Abstract
Negli anni recenti il legislatore ha profondamente riformato la normativa in materia di prevenzione e contrasto della corruzione con l’intento di fronteggiare l’espansione e le trasformazioni che hanno interessato il fenomeno e di ottemperare agli obblighi assunti in sede internazionale. Parallelamente si incrementano gli sforzi diretti alla diffusione di una cultura della legalità, nella oramai acquisita consapevolezza della parzialità degli strumenti giuridici nel contrasto alla corruzione.
L’evoluzione della normativa anticorruzione si pone nel solco tracciato dalla presa d’atto che la corruzione è nel tempo divenuta “sistema” e si è modificata transitando da una dimensione prevalentemente “burocratico-amministrativa”, in cui il mercimonio della funzione pubblica risulta(va) episodico e si concretizza(va) in atti individuabili, ad altra “politico-sistemica”, ove il patto tra corrotto e corruttore non si caratterizza solamente per una maggiore diffusione, ma, attraverso la creazione di una rete stabile e indeterminata di rapporti, si erge a componente per così dire quasi strutturale del funzionamento della Pubblica Amministrazione (p.a.). Detta nuova fenomenologia, alimentata dalla crisi delle economie capitalistiche, nelle quali peraltro la stessa p.a. non è estranea a “interventi nel mercato” e la competizione tra imprese si consuma nella ricerca quasi ossessiva di “relazioni” con il “potere”, è ancora più nociva, siccome pregiudica, oltre a beni “tradizionali”, quali il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione, anche l’economia pubblica – latamente intesa.
La metamorfosi criminologica della corruzione, assieme all’urgenza di ottemperare agli impegni assunti in sede inter-sovranazionale, ha indotto il legislatore a privilegiare un approccio decisamente orientato alla prevenzione, con gli strumenti tipici del diritto amministrativo, piuttosto che affidare le strategie anticorruttive esclusivamente o principalmente all’apparato penale-repressivo, reputato non sufficientemente efficace.
In siffatto contesto si colgono le ragioni che hanno condotto la nuova normativa a dilatare la definizione concettuale di corruzione – prima riservata alla dimensione penalistica del mercanteggiamento della funzione pubblica tra un soggetto appartenente all’amministrazione (intraneus) e un soggetto, pubblico o privato, esterno ad essa (extraneus) (Venditti, R., Corruzione, in Enc. dir., X, Milano, 1962, 753) – fino ad assumere una più ampia qualificazione per così dire “amministrativistica”, tale da ricomprendere anche condotte penalmente irrilevanti e talvolta nemmeno altrimenti sanzionabili, che purtuttavia lo Stato mira ad evitare in quanto potenzialmente idonee a generare illeciti; si tratta, in particolare, delle situazioni di malcostume politico o amministrativo (conflitto di interessi, nepotismo, clientelismo, assenteismo, sprechi, ecc.) in cui si ravvisa un abuso del potere pubblico, strumentale all’ottenimento di indebiti vantaggi privati (Parisi, N., L’attività di contrasto alla corruzione sul piano della prevenzione, in Borsari, R., a cura di, La corruzione a due anni dalla “Riforma Severino”, Padova, 2016, 95).
Ne discende altresì come il comportamento corruttivo sia certamente configurabile, in una simile accezione “estensiva”, pure nei rapporti tra privati; tuttavia tale ipotesi, sebbene reputata dalle istituzioni internazionali gravemente distorsiva e, quindi, lesiva della libera concorrenza, nell’ordinamento italiano rileva soltanto sul piano della repressione penale (Macchia, M., La corruzione e gli strumenti amministrativi a carattere preventivo, in Manganaro, F.-Tassone, A.R.-Saitta, F., a cura di, Diritto amministrativo e criminalità, Milano, 2014, 99).
