Il movimento fu imponente, le autorità di Bogotá dovettero capitolare a duemila rivoltosi e furono costrette a concedere l'abolizione delle imposte; ma non appena giunsero i rinforzi, i capi comuneros Galán, Alcantuz, Molina e Ortiz furono giustiziati e le concessioni ritirate. Nel 1777-79, sobillati e armati dagl'Inglesi, si sollevavano gl'Indiani della Sonora (Messico). Nel 1780, abortiva, a Santiago del Chile, una cospirazione di cui erano anima i francesi Gramuset e Berney, e della quale faceva parte il creolo José Antonio Roias, fisico, imbevuto delle idee degli enciclopedisti. Nel 1797, si tentava proclamare la repubblica nel Venezuela; ne erano capi Manuel Gual e José Maria España, secondati dai repubblicani spagnoli Picornell, Cortés e Andrés, colà deportati. Sventata la congiura, lo España fu decapitato e squartato. Altro tentativo di mutamento di governo, ma per restaurare l'impero di Montezuma, fu quello, prontamente soffocato, che ebbe a capo, nel Messico (1802), l'indio Mariano. E nel Brasile, alla fine del sec. XVIII, la cospirazione della Inconfidencia mineira era crudelmente repressa, con l'esecuzione di Tiradentes.
Ma neppure questa seconda serie di cospirazioni e ribellioni obbedisce a un chiaro concetto dell'indipendenza americana; né, tanto meno, tende a una precisa forma di governo. Del resto, neanche i rivoluzionarî del 1809 e del 1810, come già si è accennato, erano proprio sicuri di quel che volevano. Il grande movimento creolo del primo decennio del sec. XIX apparisce incerto, incoerente, immaturo; non si sa se desideri la monarchia o la repubblica oligarchica o la presidenza inamovibile. Le prime giunte rivoluzionarie, p. es., riconoscono la tutela reale; Belgrano, al Congresso di Tucumán, propugna una "monarchia temperata"; Bolívar, per la Colombia e altri paesi, propone egualmente la monarchia con principi stranieri; e monarchici si dimostrano, in un primo tempo, Flores, Sucre, Monteagudo, Posadas, il decano Funes. L'idea monarchica decade dopo le Cortes di Cadice; Bolívar l'abbandona, per la presidenza inamovibiie e il senato ereditario. L'idea repubblicana trionfa, dunque, non perché fosse stata il sogno di quei cospiratori e di quei combattenti, ma come reazione immediata al tradimento di Ferdinando VII. Superstite nel Brasile, e nel Messico per il tentativo di Iturbide e per quello di Massimiliano, la monarchia decadrà definitivamente, nell'America latina; nel corso del sec. XIX.
11. La rivoluzione del 1810, nata dal grande travaglio spirituale che abbiamo ricercato sotto l'apparente splendore della conquista e del dominio di Spagna e Portogallo, e dal valore di capi come Francisco de Miranda, Simon Bolívar - che in faccia a Roma aveva fatto giuramento di liberare la propria patria -, Manuel Belgrano - figlio di un genovese -, San Martín, Mariano Moreno ecc., fu ben lontana, però, dal raggiungere il fine dell'indipendenza. Già abbiamo detto come gli stessi capi fossero incerti sugli ideali da raggiungere e sui metodi da seguire, onde a molti patrioti l'insuccesso della rivoluzione parve totale e irrimediabile, e i più audaci pensavano a una monarchia con l'infanta Carlotta o con l'ex-re Carlo IV (p. es. Rivadavia), i più trepidi arrivavano a propugnare la sottomissione piena e completa a Ferdinando VII. Il pessimismo dei patrioti trovava la sua ragione nella riscossa della Spagna, che non sapeva rassegnarsi alla perdita delle sue ricche colonie ultramarine, e che, fidando sulla Santa Alleanza, per oltre dieci anni combatterà accanitamente a mantenerne il possesso. Soltanto la rivoluzione spagnola del '20 rinfocolerà e rafforzerà quella americana, dando il colpo di grazia alla potenza coloniale della Spagna. Dopo la rivoluzione del '10, è solamente il Paraguay che conserva la libertà, se tale può chiamarsi la ferrea dittatura del dott. Francia, continuata da quella dei López fino alla guerra del 1865-70 contro il Brasile, l'Argentina e l'Uruguay; mentre, nelle regioni del Plata, si vengono già manifestando le nefaste scissioni di partiti. Nel Messico, il potere della metropoli si mantiene fermo per un altro decennio, con la repressione dei tentativi di Morelos e di Mina, giustiziati rispettivamente nel '15 e nel '17; solo nel '21, l'avventuroso Iturbide ne proclama l'indipendenza, per farsene poi nominare imperatore nel '22: il comico impero durato meno di un anno, è sostituito poi dalla repubblica federale, sul modello costituzionale degli Stati Uniti. Ancora più a lungo la Spagna domina nel Perù, che pur era stato il focolare della sollevazione di Tupac-Amaru (cioè Giuseppe Gabriele Condorcanqui): fattosi indipendente nel '21, con l'appoggio del generale argentino San Martín, che ne ha il titolo di protettore, è ripreso in parte dagli Spagnoli e deve, per raggiungere la piena indipendenza, aspettare l'intervento di Bolívar, che, con i 6000 uomini di Sucre, batte clamorosamente i 10.000 del viceré Laserna ad Ayacucho (9 dicembre 1824). Così, sotto il soffio dello spirito