CARO, Annibale
Nacque nel 1507 a Civitanova Marche da Giambattista, speziale e commerciante che aveva anche ricoperto qualche carica pubblica, e da Celanzia Centofiorini di nobile famiglia.
Nella cittadina natale seguì le lezioni di un modesto maestro di "grammatica", Rodolfo Iracinto, col quale scambiò versi in latino di fattura scolastica; quanto alla letteratura in volgare è probabile che i gusti del C. si orientassero, ancora in maniera indiscriminata, e dietro la sollecitazione di letture personali più che ottemperando a un piano di studi, verso lo stile "comico", da un lato, colto soprattutto nei versi del Burchiello, e dall'altro in direzione dei due grandi modelli trecenteschi che il trionfante bembismo stava imponendo su scala nazionale nel campo della poesia e della prosa. ècomunque a Firenze che guarda il giovane provinciale, considerando la città toscana come il centro più idoneo di cultura per la professione delle lettere e la meta più prossima per ambizioni sociali che sarebbero state irrimediabilmente deluse nella casa paterna: sì che egli dovette accogliere con entusiasmo l'invito rivoltogli, intorno al 1525, da monsignor Giovanni Gaddi, di recarsi a Firenze in qualità di precettore del nipote Lorenzo Lenzi, essendo così costretto ad abbandonare gli studi regolari per i quali continuerà a nutrire, almeno sino al periodo del servizio prestato sotto i Farnese, un sentimento di nostalgia proprio dell'autodidatta: "Attendete a viver più lietamente che si può con tanti vostri amici - scriveva al Varchi all'indomani della morte di Giovanni Guidiccioni -, i quali vi sono più che nipoti, e più che figliuoli, e studiate ancora da parte mia, perché io non posso, e se lo desidero e se me ne spasimo lo sa Iddio" (lettera del 21 marzo 1542).
A Firenze l'assidua frequentazione di Benedetto Varchi (che servì forse da intermediario fra il Gaddi e il C.) costringe il giovane letterato ad un sistematico tirocinio umanistico. Apprende il buon uso del toscano direttamente dalla "lezione de li …tre primi, Dante, Petrarca e Boccaccio"; comincia a interessarsi di Aristotele, cui si dedicherà assiduamente intorno agli anni '40, traducendo la Rettorica "non conaltro fine che d'intenderla, se potea, e di farmela famigliare"; volge in italiano la prima epistola ciceroniana Ad Quintum fratrem e parafrasa dal greco il primo idillio di Teocrito, inaugurando quell'interpretazione dei classici manierata e toscanamente infedele che sarà propria del traduttore anche maturo; affronta problemi filologici ricercando e ottenendo l'amicizia di Pier Vettori. Ma è soprattutto a Berni che si richiama il cortigiano in questa prima fase di attività letteraria mimandone le esperienze in numerosi documenti epistolari, sia che riferisca di un viaggio sgradevole per raggiungere Tolfa, dove i familiari del Gaddi erano impegnati per lo sfruttamento delle miniere ("Il secondo dì, passando per Sutri, vedemmo case d'incomprensibile architettura, ché le porte de l'abitazioni erano più grandi che le abitazioni stesse. E considerando per una via che i tetti e i palchi tutti erano scesi a terreno, ne domandai la ragione; e fummi risposto, che le case s'erano fuggite per gli usci": 12 ott. 1532), sia che, da Roma, indirizzi il proprio saluto a un minuscolo eroe di quartiere, Luigetto Castravillani, insignito di lodi ingombrantie buffonesche per aver partecipato alla impresa di Tunisi ("0 ve', dice, che Luigetto uscirà un tratto di etto, cortigianetto, scrittoretto, scacchetto. Ora sì che egli sarà lui, che vuol dire quello, che mostravate d'essere quando baldanzosamente correvate le case e i vicinati interi di strada Giulia, sgangheravate gli usci a le lavandare, sbravazzavate gli sbirri di Corte Savella, e spoltronavate fino al Capitan Salvestro che non si può dire più oltre": 1º luglio 1535).
Non vi è quasi accenno, nelle lettere del C. di questi anni, agli avvenimenti che sconvolsero Firenze e Roma tra il 1527 e il '30. Si direbbe che l'assunto bernesco disobblighi l'oscuro precettore di casa Lenzi a considerare eventi per i quali si reputava culturalmente impreparato (proprio al Vettori, come al rappresentante di una scienza che aveva tradizionalmente condizionato un giudizio sulla realtà, il C. confessava il desiderio "di studiare a dilungo un par d'anni a mio modo, e valermi de lo studiato d'un valentuomo vostro pari. Fino a ora non ci veggo disposizione alcuna, pure, in una notte nasce il fungo": 2 febbr. 1538) e nel contempo fornisca gli strumenti per un discorso, e quindi per un'intesa culturale, volutamente evasiva e distratta, per un gioco di società che non impegna l'uomo quanto il letterato e che permette, comunque, proprio per la nettezza di tale separazione, di scorgere al di là della funzione letteraria un potenziale inattaccabile di virtù individuali e civili.
Lo stesso Berni, in polemica con i rappresentanti più prestigiosi della poesia contemporanea, aveva individuato il senso dilettantistico e puramente "decorativo" della letteratura rinascimentale facendo dire al principale interlocutore del Dialogocontro i poeti, Giovan Battista Sanga: "Io non chiamo poeta e non danno, se non chi fa versi solamente e tristi, e non è buono ad altro: questi di sopra [il Pontano, il Vida, il Sannazaro, il Bembo, il Navagero, il Molza] si sa chi sono, e se non sanno far altro che versi, quando vogliono. Essi non fanno professione di poeti, e se pur han fatto qualche cosa a' suoi dì, e stato per mostrare al mondo che, oltre alle opere virtuose che appartiene a fare ad uomo, non è impertinente con qualche cosa che abbi men del grave ricrearsi un poco, e che sanno fare anche delle bagatelle, per passar tempo". Ora, se l'uomo non si rispecchia interamente nella letteratura seria, come può essere implicato in quella comica? Il disobbligo morale, il non-valore della scrittura berniana (che si ritorce, comunque, contro l'individuo giudicato mediante la propria opera, e si ricompone in tal modo una identità tragica di uomo e di scrittore) celano per la tradizione che fa capo a Berni una assoluta moralità e un'indiscussa riassuefazione ai valori culturali poiché questi non vengono minimamente ipotizzati dall'attività letteraria. Questo fu il senso della letteratura comica che il C. intese e riferì a Berni, indipendentemente dai precursori trecenteschi e quattrocenteschi di cui si era pure servito negli anni del noviziato letterario. Scrivendo a Paolo Manuzio per presentargli il giovane poeta e amico Matteo Franzesi, egli si esprimeva in questi termini: "Ma perché conosciate ch'egli n'è degno per sé, bisogna dirvi che oltre a l'esser letterato e ingegnoso, è giovane molto da bene e molto amorevole, bello scrittore, bellissimo dittatore, e ne le composizioni a la bernesca (così si può chiamare questo genere da l'inventore) arguto e piacevole assai, come per le sue cose potrete vedere" (24 genn. 1538). Ed intuì inoltre che la maniera bernesca potesse favorire una sorta di clientelismo culturale non diverso da quello procacciato dalla letteratura di ispirazione elevata, secondo il giudizio che su tale stile formulerà il Lasca nella lettera (1552)premessa all'edizione del Primolibro delle opere burlesche ("avuto in tanta stima e tenuto in tanta reputazione, e non mica da plebei, ma da uomini nobili e da Signori"). Con l'antologia del Lasca siamo alla consacrazione controriformistica di un genere in cui si erano esercitati - e si eserciteranno - i maggiori letterati dell'epoca, laddove il tributo del C. è significativo per rstabilire il momento di liquidazione della letteratura berniana come amoralità e forza dissacrante dei valori di una cultura letteraria. Sotto questo aspetto, che non è tra i secondari nel panorama di attività del C., l'opera del letterato marchigiano lascia scoprire un complesso di esperienze di gran lunga più importanti di quanto non sia stata disposta ad accertare la storia letteraria tradizionale.
