Angioini
Dal nome della contea d'Angiò (Anjou), istituita nel sec. 9° come avamposto contro i Bretoni, sono stati detti A. alcuni dei membri delle dinastie, locali e no, che si sono avvicendate nel governo di essa.
Grande rilievo hanno avuto in particolare i Plantageneti - così chiamati per estensione, in tempi moderni, del nomignolo del conte d'Angiò Goffredo il Bello (1113-1151), che usava portare sul berretto un ramoscello di ginestra (franc. genêt) - assurti al trono d'Inghilterra nel 1154 con Enrico II, figlio di Goffredo e di Matilde (figlia di Enrico I d'Inghilterra, che aveva portato in dote al conte d'Angiò il ducato di Normandia) e marito di Eleonora d'Aquitania, che, ripudiata da Luigi VII di Francia, aveva portato in dote a Enrico il ducato paterno (era figlia di Guglielmo X d'Aquitania); per questa ragione, a proposito di Enrico II, si è potuto parlare di un 'impero angioino', anche in vista dell'influsso che l'esempio delle istituzioni di quella contea avrebbe esercitato sulle istituzioni del regno inglese.
A. sono però soprattutto, in una prospettiva italiana, i discendenti di Carlo I d'Angiò (1226-1285), figlio di Luigi VIII e fratello di Luigi IX di Francia, che prese a chiamarsi così dopo che, nell'agosto 1246, quando era già da qualche mese conte di Provenza in seguito al matrimonio con Beatrice, figlia ed erede di Raimondo Berengario IV, fu investito dal fratello delle contee d'Angiò, appunto, e del Maine (sottratta agli Inglesi già da Filippo II Augusto e definitivamente francese dal 1234); e tale rimase anche dopo avere ottenuto, nel 1266, la corona del regno di Sicilia.
Va notato però che non tutti gli A., discendenti di Carlo I, hanno governato sulla contea d'Angiò. Carlo II (1248-1309), figlio di Carlo I, fu conte di Provenza, d'Angiò e del Maine e re di Sicilia. Il suo terzogenito Roberto (1278-1343) fu conte di Provenza e re di Sicilia.
Le contee d'Angiò e del Maine erano state infatti date da Carlo II come appannaggio alla figlia Margherita, andata sposa nel 1290 a Carlo di Valois, figlio di Filippo III e fratello di Filippo IV di Francia, che le cedette al figlio Filippo, il quale, diventato re di Francia (nel 1328, come Filippo VI), le passò, a sua volta, al figlio Giovanni che, successogli sul trono (nel 1350, come Giovanni II), le riunì in un primo momento alla corona, per poi concederle in appannaggio, nel 1356, al suo cadetto Luigi (nel 1360 l'Angiò fu eretto in ducato). A Luigi I (m. 1384), che nel 1382 aveva ottenuto anche la contea di Provenza, successero (in Angiò, nel Maine, in Provenza e, come subito si vedrà, nei diritti acquisiti sul regno di Napoli) Luigi II (m. 1417), Luigi III (m. 1434) e Renato (m. 1480), che per via di matrimonio divenne anche duca di Lorena. Re titolari di Napoli, Luigi I, suo figlio Luigi II e i due figli di questo (Luigi III e Renato) riuscirono a tratti a esercitare un dominio effettivo sul regno meridionale: in particolare, Luigi II dal 1390 al 1399 e, soprattutto, Renato, che, dopo un periodo di reggenza della moglie Isabella di Lorena, regnò dal 1438 al 1442 (quando dovette cedere il campo ad Alfonso V d'Aragona), lasciando un buon ricordo di sé. Nel 1476, Renato, che fino dal 1471 si era ritirato a vivere in Provenza con la seconda moglie Giovanna di Laval, rimise a Luigi XI, re di Francia, il ducato d'Angiò.
Al già menzionato Roberto, conte di Provenza e re di Sicilia, era succeduta nel 1343, in entrambi i domini, la nipote Giovanna I (1326-1382), figlia di suo figlio Carlo duca di Calabria, premortogli, e di Margherita figlia di Carlo di Valois. Per la definitiva rinuncia, nel 1372, alla Sicilia, perduta per gli A. dal lontano 1302 (pace di Caltabellotta), se non dal 1282 (Vespri siciliani), essa aveva regnato da ultimo su quello che era ormai a tutti gli effetti il regno di Napoli. Contrariamente alla sua designazione formale, per cui tale regno avrebbe dovuto andare al sunnominato Luigi I, duca d'Angiò, a impossessarsi della corona napoletana, ancora lei viva, era stato Carlo III (m. 1386), del ramo degli A. duchi di Durazzo, nipote di Giovanni (m. 1335), figlio di Carlo II di Sicilia e, quindi, anche fratello di re Roberto; a Luigi I era passata invece la contea di Provenza. A Carlo III erano succeduti sul trono di Napoli i suoi figli Ladislao (m. 1414) e Giovanna II (m. 1435), che - al pari del padre - si erano adoperati a contrastare le mai dismesse pretese che vantavano sul regno gli A. del ramo Valois, sia pure con qualche ondeggiamento da parte dell'instabile Giovanna II a favore di Luigi III e di Renato. Sia Carlo III che Ladislao furono inoltre anche re d'Ungheria, il primo per pochi giorni, il secondo solo nominalmente.
Altri A., prima di loro, avevano regnato sull'Ungheria, sulla base di salde premesse dinastiche poste da Carlo I, che, nel 1299, quando rimase vedovo di Beatrice di Provenza, aveva invano cercato di assicurarsi la mano di Margherita, figlia del re Béla IV, ma era poi riuscito a combinare i matrimoni di due suoi figli con due figli di re Stefano V, fratello di Margherita: rispettivamente, Carlo II con Maria, e Isabella con il futuro re Ladislao IV. Re, solo titolare, d'Ungheria fu anzitutto Carlo Martello (1271-1295), primogenito di Carlo II e di Maria d'Ungheria, che, designata da papa Niccolò IV a succedere al fratello Ladislao IV (m. 1290), aveva a sua volta ceduti i propri diritti al figlio. Regnarono invece sull'Ungheria: Carlo Roberto (Caroberto; Carlo I come re d'Ungheria), figlio di Carlo Martello, che, estintasi la dinastia degli Arpadi, vi regnò effettivamente dal 1321 al 1342, data della sua morte, sposando in terze nozze Elisabetta, figlia di Ladislao I il Breve (Lokietek) e sorella di Casimiro III il Grande di Polonia; Luigi I il Grande (m. 1382), figlio di Caroberto ed Elisabetta, che regnò anche sulla Polonia, dove nel 1370 si era estinta la dinastia dei Piasti; Maria (m. 1395), figlia di Luigi I il Grande, che gli successe in Ungheria (dove regnò da sola fino al 1387, anno dell'incoronazione di Sigismondo di Lussemburgo, ch'ella aveva sposato), mentre la sorella Edvige (m. 1399), rompendo l'unione personale stabilita dal padre fra i due regni, salì al trono di Polonia (1384) e sposò nel 1386 il granduca di Lituania Iagellone, che convertendosi al cristianesimo prese anche il nome di Ladislao.
Sempre in riferimento agli A. che regnarono sull'Ungheria va inoltre aggiunto che Andrea, figlio di Caroberto e di Elisabetta di Polonia, sposò nel 1328 Giovanna I, che, alla morte del padre, sarebbe divenuta erede della corona del regno di Sicilia. Ma, quando salì sul trono, rifiutò di far partecipe del regno il marito, che fu assassinato nel 1345. Luigi I il Grande d'Ungheria, fratello dell'assassinato, continuò però energicamente a far valere le sue pretese sul regno di Sicilia, in quanto nipote del primogenito (Carlo Martello) di Carlo II. Allo stesso modo, gli A. durazzeschi, che regnarono su Napoli dopo Giovanna I, tentarono, come s'è detto, a due riprese e senza successo, di impadronirsi del regno d'Ungheria.
Nella scia, infine, di Luigi IX (m. 1270), canonizzato nel 1297, ed emulando gli Arpadi, che avevano avuto più santi in famiglia, anche gli A. ebbero il loro santo domestico: Luigi (m. 1297), figlio di Carlo II e di Maria d'Ungheria, vescovo di Tolosa per pochi giorni e frate francescano, che fu canonizzato nel 1317. *
di C. Bruzelius
Per quanto riguarda carattere e devozione, è stato spesso rilevato il contrasto esistente tra Carlo I d'Angiò e suo fratello maggiore Luigi IX re di Francia. Questa contrapposizione si riflette anche nel loro mecenatismo: infatti, mentre il nome di Luigi è legato a un considerevole numero di fondazioni religiose e alla costruzione di molte chiese e cappelle, quello di Carlo, al contrario, è associato in Italia a fortificazioni più che a edifici religiosi. Laddove, invece, questo ultimo tipo di committenza si ebbe anche presso Carlo d'Angiò, esso è legato per lo più a motivazioni e cause politiche, come nel caso delle fondazioni di Realvalle e di S. Maria della Vittoria. Le ambizioni politiche e le campagne militari di Carlo sembrerebbero di fatto avere in gran parte impedito un suo ruolo attivo nelle arti di Francia. Resta un solo manoscritto riferibile alla sua committenza, con canti trovadorici, che può essere posto in relazione con gli ateliers parigini (Parigi, BN, fr. 844).
Nel 1255, Carlo donò terreni per la costruzione di una casa domenicana a Tarascona, in Provenza; ma la testimonianza artistica più importante da lui lasciata in Francia è rappresentata dai monumenti funerari dinastici dei conti di Provenza eretti per la moglie Beatrice di Provenza (m. 1267) e per il nonno (Alfonso II, m. 1209) e il padre di lei (Raimondo Berengario IV, m. 1245).
Nel suo testamento del 1261, Beatrice aveva espresso la volontà di essere sepolta con il padre e il nonno nella chiesa dei Cavalieri di S. Giovanni di Gerusalemme ad Aix-en-Provence (attualmente Saint-Jean-de-Malte), ma, dopo la sua morte, fu inumata in un primo tempo a Napoli. Soltanto dietro richiesta di Clemente IV, nel 1268, le spoglie di Beatrice furono trasferite ad Aix, anche se è probabile che l'effettiva traslazione sia stata rimandata fino a tutto il 1277. Di queste elaborate tombe dinastiche rimangono soltanto le teste mutile di Beatrice e di suo padre Raimondo Berengario IV (scoperte nel 1902, in occasione del restauro di una parete). La perduta tomba di Alfonso II è stata ricostruita da Sebastiano Pesetti nel 1828, sulla base dei disegni del monumento di A.-L. Millin (Voyage dans les départements du Midi de la France, Paris 1808, II, pp. 288, 289; figg. XLI-XLIII), unico documento che testimoni l'aspetto originario della chiesa.
È chiaro che le tombe nella chiesa di Saint-Jean-de-Malte erano destinate a trasformarla in mausoleo dinastico dei conti di Provenza, così come era avvenuto con le tombe dei re di Francia nell'abbazia di Saint-Denis. Il che appare particolarmente evidente nella ricostruzione della tomba di Alfonso, un tempo collocata sulla sinistra dell'altare maggiore, dove, accanto alla statua giacente del sovrano, si trovano quelle stanti di Raimondo Berengario IV e Beatrice, con quest'ultima che cinge la corona di Napoli e porta la croce per aver partecipato alla crociata del 1248. L'aspetto generale ricorda la tomba di Dagoberto a Saint-Denis anche se in versione più elaborata, con le due figure stanti situate ciascuna nella propria piccola edicola ai lati di Alfonso giacente. I particolari architettonici riprodotti da Millin denotano come i modelli fossero parigini: gli angeli negli spazi di risulta degli archi trilobi, crochets, fleurons e gâbles, ricordano, tutti, particolari plastici della Sainte-Chapelle. L'intera struttura doveva essere a sé stante.
La tesi che vede le tombe come monumento dinastico è ulteriormente rafforzata dal fatto che Beatrice era rappresentata due volte: anzitutto, come si è visto, alla destra dell'effigie del nonno, nel monumento dinastico ufficiale, e sulla sua propria tomba, come registrato da Millin. La testa superstite appartiene alla prima tomba, mentre della seconda non è rimasto nulla. Anche il sepolcro personale di Beatrice doveva essere oltremodo elaborato: l'effigie della regina era sormontata da una coppia di archi e timpani; la base del monumento appariva decorata da quadrilobi entro i quali si trovava raffigurato, sul lato anteriore, il Giudizio universale, mentre sul lato breve sottostante la testa della regina un quadrilobo conteneva la raffigurazione di tre fanciulli, senza dubbio i tre figli avuti da Carlo I, morti in tenera età. L'architettura e la decorazione sembrano derivare dai monumenti più prestigiosi di Parigi, come la Sainte-Chapelle e le facciate del transetto di Notre-Dame. Si può senz'altro ritenere che figure e base della tomba di Alfonso fossero più antiche (forse del quarto decennio del sec. 13°) e facessero quindi parte della ricostruzione della chiesa voluta da Raimondo Berengario, iniziata nel 1234 circa. È molto probabile che archi e timpani, come anche le due edicole, insieme alle figure in esse contenute, siano stati eseguiti tra il 1267, anno della morte di Beatrice, e l'inizio degli anni settanta.
L'ultima donazione di Carlo in Francia fu quella delle cave e foreste di Tonnerre, per il completamento della chiesa di Saint-Urbain a Troyes (volte del transetto e di parti della navata centrale). I lavori furono tuttavia interrotti, probabilmente per la morte del cardinale Pantaléon Achier - che aveva sollecitato l'intervento di Carlo in questa impresa - avvenuta nel 1286, e la chiesa perciò rimase incompiuta fino al 19° secolo.Occorre ricordare, inoltre, un ciclo di dipinti murali che commemoravano le imprese di Carlo in Italia nella Tour Ferrande a Pernes (Vaucluse), ciclo che può essere associato agli ambienti di corte di Carlo I d'Angiò e fu probabilmente commissionato dai conti di Les Baux verso il 1270-1280.
Carlo II divenne re di Napoli nel 1285, ma essendo all'epoca prigioniero degli Aragonesi, fu incoronato soltanto nel 1289, dopo la sua liberazione. Noto soprattutto per la protezione che accordò all'Ordine dei Domenicani in Italia e nelle sue contee in Francia (specialmente in Provenza), fondò la casa dell'Ordine a Tolone, elargì donazioni ai Domenicani di Aix-en-Provence, ma in primo luogo si impegnò personalmente nella fondazione e costruzione della grande chiesa domenicana dedicata alla Maddalena di Saint-Maximin-la-Sainte-Baume. I progetti per quest'ultimo edificio presero l'avvio subito dopo la scoperta di alcune reliquie di Maria Maddalena nel dicembre 1279. Nel 1283 le suddette reliquie furono poste in un elaborato reliquiario sormontato dalla corona del regno di Sicilia, appositamente inviata a Saint-Maximin da Napoli; il reliquiario andò distrutto durante la Rivoluzione francese. Quanto al progetto relativo alla costruzione di una nuova chiesa, nel 1283, per la conservazione delle reliquie, esso fu rimandato a causa della prigionia di Carlo e l'effettiva costruzione ebbe inizio soltanto nel 1295.
I documenti testimoniano il notevole interesse che Carlo II ebbe per questa impresa architettonica e il suo personale coinvolgimento nella stessa progettazione della chiesa. Composta da una navata centrale di nove campate, con navate laterali fiancheggiate da cappelle per tutta la loro lunghezza (otto per parte), la chiesa termina in un'abside centrale poligonale illuminata da numerose finestre; le navate laterali si concludono invece in cappelle poste diagonalmente rispetto all'asse dell'edificio, in una disposizione che è particolarmente frequente nella Francia nordoccidentale (si veda per es. Saint-Yved a Braine). Le dimensioni della chiesa, m. 81,50 di lunghezza e m. 43 di larghezza, con volte che raggiungono un'altezza di m. 28,70, mostrano fino a che punto la tradizionale austerità dell'architettura domenicana fosse stata soppiantata dalle esigenze del mecenatismo di Carlo II.
Nel complesso, la chiesa di Saint-Maximin è un pregevole esempio del Gotico del tardo 13° e primo 14° secolo. Ha un alzato a due livelli e la presenza di cappelle laterali lungo tutta la chiesa conferisce alla struttura una sezione piramidale che ricorda quella della cattedrale di Bourges. Questo assetto generale si ritrova anche a Sainte-Marthe a Tarascona e nella seconda cattedrale di Digne. Le navate laterali sono illuminate da finestre a lancetta sopra gli ingressi alle cappelle, per cui vi sono tre livelli di aperture create dalle finestre: quelle delle cappelle al primo piano, quelle delle navate laterali a un secondo livello e infine quelle del 'cleristorio' sotto le volte. La luminosità dell'interno è potenziata dalla struttura dell'abside che presenta due livelli di finestre a lancetta sovrapposte, secondo una disposizione simile a quella della chiesa agostiniana di Saint-Martin-aux-Bois nell'Ile-de-France. La ricercatezza delle forme architettoniche, l'eleganza e insieme l'austerità del monumento suggeriscono che il maestro Pietro, autore del progetto della chiesa (in stretta collaborazione con Carlo II) e direttore in prima persona dei lavori di costruzione, fosse originario dell'Ile-de-France. Malgrado il continuo sostegno della famiglia reale di Napoli, l'edificazione della chiesa di Saint-Maximin fu completata soltanto nel sec. 16°, epoca in cui essa divenne un importante centro di pellegrinaggio, mentre le fiere, istituite da Carlo II a favore della chiesa e del monastero, diventarono importanti punti di riferimento per il commercio locale. In contrasto con il vasto numero di importanti fondazioni religiose da lui istituite a Napoli, re Roberto non fu invece particolarmente attivo come mecenate in Provenza, nonostante egli si sia interessato dei lavori di costruzione della chiesa e del monastero di Saint-Maximin, senza tuttavia completarli. La protezione accordata da Roberto e dalla moglie Sancia alla fondazione è comprovata dai loro stemmi, visibili sulle volte delle navate laterali di questo edificio, stemmi che ritornano in una cappella della chiesa di Tolosa dedicata a s. Luigi, fratello maggiore di Roberto e vescovo della città. La moglie di Roberto, Sancia, sembra al contrario essere stata attiva nella fondazione di numerose case di Clarisse in Provenza, a Marsiglia, Aix-en-Provence, Sisternon e altrove. Di queste non sembra restare alcuna traccia, ma presumibilmente eguagliavano le grandi fondazioni di Sancia a Napoli per il medesimo Ordine.
Contrariamente ai conti della prima linea angioina, i duchi della seconda vissero nell'Angiò avviando numerosi progetti artistici e architettonici. Fino al 1471, la città di Angers fu la capitale dei loro possedimenti: tutti i membri della famiglia accordarono la loro protezione alla cattedrale di Angers e vi furono sepolti. Il legame di Luigi I con la corona era stretto, come pure il suo coinvolgimento negli affari del regno, poiché spesso membri della famiglia furono consiglieri dei reali di Francia. Anche i discendenti di questa linea - e in particolare Luigi II e i suoi due figli - diventarono sempre più cosmopoliti, grazie anche ai contatti con l'Italia, le Fiandre, la Borgogna e la Spagna. Benché rimangano soltanto poche opere d'arte sicuramente dovute alle elargizioni dei duchi di Angiò, un certo numero di rendiconti e inventari offre un quadro relativamente completo delle dimensioni e del carattere assunto dal generoso mecenatismo della famiglia. Tali resoconti testimoniano altresì il notevole interesse che gli A. dimostrarono nei confronti delle forme e delle caratteristiche delle opere d'arte prodotte per loro e per le loro residenze. Per quanto riguarda i dipinti, per es., essi stipularono accordi precisi non soltanto in relazione al soggetto e alle dimensioni, ma anche allo stile e ai modi di realizzazione dell'opera. Un certo numero di artisti e artigiani veniva assunto a lungo termine dagli A. mentre altri, che non facevano parte della loro cerchia, lavoravano su commissione solo per determinate opere d'arte.