nuovo, crolla l'antico impero degl'Incas, che era diventato la rocca forte del tradizionalismo spagnolo; e una parte di esso, l'Alto Perù, si stacca per formare l'odierna Bolivia. Ma Buenos Aires si era già proclamata indipendente nel '16; e il 1° gennaio '18 lo faceva il Chile, ove già da un anno si era recato il San Martín, compiendo l'epico passaggio delle Ande. Più singolare è il caso dell'Uruguay, sottratto alla potestà spagnola dall'indomito Artigas, per cadere poi, come provincia cisplatina, in dominio del Brasile, e liberarsene appena nel 1827. La repubblica della Colombia è proclamata nel '19 da Bolívar; nel '23, si libera il Venezuela; nel '24, con una federazione foggiata su quella degli Stati Uniti, ma ancor più democratica, si costituiscono le Provincie unite dell'America centrale (Guatemala, Costarica, Nicaragua, Honduras e Salvador). Il Brasile, dal canto suo, continua la sua esperienza monarchica.
12. Il fallimento della rivoluzione del'10 fu dovuto a cause ben più importanti che la resistenza militare della Spagna: cioè all'incertezza dei principî e degli obiettivi da raggiungere, alla mancanza di un forte volere morale comune a tutti, all'ignoranza - grande come il valore militare - della maggioranza dei capi, che scuotevano il giogo spagnolo per instaurare la dittatura personale, procurando le controrivoluzioni, l'insorgere dei meticci contro i creoli, la scissione dei patrioti in due grandi partiti antagonistici: unitarios e federalistas al Plata, blancos e colorados nell'Uruguay, escoceses e yorkinos nel Messico, nomi diversi per indicare la stessa cosa, cioè l'oligarchia contro la democrazia. Ben osserva Sarmiento parlando dei grandi caudillos delle prime rivoluzioni, che "l'individualismo costituiva la loro essenza, il cavallo la loro arma esclusiva, la pampa il loro teatro". A ciò si può aggiungere che altre caratteristiche loro erano la fiera xenofobia (notevole, più tardi, nel tiranno argentino Rosas), l'avversione alla Chiesa romana, il provincialismo, il separatismo, il favore per le autonomie locali: tipico il caso di Artigas, che libera l'Uruguay, ma poi combatte la rivoluzione argentina; tipica la celebre intervista di Guayaquil (1822), fra San. Martín e Bolívar, nella quale già si manifesta il rude contrasto tra il primo, fautore dell'egemonia argentina, e l'altro, propugnante l'egemonia colombiana. Con questi spiriti, il sogno panamericano di Bolívar non può avere nessuna speranza di realizzazione: il congresso di Panamá del 1826 segna un insuccesso completo, data l'assenza delle principali repubbliche, già impegnate nelle lotte fratricide per questioni di confine. Né ha miglior sorte la Federazione delle Ande: anzi, dalla Colombia si staccano il Venezuela e l'Ecuador. E Bolívar, qualche mese prima di morire (1830), lancia il grido disperato: "Abbandono ogni carriera politica, ma vi supplico di rimanere uniti; non siate i vostri carnefici, assassinando la vostra patria".
È vano il quesito se l'America latina, senza la rivoluzione di Spagna del '20, avrebbe potuto, in tempo relativamente così breve, conquistare l'indipendenza; e l'altro, se il sogno di Bolívar, senza gli spiriti separatisti dei caudillos, avrebbe potuto concretarsi in una federazione degli Stati Uniti del sud, solida e fortunata come quella del nord. Basti solo dire, quanto al primo, che gli elementi e le forze per l'indipendenza vi erano nell'America latina e che essa vi sarebbe pervenuta quando e come che sia, anche senza il concorso della rivoluzione spagnola. È anche da aggiungere che l'insuccesso della Spagna nella lotta coloniale fu dovuto, nonché alla resistenza dei soggetti (abbiamo visto come indecisi, divisi e incerti sul da farsi), allo scarso aiuto materiale della Santa Alleanza, e soprattutto all'ostilità, velata o palese, degli Stati Uniti, i quali, avendo già strappato, nel '10, una parte della Florida, avevano una specie di ipoteca sull'America latina, che consideravano una propria pupilla. Difatti, nel '22, Monroe riconosceva le nuove repubbliche; e l'anno seguente, aspettandosi un nuovo sforzo di Ferdinando contro le colonie, faceva solenne dichiarazione al Congresso che gli Stati Uniti non l'avrebbero tollerato. Data precisamente da quell'anno la celebre dottrina dell'America agli Americani, che porta appunto il nome di Monroe. E l'Inghilterra, sempre gelosa della potenza coloniale della Spagna, cui già aveva dato fieri colpi nei due secoli precedenti, contribuiva dal canto suo, pur fra i tentennamenti dei suoi statisti, alla rovina delle ultime speranze spagnuole. Già i patrioti della fine del '700 avevano trovato nell'Inghilterra aiuti materiali per le rivoluzioni; l'Inghilterra, nel '12, si era fatta mediatrice fra le Cortes e il nuovo stato di Buenos Aires; un inglese, il Cochrane, aveva comandato, nel '18, la piccola flotta del Chile e dell'Argentina contro la Spagna; Canning, infine, nel '24 riconosceva i nuovi stati sud-americani e l'anno seguente stringeva con essi trattati di commercio.
