antichi e moderni
Nel cap. xviii del Principe, illustrando la necessità di usare «dua generazioni di combattere: l’uno, con le leggi; l’altro, con la forza. Quel primo è proprio dello uomo; quel secondo delle bestie», M. osserva che
questa parte è suta insegnata alli principi copertamente da li antichi scrittori, e’ quali scrivono come Achille e molti altri di quelli principi antichi furono dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li custodissi (§§ 2 e 5).
Come è stato suggerito (Raimondi 1972), il tema allegorico e mitologico del centauro rinvia probabilmente al De venatione e alla Cyropaedia di Senofonte, autore ben presente nelle pagine del Principe e anche ricordato in un capitolo dei Discorsi:
Però gli antichi scrittori dicono che quelli eroi che governarono nel loro tempo il mondo, si nutrirono nelle selve e nelle cacce; perché la caccia [...] c’insegna infinite cose che sono nella guerra necessarie. E Senofonte nella vita di Ciro mostra che, andando Ciro ad assaltare il re d’Armenia, nel divisare quella fazione, ricordò a quegli suoi, che questa non era altro che una di quelle cacce le quali molte volte avevano fatte seco (III xxxix 5-6).
Gli antichi scrittori frequentati da M. sono molti, spesso citati esplicitamente e a volte in modo generico («Egli è sentenzia degli antichi scrittori come gli uomini sogliono affliggersi nel male e stuccarsi nel bene»: Discorsi I xxxvii 2), ma sempre come fonte, appunto, di insegnamento.
Questa impostazione didattica è ben evidente nella dedica stessa del Principe a Lorenzo de’ Medici il Giovane, dove l’autore dichiara:
non ho trovato, in tra la mia supellettile, cosa quale io abbia più cara o tanto esistimi, quanto la cognizione delle azioni degli uomini grandi, imparata da me con una lunga esperienza delle cose moderne e una continua lezione delle antiche (§ 2).
È una concezione plutarchea e umanistica della storia come discorso de viris illustribus, ma subito fondata su una capitale distinzione fra la fonte pratica (il lavoro in cancelleria fra il 1498 e il 1512) e quella teorica (la lettura e lo studio degli autori classici), che insieme forniscono la conoscenza. «Cognizione» è propriamente ‘scienza’ in senso dantesco e coincide a sua volta con la scrittura storica dello stesso M., come egli precisa in una famosa lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513 (Lettere, pp. 295-96):
Venuta la sera, mi ritorno in casa, et entro nel mio scrittoio; et in su l’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente entro nelle antique corti degli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio, e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro umanità mi rispondono [...]. E perché Dante dice che non fa scienza sanza lo ritenere lo avere inteso [Par., V, 41-42], io ho notato quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale, e composto uno opuscolo De principatibus.
Questa conversazione con i personaggi della storiografia classica e questa parallela esperienza della politica moderna formano una coppia indissolubile nella metodologia e nella pedagogia di M., come risulta anche dalla dedica dei Discorsi («Io vi mando uno presente, [...] in quello io ho espresso quanto io so e quanto io ho imparato, per una lunga pratica e continua lezione, delle cose del mondo»: §§ 1-2) e già dai Ghiribizzi scritti al Soderino:
Di che io mi maraviglierei, se la mia sorte non mi avessi mostre tante cose e sì varie, che io sono costretto a maravigliarmi poco o confessare non avere gustate né leggendo né praticando le azioni degli uomini (Lettere, p. 136).
Su questo doppio binario, con una serrata dialettica che stringe insieme a ogni istante i due piani, si sviluppa la riflessione machiavelliana sugli antichi e sui moderni, che forma l’ossatura principale del suo pensiero politico.
