RIGOTTI, Annibale
RIGOTTI, Annibale. – Nacque a Torino il 30 settembre 1870 (Rigotti, 1980, p. 8) in una famiglia di modeste condizioni, ma vicina all’ambiente artistico. Il padre Pietro fu infatti bibliotecario dell’Accademia Albertina di belle arti e attivo organizzatore delle iniziative sociali del Circolo degli artisti.
Si iscrisse dodicenne ai corsi preparatori dell’Accademia, concludendo nel 1886 il primo ciclo e ricevendo diversi riconoscimenti, tra cui la medaglia d’oro per l’architettura nell’anno conclusivo. Frequentò dunque il triennio della Scuola superiore di architettura, allievo, tra gli altri, di Crescentino Caselli, a sua volta portatore dei principi razionalisti e sperimentali di Alessandro Antonelli: a chiusura del ciclo venne premiato in occasione del concorso annuale. Nello stesso periodo, in ottemperanza alla consuetudine del tempo, frequentò tra il 1887 e il 1889 i corsi di ornato presso il Regio Museo industriale di Torino, ottenendo la patente di maestro di disegno, in assenza di un curriculum di studi esclusivamente dedicato all’architettura. La carriera scolastica si chiuse con il conseguimento dell’abilitazione all’insegnamento e con una serie di premi in denaro e borse di studio, tra cui anche il diritto di usufruire di spazi nei locali dell’Accademia stessa.
Le prime esperienze professionali furono coperte dall’anonimato, poiché la firma in calce ai progetti architettonici era allora appannaggio dei soli ingegneri, nei cui studi i diplomati ‘accademici’ prestavano servizio come disegnatori e specialisti in ornamentazione, secondo l’impianto che vedeva le scuole di applicazione per ingegneri formare tecnici e le accademie artisti privi della formazione scientifica necessaria nella pratica professionale. Tuttavia, l’alunnato presso Caselli, proprio negli anni della formazione accademica, fornì a Rigotti competenze che andavano oltre l’ambito dell’ornamentazione, permettendogli non solo di entrare a far parte del corpo docente dell’Accademia (nel 1890-93 fu assistente di Giovanni Sacheri presso la cattedra di geometria descrittiva), ma anche di tentare, mediante la partecipazione a concorsi, la pratica dell’architettura in senso ampio.
La possibilità di spaziare in linguaggi architettonici non condizionati dalle scelte dei committenti, tipica dei concorsi, favorì una ricerca relativamente poco accademica, grazie anche alla frequentazione di artisti appartenenti alla compagine dei riformatori della pittura tradizionale, in particolare Pelizza da Volpedo, che gli sarebbe stato a lungo amico. Amico, e occasione di ingresso nell’architettura costruita, fu anche Raimondo D’Aronco, presso il quale Rigotti iniziò un periodo di esercizio professionale in qualità di dipendente e collaboratore fin dal 1892, seguendolo l’anno seguente a Costantinopoli, dove D’Aronco fu chiamato dal sultano Abdül Hamid II per il progetto dell’Esposizione agricolo-industriale ottomana, non andato a buon fine. Durante questo soggiorno Rigotti fu chiamato a progettare la stazione ferroviaria di Konia e svolse alcuni lavori per privati, oltre a partecipare al concorso per il nuovo teatro di Sistov in Bulgaria, che vinse, e a ricevere l’incarico, tramite una ditta appaltatrice tedesca, per la ristrutturazione delle stazioni ferroviarie sulla linea Tiflis-Batum (nell’attuale Georgia), al quale rinunciò avendo vinto il concorso per la cattedra di disegno e plastica presso il Regio Istituto tecnico G. Sommeiller di Torino (1898).
Nello stesso anno si aggiudicò il concorso per il palazzo comunale di Cagliari, insieme al suo maestro Caselli, con il quale si trovò in causa per il riconoscimento della paternità del progetto, causa che dette ragione a Rigotti.
L’edificio, il primo veramente costruito da Rigotti, di grandi dimensioni e organizzato intorno a rigidi assi di simmetria, è un esempio di tardivo revival eclettico, con tracce di romanico nell’apparato decorativo e in alcuni elementi della composizione – torri, polifore, aperture ad arco ribassato –, che consegue però un effetto straniante grazie al nitore dell’intonaco bianco.
