TARGHINI, Angelo
Nacque a Brescia nel 1799 da Sante e da Anna.
Visse a Roma, dove il padre, che era il cuoco di papa Pio VII, si era trasferito. La madre era cesenate. Le poche fonti disponibili lo descrivono come un individuo «collerico» (Montenovesi, 1938, p. 1): a quindici anni sarebbe stato ferito in una rissa scoppiata al teatro Capranica, da un certo Corradini; ebbe un litigio con alcuni impiegati dell’ospedale di Santo Spirito; nel 1819, infine, uccise un uomo, tal Alessandro Corsi, e fu condannato a dieci anni di carcere. Dopo una permanenza in Castel S. Angelo, la pena fu commutata nella relegazione a Pesaro e quindi nel ritiro nel convento di S. Silvestro presso Monte Compatri. Durante il periodo della carcerazione, Targhini conobbe Vincenzo Fattiboni di Cesena, che era stato coinvolto nel fallito moto antipontificio di Macerata del giugno 1817; questi l’avrebbe iniziato alla carboneria. Una volta libero, Targhini avrebbe dato vita alla prima ‘vendita’ romana, chiamata Aurora, poi Costanza. Egli avrebbe dichiarato ai suoi confortatori di avere trovato l’associazione già impiantata e che lui stesso era stato iniziato in Romagna: ma le date relative alla sua precoce presenza nella capitale paiono smentirlo. Essa è attestata, sulla base degli atti processuali, come esistente fra il 1824 e il 1825: «durante la sua restrizione per l'Omicidio commesso nel 1819 in persona d'Alessandro Corsi si istruì delle materie spettanti alle prescritte Società Segrete, quindi si aggregò alla Setta Carbonica, ed infine fu l'Istitutore di questa nella Capitale stessa, appena poté restituirvisi» (Trovanelli ,1960-61, pp. 53 s.).
Targhini, che viveva solo, era «debole di salute e semi paralizzato alla gamba destra in seguito a un insulto apoplettico» (Montenovesi, 1938, p. 1); possedeva inoltre una vigna fuori Porta Salaria e nel febbraio 1825 prese in affitto un appartamento alle Quattro Fontane, sede della ‘vendita’. L’organizzazione settaria parve, all’inizio, aver successo: si avvicinarono diversi giovani, calcolati in una sessantina, una parte dei quali romagnoli. Fra questi, Leonida Montanari, cesenate, medico a Rocca di Papa; Luigi Spadoni di Forlì, già soldato napoleonico e cameriere (in realtà studente di diritto), Ludovico Gasperoni di Cesena, studente di diritto, e un altro cameriere disoccupato di Cesena, Sebastiano Ricci. I romani, come il legale Pompeo Garofolini o Orazio Mordacchini, detto ‘il Catone’, appartenevano invece a un ceto apparentemente più solido (ibid., p. 3). Univa gli uni e gli altri, individui tra loro assai diversi, il senso dell’avventura proprio di quella generazione. I rapporti nel gruppo si guastarono rapidamente, come in genere avveniva nelle ‘vendite’: le motivazioni per le quali si aderiva erano infatti le più varie, digradando dall’idealità politica al puro esercizio di un potere relazionale, dalla curiosità per il mistero alla propensione alla delazione. Dopo alcune riunioni, per lo più inconcludenti e inutilmente verbose, sopraggiungeva la frustrazione col suo carico di rancore. Così avvenne anche a Roma.
Si fosse trattato della scoperta di delatori nelle persone di Orazio Mordacchini e di Emilio Pontini, un bellunese alquanto insondabile, fuggito dalla sua terra per non sottostare alla coscrizione, o della semplice vendetta per fatti personali, in ogni caso la sera del 4 giugno 1825 scattò il progetto omicida: Spadoni si recò a casa del Mordacchini per colpirlo, ma questi era a letto malato e desistette; Pontini invece fu attratto fuori di casa da Targhini, che, portatolo in una strada solitaria nei dintorni di piazza Farnese, lo pugnalò all’addome con uno stile, o fece in modo che Montanari lo pugnalasse. Abbandonato ferito, Pontini sopravvisse e non fu difficile, per la polizia, rintracciare nel giro di qualche giorno i protagonisti diretti dell’esecuzione e gli altri che li avevano assistiti. Il fatto sarebbe rimasto limitato alle cronache del tempo o ai documenti ufficiali se, a guidare il giudizio, non fosse intervenuto il cardinal Tommaso Bernetti, governatore di Roma e direttore generale di polizia. Questi non solo ottenne da Targhini un’abiura – «Pubblicamente abiuro a tutte le infami sette Muratoria, Carbonica, Eremitica, dei Federati di Sand, del Dovere, e della Speranza, alle quali troppo giovane mi ero incautamente invescato» (ibid., p. 8) –, ma procedette poi ad una condanna esemplare, mandando lo stesso Targhini e Montanari al patibolo, con giudizio del 21 novembre 1825. Comunicata ai due imputati il giorno successivo, la sentenza fu eseguita il 23 in piazza del Popolo mediante decapitazione.