L’attuale disciplina anticorruzione si fonda su due provvedimenti normativi di ampio respiro, integrati da altri più di dettaglio, oltre che dalle previsioni del codice penale e del d.lgs. 8.6.2001, n. 231 sulla responsabilità da reato degli enti: la l. 6.11.2012, n. 190 (cd. “Legge anticorruzione”), autentica riforma “di sistema”, e la l. 27.5.2015, n. 69 (cd. “Nuova legge anticorruzione”), che ha consolidato e in parte modificato l’assetto. La materia rimane peraltro ben lungi da un definitivo assestamento, siccome dimostrano i continui interventi normativi, le ricorrenti, variegate critiche mosse in diverse sedi e i frequenti contrasti giurisprudenziali (per un’aggiornata disamina di tali aspetti si consenta il rinvio a Borsari, R., La corruzione, cit., passim).
Il mutamento di prospettiva operato dalla l. n. 190/2012 nel contrasto alla corruzione si manifesta essenzialmente, come accennato, nella centralizzazione della componente amministrativa-preventiva, alla quale è dedicata larga parte della Riforma, attraverso un approccio basato sul rischio (“risk-based approach”), prima che sugli strumenti repressivi (“police patrol”). Tale impostazione ha preso le mosse dal contesto normativo internazionale e, in particolare, dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (aperta alla firma a Merida il 9.12.2003 e ratificata con l. 3.8.2009, n. 116), dalla Convenzione penale del Consiglio d’Europa sulla corruzione (fatta a Strasburgo il 27.1.1999 e ratificata con l. 28.6.2012, n. 110) e dalla Convenzione civile del Consiglio d’Europa sulla corruzione (fatta a Strasburgo il 4.11.1999 e ratificata con l. 28.6.2012, n. 112), le quali, infatti, vincolano l’Italia all’adozione di un sistema di prevenzione delle condotte corruttive, anche tramite la costituzione di apposite autorità indipendenti. Pure le ultime Direttive europee in materia di appalti (2014/23-24-25/UE) contemplano specifiche disposizioni in chiave spiccatamente preventiva, seguendo il percorso tracciato dalla Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione dei funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell’Unione europea, del 26.5.1997, e dalla Decisione quadro 2003/568/GAI del Consiglio UE sulla lotta alla corruzione nel settore privato, del 22.7.2003. Analoghe sollecitazioni provengono dai “tavoli” internazionali di cooperazione intergovernativa operanti in ambito G7, G8 e G20, o incardinati presso istituzioni quali l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Working group on Bribery: WGB), il Consiglio d’Europa (Gruope d’Ètats contre la Corruption: GRECO) e la Convenzione ONU (Implementation Review Group: IRG).
Il sistema di prevenzione delineato dalla l. n. 190/2012 si incardina, in sintesi, su di una serie di attività dirette: all’individuazione dei rischi di manifestazione della corruzione nel settore pubblico e delle misure in grado di ridurne la portata; al monitoraggio sul funzionamento e sull’osservanza delle misure stabilite; alla previsione dei rimedi (anche di tipo sanzionatorio non penale) per la mancata applicazione delle misure stesse (sull’apparato preventivo v., in generale, Mattarella, B.G.-Pelissero, M., a cura di, La legge anticorruzione, Torino, 2013, passim).
L’organizzazione amministrativa del sistema di prevenzione della corruzione creato dalla l. n. 190/2012 si articola in tre organismi: l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), il Dipartimento della Funzione Pubblica (DFP) e il Comitato interministeriale per la prevenzione e il contrasto della corruzione e dell’illegalità nella p.a.