Il luogo in cui si concerta la forma del bernismo è Roma, ove il C. soggiornò pressoché stabilmente, come familiare del Gaddi, dal 1529 al '42 (si allontanò dalla città nel '38 per raggiungere Napoli, ove strinse rapporti considerevoli, se non compromettenti, con il circolo filovaldesiano di Giulia Gonzaga, e ancora nel 1539 allorché ottenne momentaneamente l'ufficio di segretario presso Giovanni Guidiccioni; ebbe modo così di recarsi durante la primavera del 1540 a Venezia, incontrandovi l'Aretino e Sperone Speroni).
Roma, dopo il Sacco, è una città che ha perso definitivamente ogni rapporto con la grande tradizione umanistica fiorentina, in qualche modo garantita dai papi medicei, e si sta preparando alla svolta tridentina inaugurata da Paolo III Farnese. L'avventurismo di Benvenuto Cellini e la prudenza di Sebastiano del Piombo rappresentano il compromesso a cui deve soddisfare il talento artistico, mentre nel campo della poesia la grossolanità del linguaggio costituisce l'unica forma di spregiudicatezza concessa all'invenzione (per esempio nel Bini), quando non si assiste - anche tra le fila dei berneschi esplicitamente più osservanti, come il già ricordato Franzesi - ad una significativa disposizione "interiore" verso la moralità del comportamento, appena incrinata da una veniale oziosità letteraria ("Quanto al didentro, son anch'io de' vostri… e, se non dico uffici e paternostri, / lodo però che sia felice vita / schivar de' vizi gli scogli e i mostri. / E perché l'ozio è d'essi calamita, / bench'io mi goda dopo molti affanni / qualche riposo e libertà gradita, / studio e procuro che li maturi anni / non si spendano indarno…").
Tra i "morti" dell'Accademia dei Vignaioli - come Berni definì i letterati raccolti intorno al cardinale fiorentino allorché ebbe la disavventura di condividerne per qualche tempo le sorti, il C. incontrò letterati mediocri (il Molza, Luca Contile) e minimi (Gandolfo Porrino, Francesco Martelli), diplomatici falliti come Luca Martini, cortigiani sboccati e invadenti sul tipo dei due Benci, Francesco e Trifone, che erano stati ritratti dal Berni in un memorabile sonetto, o semplici perdigiorno come quel Giovanfrancesco Leoni che è sopravvissuto a una ragionevole dimenticanza solo per essere stato il protagonista di una "fagiolata" del Caro. Il quale continuò a frequentare le riunioni degli accademici anche quando, intorno al '35, si trasformarono da Vignaioli in Virtuosi ricevendo ospitalità e favori da Claudio Tolomei.
Lo scritto più noto che il C. realizzò per questa brigata fu il Commento di Ser Agresto da Ficaruolo sopra la prima Ficata del padre Siceo, cioèsopra un capitolo incredibilmente sciatto e ovvio nelle allusioni lubriche di Francesco Maria Molza. Basta leggere l'avvertenza che il Barbagrigia (Antonio Blado) volle premettere al commento del C. per intendere come l'opera obbedisca a un tentativo di restauro e, al tempo stesso, di emarginazione dell'esperienza berniana, che può essere usufruita come forza liberatrice dai malsani umori della fantasia: "I capricci (come disse il Bernia) vogliono venire agli uomini a lor dispetto… E se questi ancora si trattengono, tutti insieme abbottinandosi per uscire in ogni modo, vanno tanto ruzzolando, disguazzando e sgominando il cervello, la fantasia, la memoria e tutte quelle camerelle che costoro dicono che noi abbiamo sotto la berretta, che ci guastano tutto il capo; perciocché rimescolandolo, come udite, lo ritornano in caos, e lo danno a saccomano all'umore…", laddove "stampati che sono, e mandati attorno in cima d'una canna (ché questo è quel supremo trionfo a che essi possono giungere nella cittadinanza degli altrui pensieri), pongono termine all'ambizion loro, e si contentano di tornare cittadini privati, lasciando liberamente il governo del capo al padre Senno, il quale, stando bene con esso loro, siede poi senz'altro contrasto gonfaloniere a vita". La prosa del C. si pone, del resto, sullo stesso piano del celebre commento berniano al capitolo sulla Primiera, rivelandosi tuttavia il suo esatto contrario; ché mentre per Berni l'irraggiungibilità iperbolica dell'oggetto comico, il suo significato limite riduce la facoltà stessa di comprendere razionalmente e la vanità del discorso finisce per compromettere ogni tentativo di riduzione intelligibile della realtà, il C., come tutti i berneschi, evidenzia oggettualmente l'allusione comica dei versi ("E non è meraviglia che s'innestino facilmente col fico certe frutte proporzionate a lui; né manco che ci faccino bene le ghiande, i maroni, le fave, i citriuoli, i porri, le radici, le carote, o che in corpo li s'innestino, o che appresso li si piantino"), privilegiando "soavità naturali, che quando t'ungono, quando ti pungono, quando ti baciano, quando ti mordono, perchiocché quando morbide, quando frizzanti, or ti riempiono d'una soverchia dilettazione, or ti danno certi lachezzini appetitosi che di nuovo t'eccitano".
Gli aspetti più interessanti dell'operetta - e anche più vitali nella prospettiva della futura attività del C. - sono offerti da alcune digressioni spropositatamente erudite che fanno ripensare alla predilezione del Berni per le "anticaglie", da certa abilità bozzettistica che si esplica abbastanza felicemente nei ritratti del pedante, del Molza, di "ser Cecco" Benci; talvolta il dettato del commento incespica su personaggi che rivelano onomasticamente una consuetudine voluttuosa e inconfessabile (Ciacco Compoppista, Leccardo Grufoloni); talaltra l'esplicazione di un termine dà luogo a variazioni di questo genere, autorizzate da una notevole sapienza analogica: "Ora il poeta, che non vuol parlare a caso, rende ragione di questo ricevere; dicendo che il fico è di materia fungosa, cioèporosa, soffice, spugnosa, cavernosa, rimbrenciolosa, con molte camerelle, e con molti magazzini dentro, perciocché sendovi del grano, del vino, della carne, dell'olio e del latte in abbondanza, come avete udito, ènecessario che vi siano granai, cantine, carnai, fattoi e precuoi, li quali votandosi tutti per la sua immensa liberalità, è chiaro che vi resterebbero molti luoghi vani, se non si nempissero. La qual cosa sarebbe contro la legge d'essa natura, che non patisce in sé vacuo".
