Andrea Pisano (o da Pontedera o di Ugolino)
Orafo e scultore, capomastro dell'Opera del duomo a Firenze e Orvieto, nacque a Pontedera intorno al 1295 - il padre, ser Ugolino, era notaio in Pisa - e morì nel 1348 o 1349 (ultima menzione a Orvieto). I suoi figli, Nino e Tommaso, seguirono le orme paterne come, più tardi, fece anche il nipote Andrea di Nino.
La figura artistica di A. va ricordata soprattutto per aver egli applicato i principi giotteschi della pittura monumentale al genere del rilievo (Falk, 1940) e per aver dato, in definitiva, un impulso decisivo allo sviluppo della concezione della statua, nel passaggio dalla figura gotica panneggiata verso quella rinascimentale equilibrata e autonoma.
I Commentari di Ghiberti danno come indicazioni cronologiche relative alla vita di A. la 410a (1297) e la 420a (1347) Olimpiade, la seconda nota attraverso l'Anonimo Magliabechiano che cita un manoscritto diverso dall'unico giunto fino a oggi. L'incertezza su quale delle due versioni sia quella giusta inficia il valore delle indicazioni del biografo. Secondo Vasari, A. morì nel 1340 (Vite, 1550) oppure nel 1345 (Vite, 1568), all'età di 75 anni; in quest'ultimo caso sarebbe dunque nato nel 1270. Attualmente, tuttavia, accettando l'opinione di Supino (1904), si ritiene che A. appartenga alla generazione successiva a quella di Giotto e che sia nato intorno al 1290-1295. Quale anno della sua nascita può dunque essere presa di nuovo in considerazione l'indicazione ghibertiana della 410a Olimpiade (1297). La morte lo colse tra il 26 agosto 1348 (ultima menzione di A. come capomastro dell'Opera del duomo di Orvieto) e il 19 luglio 1349 (prima menzione di Nino come successore del padre a Orvieto). Meno probabile è l'ipotesi (Becherucci, 1965) che A. sia morto soltanto nel 1350, a Firenze; ipotesi che si basa su una affermazione non documentata di Vasari, secondo cui il maestro sarebbe stato sepolto nella cattedrale di S. Maria del Fiore.
Le sole opere certe di A. sono i rilievi in bronzo, firmati e datati 1330, dei battenti del portale meridionale del battistero di Firenze. Per il periodo antecedente al 1330 non esiste alcun documento che fornisca informazioni sulla vita e l'opera di Andrea. Si può affermare con certezza solamente che fu orafo, visto che nei documenti fiorentini degli anni tra il 1330 e il 1336 viene così definito. I rilievi in bronzo sono la sola testimonianza sicura in merito alla personalità artistica di A., rappresentano la summa delle esperienze da lui acquisite nei primi decenni della sua vita e da essi appare chiaramente l'indipendenza di A. dall'arte del rilievo di Giovanni Pisano (Wundram, 1959). I rilievi di A. derivano piuttosto da quelli dell'orafo pistoiese Andrea di Jacopo d'Ognabene, presso il quale egli potrebbe aver compiuto il proprio apprendistato (Wulff, secondo Lányi, 1933a; Wundram, 1959; Kreytenberg, 1984) e che, dal canto suo, è da porsi in relazione con l'arte senese.Nell'oreficeria e nella scultura senesi del primo Trecento si trovano infatti le fonti della concezione del rilievo di A., il quale pone le sue figure su uno sfondo piatto. È probabile che, sempre attraverso Siena, A. abbia assimilato anche influssi francesi: le figure non sono infatti poste come in equilibrio sulla cornice, ma poggiano saldamente sul terreno. I personaggi di A. mostrano inoltre una grazia e una delicatezza che riflettono in modo diretto l'arte di Duccio di Boninsegna (Kreytenberg, 1984). Nella composizione i rilievi denotano inoltre una costruzione sistematica e un'accurata ricerca dell'equilibrio di tutti gli elementi sulla superficie. In ciò si manifesta chiaramente l'influsso dei dipinti di Giotto, in particolare di quelli della cappella degli Scrovegni a Padova; appare infatti evidente che A., nel 1330, quando cominciò a lavorare ai rilievi in bronzo del portale meridionale del battistero fiorentino, aveva già una padronanza assoluta dei propri mezzi compositivi e non è certo pensabile che potesse averla acquisita solo confrontandosi con gli affreschi della cappella Peruzzi in Santa Croce a Firenze.