L’ANAC costituisce il perno del sistema: la sua missione istituzionale risiede infatti «nella prevenzione della corruzione nell’ambito delle amministrazioni pubbliche, nelle società partecipate e controllate anche mediante l’attuazione della trasparenza in tutti gli aspetti gestionali, nonché mediante l’attività di vigilanza nell’ambito dei contratti pubblici, degli incarichi e comunque in ogni settore della pubblica amministrazione che potenzialmente possa sviluppare fenomeni corruttivi» (www.anticorruzione.it). L’Authority in parola nasce dalla trasformazione della Commissione Indipendente per la Valutazione, l’Integrità e la Trasparenza delle pp.aa. (CIVIT), istituita con d.lgs. 27.10.2009, n. 150 (“Riforma Brunetta”); la quale, a propria volta, trovava il suo antecedente storico nella figura dell’Alto Commissario per la prevenzione e il contrasto della corruzione, introdotta dalla l. 16.1.2003, n. 3, e soppressa dal d.l. 25.6.2008, n. 112, conv. in l. 6.8.2008, n. 133, con trasferimento dei relativi compiti al Servizio Anticorruzione E Trasparenza (SAET) del Dipartimento della Funzione Pubblica. La CIVIT rispondeva alla necessità di adempiere agli obblighi internazionali, che da tempo vincolavano l’Italia alla creazione di un organismo, indipendente dal governo e dalle pp.aa., deputato a rilevare le cattive gestioni di risorse pubbliche attraverso l’analisi della performance degli enti.
Con la l. n. 190/2012, la stessa CIVIT, che ha mantenuto la natura giuridica di autorità indipendente, ha quindi iniziato a operare quale autorità nazionale anticorruzione (art. 1, co. 2), acquisendo significativi poteri e compiti per la prevenzione della corruzione. Peraltro, nei mesi successivi alla Riforma, una nutrita serie di provvedimenti legislativi (segnatamente, oltre alla “Nuova legge anticorruzione”: d.l. 21.6.2013, n. 69, conv. in l. 9.8.2013, n. 98; d.l. 31.8.2013, n. 101, conv. in l. 30.10.2013, n. 125; d.l. 24.6.2014, n. 90, conv. in l. 11.8.2014, n. 114; l. 28.12.2015, n. 208; d.lgs. 25.5.2016, n. 97) ne ha gradualmente incrementato le attribuzioni. In particolare, è stata dapprima trasferita al DFP l’originaria funzione di controllo sull’impiego delle risorse pubbliche, mentre sono state assegnate all’ANAC le competenze (con relative risorse umane e strumentali) in materia di appalti pubblici un tempo spettanti alla contestualmente incorporata Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici di lavori, servizi e forniture (AVCP). L’ANAC ha poi acquisito i compiti in materia di anticorruzione inizialmente attribuiti dalla l. n. 190/2012 al DPF (art. 1, co. 4, 5 e 8, l. n. 190/2012), nonché altri poteri di natura sanzionatoria ovvero strumentali a finalità di emersione e repressione degli illeciti.
Tra i compiti legati alla prevenzione della corruzione, spettano dunque oggi all’ANAC: l’adozione del Piano nazionale anticorruzione (v. infra, § 2.3); la collaborazione con i paritetici organismi stranieri e con le organizzazioni regionali e internazionali competenti; la formulazione di pareri agli organi dello Stato e alle pp.aa.; la vigilanza e il controllo sull’effettiva applicazione e sull’efficacia delle misure anticorruzione adottate dalle pp.aa., con annessi poteri ispettivi; la vigilanza e il controllo sui contratti pubblici; la relazione annuale al Parlamento sull’attività di contrasto della corruzione e dell’illegalità nella p.a. e sull’efficacia delle disposizioni vigenti in materia (art. 1, co. 2, lett. a)-g), l. n. 190/2012). Dal DFP l’ANAC ha ereditato, oltre alle funzioni collegate all’adozione dei piani di prevenzione (art. 1, co. 5 e 8, l. n. 190/2012), quelle essenzialmente compendiabili in: coordinamento dell’attuazione delle strategie anticorruzione elaborate a livello nazionale e internazionale; definizione di norme e metodologie comuni; definizione dei criteri per assicurare la rotazione dei dirigenti nei settori particolarmente esposti alla corruzione e delle misure per evitarne sovrapposizioni di funzioni e cumuli di incarichi (art. 1, co. 4, lett. a)-e), l. n. 190/2012).