La presenza delle decadi liviane Ab urbe condita nella casa di Bernardo Machiavelli fin dal 1475 sembra indicare una precoce e intensa frequentazione dello storico latino da parte di Niccolò. Fin dall’inizio le pagine di Tito Livio incarnano per lui il modello romano, poiché documentano come una sorta di fedelissima cronaca le imprese di quel popolo e al tempo stesso testimoniano l’eccellenza della forma statale repubblicana. Culminata con l’elaborazione di un originale commento alla prima deca (i Discorsi), la lettura di Livio rappresenta davvero la «continua lezione» delle «cose [...] antiche» nella misura in cui permette una sorta di immaginata presa diretta sul passato: evocazione autentica di quegli «antiqui uomini» che appaiono nelle ore notturne a conversare con il quondam segretario nel suo scrittoio. È allora il dato così cristallizzato della storia romana a formare il termine di paragone indispensabile per un esame sistematico della modernità:
dove i Romani hanno il ruolo di esempio positivo in tutti i campi (architettura istituzionale dello Stato, dialettica sociale, ordinamenti religiosi e civili, politica estera, organizzazione dell’esercito, tattica e strategia bellica), mentre i moderni, salvo eccezione, tradiscono sempre quell’esempio e illustrano semmai una drammatica decadenza.
L’esemplarità di Roma era già stata svolta, con stupenda retorica, dagli storiografi umanisti che M. ben conosceva: Leonardo Bruni nei suoi Historiarum florentini populi libri (1415-40) aveva ritrovato la gloria della Repubblica romana nella Repubblica fiorentina, le opere di Biondo Flavio (Historiarum ab inclinatione Romanorum decades nel 1439-53, Roma instaurata nel 1444-46, Roma triumphans nel 1457-59) avevano ricostruito con acribia antiquaria le vicende, le opere architettoniche e le istituzioni dell’antica città collegandole alla nuova Roma papale di Niccolò V. Se M. terrà ben presente il lavoro di Bruni durante la stesura (ma in volgare) delle Istorie fiorentine, ben diverso è tuttavia il rapporto con i classici elaborato nelle sue pagine di teoria politica. La lettura di Livio ma anche di Sallustio, Svetonio, Tacito, Plutarco (nel 1502 M. cercava di procurarsi la versione latina delle Vite parallele, come testimonia una lettera di Biagio Buonaccorsi) e perfino del De Vita Apollonii Tyanei di Filostrato nella traduzione di Alamanno Rinuccini, non è infatti legata a un progetto propagandistico, municipale o universalistico, laico o ecclesiastico, bensì a un’originale ipotesi pedagogica.
Proiettata anche in questo caso sul presente, la lezione degli autori antichi serve non a esaltarlo, ma ad analizzarlo criticamente con feroce polemica; mentre ciò che più conta è la prospettiva del futuro, poiché la storiografia classica (portavoce, letteralmente, dell’esempio romano) può insegnare a porre le fondamenta di uno Stato nuovo.
Un autore come Polibio e in particolare gli Excerpta del sesto libro delle sue Historiae (ben noti nell’ambiente fiorentino fin dal primissimo Cinquecento, ma ignoti a Bruni che aveva parafrasato i primi due libri nel 1418-19 e a Niccolò Perotti che aveva tradotto i primi cinque nel 1454) danno la misura di questo impiego per così dire ‘istituzionale’ dei classici. Nel secondo capitolo del primo libro dei Discorsi, infatti, le idee polibiane di anakỳklosis, ovvero il ‘cerchio’ delle «variazioni de’ governi [...] nel quale girando tutte le republiche si sono governate e si governano» (I ii 14 e 24) e di miktè, ovvero la costituzione ‘mista’ che comprende le tre forme buone di governo «sendo in una medesima città il principato, gli ottimati e il governo popolare» (I ii 27 e 36), non sono delle semplici constatazioni filosofiche ma vengono riformulate all’interno di un preciso progetto politico: spiegare la durata e la perfezione dell’antica Repubblica romana e, in prospettiva moderna, riproporne il modello «nello ordinare le republiche, nel mantenere li stati, nel governare e regni, nello ordinare la milizia e amministrare la guerra, nel iudicare e sudditi, nello accrescere l’imperio» (Discorsi I proemio A 6). Il fatto stesso che la lezione polibiana sia contaminata con altre fonti, la Bibliotheca historica di Diodoro Siculo e il De rerum natura di Lucrezio, mostra che M. non possiede affatto il culto umanistico (e filologico) delle sue fonti ma le considera per i loro contenuti e come fedeli testimonianze di una realtà storica.