Si era nell’anno santo; il 31 agosto, a Ravenna, il cardinale Agostino Rivarola aveva emesso la sua famosa sentenza contro oltre cinquecento individui ritenuti a vario titoli affiliati alle sette sovversive: da un lato la particolare visibilità internazionale di Roma, dall’altro la paranoia anticarbonara dell’élite alla guida dello Stato, crearono un ‘caso’. Targhini e Montanari, ghigliottinati da Leone XII, divennero ben presto ‘martiri’. Nonostante la palese marginalità della ‘vendita’ capitolina e la futilità dei motivi che avevano originato il tentato omicidio, le due vittime costruirono, si può dire, il proprio mito, fin dal modo in cui decisero di affrontare la morte, come risulta dai verbali dell’arciconfraternita di S. Giovanni Decollato, cui erano stati affidati per il conforto delle ultime ore: entrambi senza benda sugli occhi e senza alcun segno di conversione o di resipiscenza. L’uno – Targhini – tenacemente legato al suo ateismo identitario, cui era approdato partendo dal deismo e sviluppando poi un «athéisme philosophique» mutuato dalla lettura di Charles-François Dupuy. L’altro, Montanari, anticlericale fino al punto d’insultare i religiosi che lo accompagnavano: «mi hai rotto i c… Non voglio vedere più preti… Che vadano a … quanti n’esistono»). Targhini, che lo aveva preceduto, non era stato da meno: prima che il rullo dei tamburi soffocasse la sua voce, aveva gridato: «Popolo, io moro senza delitti, ma moro Massone, e Carbonaro» (Trovanelli 1960-61, pp. 61-67). Antonello Trombadori avrebbe sostenuto, riproponendo questo documento nel 1961, che Stendhal, tracciando il profilo dello sfortunato carbonaro Pietro Missirilli nel racconto Vanina Vanini, pubblicato nel 1829, si sarebbe liberamente ispirato alla vicenda dei due ‘settari’, raccolta durante i suoi soggiorni romani (1827-29). L’ipotesi è puramente indiziaria; certa, invece, è la persistente memoria di quella scena, consumatasi di fronte a migliaia di persone, durante i moti del 1831, quando furono loro riservate le prime onoranze; e molto più fra il 1876 e il 1887, principalmente in Cesena, città natale di Montanari. A Roma, ancora nel 1909, al tempo della giunta radicale e massonica di Ernesto Nathan, sarebbe stata poi inaugurata la lapide tutt'oggi visibile in piazza del Popolo. Nazzareno Trovanelli, intellettuale liberale cesenate devoto al culto del Risorgimento, sul finire del decennio Ottanta del XIX secolo, approfittando della potente amicizia del conterraneo Gaspare Finali, ministro con Francesco Crispi, si mise alla ricerca dell’archivio dei ‘confortatori’ per recuperare fonti dirette: trovò il verbale fra le carte dell’arciconfraternita di S. Giovanni Decollato e lo pubblicò in opuscolo nel 1890. Da lì il recupero in chiave violentemente anticlericale dei due ‘protopatrioti’. C’è tuttavia, anche nella ricostruzione ex post, una differenza: se il dottor Montanari, nei Ricordi di Massimo d’Azeglio così come nelle memorie di Eduardo Fabbri, conservò la purezza dell’idealista senza macchia, Targhini fu invece accompagnato dalla ‘leggenda nera’ del suo carattere cupo e perverso: «Fu il cattivo genio della maggior parte di quei suoi compagni, e li condusse o al patibolo, alle carceri, o all’esilio» (d’Azeglio, 1924, p. 429). Questa versione fu apertamente contestata solo nelle Memorie di Zellide Fattiboni, figlia di Vincenzo, che lo aveva avuto compagno di cella: «era un giovane buono, franco, leale, pronto ad affrontare qualunque cimento per la causa della libertà […] Se egli fosse vissuto in altre epoche […] si sarebbe potuto considerare un Angelo Brunetti, ossia Ciceruacchio secondo» (Fattiboni, 1885, p. 233). Non fu così che il regista Luigi Magni lo rese nel film Nell’anno del Signore (1969), preferendo attribuire a Montanari tratti più maturi e «romaneschi» e a lui l’efebico profilo del giovane estremista forestiero, bello e dannato. Per tutti e due, per sicurezza, la Chiesa aveva stabilito, fin dal 1825, la sepoltura al Muro Torto, fuori porta del Popolo, là dove si inumavano le meretrici. Gli indumenti erano stati bruciati e sui corpi era stato depositato un solido strato di calce. Dovevano essere dimenticati per sempre. E invece, proprio grazie al particolare trattamento riservato loro dal governo pontificio, un paio di trascurabili carbonari finirono per diventare degli eroi nazionali.
Z. Fattiboni, Memorie storico-biografiche al padre suo dedicate, Cesena 1885, pp. 228-233; M. d’Azeglio, I miei ricordi, Firenze 1924, ad ind.; N. Trovanelli, La decapitazione di Leonida Montanari e di A. T. (su documenti inediti), Cesena 1890; E. Del Cerro, Cospirazioni romane (1817-1868). Rivelazioni storiche, Roma 1899, pp. 121 s.; C. Premuti, A. T. e Leonida Montanari decapitati nel 1825, per ordine di papa Annibale della Genga, giugno 1909, Roma 1909; E. Fabbri, Sei anni e due mesi della mia vita. Memorie e documenti inediti, a cura di N. Trovanelli, Roma 1915, ad ind.; E. Michel, A. T., in Dizionario del Risorgimento nazionale. Dalle origini a Roma capitale. Fatti e persone, IV, Le Persone, R-Z, Milano 1937, p. 399; O. Montenovesi, A. T. e Leonida Montanari giustiziati a Roma nel 1825, Roma 1938; N. Trovanelli, Uno scritto del 1890. La decapitazione dei carbonari Montanari e T., [a cura di A. Trombadori], in Il Contemporaneo, III (1960-61), 32, pp. 45-71; A. Mambelli, I romagnoli nelle armate napoleoniche. Stati di servizio, elenchi e documenti, note bibliografiche, Forlì 1969, p. 152.