Sul piano sanzionatorio, all’ANAC spetta, tra l’altro, l’applicazione della sanzione nei confronti del soggetto obbligato che ometta l’adozione dei piani di prevenzione, dei programmi di trasparenza o dei codici di comportamento (art. 19, co. 5, lett. b), d.l. n. 90/2014), delle sanzioni in materia di contratti pubblici (art. 19, co. 2, d.l. n. 90/2014; d.lgs. 18.4.2016, n. 50 cd. Nuovo codice degli appalti) e di quelle in materia di trasparenza amministrativa (d.lgs. 14.3.2013, n. 33: v. infra, § 2.4). Quanto, infine, alle attribuzioni strumentali a finalità di emersione e repressione degli illeciti, assai incrementate dalla l. n. 69/2015, meritano menzione: il compito di ricevere segnalazioni (di illeciti, anche da parte dei whistleblowers: art. 19, co. 5, lett. a), d.l. n. 90/2014, v. infra, § 2.4; di violazioni di legge o di regolamento o di altre anomalie o irregolarità relative ai contratti pubblici, da parte degli avvocati dello Stato e dei giudici amministrativi: artt. 19, co. 5, lett. a-bis, d.l. n. 90/2014 e 32 bis l. n. 190/2012; di ogni azione penale esercitata per delitti contro la p.a., da parte del Pubblico Ministero: art. 129, co. 3, disp. att. c.p.p.); il potere di proporre al Prefetto, qualora l’autorità giudiziaria proceda per fatti corruttivi o emergano situazioni sintomatiche di condotte illecite, misure straordinarie di gestione, sostegno e monitoraggio delle imprese aggiudicatarie di appalti pubblici o che esercitano attività sanitaria per conto del Servizio Sanitario Nazionale (art. 32 d.l. n. 90/2014).
Tolti i compiti in materia di anticorruzione originariamente conferiti dalla l. n. 190/2012, al Dipartimento della Funzione Pubblica residuano, in definitiva, soltanto le citate funzioni in materia di misurazione e valutazione della performance (artt. 7, 8, 9, 10, 12, 13 e 14 d.lgs. n. 150/2009).
Al Comitato interministeriale per la prevenzione e il contrasto della corruzione e dell’illegalità nella p.a., istituito con d.P.C.M. 16.1.2013, spetta invece l’emanazione di linee di indirizzo in relazione ai poteri di coordinamento dell’ANAC (art. 1, co. 4, l. n. 190/2012). Lo stesso Comitato, assieme alla Conferenza unificata Stato-città ed autonomie locali (art. 8, co. 1, d.lgs. 28.8.1997, n. 281), è inoltre sentito dall’ANAC prima dell’adozione del Piano nazionale anticorruzione (art. 1, co. 2-bis, l. n. 190/2012).
La centralità attribuita al diritto amministrativo nella prevenzione dei fenomeni corruttivi trova la propria compiuta espressione nella disciplina dei piani per la prevenzione (art. 1, co. 5-14, l. n. 190/2012). È prevista, in sintesi, l’approvazione di un Piano nazionale anticorruzione, che contiene gli obiettivi per lo sviluppo della strategia di prevenzione a livello centrale e fornisce indirizzi e supporto alle amministrazioni pubbliche. A valle della pianificazione nazionale, ogni amministrazione approva un proprio piano che valuta il livello di esposizione degli uffici al rischio e indica gli interventi organizzativi necessari per minimizzarlo; la predisposizione e l’attuazione di tale piano sono attribuite alla responsabilità di un soggetto appositamente designato nell’ambito della singola amministrazione, sotto la vigilanza dell’organismo indipendente di valutazione.
I piani sono a durata triennale e ad aggiornamento annuale: il Piano nazionale anticorruzione è adottato dall’ANAC, sentito il Comitato interministeriale e la Conferenza unificata (art. 1, co. 2, lett. b) e co. 2-bis, l. n. 190/2012); il Piano di prevenzione della corruzione, invece, una volta approvato dalle amministrazioni (dall’organo d’indirizzo politico o, negli enti locali, dalla giunta), viene trasmesso all’ANAC, quale organismo di coordinamento delle strategie anticorruzione (art. 1, co. 4, l. n. 190/2012).