L'ilarità con cui la piccola accademia romana dovette accogliere simili enunciati non disobbligò l'autore a nutrire qualche apprensione circa la fortunata e clandestina accoglienza del commento, temendo che il suo nome rimanesse essenzialmente legato a una opera di dubbia esemplarità morale e letteraria.
Ancora più deludente si rivela la lettura della Diceria composta in omaggio al naso di Giovanfrancesco Leoni, "re della Virtù", ove è, semmai, rilevabile come il grottesco di Berni ripieghi su un disegno meramente caricaturale ("quanto alla corrispondenza, che tiene con gli affetti dell'anima, … l'allegrezza si conosce nella sua piegatura; la malinconia apparisce nelle sue grinze; la schifiltà si rappresenta nel suo niffolo; l'ira sbuffa per le sue froge; il biasimo va in compagnia de' suoi crocchi"). Sì che più avvincente e meglio costruita sul piano retorico appare la lettera rivolta al medesimo personaggio il 10 apr. 1538, imperniata su un "crescendo" che giunge all'invocazione liturgica: "Ognuno strabilia che lo vede, ognuno stupisce che lo sente. A tutti dà riso, a tutti desiderio. Tutti i poeti ne cantano; tutti i prosatori ne scrivono; tutti coloro che hanno favella ne ragionano: e non sarebbe gran fatto che per infino le Sibille ne profetizzassero, che gli Apelli lo dipingessero, che i Policleti lo intagliassero, e che Michelagnolo nell'un modo o nell'altro lo immortalasse… naso perfetto, naso principale, naso divino, naso che benedetto sia tra tutti i nasi, e benedetta sia quella mamma che vi fece così nasuto, e benedette tutte quelle cose che voi annasate".
Va infine ricordata, tra le prove dettate nel clima del bernismo romano, La statua della Foia, ovvero di Santa Nafissa, che è forse l'invenzione più felice che il C. abbia ideato in questo periodo, non fosse altro che per la creazione di quell'idolo spudoratamente bisessuale il quale ostenta la propria incredibilità all'impotenza intellettiva di storici e archeologi. Nelle poche pagine che compongono questa "baia" è ritratto dal vivo l'ambiente ormai sfatto e decrepito della erudizione antiquaria che era rappresentata presso i familiari del Gaddi da Ludovico Fabbri; solo che il C. non riesce a sostenere lungamente la propria invenzione e ripiega sul tradizionale motivo della satira antifratesca ("…iovi voglio dire un segreto: che questa è una santa di quelle che sono state canonizzate da' nostri frati; ed è quella medesima che domandano Santa Nafissa, perciocché questa dea, conosciuto il bisogno di certi conventi di frati suoi divoti, per salute di quelli, entrò in Nafissa monaca santissima, la quale per carità li sovvenne tutti, e senza risparmio li lasciò fare quella piacevolezza da tutti per l'amor di Dio"), collegando questa situazione narrativa al tema di alcune tra le più celebri Lettere familiari (vedi per tutte quella a Bernardo Spina del 18 ott. 1544, il cui tono giocoso mistifica un messaggio di probabile derivazione ochiniana).
Il riferimento alle lettere non è casuale. Sulle rovine del bernismo, inteso dal C. come uno "scrivere a la sciamannata", come un vaniloquio che esclude istituzionalmente ogni referenza, egli fonda la possibilità di una comunicazione valevole per il maggior numero di uomini e di situazioni, reperisce la forma stessa dall'epistolografia in una scrittura tenuta necessariamente al livello "comico" dell'inessenziale, del giornaliero, dell'opinabile, in una parola, del familiare. I critici che di volta in volta si sono proposti di legiferare tra le lettere del C. hanno privilegiato un gusto personale suggerendo scelte documentabili sebbene arbitrarie e parziali. Laddove è forse possibile districare il lungo percorso di questa esperienza centrando alcuni luoghi ostentatamente inadempienti ("E berta e nonnulla e borra è quello che vi scrivo ora; e se mi sapete dire a che serve questa lettera, sarete più che indovino": a Bernardino Maffei, 10 apr. 1538), evasivi per la scelta di una metafora sfasata sul piano del referente ("E perché il pranzo fosse saliare a fatto, avemmo poi davanti al Duca moresche, forze d'Ercole, gagliarde, mattaccini, e giuochi di scherma, atteggiati tutti [da gatti selvatichi forse] dai paggi proprii di Sua Eccellenza. Ecco che m'è venuto pur dato in una idea. è stato per esser io rapito ora da la divinità de le cose ch'io diceva": 28 luglio 1543), o addirittura inconcludenti per l'accumulazione caotica dei dati rappresentativi ("Vi scannonezzo quel Sandisir subito ch'arrivo. Vi fo di quel Cialone un cencio. Troja jacet certe.E poi vi metto messer Paris e madonna Elena, e ciò che c'è tutto in un sacco. Oh vedete baie che son venuto a dirvi! E che volete voi ch'io faccia? Sono questa sera in una terraccia, son solo, non ho che fare, l'umor m'assassina, non ho altro che dirvi, e scriver vi voglio in ogni modo": a Bernardo Spina, 12 ag. 1544), per giungere - attraverso una lode del non scrivere, che non è l'elogio berniano del silenzio contrapposto all'imperativo della Scrittura, ma è polemica nei confronti di ogni contenuto informativo, contro il pensiero e il progresso umano in generale (a Marcantonio Piccolomini, s.d.) - fino a una serie di equazioni, il cui primo termine è costantemente il riso e il secondo può variare da una considerazione di ordine religioso (a Gandolfo Porrino, 1º maggio 1538)a un dato di cronaca politica (a Claudio Tolomei, 20 giugno 1544), dalla richiesta di un utile personale (a Francesco Cenami, 11 giugno 1541) all'ammonimento morale (al Porrino, 23 giugno 1543), dalla riflessione erudita alla proposta, non completamente disinteressata, di un modello del sapere (lettere a Silvio Antoniano del 25 ott. 1551 e del 25 genn. 1556).
Una ipotesi siffatta, verificata nelle "lettere di passatempo" di chi ebbe a confessare una volta (a Paolo Manuzio): "quel poco di cervello ch'io ho, mi par che stia tutto su la punta de la penna", dà ancora una volta ragione della distanza diametrale che separa Berni da questo suo ambiguo continuatore. Ché mentre le lettere berniane riflettono una profonda realtà psicologica (e sono per questo le più belle lettere del Cinquecento, oltre al fatto che questo tipo di documenti permette di stabilire la serietà della poesia e il suo valore drammatico sul piano individuale e sociale), quelle del C. costituiscono un surrogato "comico" della realtà (nel senso retoricomedievale dell'espressione) che in tanto permette all'intellettuale di interessarsi a un numero pressoché illimitato di argomenti in quanto questi vengono ridotti (o minimizzati) alla dimensione del gusto e della volubilità personale, diventano soggetti di piacevole e disobbligante conversazione fra "uomini da bene". "Nel resto - scriveva il C. in una notevole lettera di istruzioni indirizzata nel 1553 ad Alfonso Campi - vi supplirà il corso ordinario de la lingua, e spezialmente ne lo scriver famigliare, il quale ha da esser quasi tutt'uno col parlare. Né l'altre composizioni poi bisognano tante considerazioni che non si possono scrivere in une lettera… E universalmente quanto a questa parte de l'imparare, si possono veder tutti i libri del mondo, perché ognuno insegna qualche cosa. Ma voi come gentiluomo, vi avete a restringere a quelli che trattano di certe cose che appartengono a la vita commune per saper ragionar de' costumi, de le consuetudini, e de le azioni de gli uomini, e convenir con essi secondo che si ricerca". è sulla base di questa loquela semplice e onnicomprensiva, garantita al di fuori di ogni gravità e di ogni dissenso, stabilita entro il cerchio di una repubblica letteraria, che si fonda la fortuna arcadica del C. (significatamente incentrata, sino al Leopardi e attraverso Parini e Giordani, sulle sue prose familiari), mentre appare meno credibile l'ipotesi di una soluzione romantica ante litteram avanzata dal C. circa il problema della lingua: e sarebbe sufficiente a tale riguardo riconsiderare la sua costante adesione al bembismo (anche in sede epistolografica: vedi la lettera a Giuseppe Giova del 17 marzo 1559), la sua predilezione per la pittura manieristica (nella lettera al Vasari del 10 maggio 1548 il C. esibisce un archetipo letterario che dovrà essere eseguito su tela), il gusto per le imprese informate a un rigido canone classicistico, di cui discuteva con Gerolamo Soperchio, con Nicolò Spinelli e con lo stesso Varchi.