Principe avido e ambizioso, Luigi I fu anche un importante mecenate delle arti, particolarmente orgoglioso fra l'altro della sua raccolta di opere di oreficeria. La sua committenza più famosa, tuttavia, consistette nella serie degli arazzi dell'Apocalisse di Angers, i cui cartoni furono destinati al castello della città dove ancora si trovano (Gal. de l'Apocalypse). È noto che Luigi nel 1379 ordinò altri arazzi (compresa una serie con la vita della Vergine), tessuti anch'essi da Nicolas Bataille.
In architettura la sua impresa più importante fu la ricostruzione del castello di Saumur, avvenuta tra il 1360 e il 1380. Le notizie relative al maestro dell'opera, Macé Darne, attestano che i lavori furono terminati tra il 1367 e il 1377. L'edificio di Saumur comprendeva un'elaborata scalinata, opera dei fratelli Cailleaux e di Simon Corbet. Durante quello stesso periodo furono eseguiti più modesti lavori di rinnovamento nei castelli di Angers (la cui costruzione era stata iniziata nel 1230 ca. da re Luigi IX) e Le Mans (lavori ugualmente documentati nelle relazioni di Macé Darne). Dopo il 1376, Luigi acquistò anche numerose case a Parigi per ingrandire il palazzo privato della famiglia; promosse inoltre importanti restauri nella chiesa di Saint-Maximin e sovvenzionò la chiesa di Sainte-Marthe a Tarascona.
A differenza dei suoi contemporanei, Luigi I non è noto per aver collezionato manoscritti e libri miniati; in compenso egli creò una straordinaria raccolta di preziose opere di oreficeria. Venduta, fusa o dispersa durante la sua vita per sostenere le spese delle sue campagne in Italia, la collezione vantava proporzioni notevoli documentate dall'inventario compilato tra il 1378 e il 1380, che elencava più di 3600 pezzi, ciascuno pesato e descritto dettagliatamente.
Soltanto un numero limitato di opere d'arte può essere oggi identificato con certezza come appartenente a questa preziosa collezione. Fra queste si contano due specchi dal dorso smaltato in modo eccezionalmente raffinato (oggi al Louvre), uno dei quali rappresenta Dio Padre tra Carlo Magno e S. Giovanni Battista, mentre l'altro raffigura la Vergine con S. Giovanni Evangelista e S. Caterina d'Alessandria ai due lati. Un altro reliquiario finemente lavorato, donato a Luigi da suo fratello Carlo V, re di Francia, si trova nel Mus. dell'Opera di S. Maria del Fiore a Firenze. Nel suo testamento, Luigi destinò lasciti alle abbazie di Maubuisson e Saint-Denis e alla cappella di Vincennes.
Luigi II completò il castello di Saumur e soprattutto - opera ben più importante - fece eseguire una sostanziale ristrutturazione del castello di Angers, dove ricostruì gli appartamenti reali e aggiunse una nuova cappella, terminata intorno al 1413. La più importante opera architettonica legata al suo nome è il grande castello di Tarascona in Provenza, iniziato nel 1400 ca., il cui impianto è basato in parte sulla ricostruzione del castello di Saumur, avviata da suo padre. Di un famoso ritratto di Luigi II che si trova nella Bibliothèque Nationale di Parigi venne eseguita una copia nelle Ore d'Angiò (Parigi, BN, lat. 1156), in occasione della rielaborazione del manoscritto nel 1434.
Luigi III, designato come erede dalla regina Giovanna II nel 1419, si dedicò soprattutto alla conquista del suo regno italiano e trascorse quindi poco tempo in Francia, non avendo modo di esercitare in campo artistico un ruolo attivo quanto quello degli altri membri della sua famiglia. L'opera più significativa realizzata nel suo periodo resta di fatto il proseguimento dei lavori di costruzione del castello di Tarascona.
L'altro figlio di Luigi II, Renato d'Angiò, fu uno dei più munifici principi e mecenati della sua epoca. Intimamente legato alla corte di Carlo VII, re di Francia, di cui era amico e consigliere, egli protesse anche alcuni dei più grandi artisti dei suoi tempi. Autore e poeta di notevole finezza egli stesso - due copie miniate della sua opera, il Livre du coeur d'amours épris, si trovano a Parigi (BN, fr. 24389 e 1509) e una a Vienna (Öst. Nat. Bibl., 2597); una copia del Mortifiement de vaine plaisance è a Metz (Bibl. Mun., 1486) - Renato fu, fino alla morte di Carlo VII, stretto alleato della corte e della politica del re ed ebbe di conseguenza una profonda conoscenza degli sviluppi artistici parigini. Nel contempo, un lungo periodo di prigionia in Borgogna (era stato catturato dal duca Filippo il Buono) lo aveva posto a contatto con l'opera dei più grandi maestri fiamminghi e quasi certamente, fra questi, con Jan van Eyck, valet de chambre di Filippo il Buono. Come re di Napoli, Renato conobbe anche gli importanti sviluppi dell'arte e dell'architettura italiana. L'apprezzamento che gli ispiravano le opere dei maestri italiani è comprovato dal fatto che assunse vari artisti e scultori i cui nomi si trovavano precedentemente sul libro paga del suo maggior nemico e rivale, Alfonso V di Aragona.
Il ruolo più importante svolto da Renato è stato quello di mecenate di artisti e pittori. È indubbio che l'educazione cosmopolita, gli anni trascorsi alla corte di Borgogna presso Filippo il Buono e gli stretti legami con la corte di Francia abbiano contribuito a formare i suoi gusti raffinati. Nonostante l'inventario della sua biblioteca, della cui stesura erano stati incaricati i Domenicani di Saint-Maximin nel 1480, non sia completo, esso dimostra tuttavia quanto fosse vasta la sua raccolta di manoscritti e libri miniati (tra i quali venticinque bibbie e numerosi testi teologici) e dà notizie della sua collezione, minore, di libri stampati. Restano quattro libri d'ore appartenuti a Renato (Parigi, BN, lat. 17332 e 1156; Londra, BL, Egert. 1070; Aix-en-Provence, Bibl. Méjanes, Res. 1) e un salterio di proprietà di Giovanna di Laval, sua seconda moglie, oggi a Poitiers (Bibl. Mun., 41). Anche la Vita di s. Dionigi commissionata da Filippo IV (Parigi, BN, fr. 209) faceva parte della biblioteca angioina; essa denota la devozione degli A. ai santi patroni dei re di Francia. Numerosi altri manoscritti sono stati ugualmente legati ai nomi di Renato e Giovanna di Laval e vi sono documenti che ne menzionano altri ancora commissionati o acquistati dai duchi.
Renato seguì la moda dell'epoca collezionando o commissionando medaglie antiche e moderne. Riguardo alla scultura, la sua predilezione andava ai maestri italiani ai quali commissionò, per la maggior parte, opere a soggetto religioso.Tuttavia, una delle opere più elaborate e di complessa esecuzione tra quelle eseguite su sua commissione era la tomba reale (oggi distrutta) nella cattedrale di Angers, un tempo situata sul lato settentrionale del coro della cattedrale. Progettata al ritorno di Renato dall'Italia, la tomba fu iniziata nel 1447-1448, ma non fu terminata se non poco prima della morte e sepoltura dello stesso Renato. Dopo il 1450, il lavoro venne eseguito sotto la direzione di Giovanni Poncet e di suo figlio Pons. Alla morte di Giovanni, nel 1452, l'opera venne interrotta e ripresa soltanto molti mesi più tardi da suo figlio che, dopo il 1459, la continuò insieme a Giacomo Morel. La decorazione pittorica invece fu eseguita da Coppin Delf e dalla sua bottega dopo il 1472.
Il monumento sepolcrale era costituito da un sarcofago di marmo nero decorato con stemmi, sul quale erano distese le figure di Renato e Isabella di Lorena, accompagnati da angeli. Al di sopra dei giacenti era collocato un grande dipinto del re defunto che, ridotto in forma di scheletro, coronato e rivestito dal manto reale, lasciava cadere lo scettro: un'allegoria della vanità delle cose del mondo terreno. Da un lato della tomba era collocato un altare con un retablo scolpito, raffigurante la Crocifissione, e un tesoro sormontato da una predella, simile a quella situata sopra la tomba, sulla cui sommità erano raffigurati tre cavalieri che reggevano le armi e l'elmo del re. Come ha fatto notare Robin (1985, p. 239), la composizione della tomba e soprattutto il fatto che essa sia situata contro un muro, anziché presentarsi in forma di struttura isolata, indicano che fonte di ispirazione erano stati i prototipi napoletani, in particolare la tomba di re Roberto a S. Chiara a Napoli.
Tra il 1440 e il 1480, Renato continuò ad acquistare nuove proprietà e a restaurarle e dopo il suo ritorno dall'Italia, tra questi edifici, i manieri di campagna prevalsero sui castelli fortificati. Nell'Angiò, dopo il 1447, egli ricostruì una dimora nel maniero di Launay, vicino a Saumur, e ristrutturò inoltre residenze a Chanze, Rivettes, Le Menitré e Reculée; in Provenza egli apportò notevoli modifiche al castello di Tarascona aggiungendo una nuova cappella all'interno del cortile centrale. Una parte importante di tali lavori nelle vecchie residenze era rappresentata da sontuose nuove decorazioni in stile flamboyant che contribuivano non poco ad attenuare il carattere prevalentemente militaresco di queste fortificazioni. Durante il periodo di Renato il castello di Tarascona fu arricchito da sfarzosi ornati scultorei, particolarmente nel cortile interno; così pure venne ristrutturato il maniero di Gardanne, mentre varie residenze giudicate ormai vecchie vennero sostituite con nuovi castelli. Dopo il 1470, Renato modificò sostanzialmente anche i suoi nuovi acquisti a Perignanne, Olivet, Le Pin e Saint-Jerome. Nel 1476 iniziò la costruzione di un nuovo palazzo ad Avignone e di un edificio di fronte al castello di Tarascona; nel Barrois apportò aggiunte e modifiche ai castelli di Bar e Louppy. La maggior parte di questi castelli e manieri era decorata sfarzosamente con sculture e dipinti murali dei quali peraltro quasi nessuno si è conservato.
Renato d'Angiò seguì l'esempio di Luigi I, sovvenzionando la chiesa di Sainte-Marthe a Tarascona e altre chiese e abbazie nella Provenza e in altri luoghi della Francia. Una certa voluta evocazione della prima linea angioina trapela anche dal suo appoggio alla chiesa di Saint-Maximin-la-Sainte-Baume. È possibile che egli cercasse di emulare la scoperta delle reliquie di Maria Maddalena da parte di Carlo II: egli stesso infatti recuperò le reliquie c.d. delle Tre Marie nel villaggio di Notre-Dame-de-la-Mer, presiedendo alla fastosa cerimonia della loro traslazione, alla quale parteciparono anche numerosi nobili e dignitari della Chiesa.
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di M. Righetti Tosti-Croce
La committenza angioina si presenta fino dagli inizi rilevante per numero ed entità di imprese e caratterizzata da un linguaggio nuovo per l'Italia meridionale e insieme ricco di esiti per la cultura artistica italiana, scaturito dalla simbiosi di elementi del lessico locale con altri di schietta origine transalpina.
È da premettere che per linguaggio architettonico locale si intende quel lessico, già di per sé esito della particolare koinè culturale determinatasi nei cantieri federiciani, che traeva la sua specificità da elementi come l'architettura cistercense, la conoscenza del mondo islamico, la matura consapevolezza nel rapporto con l'antico e il costante aggiornamento sulla cultura architettonica transalpina propria di cantieri come Reims, Strasburgo e Bamberga.
I nuovi apporti linguistici, portati nell'Italia meridionale direttamente dalle maestranze transalpine al seguito di Carlo I d'Angiò e della sua corte, aggiornano questo linguaggio, le cui fonti risalivano per lo più agli anni trenta e quaranta del sec. 13°, sugli ultimi fatti architettonici, spostando però in alcuni casi l'ubicazione dei bacini culturali di afferenza verso regioni in un certo senso più periferiche rispetto ai centri di elaborazione della grande architettura gotica, come in effetti appaiono sia l'Angiò, sia la Provenza, feudi transalpini della dinastia. Come chiave di lettura di questo particolare momento di equilibrio di due linguaggi si può assumere una delle prime opere architettoniche intraprese da Carlo I d'Angiò, il rifacimento del castello di Lucera intorno al nucleo costituito dal castello federiciano.
È prima di tutto da rilevare come Carlo, almeno nella prima parte del suo regno, appaia teso a sovrapporre la sua presenza su molti edifici e complessi di origine federiciana; al di là di forse troppo facili, anche se legittime, letture ideologico-politiche si deve tener conto naturalmente di problemi militari, come l'evidente necessità di controllo capillare di un regno dove i nuovi feudatari di origine francese, non solo totalmente estranei al contesto sociale meridionale, ma che spesso avevano anche brutalmente soppiantato la vecchia nobiltà locale, dovevano indubbiamente riservare molta attenzione ai non facili rapporti con il vasto territorio. Ora è noto e appare evidente come i castelli federiciani - siano stati essi strutture di difesa, palazzi di caccia e soggiorno dell'imperatore o basi militari - avessero costituito su tutto il territorio meridionale una rete di insediamenti, le cui mutue relazioni sono spesso ancora da chiarire.
È inoltre da rilevare il vivo interesse personale dimostrato da Carlo I d'Angiò per l'architettura militare: nel 1275 fornì il progetto per la torre-faro di 'Lucaballo' a Brindisi, che però cadde rovinosamente dopo solo cinque anni. A Lucera, dopo l'attacco sferrato nel 1269 contro i saraceni che Federico II aveva radunato nella città da tutte le parti del regno - costituendovi una colonia fedele alla casa di Svevia anche dopo le più traumatiche sconfitte -, a partire dal 1270 Carlo diede inizio a un grande ampliamento del castello creando una cinta fortificata, in parte tangente sul lato nordorientale al palazzo di Federico II.
I lavori, che si protrassero fino al 1283 e che compresero la costruzione di un acquedotto, di un nuovo palazzo e di una cappella, videro impegnati all'inizio Pierre d'Agincourt e poi dal 1274 Riccardo da Foggia e in seguito Giovanni di Toul; il primo, al servizio degli A. per circa trenta anni e indicato anche come protomagister operum curie, era originario di Beauvais, nel Nord della Francia, mentre il secondo, attivo per Carlo I d'Angiò già dal 1269 quando riceveva l'incarico per la Cappella Palatina del castello di Pantano presso San Giovanni in Carmignano, doveva appartenere a quel cospicuo gruppo di artisti cresciuti nella Capitanata a contatto di cantieri come quello di Castel del Monte, che contava, tra le altre, personalità come gli scultori Bartolomeo da Foggia e il figlio Nicola di Bartolomeo, oppure l'altro architetto, Giordano di Monte Sant'Angelo, che lavorò nel castello di Manfredonia. Dopo i lavori di Lucera Riccardo da Foggia è ancora ricordato, anch'egli con l'ambito titolo di protomagister, nei lavori di rifacimento del castello di Melfi.
A Lucera comunque Pierre d'Agincourt e Riccardo da Foggia ebbero modo di confrontarsi direttamente, mettendo in opera nello spazio di poche centinaia di metri due modi solo apparentemente diversi di intendere l'architettura militare. A Pierre d'Agincourt viene attribuito il progetto delle due torri cilindriche note con le dizioni di 'torre della Regina' e 'torre del Leone', caratterizzate dall'alta base scarpata a bugnato, dalla parte superiore a muratura liscia aperta da piccole feritoie e coronata dal giro di mensole di sostegno delle caditoie, forse previste originariamente in legno ed essenziali per il tipo di difesa verticale. Questa tipologia di torre è considerata una novità nel campo dell'architettura militare introdotta nell'Italia meridionale dagli architetti angioini (Santoro, 1982) e della quale sono stati individuati alcuni precedenti transalpini nel mastio di Coucy-le-Château per la parte basamentale a bugnato (Bertaux, 1896) o ancora nel sec. 12° nel castello di Montbrun per il tipo della torre cilindrica (Santoro, 1988), ma è anche da ricordare che torrioni a base circolare erano stati adottati nell'architettura federiciana, per es. a Castel Maniace a Siracusa o a Castel Ursino a Catania (Agnello, 1959). Sembra dunque probabile che le maestranze angioine abbiano piuttosto introdotto novità tecniche relative alla difesa militare, come l'adozione di caditoie, elemento che compare solo dopo le crociate e che è connesso alla presenza della base scarpata, funzionale a un potenziamento della difesa verticale (Santoro, 1988).
Tra le due torri cilindriche di Lucera, riferite all'opera di Pierre d'Agincourt - le quali segnano dunque l'apparire nell'Italia meridionale di una tipologia nuova nella sua immagine globale e nella sua efficienza tecnico-bellica - e che sono poste alle estremità del lato nordoccidentale, si dispongono i torrioni poligonali, la cui erezione è stata attribuita a Riccardo da Foggia. A impianto pressoché pentagonale, essi appaiono in singolare contrasto con i torniti volumi della torre della Regina, denunciando l'evidente matrice nel gusto per blocchi squadrati come cristalli che è propria dell'architettura federiciana di Puglia e Lucania; un precedente diretto per articolazione dei volumi su base pentagonale può essere individuato per es. nella torre di Rocca Janula, presso l'antica San Germano (od. Cassino). Torri poligonali a profilo irregolare, di cui tre approssimativamente pentagonali, compaiono anche nella cinta esterna del castello di Melfi, di origine normanna, già ristrutturato in età sveva, che fu rinforzato a partire dal 1277 per volere di Carlo I con l'aggiunta di avancorpi fortificati (fossato e baluardo) e con l'innalzamento delle torri. Ai lavori di Lucera sono testimoniati nel 1281 anche un ingegnere francese, Thibaud d'Alzun, e uno greco, Nicola di Costantinopoli, impegnati entrambi nella costruzione di un ponte levatoio.
Vari castelli federiciani furono oggetto di interventi angioini miranti soprattutto alla creazione di nuove strutture di difesa, rese necessarie dall'evoluzione che la tecnica bellica aveva subito nel corso del Duecento; ne furono interessati, per citare qualche esempio, il castello di Oria (Brindisi), quello di San Gervasio (Potenza), che fu adibito dagli A. all'allevamento di pregiate razze equine, e quello di Lagopesole, dove all'intervento angioino va riferita la costruzione della cappella, inserita trasversalmente all'asse longitudinale del castello e internamente articolata con un sistema di accesso differenziato su due piani - il superiore affacciante su una balconata - chiaramente derivato dagli esempi di cappelle di palazzo francesi del sec. 13°, articolate su due piani per consentire la contemporanea fruizione dello spazio liturgico a componenti socialmente separate.
Nel castello di Manfredonia, costruito da Manfredi a partire dal 1263 a difesa della città da lui stesso fondata, l'intervento angioino, tra il 1277 e il 1282, previde la costruzione di una nuova cinta muraria i cui lavori, diretti da Pierre d'Agincourt, furono in parte affidati al magister Giordano di Monte Sant'Angelo, reduce, in collaborazione con il fratello Marando, dalla costruzione nel 1274 del campanile ottagonale che spicca a fianco del santuario di S. Michele Arcangelo nella sua città d'origine; evidenti vi appaiono, a partire dalla stessa scelta della figura geometrica di impianto, i tributi a Castel del Monte, riconfermati all'interno dall'assetto delle volte ottagone, anche se esse ormai appaiono prive della vigorosa tensione strutturale degli esempi federiciani, e dal profilo stesso del portale (Calò Mariani, 1984).