Mentre la notizia tramandata da Vasari circa un'opera scultorea giovanile di A. è risultata infondata, recentemente un pezzo di oreficeria è stato identificato con buona probabilità - anche se non senza dissensi - come opera del maestro, anteriore al 1330. Si tratta del crocifisso sul reliquiario della croce nel duomo di Massa Marittima (Calderoni Masetti, 1978; Burresi, 1983; Kreytenberg, 1984; di parere contrario: Dolcini, 1981; Santi, 1982). Il reliquiario, che reca l'iscrizione "Hoc Meus et Gaddus Ceus Andreasque magistri Pisis fecerunt argenti aurique ministri", potrebbe essere stato realizzato in collaborazione dai quattro orafi pisani tra il 1328 e il 1329, quando il territorio massetano fu concesso all'arcivescovo di Pisa Simone Saltarelli, costretto a lasciare la propria città in quanto oppositore dell'antipapa Niccolò V.
L'unica opera firmata e datata di A. è, come già si è detto, la porta di bronzo del portale meridionale (originariamente portale est) del battistero di Firenze; essa reca infatti l'iscrizione "Andreas Ugolini Nini de Pisis me fecit MCCCXXX". La genesi di questa porta è ben documentata: già prima che, il 22 gennaio del 1330, A. assumesse il suo ufficio di 'maestro delle porte', erano in costruzione i telai dei battenti nei quali sono inseriti i ventotto rilievi, le quarantotto protomi leonine e i listelli con i chiodi ornamentali. Il disegno dei telai dovette essere deciso tra il 26 novembre 1329 e il 13 gennaio 1330; il 6 novembre l'orafo fiorentino Piero di Jacopo era stato inviato a Pisa per copiare le porte di bronzo del duomo e il 13 gennaio erano già pronte le 'porte di legname', cioè gli stampi per ricavare i modelli in cera. Il disegno dei telai si può far derivare direttamente dalla decorazione ad affresco della cappella Pulci in Santa Croce (Kreytenberg, 1975). I documenti collegano il nome di Piero di Jacopo non solo con il disegno, ma anche con l'esecuzione dei telai dei due grandi battenti; i rilievi furono invece modellati da A. tra la primavera del 1330 e l'autunno del 1331.
A. doveva rappresentare la Vita di s. Giovanni Battista, in venti scene, e otto figure di Virtù, disposte nello zoccolo inferiore in modo tale che queste apparissero "come fondamento della vita del Battista" (Falk, 1940); nella composizione delle singole scene A. poté evidentemente godere di una notevole libertà. La ripresa di motivi dai cicli della Vita di s. Giovanni nei mosaici della cupola del battistero e negli affreschi di Giotto nella cappella Peruzzi si nota solo là dove i modelli già di per sé potevano corrispondere alla volontà creativa di Andrea. Fra l'ottobre del 1331 e l'aprile del 1332 tutti gli elementi delle porte, plasmati in cera - a eccezione di ventiquattro delle quarantotto protomi leonine -, furono colati in bronzo dal fonditore di campane veneziano Leonardo Avanzi con l'aiuto di due lavoranti. Una volta ultimata la fusione dei battenti terminò anche il lavoro di Piero di Jacopo, il cui onorario fu esaminato il 23 aprile 1332; il 17 novembre dello stesso anno egli ricevette infine dalla Fabbrica settanta fiorini; A. dal canto suo ricevette novantotto fiorini in tre rate, fino all'agosto del 1333, quale compenso per i rilievi figurati. Tra l'estate del 1333 e il marzo del 1335 egli plasmò le altre ventiquattro teste di leone; nell'inverno 1332-1333 il primo battente, il sinistro, era ultimato e già incardinato nel portale, mentre il telaio dell'altro nella colata si era danneggiato, deformandosi. L'orafo fiorentino Piero Donati, che con l'orafo Lippo Dini era stato impegnato nel 1331-1332 per il trattamento successivo dei telai dei battenti fusi da Leonardo Avanzi, e probabilmente anche dei listelli con i chiodi ornamentali, il 27 febbraio del 1333 ricevette l'incarico di ripulire, brunire e raddrizzare il secondo battente dietro compenso di quarantotto fiorini; ma quando, nel marzo del 1335, Piero Donati regolò infine i suoi conti con la Fabbrica, il battente era ancora deformato. L'incarico di raddrizzarlo fu eseguito da A. con successo a partire dal 27 dicembre 1335; per la festa di s. Giovanni (24 giugno) del 1336 la porta di bronzo era comunque terminata.