La costante "umile" della cifra stilistica cariana è riferibile anche ad alcune prove della sua esperienza epistolografica giudicate come i più "alti" risultati conseguiti: solo che si pensi alla celebre lettera indirizzata al Guidiccioni nel luglio del '38 sulle fontane del palazzo Gaddi a Roma, ove lo splendore dell'effetto d'assieme non può prescindere dall'esame dei ritrovati tecnici atti a provocarlo e la lingua, a livello analitico, deve rappresentarli ricorrendo a voci specialistiche (sotto questo aspetto si potrebbe interpretare in senso puramente artigianale l'espressione, più volte ricorrente, di lettere scritte "col compasso in mano"), ovvero all'altra, pure molto nota, indirizzata a Isabetta Arnolfini de' Guidiccioni sulla morte del vescovo di Fossombrone, che dovette interessare i contemporanei più che per il tono elevato della commemorazione (che riproduce abbastanza pigramente alcuni luoghi delle rime del Guidiccioni) per i particolari "realistici" che profuse il narratore nell'intento di dissipare il dubbio dell'avvelenamento. E spiega, infine, questa consuetudine stilistica, alcuni tic caratteristici del C. epistolografo, come il gioco sugli appellativi cerimoniosi ("Vostra Grazia", "Vostra Magnificenza", o anche "Monsignore", "quasi cardinale"), allontanati scherzosamente dall'autore per un approccio più immediato alla modesta realtà dell'individuo; o quello tendente quasi all'annullamento fisico del mittente - che si identifica con l'ombra o con l'anima del destinatario: "Né solamente Sua Signoria, ma ognuno qui mi fa cortesia per vostro rispetto, perché mi s'è levata tra questi napolitani una nominanza ch'io sia l'anima vostra, ed avendo voi per quel singolare uomo che siete, non vi potendo onorar presente, onorano me di parte de gli onor vostri" (25 maggio 1538). Il personaggio in questione è naturalmente il Molza, consorte di disordini e di avventure letterarie, un vero alter ego del C., che lo scrittore delle Familiari immagina e rappresenta come autore di salacità non dissimili da quelle inserite nel Commento di ser Agresto.
Mancò al C. delle Lettere, per sua fortuna, l'intenzione, la vocazione al sublime, per cui appaiono più estrinseche, rispetto allo stile delle lettere destinato a rimanere un modello, altre e meno congeniali prove: prima fra tutte (per completare il quadro delle attività fiorite durante il primo soggiorno romano dello scrittore) la libera traduzione da Longo Sofista degli Amori pastorali di Dafni e Cloe.Su di essa si esprimeva il C. con un certo rammarico scrivendo al Varchi il 10 genn. 1538: "Della traduzione, io ho fatto solamente una certa bozzaccia non riveduta, né riscontrata a mio modo co'l greco, perché messer Antonio [Allegretti] s'ha portato l'originale nella Marca. E perché non uscendo dal greco mi tornava cosa secca, l'ho ingrassata con di molta ciarpa e rimesso e scommesso in molti luoghi, e per questo l'ho tutta scombiccherata. Ed aspettavo di riavere l'autore da messer Antonio per riscontrarla una volta, ed aggiungervi parecchie carte che si desiderano nel greco, e poi ricopiarla e mandarlavi". In nessun caso il C. avrebbe potuto reperire la parte mancante dell'opera nel codice laurenziano che gli aveva offerto l'Allegretti (il ritrovamento del romanzo integrale di Longo Sofista risale ai primi dell'Ottocento), ma il traduttore supplì disinvoltamente alla lacuna inventando una conclusione e interpolando peraltro il testo che aveva ricevuto sì da renderlo più accettabile al gusto dei lettori moderni. Non è certe lecito addebitare soltanto al C. gli scarsi scrupoli filologici adottati tradizionalmente nel condurre una parafrasi (che era un'opera di imitazione, di emulazione rispetto al testo originale, più che una resa fedele di esso), e neanche si può revocare la sua abilità di grecista (che sembra confermata, oltre che dalle traduzioni di Aristotele e di Teocrito, da quelle di due orazioni di Gregorio Nazianzeno e di un sennone di s. Cipriano, scritte, come confesserà al Varchi nel '62, "ad istanza di papa Marcello"): ciò che appare meno convincente nell'opera del C. è un fondamentale dissesto stilistico tra voci plebee, maldestramente usufruite per evidenziare la cornice rusticale del testo greco, ed espressioni auliche o arcaicizzanti; tra una sintassi che riproduce la studiata complessità del modello boccaccesco e il tentativo di infittire le parti dialogate per rompere la monotonia della narrazione. Ma quello che rimase soprattutto estraneo alla volontà magniloquente del traduttore fu l'essenzialità preziosa e leggermente rarefatta dell'originale, quel sentore di raffinata decadenza che non poteva essere in alcun modo riprodotta dalla pur scaltrita retorica del Caro. Il quale, in effetti, continuò a nutrire notevoli perplessità nei confronti dell'opera, esprimendo dei dubbi a quanti ne richiedessero copia, e ancora nel 1554, rispondendo a una sollecitazione del vescovo Antonio Elio che reclamava "gli Amori pastorali tradotti", cedeva all'invito con la raccomandazione che "li teniate poi, non essendo bene vadano attorno così imperfetti".Nel 1543 il C. viene improvvisamente a trovarsi senza protettori per la morte quasi simultanea del Gaddi e del Guidiccioni, per cui pensa di offrire il suo servizio a Pier Luigi Farnese duca di Castro, che nel 1545 ottiene la signoria di Parma e Piacenza. Sotto l'irrequieto primogenito di Paolo III egli alterna brevi soggiorni a Piacenza, dove viene adibito per l'amministrazione della giustizia (una breve esperienza in tal senso aveva maturato il C. anche in Romagna durante il governo del Guidiccioni), a faticosi viaggi in Francia e nelle Fiandre intesi a sondare la consistenza delle forze militari dislocate nel duello franco-spagnolo. Ma prima di assolvere i compiti riguardanti all'ufficio di segretario, il C. aveva soddisfatto le ambizioni letterarie del Farnese allestendo - prima di lasciare Roma, tra il 1543 e il '44 -, una commedia suggerita dal nuovo signore e forse realizzata in collaborazione. Sulla stesura degli Straccioni esiste un prezioso documento epistolare, la lettera che il C. indirizzò il 3 nov. 1548 a Vittoria Farnese, duchessa di Urbino. Vi si legge tra l'altro: "le rispondo quanto a la comedia, che oltre ch'ella non sia degna d'esser recitata in cospetto de l'Eccellenze Vostre, non è accomodata a niun altro luogo che a Roma, e per Roma fu fatta, e per quel tempo, e d'un soggetto che allora era fresco ed a gusto del signor Duca suo Padre bon. mem., con partecipazione del quale fu così compilata. E le persone che vi si introducevano, e quelle de le quali si fa menzione, non sono conosciute se non qui. Sicché altrove riuscirebbe freddissima, ed anco impertinente, e non so, se ancora qui fosse pur buona, essendo passata l'occasione perché fu fatta".
