DE CHIRICO, Andrea (Alberto Savinio)
Nacque ad Atene, il 25 ag. 1891, da Evaristo, ingegnere ferroviario, originario di Palermo, e da Emma Cervetto, nobildonna genovese.
Ad Atene trascorse gli anni della fanciullezza e compì i primi studi musicali, diplomandosi al conservatorio appena dodicenne. Alla morte del padre, nel 1905, la famiglia del D. lasciò la Grecia. Egli ne avrebbe conservato il ricordo come di un luogo stracolino di classicità e fitto di miti, ma anacronistici, prossimi a svuotarsi e a cambiare di segno, esposti al ridicolo: un simbolo dell'intera cultura occidentale in un'epoca di crisi e di profonde trasformazioni, che voltava definitivamente pagina e destituiva i valori della tradizione, anche quelli più sacri.
Dopo un viaggio a Venezia e a Milano, il D. si trasferì a Monaco di Baviera con la madre e il fratello Giorgio (la sorella Adele era morta in tenera età). Il soggiorno bavarese ebbe notevole importanza per la formazione intellettuale dello scrittore.
Allo studio, disordinato e tutt'altro che scolastico, di opere ed autori del passato, con una spiccata predilezione per gli ellenisti ed i barocchi, si accompagnarono i primi interessi per il linguaggio pittorico e per la cultura delle arti, segnatamente per Böcklin caro a Giorgio, il futuro pictor optimus, e le letture filosofiche, da Schopenhauer a Bergson, da Nietzsche a Weininger, che avrebbero tracciato le coordinate teoriche fondamentali per lo scrittore e il saggista degli anni successivi.
Per qualche tempo ancora, tuttavia, il D. scelse la musica come suo linguaggio creativo. Dopo aver seguito le lezioni di armonia e di contrappunto di Max Reger compose, diciassettenne, Carmela e mise mano a un melodramma, Poema fantastico. Mascagni apprezzò il lavoro e fu prodigo di incoraggiamenti, ma la speranza di veder pubblicata l'opera musicale presso Ricordi, con il quale il giovane compositore aveva preso contatto in una breve trasferta a Milano, andò presto delusa. L'insuccesso di una.esecuzione a Monaco, infine, spinse il D. a tagliare i ponti con la città bavarese. Nel 1910 egli si stabilì a Parigi, il massimo crocevia della cultura europea, dove la filosofia più recente si coniugava con l'attesa del nuovo e la necessità di elaborare un progetto alternativo, nelle arti e nelle lettere, dettava una febbrile sperimentazione delle forme e dei modelli di scrittura.
Il clima culturale, cosmopolita e iconoclasta, della ville lumière affascinò il D., che vi si immerse totalmente. Raggiunto nel 1911 dal fratello Giorgio, conobbe Larionov e la Gončarova, citati in La casa ispirata; ebbe contatti con Picasso, Cendrars, Picabia, Cocteau; fu in rapporto, probabilmente, con Max jacob; subì il fascino di Apollinaire - per tutti un punto di riferimento essenziale - e gli divenne amico, prendendo a frequentare il gruppo di intellettuali che a lui si ispirava, raccolto intorno alla rivista Les Soirées de Paris.
Quello del D. a Parigi fu un apprendistato d'avanguardia, tra lasciti del tardo simbolismo, cubismo, futurismo e primi germi di dadaismo e surrealismo. Egli seppe trarne, come lezione, l'idea di una scrittura che sbrigliasse l'immaginazione, per esplorare i territori dell'ignoto, senza tuttavia rinunciare al gusto per l'ironia e la parodia, per la divagazione e il paradosso, per l'eccesso e l'assurdo.
Nel 1913 il D. assistette alla prima esecuzione di Le sacre du printemps di Stravinskij. La suggestione che ne ricavò concorse a far decantare lo scritto teorico Le drame et la musique, pubblicato sulla rivista di Apollinaire, e il concerto tenuto poco dopo, il 24 maggio 1914. Le musiche originali, eseguite dall'autore, recano la firma di Alberto Savinio, lo pseudonimo che il D. assunse definitivamente.
Il saggio e il concerto presuppongono la formula, coniata dall'artefice, del sincerismo. La musica stringe alleanza con il dramma, l'opera buffa, il balletto. Il suo intento è quello di evocare; il magma di un libero accostamento di suoni trascrive sensazioni ed associazioni mentali. La concertazione armonica è sostituita da un collage di brani musicali nel quale l'aulico si mescola al prosaico, la ricercatezza del fraseggio alla banalità del ritornello, l'imprevisto all'usuale. I materiali della partitura si assoggettano ad una escursione stilistica che è carica di dissonanze e reclama l'attenzione partecipe dell'ascoltatore. La stessa tecnica dell'esecuzione asseconda e completa il progetto teorico. Nelle testimonianze di chi presenziò al concerto del 194 si conserva vivo il ricordo di un evento eccezionale e di un pianista che aggrediva e squassava letteralmente il pianoforte, con una foga ed un ritmo trascinanti.