È importante sottolineare che gli orafi fiorentini impegnati nella realizzazione della porta di bronzo non possono essere considerati aiutanti di A. in quanto lavorarono in proprio per incarico della Fabbrica. Dai documenti non risulta peraltro in alcun modo che A., nell'esecuzione dei rilievi figurati, si sia valso dell'aiuto di una bottega: a quanto si sa, egli compí il lavoro da solo.
È probabile comunque che fino al 1330 A. operasse esclusivamente come orafo; l'ampliamento della sua attività da orafo a scultore potrebbe risalire all'estate del 1333, quando il lavoro alla porta di bronzo era ormai praticamente concluso. Va tuttavia tenuto presente che l'incarico di eseguire i rilievi per la porta del battistero già era tale da condurre l'orafo ai limiti della sua arte, se non addirittura oltre.
Le prime sculture in marmo di A. mostrano tracce della sua precedente attività di orafo e vi si individua, per es., l'attitudine a plasmare forme additive nella cera molle. Si pensi alla discussa statuetta di Madonna custodita a Berlino (Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, nr. 4994; Burresi, 1983; Kreytenberg, 1984) e alle statuette di Cristo e S. Reparata del Mus. dell'Opera di S. Maria del Fiore di Firenze, riconosciute concordemente (a partire da Schmarsow, 1887) come opere di Andrea.La risposta al quesito se A. possa essere considerato anche architetto dipende dalla valutazione del suo ruolo nella costruzione del campanile del duomo di Firenze: la questione è di fatto tuttora aperta.Poco tempo dopo che Giotto, il 12 o il 13 aprile del 1334, ebbe assunto la direzione dell'Opera del duomo, fu posta la prima pietra del campanile. La più antica versione della storia della costruzione, sostenuta ancora da Trachtenberg (1971), fu formulata da Nardini Despotti Mospignotti (1885), secondo il quale il progetto giottesco sarebbe da riconoscere nel disegno di un campanile, custodito nel Mus. dell'Opera della Metropolitana di Siena, in cui lo zoccolo corrisponde alla parte inferiore del basamento di quello fiorentino. Giotto, dunque, avrebbe progettato ed eseguito fra il 1334 e il 1337 solo la zona inferiore del basamento dell'attuale costruzione; la zona superiore dello stesso e i due piani successivi del campanile sarebbero stati progettati da A. e da lui eseguiti tra il 1337 e il 1343, mentre Francesco Talenti avrebbe aggiunto i piani ornati di bifore (1343-1351) e il piano superiore (1351-1359). Questo assunto non regge a un esame critico; Degenhart e Schmitt (1968) hanno dimostrato che il disegno del museo senese è un progetto locale, relativo al campanile del Duomo Nuovo, risalente al periodo intorno al 1340. Kreytenberg (1978) ha inoltre provato che tutto il terzo inferiore del campanile fu costruito secondo il progetto di Giotto: la parte inferiore del basamento sotto la direzione dello stesso tra il 1334 e il 1337, le parti successive sotto la direzione di A. tra il 1334 e il 1341.
Per aver tentato di discostarsi dal progetto di Giotto, A., stando a una notizia del suo contemporaneo Antonio Pucci (Centiloquio, LXXXV), dovette lasciare l'Opera del duomo; ciò potrebbe essere avvenuto nel 1341 e non nel 1343 come vorrebbe l'inattendibile notizia di Vasari.
Manca quindi qualsiasi elemento valido per poter definire A. architetto. Con tutta probabilità il progetto di Giotto fu sostituito da quello di Talenti solo nel 1347, in base al quale, negli anni tra il 1348 e il 1359, furono realizzate le parti mediana e superiore della costruzione.