È proprio questo ambizioso scopo pratico a distinguere l’uso dei classici di M. da quello degli umanisti: non uno specchio erudito in cui ritrovare idealizzata l’immagine di ciò che esiste, ma un insieme di ‘regole’ che aiutino i politici contemporanei a costruire «governi» e «ordini» che ancora non sono stati realizzati, lungo il «diritto cammino» che «possa condurre» lo Stato «al perfetto e vero fine» (Discorsi I ii 6). Non per caso, allora, la dedica del Principe a Lorenzo de’ Medici il Giovane si conclude con un invito a prendere sul serio l’arte dello Stato machiavelliana, se si vuole concretamente realizzare una grande politica:
Pigli adunque vostra Magnificenzia questo piccolo dono con quello animo che io ’l mando; il quale se da quella fia diligentemente considerato e letto, vi conoscerà dentro uno estremo mio desiderio che lei pervenga a quella grandezza che la fortuna e l’altre sua qualità le promettono (§ 6).
E non per caso la dedica dei Discorsi ai giovani Zanobi Buondelmonti e Cosimo Rucellai evoca «quelli che sanno, non quelli che, sanza sapere, possono governare uno regno» (§ 9), con la medesima intenzione magistrale. M. rivitalizza insomma l’antico adagio della historia magistra vitae prendendolo alla lettera e rilanciandolo all’interno di un ambizioso progetto didattico che comprende la sua stessa scrittura, come se l’eredità dei grandi storiografi antichi si trasferisse aggiornata nelle pagine del Principe e dei Discorsi. Egli dichiara, infatti:
sarò animoso in dire manifestamente [...] acciocché gli animi de’ giovani che questi mia scritti leggeranno possino fuggire questi [i tempi moderni] e prepararsi a imitar quegli [i tempi antichi], qualunque volta la fortuna ne dessi loro occasione. Perché gli è offizio di uomo buono, quel bene che per la malignità de’ tempi e della fortuna tu non hai potuto operare, insegnarlo ad altri, acciocché, sendone molti capaci, alcuno di quelli più amato dal Cielo possa operarlo (Discorsi II proemio 24-26).
Certo, questa scrittura si nutre anche di altri autori e altre fonti, diversi dai classici e più vicini nel tempo. La cultura machiavelliana, come è stato rilevato (Martelli 1998), è profondamente radicata nella tradizione volgare fiorentina e toscana del Trecento e Quattrocento, che comprende ovviamente Dante, Petrarca e Boccaccio ma anche una vasta produzione in versi e in prosa di carattere gnomico e morale (come i capitoli ternari di Antonio di Meglio e Antonio Bonciani), anch’essa infarcita di exempla antichi, storici e mitologici. Un simile repertorio moderno, tuttavia, non rientra nel progetto politico legato al sistematico recupero degli storici antichi e costituisce piuttosto un retroterra familiare, una sorta di enciclopedia ereditata dal nostro autore insieme alla sua generazione. Più rilevante è semmai la presenza di Dante (si pensi all’Asino e ai Decennali), ben visibile nel Principe, citato esplicitamente nei Discorsi (il Convivio in I liii e Purgatorio in I xi), ma soprattutto vicino agli scatti polemici di M. contro il presente e contro Firenze. Meno vistosa ma altrettanto significativa, soprattutto dal punto di vista del nostro tema, è anche l’ombra di Petrarca.