Gli echi di questa musica, che di recente gli studiosi hanno riscoperto additandone la novità e assimilandola a quella di Stockhausen e Boulez, travalicarono presto i confini della Francia. Anche sotto garanzia dell'autorità di Apollinaire, il credo estetico-musicale professato dal D. venne accolto con attenzione e favore. A. Soffici ne parlò sulle pagine di Lacerba e lo segnalò ai futuristi italiani. 291, la rivista americana di Stieglitz, rilanciò oltre Oceano il sincerismo. Le sue quotazioni crescevano, si parlò di un possibile progetto che associasse Apollinaire, Picabia e lo stesso D., come autore di musica.
Invece, proprio al momento della consacrazione, nel più puro stile di un nomadismo culturale, egli scelse di percorrere altre strade. Ne dà conferma il poema drammatico Les chants de la mi-mort apparso su Les Soirées de Paris nel numero del luglio-agosto, 1914.
Il D. si lascia alle spalle la musica. D'ora in avanti quelle dello scrittore e del pittorescenografo saranno le sue attività prevalenti. A giustificare una scelta siffatta ci sono alcune dichiarazioni d'autore, che sottolineano il carattere assorbente e troppo vischioso della musica, e il timore che, abbandonandosi al suo magico potere di seduzione, si rischi di mettere da parte l'intelligenza critica e l'ironia e di ridisegnare un universo tolemaico, mentre è proprio la rivoluzione copernicana l'imperativo categorico dell'intellettuale moderno. Negli Chants de la mi-mort la musica è ormai solo un linguaggio tra gli altri, che affianca, senza prevaricarli, il linguaggio della letteratura e quello dei teatro. Citazioni di Apollinaire, parodie, scarti semantici, fantasmi dell'inconscio, però precari e coperti di ironia, manichini inquietanti intasano la scrittura, che appare un groviglio di forme dissimili e stridenti.
Nel 1915 il D. e il fratello rientrarono in Italia, infervorati dall'ideologia dell'interventismo e spinti dal medesimo impulso che aveva indotto Apollinaire ad arruolarsi. A Firenze, loro prima destinazione, entrarono in rapporto con gli intellettuali che gravitavano intorno a Lacerba e La Voce, in particolare con Soffici. A Ferrara, dove si stabilirono nel 1916, conobbero F. De Pisis e C. Carrà e strinsero un'alleanza che avrebbe originato la corrente metafisica. Nel giugno 1917, poi, il D. venne inviato a Salonicco, sul fronte greco, come interprete. Ne sarebbe tornato soltanto a guerra finita.
Il periodo fu culturalmente assai fertile. Il futurismo italiano nel vivo delle sue lacerazioni, il frammentismo vociano, la tensione d'avanguardia che si esprimeva in un problematico dadaismo nostrano furono, per il D., altrettanti innesti sul tronco delle precedenti esperienze parigine, vissute a fianco di Apollinaire. Attivissimo, egli pubblicò articoli su La Voce, diretta da G. De Robertis; scrisse su Avanscoperta nel 1916 e nel 1917, sulla Riviera ligure e su La Brigata ancora nel 1917; partecipò all'esperienza della Antologia della Diana e della Raccolta nel 1918. Nello stesso arco cronologico collaborò a fogli stranieri di indirizzo dadaista. Gran parte di questi materiali venne raccolta in Hermaphrodito, stampato a Firenze nel 1918 per i tipi della "Voce".
Il libro intitolato al mito della conciliazione dei contrari, al dio cacciato dall'Olimpo e costretto a soffrire la sua ingombrante diversità, è davvero un monstrum dove l'utopia dell'unità degli universi possibili del discorso si raddoppia in abnormi contraddizioni di generi, di procedimenti narrativi, di percorsi critici, di giudizi graffianti sulla civiltà contemporanea. I punti di vista si accumulano, ora distanziando ora avvicinando e ingigantendo le immagini; i linguaggi fanno ressa in una sinfonia barocca che accosta plebeismi a ricercatezze letterarie, dialettismi a lingue straniere., neologismi a repertori d'uso, nonsense a giochi di parole. L'identità del personaggio è vanificata, il dialogo si dissocia nella ripetizione continua e nell'afasia, le pulsioni dell'inconscio si ricoprono di finzione. Teatro, musica e scrittura mimano la sintesi e poi si scontrano in una lotta senza quartiere; il racconto d'avventura si inceppa, il proclama teorico-politico, al sommo dell'enfasi, è rovesciato in gioco. L'osceno, il brutto, la caricatura lievitano in uno stile espressionistico. A impaginare i singoli capitoli è un montaggio ironico ed autoironico che sembra riferirsi 'all'eversione nichilistica del dadaismo. Un'avanguardia, quella di Hermaphrodito, riscritta in un regime di scoronazione, un'avanguardia "fredda" che non si arresta di fronte alla denuncia dei limiti e dell'impotenza dell'arte: il D. dimette qualunque superomistica certezza futurista e demistifica, parodiandoli, gli istituti della cultura.