Il campanile è decorato con rilievi nei due ordini del basamento. L'originaria unità architettonica delle due parti previste dal progetto giottesco è provata anche dall'iconografia delle raffigurazioni. Nell'ordine inferiore, a tre scene della Genesi seguono i "trovatori dell'arte" (Ghiberti), gli inventori dei mestieri, ordinati a seconda del rango e della conoscenza delle artes mechanicae (con in più i cinque rilievi di Luca della Robbia); questi acquistano dignità figurativa soltanto attraverso l'unione con le forze più elevate, "elementari, morali e spirituali [...], le quali dominano la vita dell'uomo" (Schlosser, 1896), cioè con i cicli dei sette Pianeti, delle sette Virtù, delle sette Artes liberales e dei sette Sacramenti nella zona superiore del basamento. Subito al di sopra, il campanile è ornato da nicchie con statue a grandezza naturale, quattro per ognuno dei lati. Delle sedici statue, otto sono state scolpite nel Trecento: la Sibilla tiburtina, la Sibilla eritrea, i re Davide e Salomone sul lato ovest e, inoltre, Mosè e tre profeti.Secondo quanto tramanda Ghiberti, Giotto avrebbe compiuto i disegni, "provvedimenti di sua mano [...] egregissimamente disegnati", per "le prime storie", intendendo con questo termine non solo le scene della Genesi, ma tutte le raffigurazioni dei trovatori dell'arte. In linea di principio è possibile che Giotto abbia fornito i modelli anche per gli altri rilievi (eccetto quelli dei Sacramenti, che sono diversamente strutturati) e per le statue, poiché all'epoca era un fatto consueto che i pittori disegnassero i modelli per gli scultori. Le sculture dipinte di Giotto possono dare un'idea di questi modelli. L'elemento dinamico nelle composizioni, specialmente in quelle dei trovatori dell'arte, e la monumentalità nella rappresentazione delle figure potrebbero convalidare l'ipotesi del modello giottesco.
Insieme al quesito concernente i modelli si pone il problema della ricezione della scultura classica, nei casi in cui la ripresa di motivi fu prerogativa degli ideatori. Il rilievo dell'Agricultura, che può farsi risalire direttamente a un modello antico che si trova nel Camposanto di Pisa, rende tuttavia verosimile l'ipotesi che, per il disegno delle sculture, Giotto abbia fatto ricorso, almeno occasionalmente, alla collaborazione di Andrea.
Non è possibile che l'esecuzione delle statue e dei rilievi trecenteschi (complessivamente cinquantotto, oggi tutti custoditi nel Mus. dell'Opera di S. Maria del Fiore a Firenze), fosse stata affidata, come vuole la vecchia teoria (Becherucci, Brunetti, 1969), a un unico scultore, cioè ad A., che avrebbe potuto compiere il lavoro solo con l'appoggio di una bottega. Ma non ci sono prove né dell'esistenza di una bottega di questo genere, né di eventuali componenti di essa. È probabile, piuttosto, che l'Opera del duomo, quale committente che disponeva in proprio di botteghe di diversa specie, abbia chiamato per l'esecuzione delle sculture contemporaneamente parecchi scultori, indipendenti l'uno dall'altro, alcuni dei quali potrebbero anche aver avuto una propria bottega nella città.
La questione dell'apporto di A. rispetto a quello degli altri maestri interessati all'esecuzione è estremamente controversa; secondo l'opinione più recente (Kreytenberg, 1984), nell'assegnare gli incarichi per i ventuno rilievi della zona inferiore del basamento - per il cui lato settentrionale originariamente non ne era previsto alcuno - Giotto avrebbe evidentemente favorito Andrea. Dodici dei rilievi sono infatti opera sua: la Creazione di Adamo, la Creazione di Eva, il Lavoro dei progenitori, Iabal, Tubalkain, Equitatio, Lanificium, Daedalus, Navigatio, Hercules, Agricultura e Sculptura. Inoltre, altri sei rilievi attribuibili al figlio Nino dimostrano chiara l'impronta di A.: Iubal, Medicina, Phoroneus, Theatrica, Architectura e Pictura. Un maestro anonimo eseguì il rilievo di Noè, un altro quelli dell'Armatura e di Gionitus.Dopo aver assunto, alla morte di Giotto (8 gennaio 1337) la direzione dell'Opera del duomo, A. poté dedicarsi solo raramente alla scultura. Dal 1337 al 1341 egli eseguì soltanto il rilievo della Madonna con il Bambino per la lunetta del piccolo portale sul lato settentrionale del campanile, all'altezza della zona superiore del basamento, i rilievi della Geometria e della Rhetorica e la statua di re Salomone, mentre il figlio Nino, il Maestro del Noè, il Maestro dell'Armatura, due altri scultori anonimi, Gino Micheli da Castello e, infine, Maso di Banco eseguirono gli altri rilievi e le statue. In quel periodo (1339-1340) A. dovette anche scolpire per incarico dell'Arte della lana, che era preposta all'Opera del duomo e la controllava, la statua di S. Stefano per il tabernacolo della corporazione a Orsanmichele; probabilmente anche il tabernacolo stesso è opera di Andrea. Valentiner (1954) poté identificare la statua di S. Stefano con una scultura nel Mus. dell'Opera di S. Maria del Fiore di Firenze che nel 1428 fu sostituita, in Orsanmichele, da una statua in bronzo di Ghiberti, sempre raffigurante S. Stefano, e venduta, tramite l'Arte della lana, all'Opera del duomo.