13. L'influenza degli Stati Uniti e dell'Inghilterra non si fermò agli appoggi morali e materiali dati alla rivoluzione; anzi, nel corso del sec. XIX, si accentuò nel senso della penetrazione economica: quelli operanti specialmente negli stati confinanti, nel Brasile e lungo la costa del Pacifico; questa, saturando di suoi capitali le regioni del Plata, costruendo ferrovie, creando industrie, stabilendo linee di navigazione. L'economia sud-americana si venne, così, completamente trasformando: le ricchezze minerarie, che avevano costituito il maggior reddito al tempo spagnuolo, non rappresentavano più se non una parte, sia pure cospicua, della produzione - i bacini petroliferi del Messico, sfruttati dai Nord-americani, i metalli preziosi del Perù e del Brasile, i nitrati di soda del Chile -; mentre l'agricoltura e l'allevamento del bestiame, razionalmente esercitati, prendevano sempre maggiore sviluppo, al punto da diventare la fonte più copiosa di ricchezze. Ricordiamo i cereali dell'Argentina, largamente esportati; il caffè del Brasile meridionale; la gomma del Brasile settentrionale; i pellami e le carni dell'Argentina e dell'Uruguay; il maté del Paraguay; il cacao del Nicaragua e del Venezuela, ecc. Ma le industrie progredivano assai lentamente, sicché all'esportazione dei prodotti corrispondeva la larghissima importazione di manufatti dall'Europa e dall'altra America. Solo di recente, e soprattutto nel Brasile, le industrie tessili hanno preso un certo sviluppo. Oltre a ciò la formazione di un capitale nazionale procedé con grande lentezza e difficoltà, mentre i continui prestiti all'estero facevano affluire il capitale straniero, il più delle volte malamente impiegato. La rivoluzione si era fatta con l'oro inglese; l'oro francese aveva asservito il Messico, al punto che Napoleone poté imporre il disgraziato impero di Massimiliano; l'oro nord-americano, più tardi, piegava lo stesso Messico alla politica della grande repubblica del nord. Il capitale privato straniero affluiva parimente a creare industrie e commerci, comunicazioni e trasporti: francese e inglese in quasi tutte le linee ferroviarie, nord-americano nelle miniere, tedesco in molteplici imprese nel Brasile meridionale, al punto da potersi temere, prima della guerra europea, un pericolo tedesco nel Brasile, risultato poi immaginario. Il problema economico sud-americano, nel secolo scorso, era impostato, dunque, sulla mancanza di un capitale nazionale, e si vedeva il rimedio nella graduale formazione di esso, nell'affrancamento dalla soggezione straniera. Taluni si battevano anche per un Zollverein sud-americano, per l'unificazione della moneta, ecc. Nel primo quarto di questo secolo, le condizioni economiche dell'America Meridionale sono sensibilmente migliorate: alcune repubblichette permangono infeudate agli Stati Uniti; altre sono ancora lontane, per scarsezza di popolazione e imperfetta viabilità, dal raggiungere il pieno sviluppo economico; ma i grandi stati, come l'Argentina, il Brasile e il Chile (il cosiddetto A B C), e un piccolo stato singolarmente privilegiato, l'Uruguay, pur attraverso dolorose crisi, han raggiunto, specialmente dopo la guerra europea che li ha favoriti, un grado superiore di benessere economico.