Rientrato da Salonicco, non senza aver trascritto con la penna dell'ironia lo sfascio della guerra in uno sfatto clima levantino, il D. ripensò le proprie scelte interventiste e, alla stregua di molti intellettuali del témpo, spinse il proprio esame di coscienza fino alla nostalgia di un ritorno all'ordine. D'altro canto la Roma del 1918, dove egli andò a vivere con la madre e il fratello, non aveva nulla della ville lumière, iconoclasta e libertaria, che aveva maturato il fertilissimo bubbone (così l'autore lo avrebbe definito affettuosamente anni dopo) dell'Hirmaphrodito. Valori plastici e La Ronda, appena agli esordi e già caratterizzate da un chiaro programma di normalizzazione, esprimevano bene il clima culturale della capitale e dell'intera penisola. Il D. collaborò ad entrambe e in Valori plastici assunse il ruolo, tra critico e teorico, di mentore e di decodificatore della "metafisica", una tendenza di gusto e uno stile pittorico, che aveva contribuito a delineare negli anni ferraresi.
In Valori plastici egli teorizza complessivamente una sorta di compromesso tra modernità e bellezza, innovazione ed armonia, stipulato in forza del primato della genialità dell'artista, quello stesso primato che Hermaphrodito aveva ironicamente negato. E tuttavia i valori dell'intelligenza non sono mai rinnegati e all'ironia si tributa un omaggio che non ammette repliche: "L'uomo dopo che ha patito la tragedia arriva al senso ironico". L'ironia salverà più tardi lo scrittore dalle certezze classicistiche del realismo magico e conserverà alla sua scrittura letteraria la capacità di mettersi in gioco e di non smorzare la sua verve critica e demistificante.
Quanto alla Ronda, il D. non barattò il fascino della prosa d'arte, là osannata, con la rimozione del suo retroterra ideologico-letterario. E infatti, sulla rivista di V. Cardarelli, pubblicò Delle cose notturne, un saggio sul sogno (un tema che Valori plastici aveva implicitamente toccato, dando ospitalità a quanti avrebbero fondato il surrealismo); tornò, nel 1920, sull'argomento dell'ironia, trasferita sul piano dell'esistenza (Prime chiose sull'ironia), ebbe modo nelle periodiche recensioni di letteratura francese di tributare al dadaismo un elogio non effimero, tanto più significativo se visto nel controluce del rondiano rappel à l'ordre. In una serie di articoli su Il Primato artistico italiano (Avventure e considerazioni di Innocenzo Paleari), giunse al punto di farsi beffe di trasparenza e regolarità della prosa d'arte. C'è poco da stupirsi allora, se le prove letterarie maggiori di quegli anni, La casa ispirata (apparsa su Il Convegno nel 1920) e Tragedia dell'infanzia (scritta in quell'arco di tempo, ma edita a Roma soltanto nel 1937), pur rinunciando al felice plurilinguismo di Hermaphrodito e temperandone gli eccessi di innovazione, racchiudono una ideologia del linguaggio oggettivamente refrattaria a quella autorizzata e ribadita dalla Ronda.
Nella Casa ispirata, poipubblicata in volume (Lanciano 1925), l'ordine strutturale del racconto è presto fatto vacillare da un nugolo di figure inquietanti, la cui natura di vecchiezza, di decadimento e di morte è piegata a produrre scandalo e a mettere in esponente il turpe e l'osceno, così da contraddire ogni compostezza da prosa d'arte. Nella Tragedia dell'infanzia la luminosità del bozzetto e di uno stile liricheggiante è posta in stallo dal recupero di fantasmi dell'inconscio, con chiosa psicoanalitica relativa, centrata sul tema della repressione sociale, che censura l'arte e l'infanzia, suo equivalente. Mentre grovigli edipici e fantasie erotiche invadono la pagina, gli apporti di altri linguaggi, il teatrale e il filmico soprattutto, stagliano sullo sfondo la finzione dello spettacolo e ingenerano straniamento che, alleato all'ironia, critica la scrittura letteraria e svela i trucchi delle sue "arti magiche".
Nello stesso periodo il D. lavorò anche in altre direzioni. Fu tra i curatori della mostra "Fiorentina primaverile" (1923), allestita dal gruppo che aveva operato nell'orbita di Valori plastici, e, nel 1923. Ottenne l'incarico di dirigere l'orchestra di una compagnia di balletti italo-russa, messa in piedi dallo scenografo Antonio Valente. Nel 1924 partecipò all'iniziativa, che ebbe per protagonisti M. Bontempelli, G. Prezzolini, O. Vergani e L. Pirandello, di lanciare il Teatro d'arte. La rappresentazione de La Morte di Niobe - dramma mimico il cui spartito musicale risaliva al 1913 e fu pubblicato dalla Rivista di Firenze (qui comparve un altro articolo del D., Vita difantasmi) - avvenne nel 1925.