La costruzione del campanile, promossa dallo stesso Carlo I d'Angiò, rientra nel complesso di interventi sul celebre santuario dell'Arcangelo che ne modificarono profondamente l'aspetto. I lavori comportarono l'interramento delle strutture longobarde e la costruzione dell'alta navata voltata a crociera che si addossa all'ampia apertura della grotta; fu inoltre costruita la profonda scala coperta che sfocia nel piccolo atrio inferiore, dinanzi alle porte bronzee del santuario (Calò Mariani, 1984). Scala e navata non offrono elementi per una precisa datazione, ma la lapide che data il campanile al 1274, insieme con la notizia della decisione presa dal re nel 1271 di rendere più agevoli i collegamenti tra Manfredonia e Monte Sant'Angelo (Calò Mariani, 1984), consente forse di riferire a questo arco di tempo i lavori di ristrutturazione del santuario.
Negli stessi anni la vasta iniziativa architettonica del re si estendeva affrancandosi in qualche modo dai condizionanti precedenti storici e promuovendo la costruzione di nuovi edifici, concepiti come edifici memoriali della nuova dinastia; in questo senso può essere appunto letta la fondazione delle due nuove abbazie cistercensi di S. Maria della Vittoria e di S. Maria di Realvalle.
Entrambe furono fondate nel 1274; la prima, con lo scopo di ricordare anche nell'intitolazione la vittoria del 1268 su Corradino di Svevia, fu costruita nella pianura teatro della vittoria e con evidente riferimento all'abbaye de la Victoire che il nonno di Carlo, Filippo II Augusto, aveva fondato nel 1222 dopo la battaglia di Bouvines (1214); la seconda abbazia sorse invece presso Scafati (Napoli) e dal suo nome si evince l'intenzione di creare alle porte di Napoli un polo religiosodinastico analogo a quello che Bianca di Castiglia, madre di Carlo, aveva costituito presso Parigi erigendo l'abbazia cistercense di Royaumont.
Il programmatico riferimento al paese d'origine fu avvalorato dal fatto che le due abbazie furono affidate, sia per la costruzione, sia per il popolamento, a monaci e conversi francesi provenienti rispettivamente dalle fondazioni cistercensi di Le Loroux (Maine-et-Loire) e Royaumont (Ile-de-France).
Dei due complessi sopravvivono pochi resti, talora di problematica lettura, ma sufficienti a dimostrarne il ruolo di punti di contatto tra esperienze francesi e italiane, con la conseguente immissione in aree apparentemente periferiche di cadenze di puro Gotico rayonnant, del genere tipo di quelle attestate dalla base modanata della colonnina del portale dell'ambiente di passaggio dal chiostro verso l'esterno, rinvenuta durante i recenti scavi dell'abbazia di S. Maria della Vittoria (Righetti Tosti-Croce, in corso di stampa).
È possibile ricostruire per l'abbazia abruzzese anche se a grandi linee (grazie a scavi di inizio secolo e a fotografie aeree) l'impianto di una chiesa a tre navate con coro rettilineo e deambulatorio quadrangolare, del genere di quella disegnata nel taccuino di Villard de Honnecourt, che si rifà al tipo di Cîteaux III, proponendo così una soluzione inedita per l'Italia, ma con immediato seguito, come già notava Wagner-Rieger (1956-1957, I, p. 208), nella pianta del duomo di Siena precedente all'ampliamento del 1317. Più difficile, in mancanza di scavi, è analizzare la struttura di Realvalle; sono superstiti solo la parete meridionale della chiesa - aperta da lunghe finestre a lancetta e scandita da semicolonne in sei campate - e buona parte degli edifici monastici, anche se alterati da usi impropri e dal degrado ambientale. Ciò nonostante, sembra ancora accettabile l'ipotesi (Wagner-Rieger, 1959; 1961) che individuava proprio in questa abbazia il tramite per il quale le forme dell'abbazia madre di Royaumont poterono passare nel contesto napoletano, dando forma all'articolata struttura del coro del S. Lorenzo di Napoli. La costruzione, iniziata non prima del 1270 sul luogo di un edificio paleocristiano, già nell'antitesi tra lo spazio del corpo longitudinale e quello del coro rivela l'esistenza di fasi diverse di lavori e un deciso cambiamento del progetto originario: alla prima fase edilizia è stato riferito proprio lo spazio del coro articolato con deambulatorio e sette cappelle radiali di forma poligonale, voltato con crociere costolonate.
Alla citata ipotesi (Wagner-Rieger, 1959; 1961) che vede appunto una programmatica volontà da parte di Carlo I nella derivazione del coro napoletano da modelli architettonici costituiti dalle cattedrali dell'Ile-de-France, filtrati attraverso un processo di semplificazione di matrice cistercense (abbazie di Royaumont e Valmagne), si oppone quella (Krüger, 1985) che ne vede invece un più probabile riferimento a modelli francescani, per es. quelli del Santo di Padova e del S. Francesco di Bologna, riletti dalle maestranze francesi scese in Italia al seguito di Carlo I. Il corpo longitudinale, articolato in una sola navata con cappelle laterali e copertura a capriate lignee su pilastri con nucleo rettangolare e colonne addossate - entità spaziale dunque del tutto avulsa dal plastico modularsi dei volumi e delle membrature del coro - sarebbe invece da riferire in anni intorno al 1295 alla committenza di Carlo II, appartenendo già nella sua dilatata spazialità al clima architettonico napoletano tra 13° e 14° secolo. La precedente ipotesi (Wagner-Rieger, 1959; 1961) riteneva invece plausibile il completamento dell'edificio con una modifica dell'ipotetico progetto originario - a tre navate con copertura a volta - nei primi anni del regno di Carlo II, tra il 1285 e il 1289.
La presenza di una copertura a volta è stata ipotizzata anche nella chiesa napoletana di S. Eligio al Mercato, fondata intorno al 1270 con funzioni eminentemente assistenziali, con impianto a tre navate, transetto e coro tripartito. La copertura è costituita da volte a crociera, tranne che sullo spazio della navata centrale a capriate lignee; ma la presenza di alterazioni nel ritmo dei pilastri rettangolari della navata rispetto alla parte soprastante, modulata da semicolonne composite su capitelli pensili, ha fatto ipotizzare un progetto originario di copertura a crociere costolonate anche sulla navata centrale (Wagner-Rieger, 1959; Venditti, 1969).
All'iniziativa di Carlo I sono da ricondurre, sempre a Napoli, anche la costruzione della chiesa del Carmine Maggiore, ristrutturata tra il sec. 17° e il 18°, ma ancora con qualche traccia della struttura angioina, visibile soprattutto nel chiostro (Venditti, 1969), e i rifacimenti delle chiese di S. Agostino alla Zecca - totalmente ricostruita nel sec. 17° e dove unica testimonianza del periodo angioino è la sala capitolare, con capitelli scolpiti con motivi di aquile agli spigoli, definiti ancora di matrice federiciana da Bertaux (1896) - e di S. Agrippino a Forcella, della quale dopo le distruzioni belliche è stato possibile recuperare l'originaria struttura a navata unica coperta a tetto con abside poligonale.
Appare dunque a questo punto evidente, sia nel mutarsi dei progetti originari, sia nelle strutturazioni omogenee dei vari edifici, il ruolo preminente svolto dalla specifica idea di spazialità architettonica che fu elaborata intorno alla metà del Duecento dalle chiese degli Ordini mendicanti e che nel corso della seconda metà del secolo si estese e venne applicata anche a spazi non prettamente conventuali.
Negli edifici di quegli Ordini appare in genere come una costante la ricerca di differenziare visivamente lo spazio dell'ascolto (navate) da quello della celebrazione - anche grazie al sistematico impiego della netta opposizione tra diversi tipi di copertura - e l'esigenza di dilatare al massimo la spazialità del corpo longitudinale, giungendo in alcuni casi all'adozione del tipo di 'chiesa a sala'. D'altronde anche la prima architettura religiosa angioina - ma gli effetti furono duraturi, permanendo e anzi intensificandosi anche in quella legata ai successori di Carlo I - è stata profondamente segnata sia da questo tipo di spazialità dilatata sia dall'interesse per il contrasto con volumi plasticamente articolati, visivamente determinati dal continuo vibrare della luce su brevi tratti di primi piani e su sottili membrature emergenti e dal dilatarsi delle ombre su sfondi incessantemente modellati.
Peraltro negli spazi di un edificio come S. Lorenzo potrebbe leggersi quel dialogo tra lingua francese e lingua 'italiana' che è alla base della prima architettura angioina proprio nell'opposizione tra la tendenza a privilegiare la superficie parietale - tendenza propria della prima architettura gotica italiana, finalizzata al distendersi in continuum del racconto affrescato - e, per contro, il gusto per l'enucleazione delle strutture portanti con il conseguente annullamento della parete per fare posto a superfici vetrate sempre più ampie, dove la narrazione assume un ruolo secondario rispetto all'estetica della luce colorata, una delle basi dell'architettura gotica transalpina, a partire già da Suger di Saint-Denis nel 12° secolo.
Anche nel campo dell'edilizia militare e civile napoletana si assiste a un notevole interesse da parte di Carlo I: nel 1268 oggetto degli interventi fu l'acquedotto; nel 1270 si diede il via ai restauri di Castelcapuano e di Castel dell'Ovo e del Castello di Belvedere; nel 1279 alla costruzione di Castel Nuovo dove fu attivo l'architetto Pierre de Chaule; solo la Cappella Palatina di Castel Nuovo, dedicata a s. Barbara, la cui costruzione si colloca però tra il 1307 e il 1310 sotto Carlo II, forse in sostituzione di una precedente più piccola del tempo di Carlo I (De La Ville sur Yllon, 1893), è testimonianza superstite di questi lavori dei sovrani angioini. L'edificio - un'altissima aula coperta a tetto, aperta da lunghe e strette monofore, conclusa da presbiterio quadrato voltato a crociera costolonata - fu poi, com'è noto, decorato da Giotto tra il 1329 e il 1332; esso costituisce con quello di Lagopesole uno dei documenti più interessanti per dimostrare il ruolo della dinastia angioina come tramite in Italia del tema transalpino della cappella di palazzo a semplice aula unica, tema che poi, a partire da quella del castello Caetani di Capo di Bove alle porte di Roma dei primi anni del sec. 14°, ebbe ampia immediata diffusione (Righetti Tosti-Croce, 1983).
Il ruolo politico svolto a Roma da Carlo I d'Angiò, senatore della città nel 1265, dal 1268 al 1278 e infine dal 1281 al 1284, non fu chiaramente privo di conseguenze anche in ambito culturale e la nota statua che lo raffigura (Roma, Mus. dei Conservatori) ne è chiara testimonianza; se da parte dei documenti non è possibile avere tracce relative a legami tra l'angioino e i singoli monumenti, è peraltro indubitabile che l'acquisizione di cadenze di puro Gotico transalpino, come quelle evidenti nella tracery delle finestre del fianco dell'Aracoeli, fu agevolata da questa particolare situazione storica (Righetti Tosti-Croce, 1978; 1985).
Con il regno di Carlo II (1289-1309) la sperimentazione, chiaramente avvertibile negli spazi elaborati nei decenni precedenti dal dialogo di diverse componenti culturali, sembra ormai avviarsi a conclusione, anche per la maggior presenza di maestranze locali, formatesi peraltro nei cantieri dei decenni precedenti.
Vari edifici napoletani si legano alla committenza di Carlo II, a partire dal duomo, che fu forse già iniziato sotto Carlo I, ma che ricevette l'impulso decisivo dal successore e fu terminato solo sotto Roberto. L'edificio, alterato da vari rimaneggiamenti successivi, si presentava con una struttura a tre navate - le laterali coperte da crociere costolonate e la centrale a tetto su incavallature lignee -, molto sviluppata in altezza e con cappelle laterali, conclusa da un coro ad andamento poligonale, affiancato da due cappelle per lato. Della redazione angioina sono superstiti solo, oltre a tre bifore sul fianco della sacrestia, le due cappelle che affiancano il coro, cioè la cappella Galeota o del Sacramento, a sinistra, e quella di S. Aspreno, a destra, che mostra ancora capitelli di netta influenza francese (Venditti, 1969), nonché le altre due cappelle che le affiancano, rispettivamente la cappella di S. Lorenzo, che è riferibile a una fase di lavori più tarda, essendo datata tra il 1308 e il 1320, e la cappella Minutolo, a pianta rettangolare con abside poligonale e pavimento a mosaico con figure di animali, decorata da un'importante serie di affreschi. Di impianto analogo a quello del duomo era anche la struttura della chiesa di S. Domenico Maggiore, eretta tra il 1283 e il 1324 e ancora ben riconoscibile nonostenza angioina degli ultimi anni di Carlo II; la chiesa lega il suo nome a Maria d'Ungheria, moglie del sovrano, che provvide alla ricostruzione della struttura monastica di origine ancora altomedievale, ma profondamente danneggiata dal terremoto del 1293.
I lavori, tra il 1307 e il 1316, portarono all'elaborazione di uno spazio ad aula unica con abside pentagonale coperta a crociera, aperta da allungate bifore dalle sottili colonnette e con raffinata tracery marmorea, e stretta all'esterno da pronunciati contrafforti rettangolari; questa struttura ormai consueta venne però interpretata in modo originale in funzione delle specifiche esigenze delle Clarisse per le quali l'edificio era stato costruito.
Lo spazio della navata nella sua parte anteriore venne infatti occupato per circa due terzi della lunghezza e un terzo dell'altezza da una struttura a tre navate articolata su quattro campate, che determina al piano superiore un ambiente riservato alle Clarisse; questa tribuna che occupa buona parte dello spazio longitudinale del piccolo edificio, dando quasi l'idea di una chiesa a due piani, realizza la possibilità di disporre di uno spazio totalmente riservato in un edificio di frequentazione non esclusivamente monastica.
Si tratta della soluzione di un particolare problema che già si era posto nel S. Damiano di Assisi e in altri edifici delle Clarisse, come per es. il S. Sebastiano di Alatri, e che in questi casi era stato risolto con la creazione di una cappella o 'coretto' per le religiose, collegato con la cappella principale attraverso una semplice apertura; in S. Maria Donnaregina la soluzione si realizza invece 'in altezza', in forme di grande interesse architettonico.
Un altro monumentale edificio napoletano sempre destinato alle Clarisse vide proporre invece una soluzione del problema 'in profondità': in S. Chiara il coro delle Clarisse si colloca infatti dietro il vano presbiteriale ed è costituito da un ambiente scandito da due pilastri a fascio in tre navate, la centrale coperta a tetto e le laterali a volta, tutte però pressoché della stessa altezza come in una chiesa 'a sala'. La chiesa fu eretta per volere di Sancia di Maiorca, moglie del re Roberto, tra il 1310 e il 1328 (fu però consacrata solo nel 1340), sotto la direzione di due architetti napoletani, Gagliardo Primario e Leonardo di Vito. L'ampia diffusione della spazialità che caratterizza il coro delle Clarisse anima anche lo spazio della chiesa, una grande navata unica con copertura lignea e cappelle laterali ricavate tra i contrafforti, come già nel S. Lorenzo e nel S. Domenico Maggiore. A questo periodo è da riferire anche l'impianto originario delle chiese di S. Pietro a Majella e della certosa di S. Martino, poi profondamente alterate; la direzione dei lavori della certosa fu affidata a Tino di Camaino, Francesco de Vito e Mazzeo Molotto.
Anche fuori di Napoli proseguirono le committenze degli A. o a essi strettamente collegabili, che si concretizzarono sia in interventi su edifici precedenti, sia nella costruzione di nuovi edifici: nella chiesa della Trinità di Venosa, data da Bonifacio VIII nel 1297 agli Ospitalieri di S. Giovanni di Gerusalemme, fu consolidata la chiesa degli Altavilla, furono aggiunte cappelle, nonché il portale posto sotto il portico romanico (Bertaux, 1903). Nel 1306 fu fondata anche la certosa di S. Lorenzo a Padula, per volere di Tommaso Sanseverino, conte di Marsico; la donazione di terreni e beni fu confermata nello stesso anno da Carlo II; dell'edificio trecentesco sopravvivono poche parti di un chiostro, nel cortile presso il refettorio della certosa barocca, e altre inglobate in un edificio ora malamente riattato a centrale termica. A partire dal 1300 fu ricostruito il duomo di Lucera, che era andato in rovina nel 1238 e che non era mai stato riedificato, dato che nella Luceria Saracenorum, dove Federico II aveva raccolto le varie comunità di saraceni che vivevano dispersi nel regno, la moschea aveva ormai preso il posto della cattedrale; quando si attuò il disegno angioino di disperdere questo gruppo etnico, dapprima si pensò di trasformare la moschea in cattedrale, ma si preferì poi procedere a una nuova costruzione, conclusa nel giro di pochi anni anche ricorrendo abbondantemente al reimpiego di materiali di spoglio (Calò Mariani, 1980). Il progetto dell'edificio è stato talora attribuito a Pierre d'Agincourt, il cui nome appare in realtà citato nel 1304 solo in quanto estimatore dei danni causati ai cittadini di Lucera per la necessità di fare spazio alla cattedrale abbattendo alcune case. Strutturato con impianto a tre navate, di cui la centrale coperta a tetto, transetto e tre absidi poligonali, il duomo di Lucera è stato anche messo in relazione con edifici provenzali, come il domenicano Saint-Maximin di Var (Enlart, 1894); la decorazione architettonica mostra invece chiari tributi alla tradizione locale, ancora di matrice sveva, mentre le figure dei portali si connettono alla coeva scultura napoletana (Calò Mariani, 1980).
Lucera, ribattezzata Città di S. Maria, vide, alla luce della ricristianizzazione promossa dagli A., il moltiplicarsi delle fondazioni ecclesiali e l'insediamento di tutti i più attivi ordini religiosi; i Francescani nel 1301 ottennero la chiesa di S. Francesco, la cui tipologia a navata unica coperta da travature lignee e coro pentagonale si conforma ai tipi ormai diffusi dell'edilizia mendicante; il portale, sia per disegno, sia per esecuzione, è invece affine a quelli della cattedrale (Calò Mariani, 1980).
Gli Ordini mendicanti diffusisi capillarmente in Puglia, in parallelo con il consolidarsi della dinastia angioina all'inizio del sec. 14°, svolsero un ruolo fondamentale anche nell'introduzione di novità architettoniche nell'edilizia religiosa pugliese (Tocci, 1982); ne sono prova da un lato le chiese mendicanti di S. Domenico Maggiore a Taranto e di S. Maria del Casale a Brindisi, entrambe degli inizi del sec. 14°, e dall'altro le coeve S. Maria Assunta a Castellaneta, S. Maria della Lizza ad Alezio e S. Maria della Giustizia a Taranto, la cui costruzione è dovuta alla classe feudale angioina giunta nel principato di Taranto con Filippo d'Angiò (m. 1331), fratello di re Roberto; la loro struttura, con vano mononave coperto a travature lignee, concluso da coro rettilineo voltato a crociere costolonate, testimonia appunto lo stretto legame culturale esistente tra le due diverse componenti sociali (Tocci, 1978). Va inoltre rilevata in queste architetture del principato di Taranto la presenza di un sobrio gusto ornamentale di ascendenza orientale, volto ad arricchire l'architettura con le calligrafiche esili trame coloristiche dei parati esterni (Calò Mariani, 1980).