La mutata economia del sec. XIX, spostando le fonti di ricchezza da una zona all'altra (p. es. impoverimento dell'alto Perù e arricchimento della regione platense), aveva determinato anche la rovina delle vecchie città spagnole e la splendida fioritura delle nuove città. La città coloniale spagnola, poco più che una aldea, elevata al grado di città per la presenza del vescovo e degli alti funzionarî civili, non riusciva se non raramente a superare la condizione di "città di consumo"; la più interessante di tutte, insieme con Messico, era Lima, fondata da Pizarro, ricca di monumenti dell'arte inco-ispana, sede della celebre università di S. Marco, la prima dell'America del Sud. Nel sec. XVIII, invece, mentre spariscono città già fiorenti, come Potosí, si ingrandiscono miracolosamente poveri assembramenti di case, non degni neppure del nome di borgate, ma destinati, per la loro posizione, a diventare le superbe città di oggi. Buenos Aires, nel 1658, ha appena 3000 ab., compresi alcuni stranieri, fra i quali - naturalmente - un genovese a metà Settecento, è ancora sui 10.000 ab. Ma nel 1770, la popolazione è più che raddoppiata in 22.000; e alla rivoluzione del 1810, secondo i calcoli del Gondra, gli abitanti sono già 45.000. In poco più di un secolo, la popolazione sarà quasi centuplicata, costituendo uno dei più singolari fenomeni di urbanesimo del mondo; anzi il più singolare, se si mette in rapporto con la scarsa popolazione dell'intera repubblica. E Montevideo, una delle più belle e più progredite città americane, ha sul suo atto di nascita la data 1724 Nello stesso Brasile, dove le città tradizionali, come Bahia (S. Salvador) e Rio de Janeiro, hanno avuto il loro regolare e graduale sviluppo, un caso di forte urbanesimo è rappresentato da S. Paulo, diventata, da piccola cittadina ai tempi della colonizzazione gesuitica, una imponente città moderna, di rapidissimo accrescimento per la vasta produzione di caffiè dello stato e per la cospicua emigrazione stabile, specialmente italiana.
Influenze nord-americane, inglesi e tedesche, dunque, nel corso del secolo passato, si contendevano il campo dell'espansione economica nell'America del Sud. La Francia vi esercitava l'impero della sua cultura, e, spesso, non della sua migliore cultura. La Spagna, dopo un vano tentativo (1865) di riprendere più intimo contatto con le sue ex-colonie, doveva contentarsi di puri e semplici rapporti commerciali, di quelli culturali nascenti dalla comunità di lingua e di origine, e dei vantaggi che le venivano dai suoi numerosi emigrati (specialmente dalla Galizia).
Un nuovo paese infine, e anche prima che fosse costituito in unità, l'Italia, doveva portare un largo contributo d'operosità e giovare potentemente al formarsi della nuova ricchezza di quegli stati. Il problema demografico è stato sempre, ed è ancora, assai grave per l'America del Sud: scarsissima popolazione - spesso agglomerata in enormi città - sopra territorî vastissimi, ricchezze naturali non sfruttabili per deficiente mano d'opera. Il problema, già grave al tempo della schiavitù, si accentuò allorquando il sistema schiavistico, ancor prima dell'effettiva abolizione, cominciò a non funzionare più, per l'ostilità inglese. Al tempo della dittatura dei caudillos, xenofobi, ma spiriti eminentemente realistici (è sotto queste dittature che l'ascensione economica dell'America latina ha il suo principio), l'emigrazione è favorita in tutti i modi, e si hanno le vaste importazioni di coloni, le liberali concessioni di terre, le più svariate esperienze. Sono, volta a volta, gli Italiani, gli Svizzeri, i Tedeschi, gli Spagnoli, i Siriani, i Giapponesi, allettati a fecondare con il loro lavoro le immense terre abbandonate. Ma non sempre le esperienze riescono: forti colonizzatori i Tedeschi (Brasile del sud), ma scarsi numericamente. Di breve durata la emigrazione svizzera. Alieni dai lavori agricoli, e quindi cagione dell'eccessivo urbanesimo, gli Spagnoli, i Siriani e i Giapponesi.