La pièce, che aveva tra gli interpreti M. Morino, fu una breve parentesi di ritomo alla musica, nella forma, cara da tempo alla scrittura saviniana, della pantomima. Nello stesso 1925 venne annunciato Capitan Ulisse (Roma 1934), dramma che sarebbe stato rappresentato soltanto nel 1938.
Referente è il mito, ormai privo di sacralità. L'homofaber, coltivato dalla tradizione letteraria del primo Novecento, il navigatoreesploratore, di cui Ulisse è stato il simbolo già dannunziano, è irretito dall'angoscia, dal pessimismo, dall'impotenza. Il divino Odisseo non può far altro, infine, che svestirsi della sua stessa aureola, riconoscere la sua pochezza e venirsene, detronizzato e mortale, in mezzo agli uomini. L'idea scenica, in didascalia, prevede un progressivo restringimento del punto di vista dello spettatore, così da assecondare anche visivamente la destituzione del mito.
Nel gennaio del 1926 il D. sposò Maria Morino e, incoraggiato dal fratello Giorgio, facendosi precedere dall'invio di alcuni disegni, si trasferi a Parigi. D'ora in avanti avrebbe accoppiato al lavoro di scrittore quello di pittore.
È difficile stabilire quando sia avvenuto l'esordio del D. in pittura. De Pisis sostiene (in La cosiddetta "arte metafisica": cfr. Emporium, nov. 1938) che egli già dipingesse, dieci anni prima, secondo uno stile tra preraffaellita e boeckliniano. È un'ipotesi attendibile, se si considera la comunanza di interessi culturali ed umani che egli ebbe sempre con pittori di gran rilievo della sua generazione. Di certo rimane che egli pubblicamente cominciò a dipingere, con un linguaggio suo anche se qua e là orecchiante il fratello, che era artisticamente più maturo, nel 1926 a Parigi.
Qui ritrovò dopo due lustri Paul Guillaume, conobbe potenti galleristi, lavorò al cavalletto in un clima da bohème, firmò un rassicurante contratto con Jeanne Castel, segretaria del Guillaume, e finalmente, il 20 ott. 1927, ebbe il riconoscimento di una mostra personale, la prima della nuova stagione, presso la galleria Bernheim. A presentarlo fu l'amico di sempre, Jean Cocteau, che inventò per l'occasione un acrostico doppio, dove erano sottolineati i miti moderni creati dal pittore neofita. L'esposizione ebbe un enorme successo, anche di vendita.
Fantasmi familiari, rapporti triadici padre-madre-figlio, con le necessarie implicazioni psicoanalitiche, riempiono la tela. Luoghi di allusione al rimosso, archetipi dell'inconscio collettivo, segmenti di citazione convergono e si corrispondono, tramando a complessa simbologia del testo pittorico. La metamorfosi vi ha largo spazio e funge da censura o da travestimento di ciò che deve restare sepolto nella profondità inviolabile della psiche. Anche il collage è ampiamente usato in funzione straniante.
Un linguaggio pittorico siffatto lascia pensare ad una sterzata del D. sulla rotta del surrealismo, vitalissimo nella Francia del tempo. E tuttavia non si può fare a meno di notare che egli gravitò intorno a quest'area d'avanguardia nell'orbita più lontana. Ne dà conferma, in primo luogo, il fatto che i suoi contatti culturali privilegiassero, al di là delle collaborazioni con Tzara, Reverdy e Cendrars (per Les Feuilles libres, n. 44, 1927), autentici dissidenti quali Cocteau e Vitrac (di cui disegnò il ritratto in Humoristique). E lo ribadisce, sul piano letterario, Angelica o La notte di maggio, pubblicato a Milano nel 1927.
Il libro è un'operina buffa, di una musicalità leggera e divertita, che riscrive il mito di Psiche, dandogli per sfondo una quinta di cartapesta. La Zertilità mitopoietica della scrittura, così cara al surrealismo, è contraddetta dalla messa in scena, senza veli, della finzione letteraria e dei suoi apparati, che tolgono ogni aureola al personaggio chiave, non a caso un'attrice, ed ostacolano qualunque credibile rivelazione del profondo. Ed è proprio quanto distanzia Angelica o La notte di maggio da Nadja di A. Breton, pubblicata giusto un anno dopo.