In Puglia alla committenza di re Roberto va attribuita anche l'introduzione del transetto, del rosone e del portale della cattedrale di Altamura (Agnello, 1962) e parti della cattedrale di Bitetto, anch'essa a tre navate separate da pilastri compositi e coperte da capriate lignee, dove il ridondante portale 'tardoromanico' di facciata, firmato nel 1335 da Lillo di Barletta, testimonia la pervicace resistenza di forme ben acquisite dal linguaggio plastico della regione; lo stesso può dirsi per la decorazione del portale datato 1302 del S. Domenico di Taranto o per l'Assunta di Castellaneta, la cui costruzione è stata riferita a Pietro Facitolo da Bari, che nel 1276 aveva firmato la tomba Falcone, posta presso la chiesa di S. Margherita a Bisceglie, e la cui attività è riconosciuta anche nella decorazione architettonica della cattedrale di Altamura (Calò Mariani, 1980).
L'Abruzzo venne ugualmente interessato dall'espandersi dei modelli architettonici angioini, anche se deve essere sempre ben presente il ruolo dell'architettura mendicante; è il caso, per citare solo pochi esempi, del S. Francesco di Sulmona, in origine probabilmente a navata unica con abside pentagonale e alte e strette monofore, del S. Domenico all'Aquila, eretto per volere di Carlo II presso il palazzo reale degli A. che così fu trasformato in convento domenicano, di S. Silvestro e di S. Giusta sempre all'Aquila, tutti degli inizi del Trecento con impianto a tre navate, delle quali le laterali molto strette, con copertura su travature lignee su semplici pilastri e absidi poligonali, a dimostrazione dell'esistenza di una tipologia architettonica con una propria definita specificità.
In Calabria testimoniano la nuova ondata di penetrazione di forme gotiche in periodo angioino la ricostruzione della parte absidale della cattedrale di Rossano (1330 ca.), a terminazione rettilinea, stretta da contrafforti angolari, e la costruzione della chiesa di S. Maria della Consolazione ad Altomonte, eretta nel 1340 ca. dal conte di Altomonte, Filippo di Sangineto, siniscalco del regno, sull'ormai ben noto impianto a una navata coperta a tetto, con coro a terminazione rettilinea voltato a crociera, così come le due cappelle laterali: nei due edifici Martelli (1955) ha notato elementi di diretta ispirazione napoletana nelle profilature degli archi acuti dell'abside di Rossano, in riferimento a S. Maria Donnaregina, e nella disposizione e proporzioni della chiesa di Altomonte, accostata alla cappella di S. Barbara.
Esemplare del tardo periodo angioino è la chiesa dell'Incoronata di Napoli che, eretta nella seconda metà del sec. 14° e legata all'incoronazione (21 maggio 1351) di Giovanna I e Luigi di Taranto (figlio di Filippo), suo secondo marito dal 1347, presenta una particolarissima icnografia: due navate disuguali coperte da crociere costolonate e concluse da un'abside pentagonale sulla navata maggiore e da una cappella quadrata su quella minore.
Una ripresa della suddivisione interna dello spazio di S. Maria Donnaregina è realizzata nella chiesa di S. Chiara di Nola, che presenta appunto la suddivisione dello spazio dell'aula rettangolare in due piani, entrambi comunicanti con il vano presbiteriale.
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di F. Bologna
Anche e principalmente nel campo della pittura e della miniatura, il connotato che caratterizza la ripresa della produzione artistica nel regno di Sicilia dopo il sopravvento della dominazione angioina su quella sveva è costituito da una sostanziale prosecuzione delle tendenze che la corte di Federico e di Manfredi aveva patrocinato. La notizia vasariana secondo cui Carlo I d'Angiò, di passaggio per Firenze, avrebbe fatto visita a Cimabue "in certi orti appresso a porta San Piero" (Vasari, Le Vite, II, 1967, pp. 40-41) è stata messa da parte da molto tempo; e con essa è rimasta priva di fondamento anche l'ipotesi che fosse stato l'Angiò a far chiamare Cimabue in Roma nel 1272. Lo stesso incarico conferito ad Arnolfo di Cambio di scolpire in Campidoglio il monumento senatorio di Carlo I (Roma, Mus. dei Conservatori) è cosa che riguarda soltanto Roma e scende al 1276 ca.; senza dire che persino nella statua di re Carlo assiso al centro di tale monumento non s'è mancato di ravvisare una ripresa della Maestà di Federico imperatore, a quell'epoca ancora in situ sulla fronte della porta di Capua. Fatto è che, come una buona parte della critica moderna s'è adoprata a mostrare, alla data del 1266, e con una validità che investì l'intero corso dei due o tre decenni successivi, gli indirizzi artistici d'impronta franco-gotica elaborati nei centri svevi erano pervenuti a costituire una componente essenziale di tutta l'arte moderna della penisola: a Pisa, a Siena, a Lucca, a Verona, a Bologna, in Umbria; tanto più è naturale - anche senza dar ragione al settecentesco Bernardo De Dominici (Vite dei pittori, scultori ed architetti napoletani, I, Napoli 18402 [1742], pp. 60, 74-75), il quale pretendeva che Carlo I d'Angiò non chiamasse Cimabue nel regno perché gli stimò superiori i maestri che vi aveva trovato - che quegli indirizzi continuassero a costituire l'asse portante della situazione artistica nel Sud, dove avevano avuto origine.L'opera esemplare e più antica di tale continuità è senza dubbio il pulpito della cattedrale di Ravello, compiuto da Niccolò di Bartolomeo da Foggia nel 1272. In quanto è un momento nel quale la discendenza diretta dalla plastica dei castelli svevi di Puglia degli anni quaranta, il riflesso di taluni aspetti della miniatura del decennio manfrediano e il rapporto tuttora vivo con una fase di Nicola de Apulia (poi Pisano) che occorre far risalire ad anni ancora federiciani, s'intrecciano e si arricchiscono con desunzioni nuove dalla scultura d'Ile-de-France, esso può fornire, e di fatto fornisce, anche in questa sede il parametro di una trama culturale, a cui la produzione pittorica e miniatoria s'improntò non meno dell'architettura e della scultura.
In materia di miniatura, l'indirizzo che riemerge per primo in ambito protoangioino è quello scientifico-naturalistico. Poco dopo il 1270 Carlo I d'Angiò, che condivideva con i predecessori svevi anche questo specialissimo interesse, ottenne dall'emiro di Tunisi una copia in arabo della celebre enciclopedia medica al-Ḥāwī (cioè Continens 'che racchiude e tiene insieme') dell'antico naturalista di Rayy, Abū Bakr Muḥammad ibn Zakariyyā' al-Rāzī (lat. Rhazes). La fece tradurre in latino da un ebreo di Agrigento, in quel momento attivo presso la scuola medica di Salerno, al-Faraj ibn Sālim (Ferragut), e, quando la traduzione fu completata (13 febbraio 1279), ne fece intraprendere la trascrizione e la decorazione pittorica. Nel caso dell'esemplare pervenuto alla Bibliothèque Nationale di Parigi (lat. 6912, in cinque volumi; un secondo esemplare si conserva a Roma, BAV, lat. 2398-2399), l'opera miniatoria fu compiuta fra il 1281 e il 1282 da un Minardus teutonicus (il titolare dell'impresa, che però scomparve dopo aver eseguito soltanto un certo numero di iniziali) e da un Giovanni da Montecassino, che fece il resto. Le miniature del codice parigino non sono di qualità altissima, come già rilevava Toesca (1927), ma, sia nel pronunciato spirito di caratterizzazione, sia nella manifesta ambizione testimoniale (particolarmente evidenti nei 'ritratti' di re Carlo, dell'emiro di Tunisi e dell'amanuense, raffigurati nella pagina dell'incipit dov'è 'narrata' la storia del manoscritto), sia, soprattutto, nell'orientamento della cultura figurativa, costituiscono una prosecuzione evidente della maniera fattasi luce nel gruppo delle bibbie manfrediane: inclusa la componente turingo-sassone che, affermata da alcuni, da altri esclusa, deve essere invece riconsiderata alla luce del fatto che Minardus, il titolare primo della decorazione del codice, era teutonicus.
Il secondo indirizzo è quello cavalleresco, la cui introduzione nel Sud era stato un altro apporto della cerchia personale di Federico II e che Carlo I d'Angiò diede ben presto prove manifeste di voler proseguire. Nel 1278, lui che otto anni prima aveva preso parte alla crociata promossa da s. Luigi suo fratello, aveva fatto acquistare un manoscritto contenente Le roumans de Godefroj de Bouillon, avendo per altro già fatto "escrivere a Naple deus livres de nouvel"; nello stesso anno il poeta e giudice siciliano Guido delle Colonne, già fedele degli Svevi, ora suddito degli A., aveva terminato di tradurre dal francese in latino, per incarico del vescovo di Salerno, il Roman de Troie di Benoît de Saint-Maure (Historia destructionis Troiae). Nel 1281 il cancelliere di Acaia Lorenzo da Veroli possedeva a Napoli non meno di quattordici romanzi francesi ed è ormai assodato che risalgono ai primi anni ottanta, oltre che alla stretta cerchia protoangioina, gli esemplari di maggiore autorevolezza di un gruppo di ben ventidue codici d'argomento cavalleresco (primo, il singolare e originalissimo ms. contenente la Histoire ancienne jusqu'à César; Roma, BAV, lat. 5895), nei quali alla propensione verso soluzioni gotiche di pura accezione manfrediana, nel genere del De arte venandi cum avibus (Roma, BAV, lat. 1071) e del Cavaliere del duomo di Benevento, e a inclinazioni vivacemente naturalistiche, si mescolano elementi stilistici di antica estrazione islamica.Il terzo indirizzo è quello che, avendo alle spalle la ricca produzione di bibbie uscite dagli scriptoria manfrediani, e magari da quello da cui uscirono i manoscritti del gruppo connesso con la Bibbia detta di Corradino (alcuni dei quali circolarono senza dubbio negli ambienti filo-svevi del Sud anche dopo la morte di Corradino - a Lucera, specialmente, e nel giro del cardinale 'ghibellino', certo anti-angioino, Ottaviano Ubaldini -, ma che, nonostante i reiterati sforzi recenti, troppi sintomi d'ordine stilistico-culturale impediscono di credere eseguiti in Sicilia, o a Roma, o comunque nel Meridione), occorre mettere in rapporto con gli effetti dell'incarico dato da re Carlo al balì d'Angiò di acquistare in Francia e inviare nel regno otto messali, otto antifonari, otto graduali e quattro lezionari, per dotare le chiese di nuova fondazione nel genere dell'abbazia di Realvalle e di S. Maria della Vittoria a Scurcola Marsicana. Il monumento fondamentale di questo indirizzo è il Pontificale ad usum Ecclesiae Salernitanae del duomo di Salerno, il cui miniatore principale parte dal gusto arcaicamente franco-gotico delle illustrazioni manfrediane e del Contrasto dei vivi e dei morti del duomo di Atri, per rivitalizzarlo mediante innesti sia d'origine franco-bolognese nel genere dell'Infortiatum della Bibl. Naz. di Torino, sia francesi in senso specifico, ancora al modo del Salterio supposto di Bianca di Castiglia di Parigi (Ars., 1186). In fatto d'innesti francesi, viene naturale pensare ai codici fatti acquistare da Carlo tramite il balì d'Angiò e che non poterono non essere miniati; ma un riferimento concreto e preciso può essere indicato nelle straordinarie miniature 'luigiane' del Salterio Maciejowski (oggi alla Pierp. 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La qual prima parte, identificabile quasi certamente con il Titus Livius che una lettera di Giacomo II d'Aragona attesta in vendita a Napoli nel 1314, pervenne poco dopo ad Avignone, dove costituì il nucleo intorno a cui il canonico Landolfo Colonna, rientrato da Chartres nel 1328 con il testo della quarta decade liviana da lui riscoperto in un manoscritto appartenente alla biblioteca della cattedrale di quella città, formò insieme al giovane Petrarca (pure lui appena rientrato ad Avignone da Bologna: 1326) il codice attuale, affidando a miniatori avignonesi la decorazione della parte aggiunta, e in questa includendo, insieme alla terza, anche la ritrovata quarta decade. Donde l'impossibilità materiale della tesi recente - precisarlo non è fuori luogo - secondo cui tutto il codice parigino sarebbe stato scritto e miniato a Roma agli inizi del Trecento. A quell'epoca la quarta decade dell'Ab Urbe condita, pezzo forte della seconda parte del manoscritto, o non era stata ancora identificata, o era ancora nelle mani del Colonna, il quale da Chartres, della cui cattedrale era canonico, non si allontanò fino al 1328. Che, d'altronde, la prima sezione del Livio di Parigi non possa essere espunta dall'ambito protoangioino, è confermato non solo dall'appartenenza evidente delle sue miniature allo stesso artista che miniò il Pontificale ad usum Ecclesiae Salernitanae, ma dall'analogia stretta, d'ordine tipologico e iconografico oltre che stilistico, che la scena dedicatoria di c. 43r (con i 'ritratti' del re, del dignitario offerente e dell'amanuense seduto al desco di lavoro) ha con il ricordato incipit dell'enciclopedia medica al-Ḥāwī fatta decorare da Carlo I d'Angiò nel 1280-1282.
In materia di pittura, la linea da considerare per prima discende dall'episodio capostipite del Contrasto dei vivi e dei morti della cattedrale di Atri. Affrescato sulle mura della parte più antica della chiesa (identica alla chiesa 'cistercense', c.d. Atri I, consacrata nel 1223) e legato a modelli francesi dei primi decenni del Duecento - in particolare, all'affresco frammentario della cripta nella parrocchiale di Gargilesse, le cui caratteristiche espressive furono ben note anche al miniatore che dipinse il De arte venandi cum avibus vaticano e la scena con la dedica nella Bibbia di Manfredi (Roma, BAV, lat. 36) -, nonché a una formula di Gotico severo anteriore alle stesse miniature manfrediane (donde l'evidenza, nonostante le discussioni anche recenti, della sua datazione ad anni ancora federiciani e perciò del rango di primo esempio in Europa per quanto riguarda l'importantissimo tema iconografico in esso rappresentato), questo dipinto è infatti all'origine di una biforcazione fecondissima. Quella che da un lato attecchisce nella Toscana senese (dove la presenza svevoghibellina non ha certo bisogno d'essere ricordata) e dà luogo sia alle scene cavalleresche di tornei e di caccia, sia all'Omaggio feudale a Carlo I d'Angiò, affrescati nella sala del Consiglio del Palazzo Pubblico di San Gimignano (è stato supposto che i più antichi di tali affreschi potrebbero avere a che fare con quel Ventura di Gualtieri documentato a Siena dal 1257 al 1267-1268, il quale nel 1267 ebbe l'incarico di dipingere sul carroccio del comune le armi di Corradino di Svevia, e subito dopo passò a operare appunto a San Gimignano, dov'è documentato nel 1271 e nel 1273); da un altro lato mette radici e si prolunga, non senza ulteriori arricchimenti culturali, nel territorio piceno-aprutino, non lontano da Atri, con dipinti murali quali il frammento di S. Salvatore a Silvi, la rara lunetta della Madonna del crognale a S. Maria di Propezzano e il ciclo di affreschi esistenti nel criptoportico di S. Ugo a Montegranaro presso Fermo. Questi ultimi sono datati 1299 e a tale data implicano, a svolgimento della formula atriana, un modo più acuto e linearmente più inflesso, derivato senza dubbio dall'aggiornamento sui progressi compiuti nel frattempo Oltralpe, in opere di estrazione recente quali la Leggenda di s. Giorgio nella cattedrale di Clermont-Ferrand.
Nei territori del regno più direttamente legati alla corte l'antefatto è costituito dal mosaico fatto eseguire da Giovanni da Procida intorno al 1260 nel duomo di Salerno e i cui legami con la miniatura cavense del medesimo momento, nel genere dei due codici contenenti le opere di Pietro Lombardo conservati a Cava dei Tirreni (Bibl. dell'abbazia, 22 e 23), sono stati notati. Ma già in quest'opera, che nel nome stesso del suo committente sembra prefigurare il passaggio dall'ambito svevo a quello aragonese-siciliano, sono avvertibili i segni di un orientamento specificamente angioino che non tardò a coinvolgere un'altra porzione del Mediterraneo occidentale, quello catalano e rossiglionese, oltre la Sicilia del Vespro; e giusto mentre la prima parte del Livio oggi a Parigi sfiorava anch'essa l'Aragona, per trovar casa ad Avignone. Il percorso così sintetizzato si legge in un gruppo d'opere - dal Contrasto dei vivi e dei morti di S. Margherita a Melfi, agli affreschi della cripta nella chiesa del Crocifisso a Salerno - comparse nel principato di Salerno giusto nei decenni in cui la vicenda personale del titolare del feudo, il principe ereditario Carlo lo Zoppo (il futuro Carlo II), non potrebbe esser legata più strettamente agli itinerari d'andata e ritorno che almeno dal 1283 al 1295 (con una prosecuzione fino al 1304, quando il figlio dello Zoppo, Roberto, celebrò a Perpignano le nozze con Sancia di Maiorca), congiunsero ripetutamente il regno con Barcellona, Gerona, i bassi Pirenei, il Rossiglione e i vari centri della Provenza, oltre Avignone e l'Aragona. Le somiglianze che queste opere propongono con prodotti catalano-rossiglionesi quali gli antependia del Maestro di Suriguerola (Barcellona, Mus. d'Art de Catalunya) o il più tardo retablo della Crocifissione nella chiesa di Serdinyá, sono per altro confermate dalle somiglianze d'uguale origine - precisamente con gli antependia del gruppo di Lérida e di Johannes pintor (Barcellona, Mus. d'Art de Catalunya) - che, nel bellissimo Missale secundum consuetudinem regiae Curiae (Napoli, Bibl. Naz., I. B. 22), si sovrappongono all'antefatto franco-svevo e a chiari accenti bolognesi nel genere di Jacopino da Reggio. Senza dimenticare il carattere pronunciatamente catalaneggiante che si leggeva nei perduti affreschi di Duecento estremo della cattedrale di Agrigento (nel S. Bartolomeo apostolo, specialmente), è del tutto analogo a questo nesso culturale anche il tratto più moderno che emerge da due tavole napoletane di ambiente domenicano: il S. Domenico conservato tuttora in S. Domenico Maggiore (chiesa madre dell'Ordine a Napoli) che, dopo la pulitura recente, s'è confermato un capolavoro di puro Gotico lineal in accezione catalano-rossiglionese e il trittico con S. Domenico e dodici storie della sua vita, il più ricco ciclo domenicano dell'epoca, oggi a Napoli (Mus. e Gall. Naz. di Capodimonte), che dovette trovarsi in origine in un'altra chiesa domenicana di Napoli, il distrutto S. Pietro Martire a Castello. Senonché in quest'ultima opera, il cui punto di partenza è un modo bizantineggiante alla maniera pugliese, ma ormai in avanzata evoluzione tanto da rendere plausibile l'attribuzione dell'opera a quel Giovanni da Taranto che viaggiava da Bari a Napoli nel 1304, la componente mediterranea è sopravanzata dalla conoscenza manifesta, anche se regredita a un'accezione duecentesca, delle Storie francescane di Giotto. Così come negli affreschi del Crocifisso a Salerno (Conservatorio del Crocifisso), almeno per quanto riguarda il partito di mensole in prospettiva che vi ricorre, è evidente una sopravvenuta e non superficiale conoscenza della nuova arte di Cimabue ad Assisi. A quest'epoca, e principalmente negli ambienti di Napoli ormai assurta stabilmente (1281-1282) a capitale del regno, s'era infatti già verificato lo spostamento dell'asse degli interessi artistici verso gli avvenimenti ben più moderni e rivolgenti che si stavano verificando in Toscana, a Roma e, a partire dal 1277-1278, soprattutto ad Assisi.