Come anticipato, il Piano nazionale è atto di indirizzo per le pp.aa., ai fini dell’adozione dei piani di loro pertinenza, e per gli altri soggetti di cui all’art. 2-bis, co. 2, d.lgs. n. 33/2013 (in particolare: enti pubblici economici, ordini professionali, società in controllo pubblico), ai fini dell’adozione di misure di prevenzione della corruzione, a integrazione dei “modelli organizzativi” ex d.lgs. n. 231/2001. Il Piano, inoltre, individua i principali rischi di corruzione e i relativi rimedi, indicando obiettivi, tempi e modalità di adozione e attuazione delle misure di contrasto (art. 1, co. 2-bis, l. n. 190/2012).
I piani delle singole amministrazioni, invece, mirano, in sintesi, a identificare: gli uffici e le attività più esposti al rischio corruzione; i meccanismi di formazione, attuazione e controllo delle decisioni idonei alla prevenzione; gli obblighi di informativa; le modalità di monitoraggio sulla gestione dei procedimenti, anche per quanto attiene ai rapporti tra amministrazione e soggetti interessati (art. 1, co. 9, l. n. 190/2012).
Nel contesto appena tratteggiato, assume una posizione cruciale il Responsabile della prevenzione della corruzione (RPC), individuato, per ciascuna amministrazione, dall’organo di indirizzo politico – di norma, nella persona di un dirigente oppure, negli enti locali, del segretario (art. 1, co. 7, l. n. 190/2012). Si tratta del soggetto preposto alla definizione del rischio, il quale: propone all’organo di indirizzo politico le misure da inserire nel piano e definisce le procedure di selezione e formazione dei dipendenti destinati ad operare nei settori a rischio corruzione (art. 1, co. 8, l. n. 190/2012); verifica l’efficace attuazione del piano e la sua idoneità, proponendone la modifica in presenza di significative violazioni delle prescrizioni ovvero di mutamenti nell’organizzazione o nell’attività dell’amministrazione; verifica l’effettiva rotazione degli incarichi; individua il personale da inserire nei programmi di formazione (art. 1, co. 10, l. n. 190/2012); segnala all’organo di indirizzo e all’organismo indipendente di valutazione (OIV, un soggetto presente in ogni amministrazione, con importanti funzioni nella misurazione e valutazione della performance) le disfunzioni inerenti all’attuazione delle misure e indica agli uffici competenti all’esercizio dell’azione disciplinare i nominativi dei dipendenti che non hanno attuato correttamente le misure stesse (art. 1, co. 7, l. n. 190/2012); riferisce all’OIV e all’organo di indirizzo, trasmettendo annualmente agli stessi una relazione recante i risultati dell’attività svolta (art. 1, co. 14, l. n. 190/2012).
Per quanto concerne i controlli, spetta all’OIV verificare che i piani siano coerenti con gli obiettivi stabiliti nei documenti di programmazione strategico-gestionale e che nella misurazione e valutazione della performance si tenga conto degli obiettivi connessi all’anticorruzione e alla trasparenza. Lo stesso OIV vaglia i contenuti della relazione del Responsabile in rapporto agli obiettivi prefissati (con facoltà di richiedere le informazioni e i documenti necessari ed effettuare audizioni di dipendenti) e riferisce all’ANAC sullo stato di attuazione delle misure (art. 1, co. 8 bis, l. n. 190/2012).
Infine, la l. n. 190/2012 contempla un articolato sistema di sanzioni a presidio delle misure preventive citate. In particolare, qualora all’interno dell’amministrazione sia commesso un reato di corruzione accertato con sentenza passata in giudicato, il RPC risponde in via dirigenziale e disciplinare, oltre che per danno erariale e all’immagine della p.a. La normativa peraltro contempla un modello di esenzione mutuato da quello in materia di responsabilità da reato degli enti ex d.lgs. n. 231/2001, applicabile ove il RPC provi, in sintesi, di avere predisposto il piano correttamente e di averne monitorato il funzionamento e l’osservanza (art. 1, co. 12, l. n. 190/2012). II RPC risponde in via dirigenziale e disciplinare anche in caso di ripetute violazioni delle misure di prevenzione previste dal piano, salvo che dimostri di avere comunicato agli uffici le misure da adottare e di avere vigilato sull’osservanza del piano medesimo (art. 1, co. 14, l. n. 190/2012). I dipendenti dell’amministrazione rispondono in via disciplinare della violazione delle misure preventive (art. 1, co. 14, l. n. 190/2012) e dell’omessa segnalazione al superiore gerarchico degli atti corruttivi di cui siano venuti a conoscenza (art. 8 d.P.R. 16.4.2013, n. 62, “Codice di comportamento dei dipendenti pubblici”).