Pensiamo ad alcuni motivi già ampiamente sfruttati dalla tradizione latina, come la ‘conversazione’ fra il lettore moderno e gli autori classici, o l’esemplarità imitabile di Roma e la svalutazione del presente, o ancora la complessa dialettica fra immutabilità della natura umana e «mutazione» che tutto travolge all’insegna del tempo: sono tutti elementi che giungono a M. anche attraverso la mediazione del Petrarca latino, soprattutto (e non solo) il De vita solitaria e le Familiares. Ciò che conta però, anche in questo caso, è proprio il rapporto con l’antico, mediato dal grande umanista ma trasformato dagli scritti machiavelliani in una proposta politica; con scarto evidente rispetto alla tradizione italiana, anche perché ispirato a un’accezione completamente nuova del concetto di imitatio sul quale il classicismo letterario era fondato.
L’esordio del proemio al primo libro dei Discorsi contiene tutti gli elementi principali della concezione machiavelliana della storia: il convincimento che le vicende si ripetono e che gli uomini sono sempre gli stessi, governati dalle medesime passioni; l’idea che i tempi antichi sono onorati dai moderni per l’intrinseco valore di «virtù» in essi manifestato; la constatazione della graduale e drammatica scomparsa di questa «virtù» nel corso del tempo; l’esigenza di bloccare un simile processo di progressiva degradazione mediante un radicale ritorno alle origini; la proposta di realizzare questo ritorno attraverso la sistematica imitazione del passato.
Considerando io quanto onore s’attribuisca alla antichità, e come molte volte (lasciando andare molt’altri esempli) un frammento d’una antica statua sia stato comperato gran prezzo per averlo appresso di sé, onorarne la sua casa, poterlo fare imitare da coloro che di quella arte si dilettano; e come quelli poi con ogni industria si sforzano in tutte le loro opere rappresentarlo; e veggendo da l’altro canto le virtuosissime operazioni che le istorie ci mostrano che sono state operate da’ Regni e Repubbliche antiche, da’ re, capitani, cittadini, datori di leggi e altri che si sono per la loro patria affaticati, esser più tosto con maraviglia lodate che imitate (anzi, in tanto da ciascuno in ogni parte fuggite, che di quella antica virtù non ci è rimaso alcun segno); non posso fare che insieme non me ne maravigli e dolga (Discorsi I proemio B 1).
L’imitatio machiavelliana, come si vede, non riguarda affatto la letteratura nella sua dimensione linguistica, topica o formale, così come non riguarda la statuaria antica, bensì «le virtuosissime operazioni che le istorie ci mostrano»: le «istorie» non sono testi da imitare nella loro perfezione letteraria (come avviene per il Virgilio e il Cicerone di Pietro Bembo), ma semplici contenitori di exempla ovvero luoghi deputati all’esibizione di gesta imitabili. Sono le azioni e non le parole o le forme artistiche a giustificare il classicismo machiavelliano, che si trasferisce così per la prima volta nella dimensione pratica: imitare ciò che è stato fatto nel passato, in primo luogo dai Romani, significa far rinascere quella «virtù» che gli antichi Romani avevano incarnato come efficiente gestione dell’esercito e della cosa pubblica, in nome dello Stato e del bene comune. Come dichiara l’autore nel proemio al secondo libro dei Discorsi, ciò che conta non è l’arte ma la vita e i costumi antichi, sul valore esemplare dei quali il consenso dei moderni è ancora incerto e contraddittorio:
ragionando non delle cose pertinenti alle arti, le quali hanno tanta chiarezza in sé che i tempi possono tòrre o dare loro poco più gloria che per loro medesime si meritino, ma parlando di quelle pertinenti alla vita e costumi degli uomini, delle quali non si veggono sì chiari testimoni» (proemio 6).
Si capisce allora perché M. non abbia potuto seguire la tradizione degli specula principis medioevali e neppure quella dei trattati politici quattrocenteschi, che sulla valenza morale degli esempi (e non sul loro semplice contenuto pratico) erano principalmente fondati.