Il D., in quello scorcio di tempo, fu attivo su più fronti. Collaborò a L'Ambrosiano e a vari periodici e, benché non se ne abbia notizia certa, partecipò ad altre mostre. Di sicuro suscitò l'interesse di Rosenberg, direttore della galleria L'effort moderne, e fu ospite della rivista omonima, che gli pubblicò un testo e alcune riproduzioni, e ottenne dal famoso gallerista l'incarico di decorare due ambienti della sua dimora. Nacquero così le serie della Città e delle Torri meravigliose. La loro gestazione risale al 1928, il medesimo anno in cui il bretoniano Le surréalisme et la peinture sconfessò lo stile attuale di Giorgio De Chirico, non prima di aver riconosciuto significato e valori innovativi della sua opera pittorica anteriore al 1918. Implicitamente al D. e al fratello era dunque attribuito il ruolo di lontani progenitori del surrealismo.
Nella capitale francese il D. intrecciò una fitta rete di relazioni culturali con i cosiddetti pittori italiani di Parigi, M. Campigli, A. Magrelli, F. De Pisis, G. Severini, R. Paresce, U. Tozzi. In Italia suoi lavori furono presentati alla Biennale di Venezia del 1930 e in una collettiva tenuta a Milano nello stesso anno: altrettanti segnali premonitori del suo prossimo rientro in patria.
Il linguaggio pittorico del D. non appare del tutto assimilabile al realismo magico praticato dagli altri e teorizzato nel catalogo della mostra milanese. L'esplorazione delle mitologie greche, un vero leitmotiv, ha luogo per via metamorfica e si presta spesso alla animalizzazione dei personaggi. L'individuazione e la rivelazione del carattere (sull'onda della metamorfosi e sulla scorta delle tesi di Weininger) si ribalta allora in una critica serrata dell'universo familiare e dei suoi rituali borghesi. E il gesto pittorico riscopre l'energia liberante del gioco, tradotto iconograficamente in una foresta allusiva alla profondità inestricabile dell'inconscio, che è dimensione straniata e però non rimossa. Una tematica, come si vede, che, pur in parte difforme dalle recenti proposte surrealiste, ha un tale spessore di cultura europea da sentirsi troppo stretta nelle gabbie autarchiche e nostalgiche del novecentismo o realismo magico nostrano.
Nel 1932 il D., con il gruppo dei pittori italiani, espose a Parigi nelle sale di Bernheim; alla fine dello stesso anno tenne una personale a Torino e presentò a Firenze, nella galleria della Nazione, una cinquantina di tele. Nel 1933 altre due mostre alla galleria Charpentier e poi alla galleria Milano della omonima città; intanto stava uscendo, sulla rivista giuridica I Rostri, la serie di disegni I processi.
I rapporti con il capofila dei surrealismo continuavano ad essere di odio e di amore. Gratificato, nel 1931, dell'inserimento tra i "leggibili" nel bretoniano Lisez ne lisez pas, ilD. ricambiò, nel 1933, con Achille énamouré mélé à l'Evergète, pubblicato sul n. 5 di Le Surréalisme au service de la révolution. Il testo, tradotto, sarebbe stato inserito tra i racconti di Tutta la vita nell'edizione 1969 del libro.
Alla fine del 1933, sull'onda del successo ottenuto, il D. ritornò definitivamente in Italia. Accolto dalle critiche rumorose di Maccari. che tuonava da Il Selvaggio, egli ribatté dalle pagine di Colonna, professando fede nel Novecento in pittura, rilanciando gli italiani di Parigi, contribuendo a stilare il Manifesto della pittura murale, che sembrò cedere al compromesso con alcuni desiderata del regime. Intanto ebbero agio di consolidarsi fertili amicizie, che concorsero a tracciare le nuove frontiere dell'arte del De Chirico. L. De Libero, assiduamente frequentato a Roma, fu un anello di congiunzione (l'altro era L. Sinisgalli) con la Scuola romana di Scipione e di M. Mafai e, mentre prese a cuore la sua narrativa (ospitandola nelle edizioni "La cometa"), gli organizzò e recensì nuove mostre in Italia. Una ebbe luogo nel 1934 a Roma, nella galleria Sabatello; un'altra, collettiva, coincise con la II Quadriennale del 1935.
Si compiva ora un avvicinamento al realismo. La serie di ritratti è forse tributaria al linguaggio della Scuola romana. Se sopravvivono fremiti espressionistici e se, nelle improvvise spezzature formali o nella iconografia animalescamente abnorme, ritornano i traumi del vissuto e gli incubi dell'infanzia, pure i segni di una normalizzazione appaiono evidenti. La pittura saviniana fa mostra di rientrare nei ranghi, sacrificando alla trascrizione delle figure umane, veristica per quanto pungente, lo scavo problematico nel profondo ed immolando alla regolarità strutturale e compositiva la tensione dissacrante dell'ironia.