Sempre nel 1898 ricevette l’incarico per il rifacimento e l’ampliamento della palazzina Vitale (progetto firmato dall’ingegnere Carlo Valle), risolti mediante una grande abbondanza di decorazioni di ispirazione neobarocca sia all’esterno sia all’interno dell’edificio, altrimenti piuttosto semplice. Quasi un palinsesto dei caratteri architettonici del Seicento piemontese, la palazzina vede la presenza tanto di singoli elementi – ordini architettonici, cornici, mensoloni – quanto di sistemi compositivi, come quelli appartenenti all’«arquitectura obliqua» formulata dal vescovo cistercense Juan Caramuel Lobkowicz (Architectura civil, recta y oliqua…, 1678) e praticata a Torino da Guarino Guarini. La decorazione interna è frutto, inoltre, della collaborazione tra Rigotti, Giacomo Grosso, pittore e docente presso l’Accademia Albertina, ed Ernesto Smeriglio, pittore e decoratore, in un approccio da ‘opera d’arte totale’ vicina alla concezione, anche se non ancora nelle forme, dell’art nouveau. E fu l’art nouveau che Rigotti abbracciò, almeno per un periodo, dopo che, classificatosi secondo al concorso del 1901 per l’allestimento dell’Esposizione internazionale d’arte decorativa moderna di Torino (1902), fu incaricato di mettere in esecuzione il progetto vincitore dell’amico D’Aronco, ancora impegnato in Turchia, oltre che di progettare ex novo alcuni padiglioni (Olii e vini, Cinematografia e alcuni chioschi anonimi).
Dall’inizio del secolo crebbero, da parte di Rigotti, le attività didattiche, l’organizzazione e la partecipazione a mostre, eventi artistici e concorsi, e si intensificarono i tentativi di organizzare la professione, ma egli continuò, come molti ‘architetti accademici’, a doversi servire della firma di professionisti accreditati per il deposito delle pratiche ufficiali. Al contempo, nella produzione di questo periodo si può notare una continua oscillazione tra i linguaggi più aggiornati dell’arte ‘nuova’, soprattutto d’ispirazione mitteleuropea, e il recupero degli storicismi, al fine di accontentare committenti e contesti diversi, oscillazione che dimostra la sua grande padronanza degli strumenti compositivi oltre che tecnici.
I lavori dei primi anni del decennio, soprattutto quelli realizzati, tra cui la villa Falcioni a Domodossola (1903), la villa Vitale a Levanto (1904) e la palazzina Baravalle a Torino (1906), sono chiaramente riconducibili alla Secessione viennese, nei modi di disposizione volumetrica e in quelli decorativi, nell’accuratezza dei dettagli superficiali e nella ricorrenza di elementi geometrici che pervadono ogni porzione dell’edificio, funzionale o decorativa. Tra i progetti non realizzati, perlopiù destinati a concorsi (testate del tunnel del colle del Quirinale, Roma 1902; cimitero di Mantova, 1902; Esposizione del Sempione, Milano 1902; palazzo della Pace all’Aia, 1906), il linguaggio viennese viene declinato nelle più magniloquenti forme della Wagner Schule.
Interessante poi, ancora negli anni 1903-06, è il progetto, realizzato in seguito a concorso, della sistemazione dell’aula della Mole Antonelliana, destinata ad accogliere il Museo del Risorgimento.
La configurazione dell’invaso originario, tutta funzionale a esaltare l’andamento verticale della struttura, viene ridotta a superfici incrostate di materiali ricercati, in un complesso polimaterico e multicolore che traduce l’obiettivo di «fare da sfondo alla figura del gran Re», come si legge in calce al progetto (l’intervento venne rimosso intorno alla metà degli anni Venti).