La l. n. 190/2012 dedica un complesso articolato di norme alla trasparenza amministrativa (art. 1, co. 15-16 e co. 26-36), assicurata mediante la pubblicazione, nei siti web istituzionali delle pp.aa., delle informazioni relative ai procedimenti amministrativi, secondo criteri di facile accessibilità, completezza e semplicità di consultazione (art. 1, co. 15, l. n. 190/2012).
La materia è oggi disciplinata nello specifico dal d.lgs. n. 33/2013 (attuativo della delega di cui all’art. 1, co. 35, l. n. 190/2012), il quale definisce la trasparenza come accessibilità totale delle informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività delle pp.aa., nell’ottica di un’amministrazione aperta e al servizio del cittadino (art. 1). Importante, al riguardo, l’introduzione dell’istituto dell’accesso civico, che consente a chiunque di chiedere alle pp.aa. gli atti, i documenti e le informazioni a pubblicazione obbligatoria da esse detenuti e non ancora diffusi sui siti istituzionali (artt. 5 ss. d.lgs. n. 33/2013). Spetta al Responsabile della trasparenza (RT) – ruolo di norma assegnato al Responsabile della prevenzione – vigilare sull’adempimento degli obblighi di pubblicazione (art. 43 d.lgs. n. 33/2013).
Allo scopo di incentivare l’emersione degli illeciti, la l. n. 190/2012 ha poi introdotto, all’art. 54 bis d.lgs. 30.3.2001, n. 165, una disciplina a tutela del whistleblower («Dipendente che segnala gli illeciti»), il quale non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto a misura discriminatoria per motivi comunque collegati alla denuncia o alla segnalazione di condotte illecite, anche diverse da quelle corruttive, di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro. Tale disposizione, tuttavia, non si applica nelle ipotesi in cui la segnalazione integri calunnia o diffamazione. Sono infine previsti, entro certi limiti, obblighi di riservatezza sull’identità del segnalante e limitazioni al diritto di accesso alla denuncia (art. 1, co. 51, l. n. 190/2012).
Nel nuovo sistema di prevenzione della corruzione trovano spazio gli ulteriori strumenti rappresentati dai codici di condotta dei dipendenti pubblici, per i quali pure sussiste un duplice livello di regolazione: un codice generale (approvato col citato d.P.R. n. 62/2013) e i codici delle singole amministrazioni (art. 54 d.lgs. n. 165/2001, modificato dall’art. 1, co. 44, l. n. 190/2012).
In ottica preventiva, assumono importanza cruciale, altresì, le disposizioni in materia di incandidabilità e divieto di ricoprire cariche elettive e di governo in seguito a sentenze penali di condanna (d.lgs. 31.12.2012, n. 235, attuativo della delega dell’art. 1, co. 63, l. n. 190/2012) e di inconferibilità e incompatibilità di incarichi (d.lgs. 8.4.2013, n. 39, attuativo della delega dell’art. 1, co. 49, l. n. 190/2012).