Imitare le «operazioni» presuppone, lo si è detto, che il mondo sia sempre «stato a uno medesimo modo» (Discorsi II proemio 12) e lo ribadisce anche Francesco Guicciardini in una lettera del 18 maggio 1521 allo stesso M.: «mutati solum e visi delli uomini et e colori estrinseci, le cose medesime tutte ritornano; né vediamo accidente alcuno che a altri tempi non sia stato veduto» (Lettere, p. 377). La più netta formulazione è quella all’inizio del cap. xliii del terzo libro dei Discorsi che ha titolo Che gli uomini che nascono in una provincia osservino per tutti i tempi quasi quella medesima natura:
Sogliono dire gli uomini prudenti, e non a caso né imeritatamente, che chi vuole vedere, quello che ha a essere, consideri quello che è stato: perché tutte le cose del mondo in ogni tempo hanno il proprio riscontro con gli antichi tempi. Il che nasce perché essendo quelle operate dagli uomini, che hanno ed ebbono sempre le medesime passioni, conviene di necessità che le sortischino il medesimo effetto (§§ 2-3).
La ripetizione della storia non esclude tuttavia la possibilità della «variazione», quella «delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dì, fuora di ogni umana coniettura» (Principe xxv 2), ma anche quella degli uomini che hanno «altri appetiti, altri diletti, altre considerazioni nella vecchiezza che nella gioventù» (Discorsi II proemio 19). Governata dalla fortuna e dal tempo, dal tempo individuale del ciclo biologico ma anche da quello storico in cui si costruiscono e si distruggono gli stati, questa «mutazione» si contrappone dunque alla strategia dell’imitazione, che sola può restaurare la «virtù» facendo appello alla profonda permanenza della natura umana. Il tempo (→) machiavelliano oscilla così fra flusso e stasi, fra una dinamica incontrollabile e una rassicurante ripetizione; e se l’ombra della corruzione minaccia a ogni istante i fragili edifici politici e civili degli uomini, resta pur sempre viva la fiducia in un riscatto, in una salvifica terapia affidata appunto alla replica dell’esempio antico nei tempi moderni. Si pensi alla «buona consuetudine», che nei Discorsi basta a garantire il comportamento politicamente ‘buono’ degli uomini bloccando dall’interno l’azione disgregatrice del tempo e opponendo un argine alla fortuna, mentre la «legge» opera per costrizione esterna quando la «consuetudine» è assente (I iii 7):
per essere efficaci le consuetudini, gli ordini e le leggi devono ispirarsi all’esempio romano, poiché solo in questo modo l’antica «virtù» potrà concretamente rinascere e garantire la permanenza dello Stato.
Che non ci possa essere un’altra via M. lo dichiara nel proemio al secondo libro dei Discorsi, differenziando il proprio punto di vista da quello errato e generico dei laudatores temporis acti. Se è vero infatti che «laudano sempre gli uomini, ma non sempre ragionevolmente, gli antichi tempi, e gli presenti accusano», è anche vero che «questa loro opinione [...] falsa» è spesso dovuta a un errore di valutazione oggettiva, perché «delle cose antiche non s’intende al tutto la verità», o oggettiva, essendo «spente due potentissime cagioni dell’odio nelle cose passate, non ti potendo quelle offendere e non ti dando cagione d’invidiarle» (II proemio 1-3 e 5). Al contrario, il privilegio che M. concede agli «antichi tempi» è pienamente giustificato, proprio in nome del loro contenuto di verità, imitabile e perennemente trasmissibile di generazione in generazione:
Non so adunque se io meriterò d’essere numerato tra quelli che si ingannano, se in questi mia discorsi io lauderò troppo i tempi degli antichi Romani e biasimerò i nostri. E veramente, se la virtù che allora regnava e il vizio che ora regna non fussino più chiari che il sole, andrei col parlare più rattenuto, dubitando non incorrere in questo inganno di che io accuso alcuni. Ma essendo la cosa sì manifesta che ciascuno la vede, sarò animoso in dire manifestamente quello che io intenderò di quelli e di questi tempi (II proemio 22-24).