L'elemento contingente, locale della commedia è costituito dalla messa in scena di due personaggi sicuramente noti nella Roma farnesiana: i fratelli originari di Scio Giovanni e Battista Canali ("che erano due in uno e uno in due… con quei palandrani lunghi, lavorati di toppe sopra toppe e ricamati di refe riccio sopra riccio; quei zazzeruti, con quei nasi torti, arcionati e pizzuti, quegli unti bisunti che andavano per Roma sempre insieme…") rappresentati mentre sono in lite con i banchieri Grimaldi per una notevole fortuna. Su questa traccia, affidata alla descrizione comica dei fratelli sciotti (che investe peraltro un piccolo stuolo di personaggi minori: il pazzo Mirandola, i servi Pilucca e Nuta, i "furbi" di Campo di Fiori), si sviluppano due altri motivi di derivazione classica e romanza, incentrati sulle figure di Giuletta, figlia di Giovanni e ritenuta uccisa dai Turchi mentre vive quasi prigioniera in casa del fattore Marabeo sotto il nome di Agata, e di madonna Argentina che si considera a torto vedova del cavalier Giordano e aspira pertanto alle nozze con Gisippo (alias Tindaro) grazie agli interessamenti di Demetrio. Dopo una serie di avventure piuttosto farraginose, il lieto fine (gli straccioni vincono la causa grazie al procuratore Rossello e diventano ricchi, Giuletta sposa Gisippo e Argentina ritrova Giordano) viene sancito dalla scoperta che i protagonisti della vicenda sono direttamente o indirettamente imparentati: la valenza naturale rinsalda "in una grande abbracciata" ciò che l'artificio scenico aveva tenuto per la durata di cinque atti separato.
Scontata la freddezza di tale artificio, consistente nella prassi dello sdoppiamento dei personaggi e nella finale agnizione, la critica ha di volta in volta sottolineato la moralità della commedia (nessun individuo, almeno tra i non plebei, è naturalmente malvagio; la disavventura si giustifica su un piano di necessità da cui gli uomini tentano di sottrarsi intuendo la soluzione di minor danno, come fa Demetrio o Barbagrigia, simbolo della pratica saggezza dell'autore), ovvero la spigliatezza espressiva con cui vengono rappresentati i personaggi mmori, visti dal C. nel vivo di una realtà urbana e ritratti con quel tanto di simpatia che li rende non di rado dei protagonisti. In effetti, né l'una né l'altra ipotesi riesce a suggerire elementi diversi o rinnovatori rispetto alla caratteristica delle precedenti prove del C.: ché la media moralità di cui è pervasa la commedia è quella espressa, non a caso in chiave comica, già nelle prime lettere del periodo romano (con l'aggravante che sulla scena i caratteri mediocri si confondono e finiscono con l'annullare il gioco delle parti), mentre il conclamato realismo del linguaggio, gergale e allusivo, rivela la sua origine libresca ("Io vi ricordo - scriveva il C. a Luca Martini nel giugno 1543 -, che voi faceste già ricolta di molti proverbi toscani, se me gli poteste mandare, mi tornerebbero forse in qualche loco a proposito") e non si distanzia quindi sostanzialmente dagli effetti che lo scrittore si studiava di ottenere nelle "baie" degli anni '30. Anche nel caso degli Straccioni il giudizio che l'autore espresse - questa volta esplicitamente - è da ritenersi valido quanto all'occasionalità della commedia, alla fretta e al dilettantismo con cui venne eseguita l'opera su commissione, alla sua vitalità esigua, limitata ad un ambiente cittadino ché non era certo tra i più provveduti nel senso della cultura teatrale.La morte violenta di Pier Luigi Farnese, ucciso nel 1547, colse il C. meno di sorpresa di quanto non fosse avvenuto alla scomparsa dei precedenti mecenati: "Così era destinato!", si lasciò sfuggire una volta per lettera, e uscito indenne da Piacenza, riguadagnata Roma, si preparò all'ossequio di un nuovo Farnese, il cardinale Alessandro, presso la cui corte il letterato marchigiano dimorò dal 1548 al 1563.
V'è da sottolineare a questo punto un vago sentimento di insufficienza che invade il Caro. Scrivendo a Ludovico Beccadelli il 14 ott. 1547 egli confessava che "la grandezza di Farnese mi spaventa"; passato oltre un decennio, confidava a Paolo Manuzio un senso di stanchezza e di disillusione che lo assaliva considerando i propri studi ("Voi sapete già tanto, e avete già tanto mostro di sapere, che siete famoso per sempre. Il cercar di sapere ancor più, con tanto consumamento di voi, è voler morire innanzi tempo, piuttosto che viver dopo la morte… E, se lo fate per piacere, studiate meno, che studierete più, e ne goderete più lungamente. Io mi sento ormai assai bene, perché non istudio": 10 febbr. 1558). è necessario tener presente questi riferimenti per intendere come il C. tendesse in questi anni non tanto all'ampliamento di un orizzonte culturale (che si arricchisce, tuttavia, per il nuovo interesse alle rime del Bembo, di cui allestì una edizione tra il '47 e il '48, per la conoscenza delle Storie del Varchi e delle Vite del Vasari, per la familiarità con i petrarchisti napoletani, con Vittoria Colonna, col Della Casa), quanto al potenziamento e alla difesa di un mestiere letterario che la sua epoca volle soprattutto orientato verso la forma lirica.