14. Gl'Italiani soltanto si mostrarono e si mostrano pari al durissimo compito, con la mirabile resistenza al lavoro e con l'audace spirito d'iniziativa, che in alcuni stati (Argentina e Brasile sopra tutti) li han condotti a floridissima situazione, e fatti degni dell'ammirazione, e anche dell'invidia, dei loro ospiti. L'emigrazione nell'America del Sud è una delle pagine più belle della storia del lavoro italiano, ma anche delle meno conosciute. Ben nota, sì, agli studiosi di statistica e di sociologia, l'emigrazione degl'Italiani attende ancora chi ne consideri il valore storico; perché essa ha questo valore ed è ingiusto considerarla, come spesso si è fatto, quale una semplice merce. Le sue stesse origini hanno una radice nella nostra storia; anzi, a questo proposito, è bene sfatare una vecchia leggenda, secondo la quale l'emigrazione italiana in America avrebbe avuto principio con l'invio di galeotti, ceduti dal governo napoletano agli stati sud-americani. Vi furono, è vero, trattative in questo senso; ma in realtà la prima immigrazione italiana nel Brasile fu di condannati, sì, ma condannati politici, ciò che muta radicalmente la fisionomia della cosa. Dopo l'assassinio del conte Bosdari in Ancona (1832) il governo pontificio operò numerosi arresti di liberali, e solo nel 1837 un centinaio e più di essi furono liberati, mediante l'impegno scritto da parte loro di emigrare nel Brasile e non tornare più negli stati pontifici. Quasi tutti (alcuni si fermarono in Grecia) sbarcarono a Bahia e vi costituirono il primo nucleo di quella emigrazione italiana che tanto doveva contribuire allo sviluppo economico del Brasile. Quale migliore atto di nascita potrebbe vantare quella vasta colonia italiana? Veramente fin dal principio del secolo vi erano stati casi sporadici di immigrazione dall'Italia, p. es. dalla Liguria e dal Piemonte; e il più delle volte si era trattato di emigrazione intellettuale e tecnica, non già di emigrazione agricola; come quel napoletano Pietro de Angelis, che fu il primo raccoglitore dei documenti storici riguardanti il Rio della Plata; come, più tardi, Giuseppe Garibaldi, difensore prima delle libertà repubblicane del Rio Grande do Sul, poi dell'indipendenza uruguayana contro il tiranno argentino Rosas. Di una vera e propria emigrazione agricola e artigiana non può parlarsi se non verso la metà del secolo. La corrente si riversa prima nelle sconfinate pianure argentine, e raggiunge le Ande, dove i Piemontesi iniziano con successo la viticoltura nella provincia di Mendoza; poi si ferma nel Brasile, dove l'imparentarsi di Pietro II con i Borboni di Napoli aveva aperto nuove strade agl'interessi italiani, e si localizza nella provincia di San Paulo - destinata a diventare, grazie all'operosità italiana - la maggior produttrice di caffè del mondo, e, in minor proporzione, in quelle di Rio de Janeiro, Minas Geraes, Espirito Santo e Rio Grande do Sul. Altre minori correnti si volgono all'Uruguay, al Chile, al Perù, all'America Centrale, al Messico, dovunque lasciando il segno della loro missione fecondatrice. Le vaste pianure incolte del Plata diventano, in breve volgere di anni, uno dei più grandiosi granai del mondo, né sarebbe possibile raccoglierne il frutto se l'emigrazione temporanea italiana (golondrinas, cioè "rondinelle") non fornisse le braccia necessarie alla bisogna. Le terre rosse del Brasile si coprono della preziosa rubiacea, mercé la prodigiosa resistenza lavorativa delle colonie venete. Zone desertiche e malariche sono bonificate da eserciti di braccianti italiani. La ferrovia Madeira-Mamoré si costruisce col sacrificio di schiere di operai meridionali, colpiti dalla febbre gialla. Intere città sorgono nel deserto e nella foresta per opera degl'Italiani, e alcune hanno nomi italiani: Garibaldi, Nuova Venezia, Nuova Pompei. Altrove sarà definito il fenomeno dell'emigrazione e sarà detto se esso sia stato un bene o un male per l'Italia. Qui dobbiamo considerarlo solamente nel quadro generale della storia sud-americana, cioè come un fattore potentissimo del suo svolgimento nel sec. XIX, e non soltanto nel senso materiale. Prevalentemente, ma non esclusivamente agricola, l'immigrazione italiana, specie negli ultimi tempi, ha fortemente impregnato di cultura italiana i paesi latino-americani, al punto da poter gareggiare con i grandi influssi francesi e spagnoli. Impronte non equivoche del pensiero italiano sono rintracciabili negli studî giuridici e, più di recente, anche nell'indirizzo filosofico; mentre il genio artistico dell'Italia ha la sua glorificazione in una serie numerosa di monumenti e di opere d'arte.
Fonti e collezioni di documenti: Recopilación de leyes de los reynos de las Indias, voll. 4, Madrid 1681; Colección de doc. inéditos para la hist. de España, voll. 112, Madrid 1842-92 (per i documenti riguardanti l'America cfr. l'indice compilato da G.P. Winship nel boll. della Boston Public Library, XIII, 189); Nueva colección de doc. inéditos para la hist. de España y de sus Indias, voll. 6, Madrid 1892-96; Cartas de Indias, Madrid 1877; Colección de doc. inéditos relativos al descubrimiento, conquista y colonización de las posesiones españolas de Ultramar, voll. 42, Madrid 1864-84 e 2ª serie, voll. 18, Madrid 1885-1900; Collecção de monumentos ineditos para a hist. das conquistas dos Portuguezes, voll. 16, Lisbona 1858-98; Colección completa de los tratados... de todos los Estados de la América latina... desde 1493 hasta nuestros días, pubbl. da C. Calvo, voll. 11, Parigi 1862-1869; Collecção de noticias para a hist. e geographia das nações ultramarinas, voll. 7, Lisbona 1812-41; P. De Angelis, Collección de obras y documentos relativos à la historia... del Rio de la Plata, 2ª ed., voll. 5, Buenos Aires 1910 (importante anche per la restante America latina); Colección de libros que tratan de América, raros ó curiosos, voll. 21, Madrid 1891...; Colección de libros y documentos referentes a la historia de América, voll. 20, Madrid 1904...; Relaciones geograficas de Indias. La Hispano-América del siglo XVI, voll. 2, Siviglia 1919-1920; Cfr. inoltre Biblioteca Hispano-Ultramarina, voll. 6, Madrid 1876-1882; Biblioteca de los Americanistas, voll., 4 Madrid 1882-1885.