Nei ragionamenti machiavelliani, in questo fedeli alla retorica tradizionale, rationes ed exempla si alternano con regolarità, corroborandosi a vicenda («E’ si può per molte ragioni e per molti esempli dimostrare chiaramente quanto», Discorsi II xvii 2). Molto spesso, anche in questo caso seguendo una procedura collaudata, l’autore preferisce l’evidenza illustrativa degli esempi a un’argomentazione complessa o difficile da condurre a termine; come quando nel cap. xxvii del secondo libro dei Discorsi affronta il tema della «falsa speranza della vittoria» che «entra ne’ petti degli uomini» e «fa loro passare il segno e perdere il più delle volte quella occasione dell’avere uno bene certo, sperando di avere un meglio incerto», precisando:
E perché questo è un termine che merita considerazione, ingannandocisi dentro gli uomini molto spesso, e con danno dello stato loro, e’ mi pare da dimostrarlo particularmente, con esempli antichi e moderni, non si potendo con le ragioni così distintamente dimostrare (§§ 2-4).
Che gli esempi possano essere ‘antichi e moderni’ cioè attinti alle due fonti principali della «cognizione» storica machiavelliana, la «esperienza delle cose moderne» e la «lezione delle antiche» è ribadito più volte soprattutto nei Discorsi: «Questo che io ho detto si conferma con infiniti esempli romani e forestieri, moderni e antichi», «Donde ei si nasca io non so, ma ei si vede per gli antichi e per gli moderni esempli che» (I liii 12 e lvi 2). In alcuni casi M. dà la preferenza all’esempio moderno, come se l’attualità degli eventi ovvero la vicinanza nel tempo (e perfino nello spazio) conferisse loro una posizione previlegiata:
E che questo sia il vero, oltre agli antichi esempli che se ne potrebbero addurre, ce n’è uno esemplo fresco in Italia. [...] Ma che bisogna ire per gli esempli a Capova e a Roma, avendone in Firenze e in Toscana? (Discorsi II xxi 9 e 15); Io non voglio in questo addurre antichi esempi, che ce ne sarebbono assai, ma voglio mi bastino i moderni, seguìti nei tempi nostri (Discorsi III xi 8).
È tuttavia fuori discussione, quantitativamente e qualitativamente, la superiorità degli esempi antichi grazie al loro contenuto positivo e imitabile. All’interno del consueto gioco di rationes ed exempla sta proprio qui l’originalità dell’argomentazione machiavelliana, che culmina sempre nella necessità di ripetere le azioni illustrate dagli esempi, se si vuole restaurare il «bene» nei tempi presenti: questa esigenza didattica fondata sull’antico, se ignorata dai contemporanei o disattesa dai destinatari di M., non può portare che alla rovina, come dichiara senza sosta l’autore. Si pensi solo al cap. xx del secondo libro dei Discorsi che prende di mira «quel principe o quella republica che si vale della milizia ausiliare o mercenaria»:
l’ambizione dell’uomo è tanto grande che per cavarsi una presente voglia non pensa al male che è in breve tempo per risultargliene. Né lo muovono gli antichi esempli, così in questo come nell’altre cose discorse; perché se e’ fussono mossi da quegli, vedrebbero come quanto più si mostra liberalità con i vicini, e di essere più alieno da occupargli, tanto più si gettono in grembo; come di sotto per lo esemplo de’ Capovani si dirà (1 e 16-17).