Le Rime del C. forniscono senza dubbio una testimonianza del trapasso dal clima permissivo della società farnesiana (in cui si inserisce il tributo delle rime comiche e si giustifica il ripristino di temi cari al giovanile valdesianesimo del C., diretti, ad esempio, contro la corruzione della Chiesa nella canzone dettata nel 1549 per sostenere la candidatura a pontefice del cardinal Farnese) a un più rigido ideale controriformistico cui sono improntate le ultime rime, sia che lo scrittore contempli con sgomento l'ineluttabile trascorrere del tempo e si raccolga devotamente in sé per l'ultimo cammino (nella canzone "Ahi, come pronta e lieve"), sia che, approssimandosi il pericolo della doppia morte, si volga, con supremo atto di contrizione, alla misericordia di Dio (sonetto "Egro e già d'anni e più di colpe grave") con la fiducia di lasciare agli uomini un esempio del suo infinito perdono (sonetto "Giunta o vicina è l'ora, umana vita"). Il che ovviamente comportava un vaglio diverso dei modelli: da Michelangelo, poniamo, come specchio di motivi legati per tradizione alla spiritualità riformistica, al Varchi e al Guidiccioni, che proprio quella spiritualità erano riusciti a correggere in senso ortodosso; l'attenuazione degli spunti più polemici, il passaggio da una rappresentazione di stile realistico e di impegno satirico alla misura di un pacato discorso in versi il cui esempio migliore è forse costituito dal sonetto "Perché siano i dì vostri oscuri e mesti". Ma è poi vero che questa offerta lirica vuole imporsi non tanto per l'universale accettabilità dei contenuti quanto per l'abilità tecnica con cui il maestro di stile dirige e fa sua ogni possibile manifestazione del sapere lirico. Ed ecco che il C. interviene a favore degli "Accademici della Nuova Poesia" dettando versi alla maniera "barbara" del Tolomei, compone versi per musica e fa opera di restauro imitando la lirica stilnovistica, commisura le proprie capacità inventive alla dimensione dell'elogio e del compianto, sopperendo ad una fondamentale inerzia intellettuale con la fitta rete di un'intesa per le rime in cui furono coinvolti quasi tutti i maggiori letterati dell'epoca, da Bernardo Cappello al Della Casa, dal Rota al Di Costanzo e al Tansillo. Come le lettere anche il discorso della poesia tende ad imporsi in quanto sapienza astratta dalla occasionalità di un messaggio, anche elevato, e condizionata invece alla capacità tecnica di comunicare qualsiasi argomento. L'ostinazione retorica del C. significa in fondo la salvaguardia di quella stessa ideologia della letteratura per cui si era battuto il Bembo e che fonda il reale prestigio dell'intellettuale di formazione umanistica. è su questa base che si intende l'eccezionale aggressività del letterato qualora venga messa in dubbio la validità degli strumenti espressivi: la polemica fra il Castelvetro e il C. a proposito di una maldestra canzone encomiastica che quest'ultimo aveva rivolto alla monarchia francese ("Venite all'ombra de' gran Gigli d'oro") riflette i medesimi motivi di un'altra celebre controversia cinquecentesca, quella che appunto il Bembo sostenne contro Antonio Brocardo, e più che rivelare un episodio di malcostume, sottolineato come tale dalla critica, evidenzia i termini necessari in cui si dibatte l'autorità nell'ambito di una civiltà della scrittura quale fu il Rinascimento.
A un essenziale Parere sul componimento del C. e alla successiva Dichiarazione del Castelvetro lo scrittore marchigiano contrappose un Commento alla canzone, un'elefantiaca Apologia terminante con alcuni componimenti in rima detti Mattaccini e una Corona di nove sonetti ingiuriosi, in cui, tra l'altro, si accusava il rivale di aver provocato la morte di Alberico Longo, un oscuro letterato che si era fatto nella polemica partigiano del Caro. A sua volta l'Apologia, che si finge come architettata e presentata da Pasquino (professato sostenitore del Castelvetro in quanto maestro di maldicenze), consta di tre scritti composti da sedicenti amici romani del C., Ilrisentimento del Predella, La rimenata del Buratto, Il sogno di ser Fedocco.
Tra queste ultime prose, sicuramente dovute alla penna del C., di gran lunga più importante è la prima, ove lo scrittore, respingendole accuse rivoltegli per aver male usato della "traslazione", definisce la metafora e la metonimia in termini parzialmente accettabili da una moderna concezione linguistica. Così, stabiliti i gradi di approssimazione che devono garantire i traslati rispetto al significante primario ("La prima virtù che vogliono avere è questa, che siano simili alle persone o alle cose che tolgono a rappresentare… La seconda è che la similitudine non sia lontana… La terza è che la similitudine o non passi di troppo o non arrivi di gran lunga a quel che si vuol simigliare"), il C. determina, inchiave di edonismo intellettualistico, il carattere selettivo della metafora, confondendo tuttavia tra significati diversi e valori diversi di segni similari ("Dovereste pure aver letto che questa è una delle cagioni che fanno le metafore tanto dilettevoli; perché in uno istante vi mostrano due cose in una, e vi fan passar con l'intelletto dall'una nell'altra: il qual passaggio si presuppone che si debba fare da chi legge, siccome lo fa chi scrive, trasportando le qualità e gli effetti da parola a parola: il qual trasportamento bisogna che si faccia alcuna volta, non solo dalle traslate aperte alle proprie sotto intese d'un termine solo, ma dalle traslate alle proprie e dalle traslate alla traslate, ancora d'altri termini,che sono tutte aperte"). E su "questa condizione… degli effetti continuati" viene intravisto il procedimento combinatorio della metonimia ("Ma questa continuazione così fatta o non è più metafora o è metafora e più, poiché per altro vocabolo è nominata Allegoria; la quale Allegoria, quando si fa, ricerca bene quella dependenza e conformità d'effetti che voi dite"), anche se a questo punto della trattazione l'autore è ben lontano dal valutare le implicazioni estetiche del proprio assunto, pronto anzi a ripiegare su una soluzione di compromesso che preclude ogni prospettiva narrativa ("nondimeno non siamo obbligati a tirarla più in lungo che ci vogliamo, e la possiamo scorciare e torla anco via del tutto a nostro piacere"). In maniera analoga il C. non aveva del tutto dimesso una concezione puramente ornamentale della metafora, considerandola una "maschera", un addobbo decorativo capace di conferire un tratto di decoro a pensieri volgari o inadeguati (nel caso della canzone) rispetto ai nobili destinatari.
Meno interessante è il secondo scritto dell'Apologia, ove il C. impartisce al rivale un'aperta lezione di conformismo ideologico ("non avete inteso dire di quel vero savio il qual, vedendo che per una certa pioggia tutta la sua terra era impazzata e che teneva per pazzo lui il qual solo all'asciutto era rimaso, elesse d'uscire a bagnarsi di quella pioggia ancor egli e impazzar da vero, volendo essere piuttosto pazzo con tutti che tenersi savio da lui solo?"), ovvero allude in maniera molto esplicita ad un sapere eterodosso del Castelvetro, il quale, com'è noto, sarà costretto a fuggire dall'Italia per l'accusa di eresia: "Non avete voi inteso che s'imparano i veleni dalla medicina? non vedete che si fa torto alla gente con le leggi? non sapete voi medesimo alla fine che si diventa eretico con gli Evangeli?". E del pari scadente è Il sogno di ser Fedocco, glaciale e preoccupata "allegoria" sul nome dell'antagonista - un castello di vetro riflette, deformandole, le immagini di tutti coloro che vi si specchiano e lascia scorgere all'interno le delizie più attraenti e fallaci, ché, quando la costruzione si infrange, prolifera dalle sue rovine una nube di insetti fastidiosi e dal fumo che esalano le rovine nasce la figura di un uccello notturno, il barbagianni -, di cui, comunque, bisogna tener conto come dell'invenzione più distesa del C. prosatore, anzi dell'unica prosa fantastica, se si eccettuano alcuni brevi spunti narrativi contenuti negli scritti berneschi e nelle lettere, cui abbia dato vita la sua capacità "allegorizzante" assai limitata, invero, malgrado i notevoli supporti retorici di cui era fornita.