Bibl.: Raccolta di storici antichi: A. González de Barcia, Historiadores primitivos de las Indias occidentales, voll. 3, Madrid 1749; Historiadores primitivos de Indias, in Bibl. de Autores Españoles, XXII e XXVI; M. Serrano y Sanz, Historiadores de Indias, voll. 2, Madrid 1909, e Relaciones hist. de América: primera mitad del siglo XVI, Madrid 1916. Cfr. F. Weber, Beiträge zur Charakteristik der älteren Geschichtsschreiber über Spanisch-Amerika, Lipsia 1911 (aggiunte di G. Friederici, in Götting. Gel. Anzeigen, 1912, pp. 385-402).
Opere moderne di carattere generale dopo la History of America del Robertson (la cui prima edizione, Londra 1777, riguarda esclusivamente le colonie spagnole e portoghesi): D. Barros Arana, Compendio de hist. de América, voll. 2, Santiago de Chile 1865 (altra ed., Buenos Aires 1915); A. Deberle, Hist. de l'Amérique du Sud, Parigi 1876; J. Winsor, Narrative and critical History of America, Boston 1884-1889, I e II; J. Coroleu é Inglada, América: hist. de su colonización, dominación é independencia, voll. 4, Barcellona 1894-96; E. J. Payne, History of... America, voll. 2, Oxford 1892-1899; C. Navarro y Lamarca, Compendio de la hist. gen. de América, voll. 2, Buenos Aires 1912-13; W. R. Shepherd, Central and South America, Londra 1914 (trad. spagnola La América Latina, Madrid 1917); H. Lufft, Geschichte Südamerikas, voll. 2, Berlino 1912-1913; W. F. Grieve, History of South America, Cleveland 1914; J. Ortega y Rubio, Historia de América, voll. 3, Madrid 1917; W. S. Robertson, History of the latin-american nations, New York 1922; M. Lima Oliveira, La evolución histórica de la América latina, Madrid 1918; E. Quesada, El desenvolvimiento social hispano-americano, voll. 2, Buenos Aires 1917-1918; C. Pereyra, Historia de la América española, voll. 8, madrid [1924-26] (I, Descubrimiento y exploración del Nuevo Mundo; II, El Imperio Español; III, Méjico; IV, Las Republicas del Río de la Plata; V, Los Paises Antillanos y la América Central; VI, Colombia Venezuela y Ecuador; VII, Perú y Bolivia; VIII, Chile).
Sull'opera della Spagna in genere: R. Cappa, Estudios críticos acerca de la dominación española en América, Madrid 1889... (voll. 26, i primi 4 sulla storia, gli altri sull'industria, l'arte, ecc.); A. Zimmermann, Die Kolonialpolitik Portugals und Spanien, Berlino 1896; J. B. Casas, Estudios acerca del régimen y administración de España en Ultramar, Madrid 1896; G. García, Carácter de la conquista española en América y en México según el texto de los historiadores primitivos, Messico 1901; K. Kaeger, Landwirtschaft und Kolonisation im spanischen Amerika, voll. 2, Lipsia 1901; E. G. Bourne, Spain in America, New York 1904; R. B. Merriman, The rise of the Spanish Empire, voll. 2, New York 1918...; C. Pereyra, La obra de España en América, Cartagena-Madrid (1920), trad. fr., Parigi s. a. (ma 1925); J. Becker, La política española en las Indias. Rectificaciones históricas, Madrid 1920; R. Altamira, La política de España en América, Valenza 1921; id., La huella de España en América, Madrid 1924; A. Clavero Navarro, Ensayo crítico sobre el caracter de la colonización española en Amrica, in Revista de la Universidad Nacional de Córdoba (Argentina), VIII (1921), III, pp. 74-200; G. Friederici, Der Charakter der Entdeckung und Eroberung Amerikas durch die Europäer, Gotha 1925.
Sulla denominazione "America Latina", M. A. Espinosa, América Española ó Hispano-América. El término "América Latina" es erroneo, Madrid 1919; R. Menéndez Pidal, The term "Latin America", in Inter-America, New-York 1918 (trad. spagnola); R. de Manjarrés, La denominación "América Latina", in Il Congreso de historia y geografia hispano-americanas... en Sevilla, Siviglia 1921, pagine 349-356.