Da quell'ironia non sembrava recedere, invece, lo scrittore. Dal 1934 il D. collaborò assiduamente a La Stampa, avviando un minidizionario che preparava la sua privata ed antitolemaica "enciclopedia". E, mentre il pittore dava a vedere, decorando le quattro sale dell'Istituto nazionale delle assicurazioni di Torino, di avvicinarsi pericolosamente alle mitologie correnti tra le due guerre, a quelle mitologie il D. si rifiutava, sia quando era l'animatore del Broletto, sia quando scriveva su Omnibus (dal 1937) ove recensì. secondo il gusto di un intellettuale europeo aperto all'avanguardia, il povero e gretto teatro italiano del tempo (le note teatrali dei D. si leggono ora in Palchetti romani, Milano 1981; gli scritti cinematografici in Il sogno meccanico, ibid. 1981), sia quando intervenne su Leopardi, con una nota irriverente e con un saggio dal taglio anticonvenzionale e moderno (cfr. brammaticità di Leopardi, Roma 1980). L'articolo leopardiano, pubblicato su Omnibus nel 1939, venne giudicato irriverente dagli organi censori competenti e fu tra i responsabili della chiusura della rivista di Longanesi.
Nel frattempo il D. pittore e il D. scrittore continuavano a mostrarsi dissociati. Il primo esponeva nature morte, ritratti e paesaggi, in uno stile canonico, nella sala del Lyceurn di Firenze. Il secondo nel 1938 pubblicò a Firenze Gradus ad Parnassum, successivamente rifluito in Tutta la vita, e nel 1940 Dico a te, Clio (ibid.).
La divagazione, le minuterie di uno stile talvolta aforistico, che accatasta gli oggetti in una sorta di ripostiglio disordinato, allegoria dei caos dell'esistente, sono gli strumenti e i referenti di un libro di viaggi in Abruzzo. li modello, invertito e scoronato, è quello della oleografia e dei bozzetto dannunziani. E a D'Annunzio, già altrove e sempre più in avanti parodiato, il D. rivolge un sarcastico sberleffo, ricordando ironicamente il parto del suo capolavoro nell'oasi del Convento di Michetti. Il fatto è che Clio, la storia, è qui vista in un'ottica rovesciata, quella dei senzanome e quella delle sue falle, delle sue discrepanze, dei suoi buchi neri. Clio si raddoppia in Thanatos, presenza ammonitrice, scandalosa ed allusiva all'impossibilità di magnifiche sorti e progressive nel presente storico.
La morte, d'altro canto, fa capolino nel saggio Della pittura surrealista (in Prospettive, IV [1940]) e, denunciandosi vero equivalente dell'inconscio, colloca il surrealismo del D. al di qua delle utopie di Breton e dei suoi seguaci più fedeli e al di fuori dell'opzione mistico-cattolica degli ermetici. Lo scritto è il giusto pendant dell'Autopresentazione che accompagnò, sempre in quell'anno, una importante mostra tenuta a Milano.
Nel segno della morte si spese la sua ultima febbrile attività letteraria. L'infanzia di Nivasio Dolcemare (Milano) è del 1941, Narrate, uomini, la vostra storia (ibid.) del 1942, Casa "la Vita" (ibid.) del 1943. Ascolto il tuo cuore, città (ibid.), La nostra anima (ibid.), Maupassant e "l'Altro" (Roma), l'introduzione ai Dialoghi di Luciano (Milano) sono del 1944. Nel 1945 uscirono il saggio che correda l'opera di Voltaire Vita privata di Federico II (Roma) e Sorte dell'Europa (Milane), Souvenirs (Roma), Introduction a une vie de Mercure (Paris), Tutta la vita (Milano).
Sia che attinga all'autobiografia, in una scrittura compostissima e translucida, sia che indulga a divertite biografie, nelle quali l'invenzione accompagna la realtà storica, interrompendola e costringendola a rivelare un volto senza trucco; che giochi con il cattivo odore dei piedi di Federico o insista su un naturalista della più bell'acqua, per seguire passo passo l'altro della sua follia che emerge fino a spodestare il narratore consacrato e mercantile, Savinio non smette di lanciare un messaggio di intelligenza. Èl'intelligenza dello scrittore che si mette alla berlina e attraverso il giardino dell'infanzia schiude ed esibisce la camera di decenza in cui l'umanità borghese ha celato brutture e vizi privati, per salvare una perbenista e rassicurante immagine pubblica; è l'intelligenza di un critico sulla corda, che non trascura alcun particolare e predilige le zone meno battute e tutto guarda da più punti di vista, specie quelli inusuali. L'intelligenza suppone una prassi demistificatoria che nulla ritiene intoccabile e nulla prende davvero sul serio, letteratura e scrittore soprattutto; e suppone ancora la leggerezza, quella levità lirica e danzante che da sempre il D. ha rintracciato in Nietzsche. Al filosofo, precorrendo i tempi, uno scritto saviniano di quegli anni rende giustizia, attribuendo alla propaganda nazista l'elaborazione, del tutto infedele, di una nietzschiana "filosofia del martello". Leggerezza è divagazione: così in Ascolto il tuo cudre, città, che di digressione in digressione ramifica un racconto a non finire; così in La nostra anima, dove il percorso divagante e la variazione manieristica