La successiva fase della carriera di Rigotti fu caratterizzata da un ulteriore, radicale cambiamento. Sposatosi nel 1900 con Maria Calvi, pittrice dedita alle arti applicate conosciuta all’Accademia Albertina, accolse comunque nel 1907 l’invito a recarsi in Siam (Thailandia) ad aumentare il gruppo dei progettisti italiani, e in particolare torinesi, coordinato dall’ingegnere Carlo Allegri e impegnato nei lavori direttamente commissionati sia dalla corte, sia dal ministero dei Lavori pubblici per gli ampliamenti e la modernizzazione della capitale: nuovi quartieri, attrezzature, infrastrutture vedevano la presenza quasi esclusiva della comunità degli italiani uniti da esperienze, soprattutto formative, comuni, come nel caso dei torinesi, e alla ricerca (in un vero e proprio flusso migratorio delle professioni) di nuovi incarichi e occasioni di crescita sociale, soprattutto in una fase in cui gli ‘architetti accademici’ non godevano in patria di autonomia professionale e si vedevano spesso precluse intere fasce di mercato. Rigotti, insieme ad amici e sodali dell’Albertina – Mario Tamagno, Alfredo Rigazzi, Ercole Manfredi –, si dedicò a diversi progetti, ma il suo impegno principale, nel biennio di permanenza in Siam, fu il Palazzo del Trono e la sua sistemazione esterna.
Diversamente da molti altri interventi in aree coloniali, nei quali i progettisti praticavano ibridi tra i linguaggi locali e quelli occidentali, il Palazzo del Trono, il cui schizzo iniziale Rigotti attribuì al sovrano, è interamente informato a un maturo eclettismo tutto compreso nei confini, pur ampi, del classicismo italiano, realizzato comunque utilizzando le più moderne tecniche costruttive, dal sistema Hennebique per le strutture in calcestruzzo armato, alla galvanoplastica per i pannelli metallici posti a copertura delle cupole.
Lasciato il Siam nel 1909, a cantiere ancora aperto, Rigotti proseguì nella sua attività professionale, oltre che didattica, ancora oscillante tra i piccoli interventi privati – ville, palazzine e monumenti funebri – nei quali proseguì l’elaborazione del linguaggio internazionale, e i grandiosi progetti per concorsi pubblici (Cassa di risparmio di Modena, 1913; collegamenti dei Palazzi capitolini, Roma, 1913; Cassa di risparmio di Torino, 1913; Palazzo reale di Sofia, 1913; decorazione del salone del Consiglio di Cagliari, 1913-14; facciate delle scuole elementari di Bergamo, 1914; Parlamento di Camberra, 1914; piano regolatore di Mondovì, 1916), nei quali, invece, il linguaggio storicista e nazionale domina lo spirito della composizione. Tratto comune a tutti i progetti è l’efficacia dell’aspetto grafico, eredità della lezione accademica e della cultura internazionale, frutto di viaggi, studi e frequentazione di pubblicazioni e riviste, con uno sguardo privilegiato alla scuola di Otto Wagner che in quegli anni influenzava fortemente la formazione degli architetti del Nord Italia, tra gli altri il futurista Antonio Sant’Elia.
Il rapporto con il Siam intanto proseguì con l’incarico per il padiglione nazionale all’Esposizione internazionale di Torino del 1911 (con Tamagno), un edificio affacciato sul Po che riproduceva lo schema degli edifici tradizionali siamesi, prasat e wat con i tetti a padiglione, degradanti a telescopio e sormontati da un’alta guglia dorata.
Negli anni postbellici Rigotti si accostò ai temi della ricostruzione sociale con progetti per blocchi di case per operai (Torino, Società per il Gas, 1920, non realizzato) e a uno dei temi più frequentati dagli architetti accademici in quegli anni: memoriali e ossari dedicati ai caduti in guerra, anche in questo caso solo sporadicamente realizzati (Monumento ai caduti, Valenza, 1921).
Ancora il Siam fu il luogo di realizzazione della sontuosa villa Norasingh a Bangkok (1923-25, con Tamagno), interamente informata, per volere del sovrano, ai palazzi veneziani affacciati sul Canal Grande e in particolare alla Ca’ d’Oro, ma con molte evidenti citazioni di palazzo Cavalli Franchetti, progettato da Camillo Boito e da pochi anni portato a termine.
La continua frequentazione di circoli artistici, anche grazie alla moglie Maria, favorì l’intervento nel dibattito sulle arti applicate e sulla progettazione d’interni in chiave di rinnovamento. In questo senso è da leggere l’allestimento della Sezione piemontese alla seconda edizione della Biennale di arti decorative a Monza (1925), dove la serie di mobili a metà strada tra déco e modernismo venne favorevolmente recensita, soprattutto dall’amico e sodale Mario Labò, arbitro, in quegli anni, degli orientamenti del gusto dell’architettura d’interni e fautore del connubio architettura-design. Tale esperienza venne ripetuta nell’allestimento del salone per la Fiat Ferriere all’Esposizione internazionale di Torino (1928).