Nonostante la mancanza di documenti scritti che dimostrino la partenza di A. verso il 1341 da Firenze per far ritorno alla sua città d'origine, molte squisite sculture pisane fanno supporre che egli vi avesse spostato la sua attività. Si pensi al rilievo con S. Martino e il povero nella chiesa di S. Martino, alla Madonna del latte per la chiesa di S. Maria della Spina, ora nel Mus. Naz. e Civ. di S. Matteo, al gruppo di statue con la Madonna, S. Pietro e S. Giovanni Battista (forse originariamente nel duomo) ora in S. Maria della Spina e alla monumentale statua della Madonna sulla facciata del duomo. Vasari, e con lui la letteratura critica più antica, aveva peraltro attribuito la Madonna del latte e il gruppo di statue di S. Maria della Spina al figlio di A., Nino, al quale in seguito sono stati assegnati anche il rilievo con S. Martino e il povero, la statua della Madonna sulla facciata del duomo e, soprattutto, una statua di Madonna oggi custodita nel Mus. dell'Opera del Duomo di Orvieto.
Ai fini della riscoperta dell'ultima fase dell'arte di A. in quella che si era ritenuta l'opera giovanile di Nino, fondamentale è stato l'esemplare studio di Lányi (1933a), che con argomentazioni convincenti indicò come opera di A. la Madonna di Orvieto. Un puntuale raffronto critico-stilistico tra ciascuna delle citate opere pisane e quelle firmate da Nino, soprattutto la Madonna con Bambino in S. Maria Novella a Firenze, evidenzia chiaramente le differenze nei dettagli, nella composizione dell'intera figura nonché proprio nelle tendenze artistiche: mentre le figure di A. sono caratterizzate da una "impostazione piena di calmo equilibrio che in nulla infrange la legge di gravità", Nino crea "una figura che sorge dal basso verso l'alto in pieno contrasto con le leggi statiche" (Lányi, 1933a). Queste differenze nei tratti fondamentali della produzione artistica di A. e di Nino contraddicono anche l'opinione che padre e figlio abbiano lavorato assieme ad alcune o addirittura a tutte le sculture pisane (Supino, 1904; Becherucci, 1965; Burresi, 1983). Nonostante si debba supporre che A., a Pisa, lavorasse con i figli Nino e Tommaso in una sorta di impresa familiare in cui tutti condividevano locali, strumenti di lavoro e aiutanti, è tuttavia probabile che ciascuno abbia accettato ed eseguito lavori e percepito compensi in modo autonomo e indipendente.
Quando poi A., nel maggio del 1347, si recò a Orvieto per assumervi la direzione dell'Opera del duomo, la bottega pisana continuò evidentemente a esistere, poiché nella primavera del 1348 egli tornò a Pisa per ritirare una figura della Maestà, già terminata, e due blocchi di marmo per statuette di angeli, che potrebbero essere identificate nel gruppo della Madonna con angeli del Mus. dell'Opera del Duomo di Orvieto (Lányi, 1933a; Cellini, 1933). Nella statuetta della Madonna e in quella di uno degli angeli si riconosce la mano di A., nell'altro angelo la mano di Nino. È da ascrivere ad A. anche il frammento di un timpano con il rilievo del Cristo Eucaristico nel Mus. dell'Opera del Duomo di Orvieto (Kreytenberg, 1984), che può costituire un esempio delle opere che A. dovette realizzare a Orvieto: uno o più tabernacoli d'altare, con relativa decorazione scultorea dell'altare stesso. Occorre infatti sottolineare che al capomastro di un'opera del duomo non venivano affidati necessariamente compiti riguardanti architettura o edilizia; egli poteva essere anche chiamato a eseguire particolari lavori di decorazione.La morte, dovuta forse alla peste, strappò improvvisamente A. al suo lavoro. Nella direzione dell'Opera del duomo di Orvieto gli successe il figlio Nino, che rivestì la carica nel 1349 per tre mesi circa e dovette quindi, in pratica, soltanto completare i lavori iniziati da suo padre.
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