Intorno a punti particolari della storia sud-americana. Sui conquistatori: Nobiliario de conquistadores de Indias, pubbl. da A. Paz y Melia, Madrid 1892; A. Helps, The conquerors of the New World, voll. 2, Londra 1848-52; C. F. Lummis, The Spanish pioneers, Chicago 1893 (trad. spagn., Los exploradores espanoles del s. XVI, Barcellona 1916); J. M. Salavvería, Los conquistadores, Madrid 1918; I. B. Richman, The Spanish Conquerors, New Haven 1919; R. Blanco Fombona, El conquistador español del siglo XVI, Madrid 1922. Sulla legislazione americana: J. M. Zamora y Coronado, Bibliot. de legislación ultramarina, voll. 7, Madrid 1844-49; E. Ruiz Guinazú, La magistratura indiana, Buenos Aires 1916; R. Levene, Introducción a la hist. del derecho indiano, Buenos Aires 1924. SUll'organizzazione politica: J. De Solórzano, Política indiana, ed. Valenzuela, Madrid 1776; J. A. García, La ciudad indiana, Buenos Aires 1900; A. Posada, Instituciones políticasa de los pueblos hispanoamericanos, Madrid 1900; F. García Calderón, Les démocracies latines de l'Amérique, Parigi 1912; J. B. Teran, El nacimiento de la América española, Tucumán 1927. Sulle missioni religiose: P. J. Parras, Gobierno de los regulares de la América, Madrid 1783; A. J. De Mello Moraes, hist. dos Jesuitas e suas missões na America do Sul, voll. 2, Rio de Janeiro 1872; E. Gothein, Lo Stato cristiano-sociale dei gesuiti nel Paraguay, trad. it., Venezia 1928 (in app. all'opera La controriforma). Sulle condizioni economiche: J. de Veitia Linage, Norte de la contratación de las Indias occidentales, Siviglia 1673; J. Gutiérrez Rubalcava, Tratado hist., político y legal de el comercio de las Indias occidentales, Cadice 1750; J. M. Piernas y Hurtado, La casa de la contratación de las Indias, Madrid 1907; L. R. Gondra, Apuntes de hist. econ., in appendice al libro su Las ideas económicas de Belgrano, Buenos Aires 1927; G. de Artiñiano y Galdácano, Historia del comercio con las Indias durante el dominio de los Austrias Barcellona 1917; C. H. Haring, Trade and navigation between Spain and the Indies in time of the Hapsburgs, Cambridge 1918; C. Viñas Mey, El régimen de la tierra en la colonización española, in Humanidades, La Plata, X (1925), pp. 71-126. Una vera miniera di notizie statistiche ed economiche, da sfruttarsi con profitto ancor oggi, è il grande viaggio di A. de Humboldt (1806-32). Sulla vita morale e intellettuale: V. G. Quesada, La sociedad hispanoamericana bajo la dominación española, Madrid 1893; id., La vida intelectual en la América española durante los siglos XVI, XVII y XVIII, Buenos Aires 1917. Sui filibustieri: A. O. Esquemelin, The buccaneers of America, Londra 1684-85; Archenholtz, Storia dei filibustieri, trad. Margaroli, Milano 1820; J. J. Roche, Hist. de los filibusteros, S. José de Costa Rica 1908. Sulla colonia calvinista del Brasile: A. Heulhard, Villegaignon roi d'Amérique, Parigi 1897. Sulle guerre con gli olandesi nel Brasile: G. G. di Santa Teresa, Ist. delle guerre del regno del Brasile accadute tra la corona di Portogallo e la repubblica di Olanda, Roma 1698. Su alcuni precedenti della rivoluzione: M. Briceño, Los comuneros, Botogá 1880. Sulla "reconquista" di buenos Aires: P. Groussac, Santiago Liniers, Buenos Aires 1907.