La notorietà conseguita dal C. nel corso dellapolemica fu immensa. Egli riuscì a responsabilizzare in suo favore ambienti accademici, uomini di Curia e la quasi totalità dei letterati fiorentini (con il Varchi in testa, che non mancò di spezzare una lancia a favore dell'amico nell'Ercolano), i quali ravvisavano nella battaglia sostenuta dal C. in nome del petrarchismo e della Controriforma la loro stessa causa conservatrice e municipalistica. La critica ha implicatamente tenuto sempre conto di tale fortuna giudicando l'Apologia un buon esempio di satira letteraria, a parte, si intende, qualche intemperanza nei toni polemici. In realtà, se l'opera viene considerata sul piano delle modalità in cui si esplica l'autoritarismo, essa rappresenta qualcosa di più di una polemica personalistica e di un fenomeno strettamente letterario; se invece viene giudicata in base a un rapporto personale, essa non sfugge all'impressione canagliesca che suscita il delatore, al riparo nei più squallidi ricettacoli della Roma farnesiana. è quasi impossibile cogliere l'intero senso di questa minaccia prescindendo dal tono nfrontato e bullesco in cui avrebbe potuto pronunciarla mastro Pasquino (sotto la cui maschera i contemporanei dovevano riconoscere i connotati del vecchio provinciale romanizzato): "Che io non abbia poi né gambe né braccia e voi sì, che io sia più svisato e manco nasuto di voi e voi di più fronte e più cigliuto di me: questo non importa, perché sono accidenti che, seguendo il nostro mistiero, possono avvenire ancora a voi".
è anche vero che durante il servizio sotto Alessandro Farnese più rapaci, diventano le ambizioni del letterato per godere dei benefici assegnatigli; comiche sino al ridicolo appaiono le sue ostentazioni di decoro (quando, nel 1551, entra a far parte del Collegio dei cavalieri loretani, o quando, nel '55, egli ottiene la commenda di Rodi - onde il titolo di commendatore che fregia i frontespizi delle opere a stampa - alla quale confessava di aver posto "il segno di tutta l'ambizione"); più astiose e grette si fanno infine le polemiche con alcuni favoriti del cardinale (Carlo Gualtieruzzi, Antonio Bernardi) che negli ultimi tempi sembrano screditare il suo prestigio. Non che mancassero gli incentivi all'orgoglio, che l'esito dell'Apologia contro uno studioso ben altrimenti dotato di lui dovette far rinverdire, ma erano i rapporti con Alessandro Farnese che andavano degenerando ("Il cardinale è tornato a far le sue - scriveva il C. al vescovo di Pola nel marzo del '62 - e credo che la finiremo; così l'avessi finita la prima volta"), per cui, dopo aver scartato l'invito di trasferirsi presso Emanuele Filiberto, decise nel 1563 di ritirarsi a vita privata.
A quest'epoca il C. già possedeva una casa a Roma, in via Arenula, e una piccola tenuta fuori porta S. Giovanni. Volle ancora farsi costruire una abitazione di diletto e di riposo, lontano dalla città e invitante agli ozi campestri: sorse così villa Piscina, nei pressi di Frascati, dove tuttavia il C. poté risiedere pochi anni, ché aggravatosi un vecchio male, la podagra, fu costretto a ritornare a Roma e qui si spense il 20 nov. 1566.
Gli ultimi anni, improntati a un ideale di ozio non soltanto riferibile agli impegni pubblici ("Cerco al più che posso fuggir le brighe. Studio pochissimo, in libris"), furono quasi esclusivamente dedicati ad approntare il corpus delle rime e delle lettere che avrebbe dovuto stampare il Manuzio, nonché alla traduzione dell'Eneide, cuiil C. si era dapprima accostato con la volontà di comporre un poema eroico, e che portò a termine (deposto il progetto dell'opera originale) in un tempo abbastanza breve se si pensa che nell'aprile del '64 erano già stati volgarizzati i primi quattro libri e che l'intero lavoro poté essere completato prima della morte dello scrittore.
L'opera conclusiva del C. è anche quella in cui si rivela maggiormente la sua superficialità in quanto i moduli stilistici e il ritmo stesso del discorso con cui il traduttore tenta di riproporre il testo latino non vengono esemplati sul modello (e neanche ubbidiscono ad una reinterpretazione di esso, secondo il procedimento umanistico della parafrasi), ma si rivelano sempre precostituiti da una tipologia del volgare illustre - soprattutto dantesco e petrarchesco, giusta i rilievi che sono stati compiuti sul testo - il quale si sostituisce organicamente al dettato virgiliano. Per cui, ad esempio, il distico virgiliano: "nec mihi iam patriam antiquam spes ulla videndi / nec duplicis natos exoptatumque parentem" (II, 137-38) viene reso con "Ora son qui / privo d'ogni conforto e d'ogni speme / di mai più riveder la patria antica, / i dolci figli e 'l desiato padre", con quel tipico procedere per membri bipartiti che al C. non poteva essere suggerito se non dalla forma della lirica aulica. Sotto questo aspetto la traduzione tende ad allontanarsi più che ad approssimarsi all'originale e rappresenta una sorta di "summa" del volgare illustre, sperimentata piuttosto dilettantisticamente in concorrenza con la "grammatica" e forzata entro lo spazio pressoché onnicomprensivo del genere epico.
Non mancano notevoli omissioni, e queste riguardano di solito le più sottili accentuazioni psicologiche dell'Eneide: "solus hic inflexit sensus animumque labentem / impulit" afferma la Didone virgiliana (II, 22-23), mentre il C. traduce: "…sol questi ha mosso / i miei sensi e il mio core". Ma più di frequente l'arbitrio del traduttore è da ravvisarsi nel procedimento di smodata amplificazione che tende, se non ad inventare e ad interpolare, almeno a esplicitare i sottintesi del modello, di solito banalizzando (il v. 1 del l. II: "Conticuere omnes intentique ora tenebant" è risolto con il prolisso "Stavan taciti attenti e disïosi / d'udir già tutti"), non di rado ridicolizzando il testo virgiliano, come accade per l'immagine dolente di Giuturna che lo scrittore latino rappresenta, in due versi, mentre, conscia del fato ineluttabile di Turno, torna a celarsi nelle acque del fiume (XII, 885-86), e che il C. raffigura, in sei, con l'evidenza realistica che si addirebbe ad un suicidio per annegamento ("tantum effata caput glauco contexit amictu / multa gemens et se fluvio dea condidit alto" - "E così detto / grama e dolente, di ceruleo ammanto / il capo si coverse. Indi correndo / nel suo fiume gittossi, ove s'immerse / infino al fondo: e ne mandò, gemendo, / invece di sospir, gorgogli a l'aura").
è un esito che non lascia dubbi sulla irrecuperabilità del C. classicista, che appare molto simile ad altri famosi o famigerati traduttori dai classici della storia letterana italiana. La fortuna dell'opera, si può dire quasi fino ai nostri giorni - con una significativa intensificazione in epoca arcadica e neoclassica (che non investe tuttavia i giudizi limitativi dell'Algarotti e del Foscolo) -, è da considerarsi come il frutto di una malintesa stima per l'eloquenza e il decoro sotto cui si nasconde la più orgogliosa sciatteria. E l'eloquenza, anche senza decoro, ha finito per rendere famoso l'epistolografo e il polemista, il rimatore e l'uomo di teatro accomunati sotto la luce un po' tetra del letterato benpensante e socievole.