Il primo segno di tale spostamento d'interesse va con ogni probabilità identificato nell'importazione nel Sud del messale francescano ora a Salerno (Mus. del Duomo), le cui miniature spettano alla stessa mano umbro-spoletina del messale francescano di Deruta (Pinacoteca), bensì in una fase di maggiore addentramento nella cultura cimabuesca, e precisamente nella cultura cimabuesca divenuta attingibile ad Assisi sul 1280-1282. È stato supposto che l'arrivo a Salerno di questo messale sia da mettere in rapporto con il fatto che fino al 1283 era arcivescovo di Salerno il futuro cardinale Filippo Minutolo: vale a dire il consigliere di Carlo I e suo ambasciatore a Firenze dal 1273, che nel 1283 divenne arcivescovo di Napoli e all'indomani di tale data, nella cappella di cui era titolare nel duomo napoletano ancora in costruzione, fece eseguire gli affreschi che prima e più di ogni altra opera documentano l'avvenuta apertura di Napoli ai fatti assisiati. Qualunque cosa debba pensarsi del ruolo assolto in questa apertura dal cardinale Minutolo, è a ogni modo acquisito che gli affreschi della sua cappella spettano a un maestro formatosi ad Assisi verso il 1280, quando la decorazione pittorica della basilica superiore passava dalle Storie di s. Pietro nel transetto alle prime Storie di Cristo nella seconda campata e a fianco a Cimabue si faceva luce il primo dei suoi discepoli moderni, il c.d. Maestro della Cattura. Legato soprattutto a questi, il pittore della cappella Minutolo ha per altro forti probabilità d'essere identificato con Montano d'Arezzo che i documenti angioini dimostrano in rapporti con la più stretta cerchia familiare di Carlo II e lo fanno apparire il maestro più importante che lavorasse a Napoli fra gli ultimi decenni del Duecento e il primo del Trecento. Se infatti appartiene a Montano la celebre e documentata ancona della Madonna di Montevergine (che include il frammento di un dipinto sicuramente più antico, d'impronta schiettamente bizantina, ma che un sigillo verginiano del 1298 l'accerta già esistente da qualche anno nella forma attuale, sebbene in un assetto meno angolato che conferma l'ipotesi d'una rielaborazione effettuata da maestranze tardocavalliniane negli anni quaranta del Trecento), i rapporti che la Madonna di Montevergine mostra con gli affreschi Minutolo sono tali da ribadire l'identità d'autore; per altro in termini che consentono di estendere tale identità anche agli importanti affreschi mariani del transetto di S. Lorenzo Maggiore a Napoli, dove la cultura del maestro mostra d'essersi ampliata in un tempestivo e impegnato aggiornamento sulle più acute esperienze protogiottesche, non senza collusioni con le opere antiche di Pietro Cavallini, nelle quali Cavallini stesso si era mostrato tributario di Assisi, sia nei riguardi del Maestro della Cattura sia del primo Giotto. Del resto, giusto nell'intervallo che occorre postulare fra gli affreschi Minutolo, con la Madonna di Montevergine, e gli affreschi mariani di S. Lorenzo, si collocano da un lato la vasta Assunzione (non Ascensione, come altri ha voluto sostenere) di S. Salvatore Piccolo a Capua, dove un affrescatore di estrazione diversa da quella di Montano scrisse un secondo capitolo meridionale dell'aggiornamento sulla cultura cimabuesca di Assisi; da un altro il ciclo con Storie della Maddalena ritrovato in una delle cappelle del deambulatorio di S. Lorenzo, dove un maestro ancora diverso e d'una leva più recente diede prova di una così intelligente e analitica conoscenza degli affreschi giotteschi esistenti nel registro superiore della navata assisiate, da doverlo ritenere formato sui ponti di Assisi, accanto al giovane Giotto e ai suoi primi collaboratori. Tutto questo, a ogni modo, accadeva ben prima che Pietro Cavallini scendesse a Napoli e in autonomia assoluta dalla cultura cavalliniana specifica; segnando un momento indipendente e straordinariamente meritorio della storia artistica del regno, che la vecchia critica e i suoi eredi non avevano percepito minimamente e che ha il diritto-dovere d'intestarsi al Cimabue assisiate e al primo Giotto, non meno che a Montano d'Arezzo, la cui attività si concluse poco dopo il 1311, quando il nuovo re Roberto lo ammetteva, come più tardi il solo Giotto, tra i suoi 'familiari'. Pietro Cavallini fu chiamato a Napoli da Carlo II e vi giunse durante la prima decade del giugno 1308. Poiché la data di esecuzione dei cicli napoletani che si solevano attribuire al maestro (l'Albero di Iesse, nella cappella detta degli Illustrissimi in duomo, nonché tutti gli affreschi di S. Maria Donnaregina Vecchia) non può essere più antica del 1320 ca., una parte della critica ha ritenuto di dover attribuire al maestro gli affreschi che decorano la cappella Brancaccio nel S. Domenico Maggiore, la cui commissione va fatta risalire al cardinale Landolfo Brancaccio, il quale, intimo di Carlo II fino alla morte di questi, avvenuta il 5 maggio 1309, seguì Clemente V ad Avignone e vi morì nel 1312. Poiché il trasferimento della corte pontificia Oltralpe avvenne nel corso del 1309, ne consegue che la data più probabile degli affreschi Brancaccio è giusto il 1308-1309, quando il solo pittore che potesse eseguirli a quel modo era il Cavallini. E in effetti, nonostante i numerosi dinieghi, quegli affreschi non solo meritano d'essere considerati autografi del maestro, ma sono l'opera più importante per comprendere in che senso l'arte del Cavallini si fosse venuta svolgendo dopo le grandi realizzazioni di Roma, incluso l'affresco funerario dell'Aracoeli, fino alla ripresa estrema rappresentata dal mosaico frammentario di S. Paolo f.l.m., eseguito al tempo di Giovanni XXII: come l'arte del Cavallini, cioè, si svolgesse nella direzione di contatti vieppiù intensificati con il linguaggio giottesco, quale s'era venuto definendo, durante l'ultima fase assisiate, nelle Storie francescane e nei cicli immediatamente successivi.
Tutti gli altri affreschi d'impronta cavalliniana che sono stati individuati a Napoli non hanno rapporti diretti con Pietro (nemmeno quelli della cappella di S. Aspreno in duomo, che però includono brani addirittura virtuosistici d'illusionismo architettonico); ne rappresentano bensì la vastissima area di risentimento, che da Napoli, non meno che da Roma, si estese fino in Provenza e riguardò con larghezza anche la miniatura. Per elencare l'essenziale di questi risentimenti, un luogo di rilievo spetta sicuramente al ricostruito Lello da Orvieto, l'autore del mosaico di S. Maria del Principio in S. Restituta, dell'Albero di Iesse in duomo e del 'ritratto' del D'Ormont all'arcivescovado di Napoli (per tacere dei due dipinti di Anagni e della Madonna già Centurione Scotto recentemente identificata), la cui personalità continuò ad accrescersi fino all'affresco dinastico del convento di S. Chiara, del 1340 ca., in cui l'impronta cavalliniana mostra d'aver ceduto all'influenza delle opere napoletane di Giotto. Un luogo non minore spetta alla complessa, anzi complicata, maestranza di S. Maria Donnaregina Vecchia che non dovette incominciare a lavorare prima del 1317-1319 e che lo fece dapprima con incredibili arcaismi (fra rusutiani e paleocavalliniani), quindi diramandosi in rivoli diversificati, il più brillante e originale dei quali fa sicuramente tutt'uno con l'autore delle Storie di s. Elisabetta (ca. 1335-1340), il cui reagente pittorico fondamentale fu quello giottesco d'epoca napoletana (al modo dell'ultimo Lello), ma il cui uso delle decorazioni alla cosmatesca riesce a esprime un valore intensivamente luminoso, da preludere a quello espresso poco più tardi da Matteo Giovannetti ad Avignone. Il terzo luogo, ma non certo per importanza, spetta alle ricerche miniatorie che vanno dalle due stupende bibbie 'cavalliniane' di Catania (Bibl. Riunite Civ. e A. Ursino Recupero) e della British Library, alle due o tre miniature aggiunte ad Avignone al Tito Livio di Parigi (cc. 201r, 211v, 257v), a quelle importantissime e bellissime del Royal 20. D. I. della British Library (Add. Ms 47672), nel cui ambito sembra abbia fatto le prime prove anche il giovane Cristoforo Orimina.
Una verifica documentaria condotta di recente da Aceto (ancora inedita) ha appurato che il ben noto pagamento di cinquanta once decretato il 23 luglio 1317 da re Roberto d'Angiò "pro Symone Martini milite" non riguarda il pittore, ma (con il rincrescimento di tutti coloro che avevano giurato il contrario) solo un suo omonimo aragonese, sul quale si spera di sapere presto di più. La novità, com'è ovvio, mette in crisi le tesi che, in un modo o in un altro, avevano dato per certa la venuta del pittore senese a Napoli, almeno nell'anno della canonizzazione di s. Luigi d'Angiò vescovo di Tolosa, al quale appunto è dedicata la celebre pala già nella chiesa francescana di S. Lorenzo Maggiore e ora ai Mus. e Gall. Naz. di Capodimonte, in cui Simone lo raffigurò nell'atto di ricevere la corona celeste mentre cede la corona terrena al fratello Roberto. Nondimeno resterebbe pur sempre da spiegare in qual modo Simone si procurasse una conoscenza tanto precisa, 'dal vivo', dell'aspetto fisico di re Roberto, quale risulta dal ritratto (primo come tale nella storia dell'arte moderna) che egli incluse nella pala appena ricordata, e sarebbe comunque impossibile far regredire l'evidenza che l'opera ebbe una commissione angioina; anzi, per via dell'insistente ritornare dello scudo con i colori d'Ungheria proprio accanto alla firma del maestro, una commissione angioina che a questo punto diviene doveroso credere patrocinata dalla regina Maria d'Ungheria, la madre ancora vivente di Luigi e di Roberto. In ogni caso restano fermi due punti fondamentali acclarati dalla critica più recente: 1) riguardo all'iconografia, l'opera si basa sul testo della bolla di santificazione del rampollo angioino promulgata da Giovanni XXII il 7 aprile 1317, dove, ignorando volontariamente, per precise ragioni di politica religiosa avversa ai francescani dissidenti, che Luigi, seguace delle tendenze pauperistiche di quei francescani, s'era fatto "imitatore di Cristo povero", si esalta in luogo della sua 'povertà' la sua 'umiltà' (donde il rilievo attribuito nella bolla, non meno che nel dipinto, alla rinuncia al trono, che di tale umiltà si poteva dire uno dei cardini); 2) dal punto di vista figurativo, l'opera attende a rappresentare il riscatto metaforico dell''umiltà' del santo mediante lo sfoggio di un'eccezionale ricchezza di decoro pittorico, e nel medesimo tempo, sia nel campo centrale, sia nelle scene storiche della predella coordinate spazialmente fra loro, si fonda su osservazioni prospettiche e plastiche di acutezza straordinaria, collegate manifestamente con le ricerche analoghe di Giotto e improntate a risultati il cui corrispettivo diretto è solo negli affreschi dello stesso Simone nella cappella di S. Martino ad Assisi, i quali per questo e altri aspetti (in particolare iconografici) vanno considerati la premessa necessaria della pala napoletana. Gli studi moderni, d'altra parte, hanno provato che l'arrivo a Napoli di tale opera non provocò i vasti risentimenti che un tempo si soleva attribuirgli; e se i documenti attestano che nel 1326 Simone ebbe altre commissioni per gli A., nemmeno allora il fatto comportò la presenza del maestro nella capitale del regno. Egli ricevé tali commissioni dal Comune di Siena in occasione della venuta del principe ereditario di Roberto, Carlo duca di Calabria, il quale si fermò a Siena per accettarne la signoria mentre si recava a prendere quella di Firenze, che gli si era affidata per un decennio. E dovette essere in tale occasione che Simone ebbe anche la commissione di dipingere per il luogotenente del duca in Toscana, il calabrese Filippo di Sangineto che era al seguito del suo signore durante la sosta senese del 1326, quella sublime tavoletta con S. Ladislao re d'Ungheria che non tardò a esser trasferita proprio in Calabria, nella chiesa di S. Maria della Consolazione ad Altomonte, titolo e residenza feudale del Sangineto stesso. Per ribadire, a parte quell'ultimo nesso, conviene anche aggiungere che la scelta iconografica a cui il S. Ladislao di Altomonte s'intitola (una scelta rarissima in Italia, e a quell'epoca) va intesa alla luce dei rapporti privilegiati che il Sangineto manteneva (e mantenne in seguito) con le cerchie filo-ungheresi di Napoli fedeli alla memoria della regina madre Maria, la quale in anni immediatamente precedenti alla morte, avvenuta nel 1323, in nome delle proprie devozioni nazionali oltre che familiari, aveva voluto che s. Ladislao figurasse anche negli affreschi di Donnaregina.
Un capitolo totalmente nuovo dell'arte pittorica nel regno di Napoli ebbe inizio con la chiamata di Giotto. "Ruberto re di Napoli scrisse a Carlo duca di Calavria suo primogenito, il quale si trovava a Firenze, che per ogni modo gli mandasse Giotto a Napoli, perciocché, avendo finito di fabricare S. Chiara, monasterio di donne e chiesa reale, voleva che da lui fusse di nobile pittura adornata". Così ricorda l'evento Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 108), ponendo giustamente in rilievo la circostanza che la chiamata avvenne per il tramite di Carlo di Calabria, il quale arrivò a Firenze il 30 luglio 1326, subito dopo la sosta a Siena di cui s'è detto, e avendo al seguito, oltre i parenti e i militari, anche tre dei maggiori esponenti della cultura meridionale, tutti e tre in stretti rapporti con Petrarca (quindi con Boccaccio, anche lui venuto a Napoli da Firenze nel 1328): Barbato da Sulmona, Giovanni Barrile e Niccolò di Alife. Deve ritenersi certo, a ogni modo, che la chiamata di Giotto a Napoli non solo s'inquadra in un momento crescente delle interferenze fiorentine nel regno, ma ha l'apparenza di una maturata e durevole scelta culturale, la cui origine prossima non può non esser ricercata nelle valutazioni che dovettero esser fatte a Firenze (per certo di fronte agli affreschi che Giotto e i suoi avevano appena compiuto nella cappella Bardi a Santa Croce), proprio nella cerchia degli intellettuali che avevano accompagnato il duca di Calabria in Toscana. Né si può sottovalutare che Giotto, giunto a Napoli intorno al 1° dicembre 1328, vi si trasferì comprovatamente con l'intera bottega (o almeno con una parte importante di essa), e re Roberto nel 1332 lo teneva per "prothopictor, familiaris et fidelis noster", al punto di lasciar credere che il maestro, unitamente ai coadiutori, si fosse stabilito nella capitale del regno in via definitiva; non ne ripartì, infatti, se non dopo il 12 aprile 1334, quando i Fiorentini lo reclamarono affinché assumesse la soprintendenza dei lavori di restauro della città che si erano resi necessari in seguito al disastroso traboccamento dell'Arno avvenuto durante l'alluvione del novembre 1333.
Delle opere che Giotto e i suoi compirono a Napoli - e che un'attenta lettura dei documenti permette di precisare: dicembre 1328-2 gennaio 1330, affreschi nella chiesa delle monache in S. Chiara, con l'Apocalisse e altri soggetti; febbraio 1330-20 maggio 1331, Storie del Vecchio e del Nuovo Testamento e polittico dell'Assunta nella cappella maggiore di Castel Nuovo, completamento della decorazione della cappella segreta; 1332-1 luglio 1333, Uomini (e forse Donne) famosi nella sala maggiore di Castel Nuovo - non è rimasto che qualche frammento: brani d'un Compianto sul Cristo deposto, con una testa di plorante che può essere attribuita a Giotto stesso, e un lacerto d'affresco con la rappresentazione intensamente illusiva di stalli d'un coro, nel coro delle Clarisse a S. Chiara. Una serie di teste nelle fasce decorative dei finestroni della Cappella Palatina in Castel Nuovo, dove Giotto non compare mai in persona, ma vi si riconoscono con sicurezza il giovane Maso di Banco (che qui dà già prova dell'originalissima interpretazione plastico-geometrica con cui venne svolgendo un aspetto della visione del maestro) e altri discepoli del prothopictor che, come quelli operanti nel transetto sinistro e nelle vele della basilica inferiore del S. Francesco di Assisi - ma anche nel polittico Stefaneschi (Roma, Mus. Vaticani, Pinacoteca), che in molti passi ha somiglianze straordinarie con i frammenti napoletani -, ne svolsero soprattutto l'aspetto plastico-coloristico. Recentemente, s'è aggiunta a tutto questo un'intensa e ben conservata Crocifissione, esistente in un altro ambiente del convento di S. Chiara finora sfuggito all'attenzione degli studiosi, il cui ritrovamento è venuto a documentare meglio (con tutte le implicazioni cronologiche che ne derivano) l'ipotesi favorevole a una presenza nell'équipe giottesca di Napoli di maestri vicinissimi, se non identici, a quelli su ricordati, ossia a quelli che vanno sotto il nome (forse collettivo) di Maestro delle Vele e dell'Infanzia di Cristo. Nonostante l'esiguità di tutto questo, tuttavia, tali frammenti bastano a far comprendere quale ricchezza di idee e quale molteplicità di indirizzi il quinquennio giottesco dovette far conoscere nelle cerchie napoletane, stabilendo un non trascurabile punto di raccordo con il discorso riflesso trent'anni prima da Montano d'Arezzo e dal protogiottesco delle Storie della Maddalena in S. Lorenzo, ma soprattutto costituendo un punto di riferimento più vasto, più efficace e moderno, in grado di lasciarsi indietro tutti i precedenti.