confermano la destituzione del mito di Amore e Psiche e affogano in un rigagnolo di escrementi un valore costitutivo, l'anima appunto, della società e dell'ideologia borghesi. Ovunque l'immortalità è abbandonata e la inortalità e il "dover finire" trionfano come lo specchio deformante nel quale fatti e cose, gesti monumentali ed atti eroici si trovano schiacciati e ridicolizzati. Narrate, uomini, la vostra storia scherza con la vaporosità svolazzante di Isidora Duncan o spalma banalità quotidiana su un qualunque ipoteticor Nostradamus e sempre colloca la morte dietro l'angolo. Thanatos, che abita l'inconscio, è anche la figura della consapevolezza dei limiti soffocanti della scrittura, la cui mortale dimensione di superficie è bene mettere in conto, nel mentre si vagheggia una letteratura capace di andare oltre se stessa e si inseguono sogni di liberazione estetica del mondo. E questa morte si estende a macchia d'olio su Casa "la Vita" e Tutta la vita e dà una risposta, implicita ma chiarissima, al surrealismo di Breton. Il disegno di rendere cosciente l'incosciente e l'apostolico fine che il D. frappone tra la sua idea di letteratura e quella di Breton (che otto anni prima lo aveva chiamato padre del surrealismo nella Antologia dell'humour noir), stanno in tutti i racconti, fantastici e metaforici, metamoffici e surrealisti, del ciclo della vita e danno testimonianza, con sana crudeltà, delle contraddizioni alle quali la scrittura letteraria soggiace e che è suo compito esibire, senza pudore, in un radicale gesto di denuncia. Solo allora, vinta l'ideologia dell'immortalità che è nella logica di ogni dittatore potenziale o reale, o nella fallocentrica e tolemaica autoinvestitura di un D'Annunzio e di un Mussolini, si può pronunciare (avendo misurato la distanza tra l'atto della pronuncia e la realizzazione, tra la parola e la cosa) l'utopia di una nuova città del sole, europea e senza confini, profilata sullo sfondo di Sorte dell'Europa.
Questa intelligenza, per quanto il D. sembri non aver preso esplicita posizione o averla presa talvolta con qualche concessione di troppo all'establishment politico, rimanda ad'un retroterra ideologico e ad un concetto di cultura decisamente diversi da quelli autorizzati dalla dittatura fascista. Lo scrittore che, alla caduta del fascismo, proclamava una totale avversione, fisica e mentale, al duce, era lo stesso che prima, con la leggerezza della sua scrittura ' aveva ampiamente e ferocemente sconfessato i miti del regime. Lo aveva fatto, ad esempio, sulle pagine di Domus che, dal 1941 al 1942, ospitò le voci di quella copernicana ed iconoclasta Nuova Enciclopedia (poi pubblicata in volume nel 1977 a Milano), votata senza tentennamenti ad un illuministico esercizio di critica e di ironia.
L'instancabile attività e l'intelligente poliedricità dell'intellettuale, quasi nel rispetto di un modello rinascimentale, costituivano anche una risposta all'insensatezza e all'orrore stolido della guerra. Il D. non tralasciò occasione per far sentire la sua voce. Scrisse su Documento, ritornò alla musica occupandosene come critico su Oggi e Il Popolo di Roma (i suoi scritti musicali ora si leggono in Scatola sonora, Milano 1977), e continuò a dipingere: una serie di disegni, spesso su temi che avevano una contemporanea traduzione letteraria, venne presentata in due mostre tenute a Firenze nel 1942 e a Roma nel 1943, città che il D. e la moglie (con Angelica, la primogenita, e Ruggero, appena nato) avevano abbandonato nell'infuriare del conflitto, per trasferirsi a Poveromo in Versilia e nella campagna della Lucchesia.
A guerra finita, nel 1945, presso la libreria romana La Margherita, il D. espose un gruppo di opere che riproducevano esemplarmente l'itinerario ventennale del pittore. Nel 1946 fu invitato a collaborare al Corriere della sera e al Corriere d'informazione. Lo fece regolarmente con articoli di argomento vario: critica letteraria (su Kafka e su Ibsen, tra gli altri), note di viaggio, scritti sul teatro e sull'arte. Il D. fu anche ospite saltuario della Fiera letteraria e compose musica: è del 1946 il balletto Vita dell'uomo. Dal 1948 (l'anno precedente è quello della ristampa di Hermaphrodito, con una nota esplicativa in cui l'autore tornava a vagheggiare culturalmente l'epoca delle prime avanguardie storiche, e della stesura di una Autobiografia apparsa sulla rivista romana) egli lavorò come scenografo, costumista e, talora regista, per l'allestimento di alcune pièces al teatro alla Scala di Milano. La metafisica geometria di spaesanti strutture architettoniche, il vorticismo di fondali con ellissi, le autocitazioni con grovigli di foreste e piramidi di giocattoli, l'ironia di silhouettes in costume improntano i bozzetti preparatori per oedipus rex di Stravinskij (1948), Iracconti di Hoffmann di Offenbach 0949), L'uccello di fuoco di Stravinskij (1950) e per il balletto che il D. aveva composto nel 1946.