Documenti e storie della Rivoluzione: Bibliografía... histórica... del Río de la Plata desde... 1780 hasta 1821, Buenos Aires 1875; Colección de historiadores y de documentos relativos á la independencia de Chile, voll. 25, Santiago 1900-1913; il catalogo dei documenti dell'Archivio delle Indie di Siviglia pubbl. da Torres Lanzas, Independencia de América. Fuentes para su estudio, voll. 6, Madrid 1912; la Biblioteca Ayacucho, diretta da R. Blanco Fombona, in corso di pubblicazione a Marid dal 1915; i doc. su Bolívar raccolti da Blanco y Azpurua, Documentos para la historia de la vida pública del libertador de Colombia, Perù y Bolivia, voll. 14, Caracas 1875-77; la raccolta delle costituzioni americane a cura di J. Rodríguez, voll. 2, Washington 1906-07; i Documentos del archivo de San Martín, voll. 2, Buenos Aires 1910-12; C. I. Solas, Bibliotrafía del general d. José de San Martín y de la emancipación sudamericana, voll. 5, Buenos Aires 1910; (C. Calvo), Annales historiques de la Révolution de l'Amérique latine, voll. 3, Parigi 1864 (trad. spagn., voll. 5, Parigi-Madrid 1864-67); M. Torrente, Hist. de la revolución hispanoamericana, voll. 3, Madrid 1829-30; F. L. Paxton, The independence of the South American republics, Philadelphia 1903; R. Altamira y Crevea, Resumen hist. de la independencia de la América española, Buenos Aires 1910; L. A. de Herrera, La revolución francesa y Sud-América, Parigi 1910; J. L. Suarez, Carácter de la revolución americana, Buenos Aires 1917; M. André, La fin de l'empire espagnol d'Amérique, Parigi (1922); J. Becker, La independencia de América (Su reconocimiento por España), Madrid 1922; R. Levene, La rivoluzione dell'America spagnuola nel 1810, trad. ital., Firenze 1929. Intorno ai capi della rivoluzione, ma con ampî riferimenti alla storia generale di essa: F. L. Petre, S. Bolívar "el libertador", Londra e New York 1909; M. Vaucaire, Bolivar, Parigi 1928; R. Becerra, Ensayo... de la vida de don Francisco de Miranda, voll. 2, Caracas 1896; B. Mitre, Hist. de San Martín, voll. 4, Buenos Aires 1899-1900, e Hist. de Belgrano, Buenos Aires 1876-1877; L. R. Gondra, Las ideas económicas de Belgrano, Buenos Aires 1927.
Principali riviste e pubblicazioni periodiche. - Generali: Archivo ibero-américano, Madrid 1914 segg.; Boletín del Instituto (poi Centro) de estudios americanistas, Siviglia 1913 sgg.; España y América: revista de los PP. Augustinos, Madrid 1903 segg.; The Hispanic American historical Review, Baltimora 1918 segg.; Inter-America, New York 1917 segg.; Rev. crítica de historia, ecc., Madrid 1895-1902; Rev. crítica hispano-americana, Madrid 1915-19. Per i singoli stati: Argentina, Boletín del Instit. de investigaciones hist., Buenos Aires 1922 segg.; Humanidades, La Plata 1921 segg.; Publ. de la Facultad de filosofía y letras, Buenos Aires 1917 segg.; Rev. de ciencias políticas, Buenos Aires 1910 segg.; Rev. de la Universidad de Buenos Aires; id., de Córdoba, 1914 segg.; Zeitschrift... für Kulturund Landeskunde Argentiniens. - Brasile: Annaes da Bibliot. Nacional, Rio de Janeiro; Rev. do Instituto hist e geogr. brasileiro, Rio de Janeiro 1838 segg. (e le riviste degli istituti regionali di Bahia, S. Paolo, Ceará, ecc.). Ricerche sulla storia del Brasile anche nelle riviste portoghesi: Anais das bibliot. e archivos, Lisbona 1920 segg.; Archivo hist. portuguez, Lisbona 1903 segg.; O Instituto, Coimbra 1852 segg. - Chile: Anales de la Universidad, Santiago 1843 segg.; Rev. de bibliografía chilena, 1913 segg.; Rev. de hist. y geografía, Santiago. - Colombia: Bibliot. de hist. nacional, Bogotá 1902 segg. - Cuba: Bol. de los archivos, 1902 segg., poi Boletín de Archivo Nacional; Cuba contemporanea, 1913 segg.; Rev. bimestre cubana, 1911 segg.; Rev. de la Bibl. nacional, 1909 segg. - Ecuador: Bol. de la Acad. nacional de hist., Quito 1918 segg. - Messico: Publicaciones de la Comisión reorganizadora del Archivo de la Nación, Messico 1910 segg. - Perù: Rev. histórica, 1906 segg.; Rev. universitaria, Lima. - Uruguay: Rev. histórica, Montevideo. - Venezuela: Cultura venezolana, 1918 segg. Studî e ricerche sulla storia dell'America latina si trovano anche in riviste che non si occupano specialmente di essa: ricordiamo fra gli altri il Boletín de la Real Academia de la Historia, Madrid 1877 segg.; The American Historical Review, New York 1896 segg.; Annual Report of the American Historical Association.
Per la storia particolare degli stati latino-americani, le note bibliografiche ai singoli articoli, in questa enciclopedia. Per più ampie indicazioni, oltre le accurate bibliografie annesse alla Cambridge modern history (segnatamente ai capp. VIII e IX del vol. X), l'eccellente guida bibliografica di H. Keniston, List of works for the study of Hispanic-american history, New York 1920 (nella collez. Hispanic notes & monographs della Hispanic Society of America) e il nutrito manuale di B. Sánchez Alonso, Fuentes de la hist. española é hispano-americana, 2ª ed., Madrid 1927.
vd anche AMERICA [Geografia]