Diversamente da quanto la vecchia critica aveva sostenuto, e con rara omogeneità di pareri, fu infatti il fatto giottesco del 1328-1333 a fecondare la miglior pittura napoletana dei decenni successivi, trasformando le persone già in via (innanzi a tutti Lello da Orvieto, con il pittore delle Storie di s. Elisabetta a Donnaregina, come s'è intravisto più a dietro) e suscitandone di nuove. Tra queste ultime gli studi moderni ne hanno identificato, e talvolta ricostruito dal nulla, almeno tre, ristrutturando anche le linee principali della storia della miniatura svoltasi negli stessi decenni. Un primo maestro, volto all'approfondimento dell'aspetto coloristico delle opere mature di Giotto e che non si riesce a intendere bene se fosse un primo napoletano guadagnato all'arte moderna di Giotto o l'unico membro della bottega giottesca rimasto a Napoli, è il Maestro di Giovanni Barrile al quale, oltre a talune teste nei finestroni della Cappella Palatina (dunque non posteriori al 1330-1331), spettano l'affresco 'pauperistico' con la Mensa del Signore in S. Chiara (ca. 1331-1332), la coeva tavoletta con S. Luigi di Tolosa venerato da Roberto d'Angiò e Sancia di Maiorca nel Mus. Granet di Aix-en-Provence, il Crocifisso della cattedrale di Teano, le Storie mariane della cappella di Giovanni Barrile in S. Lorenzo (ca. 1334-1335). Un secondo adepto della stessa situazione è l'arcaicizzante Maestro delle Tempere francescane, il cui apporto sembra risiedere nella capacità di voltare i parametri giottesco-masiani appresi a Napoli in un linguaggio figurativo specificamente 'pauperistico', e al quale insieme alle quattro tempere che gli danno il nome (oggi a Bergamo, coll. privata, databili a prima del 1336 e includenti anch'esse, ai piedi di una sconvolgente Crocifissione, i ritratti di Roberto e Sancia, risaputi protettori dei Francescani spirituali), spettano non solo il vasto polittico della cattedrale di Ottana dedicato a s. Francesco d'Assisi e a s. Nicola di Bari, ma un trittico già a Colobraro in Basilicata, oggi nell'episcopio di Tursi (Matera), che è in rapporto indubbio con il soggiorno in quelle terre (1334-1337) di frate Angelo Clareno, il perseguitato leader dei pauperisti cari ai sovrani napoletani, e ancora le pitture che ornano il tabernacolo di Brno, oggi a Praga (Národni Gal.), che è anch'esso ricco di riferimenti francescani e reca gli stemmi di re Roberto. La terza personalità s'identifica con il già ben noto Roberto d'Odorisio da Napoli (Robertus de Odorisio de Neapoli), il cui momento di formazione e la cui prima affermazione pubblica implicano anch'esse il coinvolgimento nelle stesse esperienze giottesco-masiane di cui si parla. È a tale ambito, infatti, che riconduce l'importante polittico con la Dormitio e Coronatio Virginis oggi a Bergamo (coll. privata), ma proveniente da Scala, il cui committente (come specifica una scritta presente nel pannello centrale dell'opera) fu Antonio Coppola, titolare d'una tomba nel duomo di Scala che replica in scultura il polittico stesso e reca la data del 1332. In quanto unisce la Dormitio con la Coronatio Virginis, che sono le fasi in cui veniva allora rappresentata l'Assunzione della Madonna, questo polittico può altresì contenere un ricordo tempestivo dell'ancona d'uguale soggetto che Giotto aveva dipinto nel 1330-1331 per la Cappella Palatina di Roberto d'Angiò. Esso ha inoltre somiglianze tanto strette con la Crocifissione firmata da Roberto d'Odorisio (già a Eboli, ora nel Mus. del Duomo di Salerno), nonché con le soluzioni spiccatamente giottesco-masiane che la caratterizzano, da comportare non solo la restituzione al medesimo maestro ma anche un congruo arretramento cronologico della stessa Crocifissione firmata, che, pur segnando un deciso progresso nell'accostamento del maestro all'arte di Maso, merita di non essere protratta oltre il 1335-1340. È in relazione al risultato di questi collegamenti e aggiustamenti cronologici (oltre che alla restituzione al pittore di altri dipinti analoghi, troppo numerosi per essere qui ricordati) che diviene possibile dare il passo conclusivo: l'assegnazione al momento culminante della fase giottesco-masiana di Roberto (forse addirittura dopo una ripresa di contatto con Firenze, in occasione del compimento - ca. 1340 - degli affreschi di Maso nella cappella Bardi di Vernio in Santa Croce) anche degli affreschi con Storie bibliche dell'Incoronata. I quali per altro, in quanto sono relativi a episodi di giustizia resa, e includono Storie di Mosè allusive all'origine della legge, per un verso vanno considerati un ciclo autonomo da quello più tardo e più noto dei Sacramenti, per un altro vanno fatti risalire agli anni in cui l'Incoronata, non ancora divenuta tale, fungeva da palazzo di giustizia e il tribunale sedeva giusto nell'ambiente (solo più tardi trasformato in navata centrale della chiesa) in cui si trovavano gli affreschi in questione. Dà una conferma definitiva di tale datazione, e la precisa a qualche anno prima del 1343, il fatto che taluni degli affreschi biblici indicati furono ripresi alla lettera in miniature incluse da Cristoforo Orimina nella Bibbia di Malines (Lovanio, Universiteitsbibl., Fac. Theol., 1): un codice fatto decorare da Niccolò d'Alife (uno dei compagni di Carlo di Calabria a Firenze e allora notaio della cancelleria del regno), quando non solo era ancora vivo re Roberto, morto il 20 gennaio 1343 e qui rappresentato in trono fra le virtù regie, ma anche Caroberto re d'Ungheria, premorto a Roberto nel 1342, e che qui appare da vivo, nella pagina dirimpettaia a quella di Roberto in trono, fra i numerosi personaggi della casata, ordinati per generazioni e secondo la gerarchia delle rispettive posizioni dinastiche. Nominato Cristoforo Orimina e l'arte miniatoria, non resta da aggiungere che anche Cristoforo, e innanzitutto nell'appena ricordata Bibbia di Malines, si rivela un adepto della cultura giottesco-masiana cresciuta durante il quarto decennio del secolo, per giunta in termini che, come mostrano legami con Roberto d'Odorisio al tempo delle Storie bibliche dell'Incoronata, così ne mostrano con il Maestro delle Tempere francescane al tempo del polittico di Ottana, ponendo nella maggiore evidenza l'unità di cultura che s'era formata a Napoli verso il 1340, sulla base delle esperienze promosse agli inizi del decennio precedente dalla presenza di Giotto e dei suoi. Il rapporto con le Storie bibliche di Roberto, d'altra parte, dovette essere particolarmente incisivo sull'orizzonte delle preferenze artistiche dell'Orimina, perché egli non cessò di ricordarsene anche in seguito: per es. nella Bibbia detta di Matteo di Planisio (Roma, BAV, lat. 3550), dove sono numerose le scene desunte, e spesso citate alla lettera, da quel modello.
L'unità culturale prodottasi nella pittura napoletana degli anni trenta annovera vari altri rappresentanti; fra questi, non possono esser passati sotto silenzio l'autore dei bellissimi frammenti d'affreschi nella cappella Minutolo in duomo, con la grandiosa galleria di personaggi della casata ritratti in preghiera (nonché 'al vivo', per quanto riguarda sia il canonico Orso, in carica verso il 1345, sia dominus Rizzardus, che fu familiare di Roberto oltre che giustiziere in Terra d'Otranto durante gli ultimi anni di vita del sovrano), e il pittore del S. Francesco che dà la regola al primo e al secondo ordine in S. Lorenzo, la cui iconografia forní il modello, ancora un secolo dopo, addirittura a Colantonio. Al pittore di S. Lorenzo, per altro, al quale il nome di Maestro della Regola sembra spettare di diritto e la cui indubbia originalità rende meritevole di un luogo di rilievo nel momento culminante del movimento, appartiene anche il ricostruito trittico del 1355 (Incoronazione della Coll. von Thyssen Bornemisza a Lugano, già attribuita al Semitecolo e recante la data; pannello con S. Luigi di Tolosa, S. Giovanni Battista e un francescano donatore, già a Londra, poi a Roma, coll. privata; pannello con il Miracolo di s. Antonio da Padova a Solignac, Parigi, coll. privata) che Zeri (1990) vorrebbe ora considerare opera d'un pittore costituente l'"anello mancante" fra le "presenze fiorentine e senesi a Napoli" e i maestri di Giovanni Barrile e delle Tempere francescane, ma la cui data progredita (nonché la fisionomia di singolare sperimentatore di nuove iconografie, che riscontra bene quella dell'istituzione della regola francescana a S. Lorenzo) impongono di apprezzare come un adempimento consapevole, non una premessa (tanto incerta quanto generica, per di più), dell'arte di quei due pionieri della cultura giottesco-masiana nel Sud, le cui opere più importanti risalgono infatti, documentabilmente, ad almeno vent'anni prima del trittico.
Rispetto alla realtà storica, non è mai adeguato assumere a spartiacque una data precisa, per quanto significativa. Nondimeno la morte di Roberto d'Angiò segna a Napoli l'apertura di una crisi e, a un tempo, l'inizio d'una svolta dalle quali anche l'unità culturale che aveva amalgamato la produzione pittorica degli anni trenta uscì trasformata e insieme ingrandita. Senza far parola della peste, che dal 1347 al 1348 devastò anche il regno con la sua capitale e s'intrecciò a tutti i principali avvenimenti che vi si verificarono, occorre far conto degli eventi innescati dal contrasto, scoppiato già all'indomani della morte del re, fra la minorenne erede di Roberto, Giovanna I, e il suo non meno giovane marito ungherese, Andrea. Fu un contrasto, questo, che portò innanzitutto all'assassinio di Andrea nella notte sul 19 settembre 1345, quindi a un prolungato conflitto dinastico, che da un lato provocò le due fasi dell'invasione del regno (metà del 1347-maggio 1348; aprile 1350-aprile 1352), guidata personalmente dal re d'Ungheria Luigi il Grande, fratello del principe ucciso, da un altro fu caratterizzato dal complicato intreccio di eventi di stato e di fatti personali che nel corso del 1348 costrinsero Giovanna a riparare ad Avignone, dopo aver peregrinato per tre mesi fra Marsiglia e Aix-en-Provence, la condussero al matrimonio con Luigi di Taranto che l'aveva seguita nella fuga e, finalmente, dopo il rientro a Napoli (17 agosto dello stesso anno), ma anche dopo la ripresa e fine dell'invasione magiara, portarono la coppia regale all'incoronazione, celebrata con grande solennità, ma non senza nuovi auspici sfavorevoli, nella Pentecoste (23 maggio) del 1352.
Per la pittura, questo lungo entracte incomincia con il trittico, oggi a Coral Gables (Miami, Univ., Lowe Art Mus., Kress Coll.), che Elisabetta Lokiethowna, la regina madre d'Ungheria accorsa a Napoli per sostenere le sorti del figlio Andrea (luglio 1343-febbraio 1344), fece eseguire dal senese Lippo Vanni, il quale, pittore in emergenza alla vigilia della morte di Simone Martini (che per altro era espatriato ad Avignone già da tempo), doveva evidentemente trovarsi a Napoli in quel momento. Gli si può infatti attribuire anche il bellissimo Cristo benedicente dei Mus. e Gall. Naz. di Capodimonte, proveniente da S. Chiara, che è compagno di altri scomparti ad Altenburg (Staatl. Lindenau-Mus.), a Gottinga (Kunstsammlung der Univ.) e presso privati, e perciò è in grado di provare l'esistenza, nella chiesa napoletana resa illustre da Giotto, di un altro non trascurabile complesso del nuovo maestro senese. Nel bel trittico di Coral Gables, inoltre, Elisabetta si fece raffigurare in persona con gli attributi regali, protetta dalla sua santa eponima (ungherese anch'essa, nonché filia regis, come vi si legge), accanto al figlio Andrea il quale stava conducendo in quei giorni la vertenza con la moglie Giovanna I per l'equiparazione regia sul trono napoletano, che lo avrebbe condotto di lì a poco alla morte.
Seguiti nel 1348 gli spostamenti della corte ad Avignone, e a questi le intense trattative intervenute negli anni successivi fra i Napoletani e Clemente VI (fra l'altro, la vendita della città di Avignone al papa, da parte dei reali angioini che la possedevano, avvenne giusto in questo giro di tempo), è nell'ordine delle cose che anche i pittori di Napoli - quasi a replicare quel che era avvenuto al tempo degli scambi con la Catalogna, il Rossiglione e la Provenza connessi con i viaggi aragonesi e provenzali di Carlo II lo Zoppo - aprissero una trama di rapporti con l'altra sponda del Mediterraneo dove, nel frattempo, succedendo a Simone Martini, era comparso Matteo Giovannetti. Mentre la critica continua a compiere sforzi per indentificare nel contesto degli affreschi avignonesi l'intervento personale di Roberto d'Odorisio, è un fatto assodato che spetta a lui in questa fase il dittico diviso fra New York (Metropolitan Mus. of Art, Robert Lehman Coll.) e Londra (Nat. Gall.), in cui in passato sono state additate con insistenza le componenti derivate dalla pittura postmartiniana di Avignone. Ma indipendentemente dal quesito di un'eventuale presenza personale dell'Odorisi nei cicli pittorici avignonesi, e magari della 'reciproca', che maestri formatisi ad Avignone scendessero a operare a Napoli (i lacerti d'un monocromo su marmo con Storie della Passione, esistenti su un architrave della cappella degli Illustrissimi nel duomo napoletano, potrebbero esserne un esempio), è indubbio che da questo nesso il corso della pittura napoletana ricevette la spinta che la caratterizzò per tutti gli anni cinquanta. Per altro senza rinnegare, bensì pervadendo di altra linfa, la fondazione giottesco-masiana degli anni trenta.L'opera d'apertura e insieme il capolavoro di questa nuova situazione è il noto ciclo dei Sacramenti che Roberto d'Odorisio dipinse sulle volte dell'Incoronata, appena allora trasformata in chiesa da Giovanna I, la quale volle celebrarvi a un tempo la reliquia della spina tolta dalla corona di spine di Cristo, portata a Parigi da s. Luigi IX, e l'incoronazione regia ricevutavi nel maggio del 1352. Ai Sacramenti, altresì, va abbinato il Cristo coronato di spine in pietà tra i simboli della passione del Fogg Art Mus. a Cambridge (MA), che, oltre a essere opera di Roberto nella stessa congiuntura, è anche il centro della "cona grande [...] in mezze figure, anzi insino al ginocchio espresse", che il settecentesco De Dominici ricordò sull'altare maggiore della stessa chiesa, come opera dello stesso pittore a cui attribuiva gli affreschi. I Sacramenti, inoltre, sono databili con certezza entro il 1354 perché il passo con i chierici cantori, presente nello scomparto dell'Ordine sacro, risulta imitato nella pagina recante giusto quella data nel nuovo capolavoro miniatorio eseguito da Cristoforo Orimina: gli Statuti dell'ordine del Nodo (Parigi, BN, fr. 4274) decorati a seguito dell'istituzione dell'ordine cavalleresco (del Nodo o dello Spirito Santo) promosso da Luigi di Taranto. E non può sfuggire che, mentre questo ulteriore caso di derivazione di Cristoforo da Roberto ci ripone sulla stessa traccia individuata verso il 1340-1342 al tempo dei nessi fra le Storie bibliche del secondo e la Bibbia di Malines del primo, i Sacramenti e le miniature degli Statuti del Nodo si collegano tra loro sul filo di un'accresciuta tenerezza pittorica, anzi di un'apertura alle ricerche goticizzanti in senso naturalistico, che collocano anche l'Orimina, insieme all'Odorisi, sul colmo del movimento avignonese suscitato dagli scambi recenti. E nell'uno come nell'altro caso, ponendosi l'acutezza delle indagini ambientali o, come avrebbe detto il De Dominici, delle intelligenze prospettiche, a uno dei vertici degli interessi illusivi dei due maestri, la spina dorsale delle ricerche di entrambi torna a essere il fatto giottesco, così come l'avevano assimilato quindici, vent'anni prima, ma anche come le occasioni più specificamente masiane - e verosimilmente fiorentine - degli anni quaranta avevano loro permesso di aggiornare.
Con Roberto di Odorisio e Cristoforo Orimina, anche il Maestro delle Tempere francescane riemerge dopo il 1350 sintonizzato sulla cultura avignonese; e se è sua la bella Madonna dell'Umiltà con S. Domenico e un devoto (su fondo azzurro e l'Annunciazione nei cantini) che si conserva a Napoli in S. Domenico Maggiore, tale sintonizzazione deve intendersi specificamente nei confronti del particolare milieu da cui era uscita nel 1346 la Madonna dell'Umiltà che il ligure Bartolomeo Pellerano inviò da Avignone a Palermo (Palermo, Gall. Regionale della Sicilia). Il fondo azzurro, che è eccezionale nella pittura trecentesca su tavola, deriva dalla pittura murale e si trova innanzitutto nella Madonna palermitana del Pellerano; il fregio ad archetti trilobati che inquadra il campo centrale della tavola napoletana riprende il tema identico che compare ad Avignone negli affreschi della sala dell'Udienza; lo stesso tema iconografico della Madonna dell'Umiltà, anch'esso in comune col Pellerano e nel Napoletano trattato di nuovo sia dall'Odorisi, sia da un finissimo affrescatore di S. Chiara a Nola che potrebbe essere scambiato con l'autore delle celebri tavolette cristologiche di Aix-en-Provence (Mus. Granet) e di New York (Metropolitan Mus. of Art, Robert Lehman Coll.), nasce dall'eccezionale creatività iconografica che conviene ritenere tipica delle cerchie avignonesi, e a cui va fatta risalire anche l'estrapolazione in autonomia delle Arma Christi, quali appaiono di nuovo nella tavola palermitana del Pellerano (al centro della predella), ma anche nel rovescio del dittico Londra-Lehman (Londra, Nat. Gall.; New York, Metropolitan Mus. of Art, Robert Lehman Coll.), citato più sopra quale opera appunto 'avignonese' di Roberto d'Odorisio.Accanto a tutto questo, finalmente, prende luogo il ciclo di affreschi con Storie della Maddalena esistente a S. Pietro a Majella in Napoli, nella cappella del potente ma sfortunato conte di Altamura e Minervino, Giovanni Pipino. Qui, a una data che per le vicende personali del committente non può scendere oltre il 1348-1350, operarono gli stessi due pittori ai quali sono dovute le parti principali della Bible moralisée di Parigi (BN, lat. 9561). E il maggiore dei due (l'autore della Cena di Betania e degli scomparti con il Viaggio del Principe devoto della Maddalena, nella cappella Pipino; delle quindici scene cristologiche più note, nella Bible moralisée: cc. 81, 142, 179, 188 ecc.) sembra essere, se non identico, vicinissimo al Maestro di Giovanni Barrile, a patto, però, che non gli si voglia assegnare anche la Circoncisione di Dresda (Staatl. Kunstsammlungen, Gemäldegal. Alte Meister) attribuitagli recentemente, che è invece opera fiorentina, molto simile ad Agnolo Gaddi. Del Maestro di Giovanni Barrile, in ogni caso, il primo dei due pittori dei Pipino e della Bible prosegue con la maggior sensibilità possibile la linea giottesca più incline alle ricerche cromatico-luminose (non alle calcolate geometrie di Maso care all'Odorisi), per sovrapporre a esse gli arricchimenti gotico-naturalistici di provenienza avignonese: quelli, in particolare, elaborati nelle già ricordate Storie di Cristo della Coll. Lehman e del Mus. di Aix-en-Provence, che Meiss (French Painting in the Time of Jean de Berry, London 1967, pp. 29, 367 n. 154) riteneva di poter assegnare proprio al maestro principale della Bible moralisée. È inoltre importante ricordare che, passando la Bible moralisée dall'Italia meridionale in Francia (eseguita nel Sud non oltre il 1355 e portata in Puglia, dovette acquisirla innanzitutto Luigi I d'Angiò, morto a Bisceglie nel 1384 mentre tentava di conquistare Napoli; da questi passò a Luigi II, pretendente come il padre al trono di Napoli promessogli da Giovanna I; e da Luigi II pervenne a Iolanda d'Angiò, sua moglie, che ne era in possesso nel 1420), la congiunzione napoletano-avignonese in essa operante riuscì a divenire la fonte - almeno iconografica - di alcuni passaggi delle Grandes Heures di Rohan (BN, lat. 9471).
La congiunzione napoletana-avignonese ebbe infine per effetto di condurre a una riscoperta ormai retrospettiva dell'arte di Simone Martini, la quale riscoperta va considerata una delle prime manifestazioni del recupero cólto del passato martiniano che di lì a poco caratterizzò uno degli aspetti essenziali del Gotico internazionale. A Napoli, il leader di tale operazione fu l'affrescatore (ma tanto fine da non nascondere la collusione con l'arte miniatoria) a cui sono dovute le Storie di s. Martino (non di s. Pietro Celestino) esistenti nella cappella Leonessa in S. Pietro a Majella e l'affresco dell'abside di S. Eligio Maggiore: lo stesso che, passato nel Cilento e ancora più giù, eseguì altri affreschi di notevole livello in S. Michele di Teggiano e nell'ex convento di S. Francesco a Giffoni Vallepiana. Un pittore, questo, al quale ultimamente s'è voluta assegnare una marcata dipendenza dalla pittura emiliana, ma che non ha bisogno di ciò, essendo egli un brillante sintetizzatore di modi fiorentini postgiotteschi, recuperi martiniani e tratti avignonesi, indotti in un clima pungente ed eteroclito da ricordare l'orvietano Cola di Petrucciolo.