Le leggi nn. 190/2012 e 69/2015 sono intervenute pure sul versante repressivo, allo scopo di fare fronte alla progressivamente mutata fisionomia del fenomeno corruttivo nella sua dimensione “politico-sistemica” e di adattare l’ordinamento italiano agli standard di tutela imposti dalla normativa internazionale, rispondendo alle istanze provenienti, in particolare, dalle Convenzioni dedicate al contrasto alla corruzione (Convenzione OCSE per il contrasto alla corruzione internazionale, fatta a Parigi il 17.12.1997; Convenzione ONU contro la corruzione; Convenzioni penale e civile del Consiglio d’Europa sulla corruzione) e dai gruppi di lavoro incardinati presso l’OCSE (WGB) e il Consiglio d’Europa (GRECO) (sull’apparato repressivo v., in generale, Mongillo, V., Le riforme in materia di contrasto alla corruzione introdotte dalla legge n. 69 del 2015, in Libro dell’anno del Diritto 2016, Roma, 2016 e in www.penalecontemporaneo.it, 20.12.2015 ).
Oltre a un complessivo inasprimento del trattamento sanzionatorio, la l. n. 190/2012 ha ridisegnato la fattispecie di concussione dell’art. 317 c.p., delimitandola alla condotta del pubblico ufficiale (cui la l. n. 69/2015 ha riaffiancato l’incaricato di pubblico servizio) che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringa taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità. Alla condotta induttiva, invece, è dedicata la nuova figura dell’induzione indebita a dare o promettere utilità ex art. 319 quater c.p., la quale sanziona, seppur con pena minore, anche il privato che effettua la dazione o la promessa. La legge ha nondimeno lasciato all’interprete l’arduo compito di elaborare criteri di distinzione tra condotta costrittiva e induttiva, aprendo il campo a significative incertezze e contrasti giurisprudenziali. Le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno quindi tentato di tracciare i confini tra le due fattispecie differenziando i casi di effettiva costrizione del privato, che rimane vittima del reato di concussione, da quelli in cui questo mantiene un margine di autodeterminazione a fronte delle richieste del pubblico agente, decidendo comunque di conseguire un vantaggio illecito e, pertanto, concorrere nell’induzione indebita (Cass. pen., S.U., 24.10.2013, n. 12228).
Il rapporto fra i delitti di corruzione è stato invece ridefinito sulla scia del diffuso orientamento giurisprudenziale indirizzato alla perdita di centralità dell’atto corruttivo. La l. n. 190/2012 ha modificato la fattispecie di corruzione “impropria” di cui all’art. 318 c.p. introducendo una figura “generale” di corruzione per l’esercizio della funzione: cade, dunque, il collegamento normativo dell’utilità data o promessa al pubblico agente con un determinato atto del suo ufficio, bastando che questi indebitamente riceva, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetti la promessa, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri. Merita appunto evidenziare come la giurisprudenza fosse già orientata, non senza aspre critiche da parte della dottrina, a sanzionare come corruzione “propria” (art. 319) la messa a disposizione della funzione o dei poteri da parte del soggetto pubblico (per tutte, Cass. pen., 25.8.2009, n. 34834). Ora, invece, l’asservimento sistematico della funzione agli interessi del privato integra il delitto di corruzione “impropria” quando l’oggetto del mercimonio sia costituito dal compimento di atti d’ufficio, mentre, secondo l’orientamento recentemente ribadito dalla Cassazione, il più grave art. 319 continua a trovare applicazione nelle ipotesi in cui la messa a disposizione della funzione si configuri (anche o solo) attraverso il compimento di atti contrari ai doveri d’ufficio – benché non predefiniti, né specificamente individuabili ex post – ovvero l’omissione o ritardo di atti d’ufficio (per tutte, Cass. pen., sez. VI, 23.2.2016, n. 15959).
Sono viceversa rimasti pressoché invariati, oltre alla fattispecie di corruzione “propria”, i delitti di: corruzione in atti giudiziari (art. 319 ter), che punisce il fatto corruttivo diretto a favorire o danneggiare una parte in un processo; istigazione alla corruzione (art. 322), concernente alcune forme di tentativo di corruzione, ritenute particolarmente riprovevoli; corruzione e istigazione alla corruzione di membri della Corte penale internazionale o degli organi delle Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri (art. 322 bis).