Opere: Del C. latinista sono stati riprodotti alcuni testi da A. Greco (A. C.- Cultura e poesia, Roma 1950, pp. 11 ss.). La traduzione del primo Idillio di Teocrito è stata edita a Colle nel 1843 e riprodotta nell'edizione Le Monnier delle Opere (Firenze 1864). La Rettorica d'Aristotele fatta in lingua toscana fuedita a Venezia nel 1570 e ristampata sempre a Venezia nel 1732. Il Commento di ser Agresto da Ficaruolo sopra la prima Ficata di padre Siceo fu stampato a Roma dal Blado nel 1539 (si può leggere insieme con la commedia, la Nasea e la Statua della Foia nella "Biblioteca rara" del Daelli, Milano 1863). Le Lettere familiari sono state edite criticamente da A. Greco (Firenze 1957-61), alla cui introduzione si rimanda per la notizia delle preced. ediz. Cfr. inoltre R. S. Samuels, An addition to A. C.'s "Lettere familiari": Notes on a letter to E. B. Varchi, in Renaissance Quarterly, XXVIII (1974), pp. 300-305. Gli amori pastorali di Dafni e Cloe figura, con l'Apologia (stamp. per la prima volta a Parma nel 1558) e con GliStraccioni (compresa nel volume II di Commedie del Cinquecento, a cura di N. Borsellino, Milano 1967), Sul primo e unico volume cifrato da V. Turri per "Gli scrittori d'Italia" di Laterza (Bari 1912). La più ricca raccolta di Rime del C. è quella allestita dal Manuzio (Venezia 1569 e 1572); alcune poesie inedite (insieme con scritture diplomatiche e con la traduzione dell'Apologiaseconda in favore d'Arrigo II re di Francia)furono inserite da G. Cugnoni nel volume di Prose inedite del Commendatore A. Caro, Imola 1872; Quattro sonetti inediti di A. Caro furono pubblicati a cura di E. Canuti, in Scritti di storia, di filosofia e d'arte, Napoli 1908. Per la traduzione dell'Eneide (stampata a Venezia dai Giunti nel 1581) vedi l'edizione a cura di A. Pompeati (Torino 1954). Le Due Orazioni di Gregorio Nazianzeno teologo… e il primo Sermone di S. Cecilio Cipriano sopra l'elemosina, fatte in lingua toscana dal Commendatore Annibal Caro apparvero a Venezia nel 1569 e figurano fra le Opere della citata edizione fiorentina. Si ricorda ancora del C. la versione di dodici lettere di Seneca, edite a cura di A. Dalmistro e S. Liberali a Treviso nel 1830.
Bibl.: Per i giudizi critici ricordati nel corso della trattazione vedi G. Parini, Dei principi particolari delle belle lettere, in Opere, a cura di G. Mazzoni, Milano s.d., p. 830; G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, I, Milano 1961, ad Indicem, e soprattutto le pp. 1510-11(nell'edizione di Tutte le opere, a cura di F. Flora); P. Giordani, Di un giudizio di G. Leopardi circa il C. e il Davanzati, in G. Leopardi, Studi filologici, a cura di P. Pellegrini e P. Giordani, Firenze 1845, pp. 455-59; F. Algarotti, Lettere di Polianzio ad Ermogene intorno alla traduz. dell'"Eneide" del C., in Opere, VII, Venezia 1732, lett. V; U. Foscolo, Articolo critico intorno a due traduzioni del poema di Virgilio l'"Eneide", in Prose letterarie, II, Firenze 1930, pp. 403-427. Sulla biogratia del C. è ancora utile consultare la Vita che A. F. Seghezzi premise al rediz. delle Lettere familiari, Padova 1763. Vedi inoltre: R. Sassi, A. C. e Giovanni Guidiccioni, Fabriano 1907; F. Picco, A. C. segretario del duca Pierluigi Farnese, in Nuova Antol., 1º ott. 1907, pp. 1-22; M. Sterzi, Studi sulla vita e le opere di A. C., in Atti e Mem. della Deputaz. di storia patria per le Marche, n.s., V (1909), pp. 1 ss.; VI (1910-1911), pp. 45 ss.; Id., A. C. inviato di Pierluigi Farnese, in Giorn. stor. della lett. ital., LVIII(1911), pp. 1-48; V. Cian, in A. Caro, Scritti scelti, a cura di E. Spadolini, Milano 1912; F. Rizzi, A. C., Torino 1931; F. Sassi, A. C., Milano 1934. Sulle caratteristiche del prosatore in volgare rimane valido il giudizio di P. De Nolhac, La bibliothèque de F. Orsini, Paris 1887, pp. 13-14. Sul C. rimatore sono da vedere B. Croce, La lirica cinquecentesca, in Poesia popolare e poesia d'arte, Bari 1933, pp. 278 ss.; e V. M. Villa, Stilismo di A. C., Macerata 1936. Intorno alla polemica col Castelvetro, vedi D. Capasso, Note critiche sulla polemica tra A. C. e L. Castelvetro, Napoli 1897; C. Trabalza, Storia della grammatica ital., Milano 1908, pp. 166 ss.; V. Vivaldi, Una polemica del Cinquecento, Catanzaro 1930. Su Gli Straccioni, vedi S. Stefani, A. C. in teatro, in Giorn. arcadico, s.6, I (1906), pp. 274-811, 337-46, 393-98, 465-76; P. P. Trompeo, Teatro in Campo de' Fiori, in Piazza Margana, Roma1942, ad Ind.;I. Sanesi, La Commedia, Milano 1954, ad Indicem.Per la traduzionedell'Eneide sono davedere G. Quadri, A. C. e C. Arici nella traduzione dell'Eneide, Brescia 1884; E. Parodi, I rifacimenti e le traduzioni ital. dell'"Eneide" di Virgilioprima del Rinascimento, in Studi di filologia romanza, II(1887), pp. 420 ss.; G.Mondaini, I criteri estetici e l'opera poetica di A. C., Torino1897; C. Trabalza, Studi e profili, Torino 1903, pp. 191 ss.; G. B. Pellizzaro, Echi danteschi e petrarcheschi nella traduz. dell'"Eneide" di A. C., in La Rassegna, XXXVIII(1930), pp. 1 ss.; E. Bonora, Consensi e dissensi intorno all'"Eneide" del C., in Stile e tradizione. Studi sulla letter. ital. dal Tre al Cinquec., Milano-Varese 1960, ad Ind.;G. Olivieri, L'Eneide del C., Torino 1965. Si v., infine, A. Greco, A. C. e il teatro, in Cultura e scuola, V (1966), pp. 33 ss.; C. Dionisotti, A. C. e il Rinascimento, ibid., pp.26 ss.; R. Ramat, Appunti su "Gli Straccioni", in Saggi sul Rinascimento, Firenze 1969, pp. 200 ss.; G. Ferroni, "Gli Straccioni" di A. C. e la fissazione manieristica della realtà, in Mutazione e riscontro nel teatro di Machiavelli e altri saggi sulla commedia del Cinquecento, Roma1972, pp. 193 ss.; G. Marzot, L'idea della lingua nel Leopardi e nel C., in St. in mem. di L. Russo, Pisa 1974, pp. 204-219; N. Borsellino, C. e la realtà, in Rozzi e Intronati. Esp. e forme di teatro dal Decameròn al Candelaio, Roma1974, pp. 189 ss. Fra i manuali è utile consultare F. Flamini, Il Cinquecento, Milano s.d., ad Indicem;E. Bonora, Il Classicismo dal Bembo al Guarini, in Storia della letter. ital., IV, Il Cinquecento, Milano 1965, ad Indicem.