Durante il decennio 1360-1370, il tratto saliente della pittura napoletana va ricercato nello svolgimento dell'attività miniatoria, e principalmente nelle illustrazioni di quel singolare monumento che è l'Uffiziolo di Giovanna I (Vienna, Öst. Nat. Bibl., 1921) eseguito al tempo del governo personale della regina (1362-1375). In esso, alla contrastata ricchezza dei temi iconografici, che tra scene di pietà sviscerata, rappresentazione di martirii, 'uffizi funebri' e l'insipiente negatore di Dio, denuncia l'aggravamento della tensione spirituale che s'era già delineata nei decenni decorsi, corrisponde una varietà di indirizzi figurativi da cui viene in evidenza un irrequieto fermento di cose nuove, e che per un verso anticipa gli affrescatori di Galatina, per un altro fa presentire Ottaviano Nelli, per un altro ancora introduce ai pittori espressionistici di Loreto Aprutino in Abruzzo e dell'abside maggiore del duomo di Offida.
Nel 1371, con l'arrivo di Niccolò di Tommaso, che dipingeva e firmava il trittico di S. Antonio Abate per la chiesa del santo fondata di recente dalla regina Giovanna (ma eseguì anche affreschi importanti a Casaluce e nella certosa di Capri), l'ambiente della corte napoletana tornò a orientarsi verso i fiorentini, che infatti appaiono in numero nei vasti cicli d'affreschi compiuti sul 1370, o poco dopo, a fianco o in alternativa allo stesso Niccolò di Tommaso, che ora non è ininfluente ricordare come, con ogni probabilità, fosse il figlio di Maso di Banco. Certo l'attività sua e quella dei compagni fiorentini aveva riportato in auge una linea pittorica che non può non esser definita neomasiana. E chissà se per effetto dell'ondata neomasiana, intorno al 1380 ricompare anche Roberto d'Odorisio, del quale non s'era sentito più parlare negli ultimi anni, ma che un diploma di Carlo III di Durazzo, intanto succeduto a Giovanna I, chiama nel 1382 protopittore regio. Nonostante taluni pareri discordi, spettano infatti all'Oderisi di questi anni la Madonna dell'Umiltà della cappella Aquino-Sanseverino in S. Domenico a Napoli (che sembra portare un contributo speciale anche al movimento neomartiniano di cui s'è detto) e la notevolissima Pietà del Mus. Regionale Pepoli di Trapani, la cui presenza in Sicilia - possibile solo dopo la pace di Aversa del 1373 - è essa stessa indice di datazione tarda.
Un ultimo episodio notevole va ricordato prima della chiusura del secolo, ed è quello della Pietà già nei Ss. Crispino e Crispiniano di Salerno, ora nel Mus. del Duomo della città, a cui s'intitola un pittore autonomo responsabile di notevoli frammenti d'affreschi nel quadriportico del duomo salernitano, e - nonostante un diverso parere recente, ma anche in questo caso non ben fondato - l'Annunciazione dell'Annunciata ad Aversa, la quale, essendo ricordata in antico come opera di un Ferrante Maglione, potrebbe far uscire il maestro dall'anonimato. Questi, comunque, sembra provenire da una formazione svolta nell'ambito di Matteo Giovannetti a Roma, quando l'ormai celebre e anziano maestro viterbese vi aprì bottega di ritorno da Avignone, nel 1367. In seguito, il pittore doveva essersi incontrato anche con Roberto d'Odorisio: precisamente al tempo della Pietà di Salerno, che dimostra somiglianze apprezzabili con la Pietà inviata in Sicilia dall'Odorisi.
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di F. Aceto
Il traumatico cambio di dinastia nel regno di Sicilia, sancito dalla vittoria delle armate di Carlo I d'Angiò su quelle sveve nella battaglia di Benevento (1266), nel breve periodo non provocò nessun sostanziale rivolgimento degli orientamenti artistici di punta che avevano avuto corso fino ad allora, nel Mezzogiorno, sotto la spinta degli Hohenstaufen. Questo perché, se risulta perfino ovvio che la corte e la nuova classe feudale, di nazione francese, inclinassero nelle scelte artistiche verso la civiltà gotica in quei decenni in piena espansione nelle terre d'origine, è ben vero che alla medesima fonte per circa mezzo secolo avevano attinto gli Svevi, con tale continuità e coerenza di intenti da suscitare nel Meridione un potente movimento d'arte capace, per forza propria, di espandersi oltre i confini del regno e di provocare una svolta radicale nella scultura centro-italiana con il trasferimento in Toscana, intorno al 1247, di Nicola de Apulia. Le modalità con le quali tale 'continuità' prese corpo anche nel settore della scultura (mentre autorizzano a escludere una inerte prosecuzione di modi formali connessa con la materiale sopravvivenza di botteghe di più antica costituzione), fanno pensare a una consonanza di fondo con quegli indirizzi da parte dei nuovi sovrani, i quali erano nella migliore condizione per apprezzarne i caratteri di modernità e, nel contempo, la piena rispondenza alle loro esigenze culturali.
L'artista che di questo fenomeno è la più alta espressione è senza incertezze Nicola di Bartolomeo, il quale, a conclusione di una carriera che da molte parti si vuole cominciata sui ponteggi di qualcuna delle tante fabbriche federiciane, venne cooptato nel cantiere angioino del castello di Lucera, donde nel 1274 Carlo I d'Angiò lo richiese, con espressioni verbali attestanti l'alta considerazione delle sue doti, per utilizzarlo a fianco di architetti francesi nella costruzione dell'abbazia di S. Maria di Realvalle, presso Scafati (Salerno). Accanto a Nicola da Foggia e ai più modesti, spesso anonimi artefici che continuarono ad attingere al repertorio di forme 'sveve' ancora al volgere del secolo, un ruolo non secondario nelle imprese decorative promosse da Carlo I d'Angiò svolse maestro Peregrino, uscito pure lui dal medesimo ceppo artistico, il quale nel 1273 veniva perentoriamente richiamato dal sovrano perché completasse il corredo scultoreo della cappella annessa al palazzo, già federiciano, di S. Lorenzo in Pantano, presso Foggia. Merita di essere posta in rilievo la circostanza che di questo gusto appaiono partecipi larghi settori della società. Una chiara indicazione al riguardo è fornita proprio dalla natura delle opere che hanno tramandato il concreto ricordo di questi maestri: per Nicola di Bartolomeo, il pulpito della cattedrale di Ravello, firmato e datato al 1272, che si sa commissionato da un nobile del luogo, Nicola Rufolo, peraltro legato ai circoli di corte nella sua qualità di funzionario; per Peregrino, il cero pasquale e i due parapetti della scala di accesso al pulpito della cattedrale di Sessa Aurunca, eseguito al tempo del vescovo Giovanni (1259-1283).
Integrando questo quadro con i non pochi episodi di scultura lignea di schietta impronta francese sparsi per il Mezzogiorno e ancorabili tra i maturi tempi svevi e la prima età angioina (Madonna in trono con il Bambino nella chiesa del Crocifisso a Brindisi; gruppo della Deposizione nel duomo di Scala, presso Amalfi; Cristo deposto nell'abbazia di Montevergine, per ricordare solo gli esempi di maggiore impegno formale), riuscirà agevole, da un lato, rendersi conto della vivacità e larghezza di interessi dell'ambiente, dall'altro sarà possibile recuperare un credibile contesto a un'opera assai importante per committenza e livello stilistico, come la tomba di Isabella d'Aragona (m. 1271), moglie del sovrano di Francia Filippo III l'Ardito, nel duomo di Cosenza. A ulteriore e più aderente specificazione occorre, però, anche aggiungere che, a fronte della cultura di un Nicola di Bartolomeo, la tomba cosentina, nei suoi inediti accenti espressivi, presuppone la riapertura di un diretto canale con la Francia e un pronto aggiornamento sulle soluzioni di vivacità aggraziata che prendono piede a Parigi al tempo di Luigi IX. Da allora in avanti, e con particolare incisività durante gli anni di governo di Carlo I e di Carlo II, fu il Gotico francese più à la page a dettare legge a corte, in primo luogo in quei settori (architettura, miniatura, oreficeria e manufatti in avorio) nei quali la Francia esercitava un ruolo guida in Europa. Mentre per gli intagli in avorio, dei quali è superstite in loco l'altarolo nella cattedrale di Trani, si è giustamente pensato a una corrente di traffici che doveva far capo alle attivissime botteghe parigine, nell'oreficeria, accanto agli oggetti importati, si assiste al fatto nuovo e di rilevante significato della creazione di un atelier regio, gestito nei primi tempi da orafi francesi. Il numero davvero impressionante dei maestri transalpini, i nomi dei quali ricorrono nelle carte d'archivio a far data dal 1297, con una fortissima concentrazione particolarmente nel primo decennio del Trecento (Etienne Godefroy, Pierre e Gilbert de Trivelle, Etienne de Bembar, Jean Flamand, Martin, Guillaume de Verdelay, Bon e Milet d'Auxerre, quest'ultimo attestato fino al 1332) e soprattutto l'enorme consistenza dei tesori in possesso dei sovrani e di chiese, documentata da testamenti (di straordinario interesse quello della regina Maria d'Ungheria) e da inventari, forniscono più che un semplice indizio per valutare il peso della cultura francese a corte. Rarissime purtroppo, tra dispersioni e distruzioni, le opere conservate (croce-reliquiario gigliata nel tesoro nel Mus. di S. Nicola a Bari; casula nel Mus. Archeologico Naz. di Cividale), le quali annoverano, però, un capolavoro nel busto argenteo di S. Gennaro (Napoli, duomo), eseguito negli anni compresi tra il 1304 e il 1306 da tre orafi di corte, Etienne Godefroy, Guillaume de Verdelay e Milet d'Auxerre: manufatto di complessa fattura, raffinato pezzo di oreficeria e, insieme, scultura di respiro monumentale nella sua astratta, tornita volumetria, vivificata tuttavia da notazioni di così acuta caratterizzazione da aver fatto pensare a un movente ritrattistico di partenza.
È in questo clima di idee formali che va collocata la genesi delle tombe dei Lagonissa nell'abbazia di Montevergine, eseguite intorno al 1304 da una maestranza, la cui pura matrice francese non può in alcun modo essere revocata in dubbio, malgrado i ricorrenti e fuorvianti tentativi di accreditare una referenza romano-arnolfiana. Sulla stessa linea di preferenze culturali, a parte il gisant in S. Maria della Consolazione ad Altomonte (Cosenza), l'altro ora sistemato sull'arca di Raimondo Cabano in S. Chiara a Napoli, la statua creduta di Carlo II d'Angiò sul portale di S. Domenico Maggiore a Napoli, infine una problematica e assai espressiva testa pure di gisant conservata nei Mus. e Gall. Naz. di Capodimonte, riferita a uno dei sepolcri reali di fine Duecento un tempo nel duomo della medesima città, di non poco rilievo è la notizia della presenza nella capitale angioina, nel 1309, di due scultori tedeschi, Theodoricus e Gilectus frater, autori di una perduta statua commemorativa di Carlo II ancora per il duomo.
Alla luce di questi fatti, se appare difficilmente contestabile l'opinione di quanti (contro le ipotesi di tipo riduzionistico o in favore di un presunto, antico radicamento della componente culturale senese) hanno inteso rivendicare l'importanza di Napoli quale testa di ponte e centro di espansione dell'arte francese, tuttavia, a una attenta verifica, occorre altresì riconoscere che questa, già con gli inizi del regno di Roberto (1309), perde progressivamente incisività rispetto al peso crescente degli apporti romani e centro-italiani. Sintomi chiarissimi di uno stato di cose in via di evoluzione si colgono persino in settori quali quello dell'oreficeria, finora monopolio quasi assoluto di maestri francesi. Orafi transalpini sopravvivono a corte fino agli inizi degli anni trenta del Trecento, e altri giungono ancora qualche decennio dopo (Jacques de Saint-Omer, attestato nel 1341); ma si tratta ormai di episodi di una tendenza minoritaria a fronte del crescente apprezzamento per l'oreficeria e per lo smalto traslucido senese: nel 1313 e nel 1318 è al servizio della corte Pietro di Simone da Siena; per Napoli si è supposto che fossero stati lavorati, tra il 1317 e il 1320, due capolavori dell'oreficeria senese, il calice del British Mus. firmato da Tondino di Guerrino e Andrea Riguardi e la croce stazionale ora nella chiesa parrocchiale di S. Vittoria in Matenano; tra il 1337 e il 1339 è presente Lando di Pietro. A confermare questi rapporti restano, nel Mezzogiorno, le placchette smaltate della croce-reliquiario salernitana detta di Roberto il Guiscardo (Salerno, Mus. del Duomo), il calice firmato da Guidino di Guido a Sacco (S. Silvestro) e, tra i più significativi prodotti di maestranze meridionali ispirati a quei modelli, il calice nella cattedrale di Scala (1332).
A dire il vero, nel campo della scultura monumentale i fatti francesi già da tempo avevano imparato a convivere con quelli romano-arnolfiani, inaugurati, si può dire, dallo stesso Carlo I con il celebre episodio della statua senatoriale per il Campidoglio, proseguiti con l'accertata presenza a Mileto, in Calabria, di quel Pietro d'Oderisio, già socio di Arnolfo nel ciborio di S. Paolo f.l.m., e destinati a infittirsi nel primo decennio del Trecento con l'apertura della corte angioina alle esperienze pittoriche che avevano corso nell'Urbe (del 1308 è l'ingaggio di Pietro Cavallini, seguito nel suo cammino verso il Sud, qualche anno dopo, da Lello da Orvieto, che dalla cultura del grande pittore romano muove). L'artista meridionale che più di altri mostra di essersi giovato di questa congiuntura romano-arnolfiana è Nicola da Monteforte, autore nel 1311 dei pulpiti (quasi completamente distrutti) per il duomo di Benevento. Ad avere seguito, però, nei primi due decenni del Trecento fu soprattutto la particolare declinazione che del linguaggio di Arnolfo avevano dato i maestri 'cosmateschi'. Contribuivano a mantener vivi questi contatti peculiari preferenze dell'ambiente campano, ma forse anche ragioni contingenti, di mero ordine pratico. La predilezione delle botteghe romane per gli effetti cromatici, ottenuti con l'uso di marmi incrostati di tessere musive, riusciva certamente gradita in una regione dove quel genere di ornato vantava una lunga tradizione. Occorre tuttavia chiedersi se si trattò solo della mutuazione di un gusto o se invece il successo della formula non si debba connettere alla vantaggiosa possibilità di rifornirsi di manufatti già lavorati, a costi presumibilmente contenuti per l'ampia disponibilità di questo prodotto sul fiorente mercato romano. Autorizzano ad affacciare una simile ipotesi non solo i genuini caratteri romani delle opere (l'arca dell'arcivescovo Filippo Minutolo nel duomo di Napoli del 1301 ca., variamente attribuita ai fratelli Mellini o allo stesso Pietro d'Oderisio; nella stessa chiesa quella del pontefice Innocenzo IV, del 1315, trasformata nel Cinquecento: le sole superstiti tra quelle lavorate 'alla mosaica' ricordate dalle fonti), ma anche i dati documentari a disposizione, dai quali si ricava netta la sensazione dell'esistenza di ostacoli oggettivi al costituirsi in loco di una solida tradizione di mestiere, per il venir meno di alcune condizioni essenziali: una committenza attiva, capace di stimolare lo spirito di concorrenza tra gli artefici e quindi la loro creatività; la disponibilità a costi accessibili dei materiali. In merito al primo punto, con la modestia complessiva dei manufatti, anche di committenza regia, occorre valutare i risvolti di alcuni fatti: da un lato, la consuetudine della corte angioina, largamente invalsa fino a Carlo II, di far traslare le spoglie di principi e sovrani in Francia; dall'altro, l'inspiegabile e sorprendente ritardo (si è nel 1332-1333) con il quale si provvide a elevare "sepulchra honorabilia et condecentia Regie dignitati" (detto per bocca di re Roberto) a Carlo I, al nipote Carlo Martello, re d'Ungheria, e alla moglie di questi Clemenza d'Asburgo, da decenni sepolti in duomo. Per il secondo aspetto, si deve ricordare che quando, nel 1324 e nel 1325, si trattò di mettere mano ai monumentali sepolcri di Caterina d'Austria, prima moglie di Carlo di Calabria, e della regina Maria d'Ungheria, fu a Roma che si fu costretti ad approvvigiornarsi dei marmi occorrenti. Se non bastasse, già un decennio prima, nel 1314, un Ramulus de Senis - per solito identificato con il misterioso Ramo di Paganello, ritornato in patria de partibus ultramontanis nel 1281, e attivo prima nel duomo di Siena, poi in quello di Orvieto - era stato inviato proprio nella cittadina umbra per procurarsi mosaici e arruolare maestri esperti in questo genere di lavori da utilizzare nella fabbrica del palazzo di Bartolomeo di Capua, logoteta e protonotario del regno.
In un contesto così sbilanciato verso l'esterno e intrinsecamente debole, sempre meno vivificato dal lievito della cultura francese e con i prodotti romani ormai assestati in una cifra di corrente artigianato, erano poste tutte le condizioni per l'inserimento di un artista delle capacità di Tino di Camaino, uno dei pochi in questi anni in grado di assecondare le esigenze e i programmi di una corte intenzionata sempre più, specie con Roberto, "rex expertus in omni scientia", a utilizzare anche la cultura come strumento di prestigio e di affermazione politica. Tino, difatti, acquisì subito una posizione di assoluta preminenza, monopolizzando, con l'aiuto di un'organizzata bottega, tutte le iniziative regie nel campo della scultura, e persino in quello dell'architettura, al punto da fare di Napoli la sua residenza definitiva fino alla morte, nel 1337. Sfugge la circostanza precisa che consentì l'allacciarsi di questi rapporti. Mentre non va trascurato un interessante dato esterno (Caterina d'Austria, la cui tomba è considerata la prima opera del senese a Napoli, avanti di convolare a nozze con Carlo di Calabria, era stata già sposata per brevissimo tempo con l'imperatore Arrigo VII, il cui sepolcro, com'è noto, fu eseguito dallo stesso Tino), la contestuale considerazione delle vicende politico-diplomatiche, che in quegli anni vedono protagonisti gli A., e degli interessi culturali che parallelamente venivano maturando a corte, spinge a connettere il trasferimento di Tino nel Meridione alle relazioni intrattenute dalla corte con le città guelfe della Toscana, con Firenze in particolare, donde alla fine del 1328 giunse anche Giotto.
L'intensissima attività napoletana di Tino, che occupa un arco di quattordici anni, dal 1324 al 1337, è scandita da una cospicua serie di imprese monumentali, in parte distrutte o scomposte (del 1324-1325 è il sepolcro di Caterina d'Austria, in S. Lorenzo Maggiore; del 1325-1326 quello della regina Maria d'Ungheria, in S. Maria Donnaregina; nel corso degli anni trenta si scalano: i sepolcri di Carlo di Calabria, della figlioletta Maria e di Maria di Valois in S. Chiara; quelli di Giovanni, duca di Durazzo, e di suo fratello Filippo, principe di Taranto, in S. Domenico Maggiore; quasi certamente le tombe regie del 1332-1333 in duomo; infine il perduto sepolcro di Matilde d'Hainaut e quello di Enrico Sanseverino, quest'ultimo nella cattedrale di Teggiano; le sculture nella badia di Cava), oltre a minori interventi, a non voler considerare le tante sculture, alcune di piccolo formato e di devozione privata, disperse in chiese, collezioni e musei italiani e stranieri. Così come accadde poi con Giotto in pittura, la riconosciuta qualità della sua formula determina una svolta radicale nell'ambiente, stimolato da una brusca impennata della domanda. Fino ai primi anni quaranta tutto quello che di qualità si produce a Napoli in scultura in marmo parla inconfondibilmente lo stile del senese, anche per iniziativa di un gruppo di scultori, forse in parte già suoi collaboratori, che ne continuano la lezione; e una speciale fortuna ebbe fino all'aprirsi del nuovo secolo, fino al sepolcro dell'arcivescovo Francesco Carbone (m. 1405) nel duomo, l'assetto strutturale dei suoi monumenti funerari, complessi organismi plastico-architettonici, nei quali il tema privato e religioso della commemorazione funebre si intreccia con quello della celebrazione politico-dinastica del defunto. Naturalmente non bisogna nemmeno credere che dell'ambiente Tino esaurisca tutte le possibilità. La componente di cultura più schiettamente francese anche negli anni di Roberto non risulta affatto pretermessa, ma tuttavia appare confinata nell'ambito circoscritto della scultura lignea, documentata da una serie di opere di alto livello al centro di un dibattito che ha l'altro suo polo di riferimento nell'area umbra.