La l. n. 190/2012 ha infine introdotto due nuove figure criminose. Si tratta del delitto di traffico di influenze illecite (art. 346 bis c.p.), che sanziona in via sussidiaria condotte di intermediazione illecita presso il pubblico agente propedeutiche rispetto all’eventuale accordo corruttivo, e del delitto di corruzione tra privati (art. 2635 c.c.), una sorta di restyling dell’originaria ipotesi di infedeltà patrimoniale che però non soddisfa gli obiettivi di tutela della concorrenza sottesi alla Riforma.
In un contesto di ulteriore inasprimento sanzionatorio, la l. n. 69/2015 ha aggiunto nuovi istituti che vanno ad affiancarsi alle forme di confisca già previste dagli artt. 240 e 322 ter c.p., 12 sexies d.l. 8.6.1992, n. 306 e 24 d.lgs. 6.9.2011, n. 159. Si tratta, in particolare, dell’obbligo, in caso di condanna, al pagamento di una somma pari all’ammontare di quanto indebitamente ricevuto dal pubblico agente in favore dell’amministrazione di appartenenza (art. 322 quater c.p.), nonché della subordinazione dell’accesso al patteggiamento e alla sospensione condizionale della pena, rispettivamente, alla restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato (art. 444, co. 1 ter, c.p.p.) e al pagamento di una somma equivalente al profitto del reato, ovvero all’ammontare di quanto indebitamente percepito (art. 165, co. 4, c.p.). D’altro canto, la collaborazione processuale dell’imputato è premiata con una consistente diminuzione di pena (art. 323 bis, co. 2, c.p.).
Le recenti riforme poste in essere dalle leggi nn. 190/2012 e 69/2015 hanno aggiornato il catalogo dei reati per i quali è prevista la responsabilità da reato degli enti ex d.lgs. n. 231/2001 alle nuove fattispecie di concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità e corruzione (art. 25), nonché di corruzione privata “attiva” (art. 25, co. 1, lett. s bis). Ad oggi, dunque, enti pubblici e privati, pur sottoposti a regimi di responsabilità assai differenti, sono accomunati dall’esigenza – che si traduce in un vero e proprio obbligo per i primi – di adottare e attuare procedure dirette a prevenire i fatti corruttivi rispettivamente attraverso i piani anticorruzione e i modelli organizzativi.
Negli ultimi anni si vanno moltiplicando le istanze della dottrina, della politica e della magistratura nel senso dell’affiancamento di un pilastro “culturale” dell’anticorruzione a quelli “giuridici” della prevenzione e della repressione, nella convinzione che l’efficacia di questi ultimi non possa prescindere dalla diffusione della cultura della legalità nella società e dalla formazione delle nuove generazioni. Gli studi e le statistiche sulla corruzione, infatti, dimostrano la netta correlazione tra espansione del fenomeno corruttivo e scarsità degli investimenti in istruzione e cultura. In tale prospettiva, va salutata con favore la nascita – prima e durante l’attuale stagione di riforme – di una serie d’importanti studi e iniziative dedicati a “come” prevenire la corruzione, nonché di protocolli istituzionali, tra cui la Carta d’Intenti recentemente stipulata da ANAC, Associazione Nazionale Magistrati, Direzione Nazionale Antimafia e Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, con l’obiettivo di realizzare, attraverso il coinvolgimento delle istruzioni scolastiche e universitarie, percorsi di sensibilizzazione alla legalità.
L. 6.11.2012, n. 190; l. 27.5.2015, n. 69; d.l. 24.6.2014, n. 90, conv. in l. 11.8.2014, n. 114; d.lgs. 8.4.2013, n. 39; d.lgs. 14.3.2013, n. 33; d.lgs. 31.12.2012, n. 235; d.P.R. 16.4.2013, n. 62; d.lgs. 30.3.2001, n. 165; d.lgs. 27.10.2009, n. 150; artt. 317-323 bis c.p.; art. 165, co. 4, c.p.; art. 444, co. 1-ter, c.p.p.; art. 129, co. 3, disp. att. c.p.p.; d.lgs. 8.6.2001, n. 231.
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