Il D. fu attivo, in questi annì, anche come autore teatrale. La famiglia Mastinu apparve su Sipario nel 1948; pochi mesi dopo venne rappresentato al Piccolo Teatro di Verona l'atto unico Il suo nome; per lo stesso teatro Emma B. vedova Giocasta fu messa in scena nel 1949 (dopo essere stata pubblicata su Sipario). E l'anno seguente Giorgio Strehler, per il Piccolo Teatro di Milano, scenografo lo stesso autore e attore Mario Feliciani, fu il regista della pièce del D., Alcesti di Samuele (Milano 1949).
Nello schema di un intreccio che ha precisi riferimenti alla storia più recente, alla disumanità della guerra e delle persecuzioni razziali; su uno scenario che vede ancora stagliarsi le figure del padre e della madre, a sancire, dentro involucri di cartone, lo statuto borghese e repressivo della famiglia, modello per antonomasia dell'ordine sociale vigente, si recita l'impossibilità della tragedia, travolta dalla violenza della banalità quotidiana. Orfeo ed Euridice possono tornare sulla scena solo a patto di sperperare la sublime essenza del mito in un rosario di situazioni ovvie, nelle quali la noia si coniuga con una vicenda di corna. t il tema, quest'ultimo, di Orfeo vedovo (Roma 1950), opera musicale rappresentata nell'autunno del 1950 al teatro Eliseo di Roma. Lo spartito è gravido di freddure, di calembours, di succose interpolazioni di un linguaggio basso e parodico.
Agenzia Fix e Cristoforo Colombo, nel 1951, vennero trasmesse, la prima in episodi, dalla radio; le scene, i costumi, la regia dell'Armida di Rossini, per il Maggio musicale fiorentino del 1952, furono l'ultima fatica teatrale del De Chirico. L'accoglienza del pubblico e della critica fu entusiastica e analogo consenso suscitarono due mostre personali allestite nel 1950 a Torino, per la cura di L. Carluccio, e a Roma nella galleria Lo Zodiaco.
I racconti dei Signor Dido (ora Milano 1978), apparsi all'inizio degli anni Cinquanta sul Corriere della sera, disegnano un ritratto dell'artista da vecchio, dimesso fratello di un Thanatos al quale ironia e straniamento assegnano una funzione ermeneutica, di intelligenza e di autoconsapevolezza.
Il D. morì improvvisamente a Roma il 5 maggio 1952.
Fonti e Bibl.: G. De Chirico, Memorie della mia vita, Roma 1945 (poi Milano 1962); G. Stocchi, Savinio, a cura di G. Stocchi, Roma 1969; U. Piscopo, Alberto Savinio, Milano 1973; Alberto Savinio, Milano 1976 (catalogo della mostra al palazzo reale di Milano, con scritti di R. Carrieri, D. Fonti, M. Fagiolo, M. Pinottini, R. Rognoni, F. Russoli, S. Zoppi); Alberto Savinio, Roma 1978 (catalogo della mostra al palazzo delle Esposizioni di Roma, con scritti di M. Fagiolo, D. Fonti, P. Vivarelli e testimonianze di M. Morino, G. Buffet Picabia, C. Carrà, E. Broglio, J. Fort Severini, M. Tozzi, G. Castelfranco, C. Belli, L. De Libero, G. Le Noci, G. Del Corso, G. Vigolo, G. Dorfles, P. Bucarelli, G. Debenedetti); W. Pedullà, Alberto Savino scrittore ipocrita e privo di scopo, Cosenza 1979; S. Lanuzza, Alberto Savinio, Firenze 1979; M. Carlino, Alberto Savinio. La scrittura in stato d'assedio, Roma 1979; Alberto Savinio, Ferrara 1980 (catalogo della mostra al palazzo dei Diamanti di Ferrara, con scritti di M. Fagiolo, S. Zanotto, W. Pedullà, M. Carlino, J. Allende Blin, D. Fonti, E. Coen); Con Savinio, Firenze 1981 (catalogo della mostra biobibliografica a Fiesole, con scritti di M. Calvesi, W. Scheiwiller, M. Savinio, L. Vinca Masini. V. Bramanti, S. Zoppi, D. Lombardi, M. Verdone, C. Nuzzi, con un'antologia critica e un contributo per una bibliografia di A. Savinio a cura di A. Mossetto Camprit); Savinio, disegni immaginati, Milano 1984 (catal. della mostra di disegni del D. presso la galleria "Il Segno" di Roma, nov. 1984).