Altri concorsi caratterizzarono gli anni a venire (cattedrale della Spezia, 1929; piano regolatore di Pisa, 1930; sede dell’Istituto San Paolo a Torino, 1930; mercati generali di Torino, 1930-32; ponte dell’Accademia, Venezia, 1932), toccando così tutti i temi centrali della cultura architettonica del Ventennio: piani urbanistici, sedi istituzionali, edifici religiosi, utilizzo delle nuove tecnologie. Almeno uno dei concorsi andò a buon fine, e precisamente quello per la via Roma nuova a Torino (1932), nel quale Rigotti si aggiudicò il progetto per l’isolato San Vincenzo, richiesto dalla Società Lane Borgosesia e a destinazione mista commerciale-residenziale.
Il grande isolato, frutto del progetto generale, risalente a dieci anni prima, per il risanamento dell’asse storico torinese, inteso soprattutto come occasione immobiliare, è caratterizzato da due morfologie differenti e distinte: l’affaccio sulla via Roma presenta un’uniformità con i fronti storici della seicentesca piazza San Carlo, oltre al redditizio piano attico arretrato, mentre quello sulle vie laterali e sul retro riflette la ricerca razionalista e presenta tracce di quella espressionista, in particolare nelle variazioni dello spigolo e nelle fasce cromaticamente connotate che cadenzano tutte le superfici.
Affiancato dal figlio Giorgio (1905-2000), già in questa fase, Rigotti proseguì l’assidua frequentazione dei concorsi insieme all’edificazione di piccole opere, soprattutto edicole funerarie, di cui divenne quasi uno specialista, giungendo infine a progettare una serie di edifici alti compresi nel nuovo insediamento a destinazione operaia Le Vallette a Torino (1957), dove un tardo neorealismo nell’uso dei materiali e dello spirito di comunità si combina con la tecnologia del calcestruzzo armato. Ancora con il figlio intervenne nella risistemazione del Teatro Nuovo (Torino, 1958-60) all’interno del complesso di Torino Esposizioni, committente per il quale i due Rigotti realizzarono anche il cosiddetto Palazzo a Vela (1960, con Franco Levi), grande edificio polifunzionale per ospitare mostre ed eventi, costruito in occasione delle celebrazioni del centenario dell’Unità. Costituito da quattro vele in calcestruzzo armato intersecate, appoggiate sui vertici e tamponate da diaframmi vetrati inclinati, fu una delle maggiori attrazioni dell’Esposizione (ristrutturato nel 2006 in occasione dei Giochi olimpici invernali per opera di Gae Aulenti).
Anziano e con problemi alla vista, Rigotti diradò la sua attività professionale, pur conservando la sua presenza in studio. Morì a Torino l’8 marzo 1968.
Fonti e Bibl.: A. Sartoris, Gli elementi dell’architettura funzionale, Torino 1932 (con dedica a Rigotti); G. Rigotti, 80 anni di architettura e di arte. A. R. architetto 1870-1968, Maria Rigotti Calvi pittrice, 1874-1938, Torino 1980; Gli architetti dell’Accademia Albertina, a cura di G.M. Lupo, Torino 1996 (con estesa bibliografia e fonti archivistiche); S. Pace, Un eclettismo conveniente: l’architettura delle banche in Europa e in Italia, 1788-1925, Milano 1999; C. Accornero - E. Dellapiana, Il Regio Museo Industriale di Torino tra cultura tecnica e diffusione del buon gusto, Torino 2001; E. Dellapiana, Gli Accademici dell’Albertina, Torino, 1822-1884, Torino 2002; G. Montanari, Esercizi di stile per la ‘casa dei morti’, in L’architettura della memoria in Italia. Cimiteri, monumenti e città 1750-1939, a cura di M. Giuffrè et al., Milano 2005, pp. 235-241; F.B. Filippi, Da Torino a Bangkok. Architetti e ingegneri nel regno del Siam, Venezia 2008; E. Dellapiana, Un ‘abito’ per la città. Decorazione e architettura per una modernità tradizionale, in L’architettura dell’‘altra modernità’. Atti del XXVI Congresso di storia dell’architettura... 2007, Roma 2010, pp. 175-183.