Di fronte al modello antico della Roma repubblicana, gli esempi moderni e particolarmente fiorentini hanno spesso il compito contrario di illustrare l’errore ossia l’esito catastrofico di una scelta che non si è ispirata a quell’archetipo. Si pensi al cap. vii del primo libro dei Discorsi dove si citano gli esempi di Coriolano a Roma e di Francesco Valori a Firenze per mostrare «Quanto siano necessarie in una republica le accuse a mantenerla in libertade»: nel primo caso la possibilità istituzionale per la plebe di citare in giudizio il suo avversario evita ogni grave disordine, nel secondo l’impossibilità per «la moltitudine» di «sfogare l’animo suo ordinariamente contro a un [...] cittadino» alimenta la violenza e il ricorso «alle vie straordinarie» (1 e 12). Solo in qualche caso l’esempio antico e quello moderno documentano la stessa diagnosi negativa, ma ci si riferisce allora a una Roma già avviata verso la corruzione che la porterà all’impero, come quando M. paragona l’ascesa di Cesare «che Pompeio aveva tardi cominciato a temere» e quella di Cosimo de’ Medici che «venne in tanta riputazione [...] che ei cominciò a fare paura allo stato» (Discorsi I xxxiii 10 e 13). E anche nell’illustrazione della regola secondo cui «È cosa di malo esemplo non osservare una legge fatta, e massime dallo autore d’essa» l’esempio antico di Virginio e quello moderno di Girolamo Savonarola sono accomunati dalla medesima riprovazione, ma il giudizio machiavelliano sul frate è come altre volte oscillante: in grado di «riordina[re] nello stato suo» la Repubblica fiorentina, ma al tempo stesso «ambizioso e partigiano» (Discorsi I xlv 1, 9 e 12).
Il meccanismo è vistoso nel Principe, che ha come punto di partenza proprio l’attualità dei principi italiani e come fine ultimo la loro educazione politico-militare, modellata ovviamente sull’esempio romano.
Si pensi al cap. iii, che esamina i principati misti e in particolare gli «stati, quali acquistandosi si aggiungono a uno stato antico di quello che acquista». M. cita in apertura il caso di «Luigi XII re di Francia» che «occupò subito Milano e subito lo perdé», proponendosi di «vedere che rimedi lui ci aveva e quali ci può avere uno che fussi ne’ termini sua, per potere meglio mantenersi nello acquisto che non fece Francia» (iii 4 e 7-8). Seguono le regole politiche da adottare per avere un risultato positivo, quindi si presenta l’esempio dei Romani che tutte quelle regole hanno correttamente applicato. Proprio dall’esempio liviano M. ha estrapolato le sue norme sugli stati misti e finisce anzi per trasformarlo in un ammonimento più generale ai contemporanei, accennando al tema ricorrente del «conosce[re] discosto»:
E’ romani, nelle provincie che pigliorno, osservorno bene questa parte [...]. Perché e’ romani feciono in questi casi quello che tutti e’ principi savi debbono fare: e’ quali non solamente hanno ad avere riguardo alli scandoli presenti, ma a’ futuri, e a quelli con ogni industria ovviare; perché, prevedendosi discosto, vi si rimedia facilmente, ma, aspettando che ti si appressino, la medicina non è a tempo, perché la malattia è diventata incurabile (§§ 24 e 26).
Il capitolo riprende poi l’esempio moderno di re Luigi («Ma torniamo a Francia ed esaminiamo se delle cose dette e’ ne ha fatte alcuna») e constata che «egli ha fatto il contrario di quelle cose che si debbono fare» (§ 31). L’esempio positivo antico è riformulato punto per punto, capovolgendolo con inesorabile precisione, nell’esempio negativo moderno, fino alla conclusione che ribadisce il giudizio: «Ha perduto adunque el re Luigi la Lombardia per non avere osservato alcuno di quelli termini osservati da altri che hanno preso provincie e volutole tenere» (§ 47).
Lo schema esemplare si ripete regolarmente negli scritti machiavelliani e non si applica solo alla politica ma anche all’arte militare, con diligenza crescente.