La scomparsa del senese provocò certo un momentaneo impoverimento, ma nessuna vera cesura. A orientare gli artisti locali per vie nuove, ma non sempre con il necessario rigore di stile, fu la chiamata a Napoli dei fiorentini Pacio e Giovanni Bertini, ai quali nel 1343 la regina Giovanna I affidava l'incarico di elevare in S. Chiara - vero e proprio sacrario degli A. - il monumento dell'avo Roberto. Grandiosa macchina simbolica, ridondante di ornati e di sculture, concettualmente organizzate in un programma avente per tema la glorificazione del ruolo sovrano del defunto e delle aspirazioni politiche, religiose, culturali, che ne avevano contraddistinto l'azione di governo, il sepolcro di Roberto - danneggiato nell'ultima guerra - immetteva una ventata di cultura gotica attinta alle esperienze fiorentine di Andrea Pisano, con una battuta in anticipo rispetto a quanto si sarebbe verificato in pittura, ma con caratteristiche alquanto diverse, per l'intensificarsi delle relazioni tra Napoli e la Provenza. È problema tuttora aperto distinguere in tanta congerie di sculture le spettanze di Giovanni e quelle di Pacio; né privo di incertezze si è rivelato il tentativo di quanti hanno inteso riferire al secondo dei due quelle parti della tomba in cui più marcate appaiono le collusioni con Tino, prendendo a pretesto la circostanza che un Pacio de Florentia - che ben potrebbe essere la stessa persona - sia ricordato come collaboratore del senese nel 1325, nei lavori per la certosa di S. Martino a Napoli. La questione è complicata dal più che probabile coinvolgimento nell'impresa di qualcuno degli aiuti di Tino, anche per rispettare i tempi previsti dal contratto di allogagione dell'opera (un anno), un termine troppo ottimistico se alla tomba si continuava a lavorare ancora nel 1346. Le novità del linguaggio dei Bertini, caratterizzato da marcati accenti gotici nelle eleganti e aggraziate falcature delle figure e nelle sottili cadenze lineari dei panneggi, proprie di altre opere nella stessa S. Chiara e a Capua, opere che a essi sono state a ragione riferite, trovano gli artisti locali pronti ad aderirvi e a farsene continuatori per buona parte della seconda metà del Trecento, sia pure in ripetizioni vieppiù di maniera (dalle scomposte tombe di Tommaso e Cristoforo d'Aquino in S. Domenico Maggiore, successive al 1357, a quella di Nicola Merloto e di Maria di Durazzo, sorella della regina Giovanna I, in S. Chiara, che sono tra i migliori prodotti napoletani di questa tendenza). Nell'ultima parte del secolo, nella quale cadono i sepolcri di Raimondo del Balzo e della moglie Isabella de Apia, in S. Chiara, e i qualificati episodi di committenza regia delle tombe durazzesche in S. Lorenzo Maggiore, le vicende della scultura conoscono un percorso meno unitario e limpido, quasi a rispecchiamento delle travagliate vicende del regno, sebbene a rendere il quadro più confuso contribuisca non poco anche lo stato assai arretrato delle ricerche.È soltanto con l'aprirsi del Quattrocento, al tempo di Ladislao di Durazzo, che, nel fitto intreccio di diramati rapporti con le regioni adriatiche e con quelle rivierasche del Mediterraneo occidentale, irrompe sulla scena napoletana, con la carica bizzarra e accesa fino alla deformazione caricaturale del suo linguaggio, un autentico protagonista, Antonio Baboccio da Piperno, scultore della corte (sepolcri di Agnese e Clemenza d'Angiò in S. Chiara e della regina Margherita di Durazzo, moglie di Carlo III, nel duomo di Salerno) e della sua stretta cerchia (sepolcro Penna in S. Chiara, sepolcro dell'ammiraglio Ludovico Aldomorisco in S. Lorenzo Maggiore, portale della cappella Pappacoda). Con Baboccio si è ormai immessi nel vivo della cultura del Gotico fiorito, appresa quasi certamente nel clima internazionale del cantiere del duomo di Milano, da dove pare egli sarebbe stato chiamato a Napoli nel 1407, per mettere mano al portale del duomo. Ma quando giunse a Napoli all'età di cinquantasei anni, egli aveva una fisionomia ben definita, pur rivelandosi capace di ulteriori accrescimenti all'interno della stessa cultura figurativa. Non tutto è chiaro del suo percorso, nel quale occorre collocare altresì il portale del duomo di Messina; soprattutto sfugge la sua precedente attività, non limitata peraltro alla scultura in marmo, che potrebbe aver contemplato un precedente soggiorno napoletano, non suffragato finora da nessuna opera che gli si possa riferire con qualche fondamento, malgrado non siano assenti più antichi risentimenti della sua maniera.
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di E. Marosi
Nella tradizione storico-artistica ungherese si parla comunemente di 'epoca angioina' e il ruolo di tramite di questa dinastia è stato ritenuto determinante per la presenza di influssi italiani nell'arte del 14° secolo. Tale definizione esprime una visione della tradizione storico-artistica di questo paese secondo la quale la peculiarità dell'arte ungherese del tempo consisterebbe in una particolare tendenza alla ricezione della produzione artistica protorinascimentale italiana. Stabilendo tuttavia una corrispondenza immediata fra la provenienza dall'Italia della dinastia angioina e lo sviluppo dell'arte in Ungheria, si trascurano alcuni fattori: quando Carlo I giunse a Napoli, l'influsso dell'arte toscana del Trecento non vi si era ancora manifestato; l'arte di corte in Ungheria sotto gli A. fu caratterizzata da molteplici rapporti con l'Europa centrale e le relazioni con l'Italia assunsero un ruolo significativo solo dal secondo quarto del sec. 14°; intorno al 1360-1370 si manifestò inoltre nell'arte ungherese una evidente trasformazione stilistica; infine, l'intera produzione artistica del paese non può essere identificata esclusivamente con l'arte di corte e lo stesso ampio influsso di questa si può accettare solo in via di ipotesi. È dunque evidente che la definizione di 'epoca angioina' va impiegata solo in riferimento all'attività artistica legata alla corte.
La scomparsa della maggior parte dei monumenti del primo periodo di regno di Carlo I (Caroberto) rende difficile determinare le componenti che caratterizzarono l'arte da lui promossa. L'ambiente di corte napoletano, dal quale egli proveniva, aveva operato una sintesi tra l'arte italiana e quella francese, mentre influssi o elementi derivati dalla tradizione artistica propria della dinastia ungherese degli Arpadi potevano forse connotare le opere direttamente appartenute alla regina Maria (m. 1323), moglie di Carlo II di Sicilia, elencate nel suo testamento ma non conservate. Il primo sigillo reale di Carlo I, in uso fino al 1323, venne certo portato da Napoli ed era analogo a quello usato da suo padre Carlo Martello.
Per conquistare il potere, Carlo I dovette fare i conti con la tradizione ungherese e, con la sua triplice incoronazione (1301, 1309 e quindi, nel 1310, con la Corona Sacra), dovette anche adattarsi alle usanze locali. La volontà di affermare la legittimità della successione al trono si espresse anche nell'importanza attribuita al culto dei santi re ungheresi, ampliato con quello di Emerico e soprattutto del santo re cavaliere Ladislao, in opposizione al culto tradizionale, fino a quel momento molto diffuso, di s. Stefano. Si riscontrano d'altro canto i segni di un rinnovamento cosciente nell'immagine ufficiale della corte, con l'introduzione di usi cavallereschi come i tornei - e, a partire dagli anni venti, la conseguente comparsa nell'araldica del cimiero con lo struzzo quale simbolo della dinastia ungherese - e la fondazione della compagnia dei Cavalieri di S. Giorgio, nel 1326. L'avversione nei confronti delle precedenti tradizioni emerge per es. nella descrizione della cerimonia di sepoltura di re Carlo I, per l'importanza data al carattere pubblico del rito e alla presenza, nel corteo funebre, di cavalieri con gli stemmi del defunto.
Della prima attività costruttiva promossa da Carlo I non si sa nulla; non si conservano né le sue prime residenze di Temesvár e Lippa (rumeno Timişoara e Lipova) né il convento dei Minoriti dedicato a s. Luigi di Tolosa, fondato nel 1325 sempre a Lippa. Il primo impianto della residenza estiva di Visegrád, già in uso nel 1335, è stato ampiamente cancellato da una seconda costruzione. I resti della chiesa di fondazione reale di Székesfehérvár, che dovette essere ricostruita ben due volte (1318; prima del 1327: copertura a volta dell'edificio romanico), testimoniano una semplificazione in senso lineare del Gotico maturo secondo la tendenza avviata dall'architettura mendicante dell'Europa centrale (sono conservati i costoloni delle volte e le basi dei pilastri; Székesfehérvár, István király Múz.), ripresa nelle costruzioni della regina Elisabetta a Óbuda: il convento delle Clarisse, fondato nel 1334 e consacrato nel 1349, e la chiesa della prepositura di S. Pietro, dedicata alla Vergine e consacrata nel 1348. I resti di quest'ultima, recentemente oggetto di scavo, testimoniano lo stile lineare e il precoce impiego di volte a stella, rivelando pertanto un parallelismo con la coeva architettura di area austriaca e boema. Alle manifestazioni della fase tarda del Gotico classico appartengono in questo ambito i cori delle cattedrali con deambulatorio e cappelle radiali a Várad (rumeno Oradea, fondazione del 1342, testimoniata solo da fonti scritte) ed Eger (scavi; si tratta certo della costruzione del tempo del vescovo Nicolaus Dörögdi, 1332-1361).
Sigilli e monete offrono qualche ragguaglio sull'arte di corte del terzo decennio del 14° secolo. Il secondo sigillo reale di Carlo I (1323-1330), lo stesso della regina Elisabetta, così come altri sigilli di membri della corte, mostrano lo stile lineare di impronta centroeuropea. Nella riforma monetaria di Carlo d'Angiò, accanto a modelli italiani, quali i fiorini d'oro di imitazione fiorentina in corso dal 1325 (dopo il 1354, al tempo di Luigi I il Grande, l'immagine di s. Giovanni Battista venne sostituita da quella di s. Ladislao), vennero utilizzati, certo per ragioni economiche, anche i grossi boemi e i gigliati napoletani di re Roberto.
Gli influssi dell'arte napoletana cominciarono a manifestarsi in Ungheria a partire dalla fine degli anni venti. Nel 1328 furono avviate trattative diplomatiche con il re di Napoli Roberto per assicurarne la successione, attraverso la riappacificazione delle due linee dinastiche, dopo la rinuncia di Carlo I al trono di Sicilia. Nel 1331 Petrus Simonis Gallici de Senis, documentato a Napoli nel 1313 e nel 1318, realizzò il terzo sigillo di Carlo I. Quando nel 1333-1334 Carlo I si recò a Napoli con il duca Andrea, molti membri del suo seguito poterono conoscere le opere dell'arte italiana del Trecento. Attivi per committenti ungheresi risultano per es. i miniatori bolognesi della cerchia dello pseudo-Niccolò, detto l'Illustratore. Tramite di questi incarichi furono con ogni probabilità gli studenti ungheresi dell'Università di Bologna che, oltre al programma generale della decorazione, poterono verosimilmente fornire agli artisti anche alcuni modelli (Bibbia Nekcsei, Washington, Lib. of Congress, Pre-Accession 1; Leggendario angioino ungherese, Roma, BAV, lat. 8541; New York, Pierp. Morgan Lib., M. 360; Leningrado, Ermitage, 16930-16934; Liber sextus Decretalium di Nicolaus Vásári, 1343, Padova, Bibl. Capitolare, A 24).
L'epoca tarda del regno di Carlo I ebbe un influsso determinante sull'arte di corte di Luigi I il Grande, che è meglio conosciuta e le cui caratteristiche si possono individuare soprattutto nei lavori di oreficeria. Oltre ai pezzi conservati ve ne sono molti ricordati negli inventari (Roma, S. Pietro; Bari, S. Nicola; Marsiglia; Praga). Queste opere vennero inviate come dono all'estero, per lo più in rapporto all'attività diplomatica di Luigi, in Italia (campagne contro Napoli seguite all'assassinio del duca Andrea) e in Europa centrale. Un particolare ruolo di mediazione fu svolto dalla regina Elisabetta (viaggio a Roma nel 1343-1344, donazioni alla basilica di S. Pietro, nonché committenza di alcune opere, come il trittico attribuito a Lippo Vanni della Kress Coll., oggi nel Lowe Art Mus. dell'Univ. of Miami a Coral Gables, dove appaiono raffigurati come donatori Elisabetta e il figlio Andrea), tanto da far sorgere la convinzione - recentemente sostenuta dagli studiosi polacchi (tra cui Sniezynska-Stolot, 1974) - che a essa solo fosse spettato il compito di rappresentare la corte ungherese. Si può ricavare un'idea delle preferenze in campo artistico della regina vedova, che nel 1343 teneva la sua corte a Óbuda, da donazioni quali l'altare domestico parigino con smalti traslucidi del convento delle Clarisse di Óbuda (New York, Metropolitan Mus. of Art, The Cloisters) e soprattutto dal suo testamento del 1380. Ella possedeva una Madonna su tavola, opera di un artista della cerchia di Lippo Vanni, che in nessun modo va identificata con la tavola della Madonna del convento dei Paolini a Czestochowa, in Polonia: fu infatti lasciata anch'essa in eredità alle Clarisse e conservata nel convento sino alla fine del 18° secolo. Venerata come immagine miracolosa dipinta da s. Luca, certo in connessione con il culto del santo della dinastia napoletana degli A., la rappresentazione venne diffusa attraverso copie.
Alle donazioni della corte di Luigi il Grande appartengono due tavole con preziose cornici araldiche (Mariazell in Austria, Schatzkammer der Basilika; Aquisgrana, Domschatzkammer; Cracovia, Tesoro della Cattedrale, frammento della croce della corona; testimonianze scritte a Praga). Ugualmente prodotte in serie erano le corone votive d'argento, di cui rimangono esempi come la corona di Várad (Győr, cattedrale, cappella della Trinità), fatta realizzare per il reliquiario della testa di s. Ladislao e riutilizzata nel 1437 come corona funebre per l'imperatore Sigismondo, e quelle di Zara (chiesa di S. Simeone, reliquiario del santo) e del convento di Kušedol in Serbia (Belgrado, Muz. srpske pravoslavne crkve). Il corredo liturgico donato nel 1367 alla cappella ungherese del duomo di Aquisgrana - ostensorio per reliquie, candelabro, dipinti su tavola - è in parte conservato (Domschatzkammer) e rappresenta una valida testimonianza delle caratteristiche dell'arte orafa ungherese. Due gruppi di fibule nello stesso tesoro, ciascuno formato da tre pezzi e appartenenti a due piviali, rappresentano una fase successiva di sviluppo (la donazione probabilmente risale al 1381) in cui giocarono un ruolo maggiore elementi ripresi dal repertorio architettonico (per es. la base del reliquiario a doppia croce del tesoro del duomo di S. Stefano a Vienna, Dom- und Diözesanmus.) o la fibbia di cintura proveniente da Curtea de Argeş, oggi a Bucarest (Muz. de Artă). A questo stile appartiene anche il sigillo della regina Maria d'Ungheria, che segue un modello francese, quale il sigillo in absentia magni del re Carlo V di Francia. Nell'ambito delle opere commissionate dalla corte, un posto particolare spetta indubbiamente al reliquiario d'argento di s. Simeone, nella chiesa omonima di Zara, realizzato nel 1377-1380 sotto la guida dell'orafo Francesco di Antonio da Milano per incarico della regina Elisabetta di Bosnia, moglie di Luigi I il Grande.
La seconda fase dell'arte di corte angioina in Ungheria è circoscrivibile agli anni intorno al 1360, periodo al quale appartiene la decorazione miniata della Cronaca illustrata ungherese (Budapest, Országos Széchényi Könyvtár, lat. 404), dove influssi napoletani sono rielaborati assieme a elementi stilistici boemi (Antifonario di Vorau, Stiftsbibl., 265). Il carattere locale di questo stile è confermato da un codice ungherese, riscoperto recentemente (Graduale di Ferenc Futaki, Istanbul, Topkapı Sarayı Müz., 2429); alla stessa bottega appartiene anche il codice di Oxford (Hertford College, 2) del Secretum secretorum dello pseudo-Aristotele. La statua equestre di S. Giorgio a Praga (Národni Gal.) - eseguita nel 1373 dai fratelli Martino e Giorgio di Kolozsvár (rumeno Cluj) attivi per il vescovo di Várad fra il 1370 e il 1390 - rappresenta l'esempio della fusione di elementi stilistici italiani e centroeuropei, ma rimane irrisolto il problema di quanto tale sintesi abbia influito sull'arte di corte. In architettura invece l'età di Luigi il Grande appare influenzata dall'Europa centrale ('stile grafico' della cappella del castello di Buda, fondata nel 1366; residenza estiva di Visegrád; castelli di Diósgyőr e Zólyom, slovacco Zvolen). Queste costruzioni, per lo più in rovina, conservano una scultura architettonica - sia con figure, sia araldico-decorativa (fontane di Visegrád, oggi a Budapest, Magyar Nemzeti Múz.) - alla maniera dei Parler nella variante austro-bavarese-francese, che caratterizza anche la plastica funeraria. In proposito si possono menzionare i resti della tomba e della cappella funebre di Luigi il Grande a Székesfehérvár (István király Múz., prima del 1374); la lastra sepolcrale dell'abate László Czudar (m. 1372) nella chiesa del monastero di Pannonhalma e anche la tomba del re Casimiro III di Polonia (m. 1370), realizzata in marmo rosso ungherese, nella cattedrale di Cracovia. Una predilezione per nuove tipologie architettoniche di rappresentanza può essere testimoniata dall'impianto a terrazze della residenza estiva di Visegrád, così come dai castelli a impianto rettangolare (Diósgyőr, Zólyom). Le fondazioni ecclesiastiche di Luigi il Grande mostrano per lo più caratteri stilistici locali: si vedano per es. i monasteri paolini di Márianosztra (1352) e Máriavölgy (slovacco Marianka, fondato nel 1377); la certosa di Lövöld (in costruzione dagli anni sessanta del sec. 14°; documento di fondazione del 1378); lo jubé del monastero cistercense di Pilisszentkereszt (dopo il 1357). Luigi sostenne con donazioni anche la costruzione della chiesa di pellegrinaggio di Mariazell in Austria.
Un influsso dell'arte di corte ungherese si irradiò verso la Polonia soprattutto al tempo di Luigi il Grande, re di quel paese dal 1370, e sotto quello di sua figlia, la regina Edvige.
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