Programmatico è addirittura il titolo del cap. xvi del secondo libro dei Discorsi, che tratta delle tecniche dello schieramento romano e anticipa un tema che il terzo libro dell’Arte della guerra svolge minutamente:
Anche in questo caso la lunga analisi del passo liviano sulle tre schiere dell’esercito romano è seguita dalla condanna dei moderni:
I capitani de’ nostri tempi, come egli hanno abbandonati tutti gli altri ordini e della antica disciplina non ne osservano parte alcuna, così hanno abbandonata questa parte, la quale non è di poca importanza» (Discorsi II xvi 1 e 21).
E anche in questo caso la condanna dipende dal risultato fallimentare di azioni che non imitano il modello antico e conducono al disordine e alla rovina.
M. non ritiene «superfluo [...] replicarlo» in altro luogo, anche qui adottando un’ampia prospettiva didattica che anticipa la famosa conclusione dell’Arte della guerra sui principi italiani che marciscono nell’ozio:
Pertanto, come che io abbia di sopra più volte mostro quanto le azioni circa le cose grandi sieno disformi a quelle degli antichi tempi, nondimeno non mi pare superfluo al presente replicarlo. Perché se in alcuna parte si devia dagli antichi ordini, si devia massime nelle azioni militari, dove al presente non è osservata alcuna di quelle cose che dagli antichi erano stimate assai. Ed è nato questo inconveniente perché le republiche e i principi hanno imposta questa cura ad altrui, e per fuggire i pericoli si sono discostati da questo esercizio (Discorsi III x 4-6).
Il giudizio negativo sul presente è ossessivamente ripetuto, pensando sempre all’Italia e accompagnandolo ogni volta al precetto dell’imitazione come unico criterio di giudizio. Si pensi alla famosa pagina sulla «diversità della religione nostra dalla antica, fondata dalla diversità della religione nostra dalla antica» (Discorsi II ii 26). Si pensi allo sconsolato compromesso ipotizzato nel cap. iv del secondo libro dei Discorsi, dove si raccomanda ai Fiorentini di imitare almeno «gli antichi Toscani» ovvero gli Etruschi «quando la imitazione de’ Romani paresse difficile», in nome della permanenza anche geografica della natura umana poiché «gli uomini che nascono in una provincia osservino per tutti i tempi quasi quella medesima natura» (Discorsi III xlii 1). E la raccomandazione è preceduta da un bilancio politico amaramente pessimistico:
tanti ordini osservati da Roma, così pertinenti alle cose di dentro come a quelle di fuora, non sono ne’ presenti nostri tempi non solamente imitati, ma non n’è tenuto alcuno conto, giudicandoli alcuni non veri, alcuni impossibili, alcuni non a proposito e inutili; tanto che, standoci con questa ignoranzia, siamo preda di qualunque ha voluto correre questa provincia (II iv 36-37).
Come Fabrizio Colonna nel finale dell’Arte della guerra, M. «essendo vecchio» non avrà più «occasione» di veder l’imitazione degli antichi praticata finalmente in Italia. Egli lascia la propria speranza e le proprie istruzioni in eredità ai giovani e qualificati, che potranno «a’ debiti tempi [...] aiutarle e consigliarle [...] perché questa provincia pare nata per risuscitare le cose morte, come si è visto della poesia, della pittura e della scultura» (VII 246-247).
Bibliografia: E. Raimondi, Il politico e il centauro, in Id., Politica e commedia. Dal Beroaldo al Machiavelli, Bologna 1972, pp. 265-86; C. Dionisotti, Machiavellerie, Torino 1980; G. Sasso, Niccolò Machiavelli. Storia del suo pensiero politico, Bologna 1980; G. Sasso, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 4 voll., Milano-Napoli 1987-1998; M. Martelli, Machiavelli e gli storici antichi. Osservazioni su alcuni luoghi dei Discorsi, Roma 1998; F. Bausi, Machiavelli, Roma 2005; R.