Abstract
In questa voce sono esaminate la corruzione in atti giudiziari e l’istigazione alla corruzione, tra le novità più rilevanti della riforma del 1990, mentre la l. n. 190/2012 si è limitata a ritocchi e ad inasprire le pene, come pure la l. n. 69/2015 le ha ulteriormente aggravate.
Fra le innovazioni introdotte dalla l. 24.4.1990, n. 86 (che ha riformato i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione) una delle più importanti è sicuramente rappresentata dalla fattispecie della «corruzione in atti giudiziari». Il codice Rocco già prevedeva, fra le circostanze aggravanti contenute nell’art. 319 c.p., «il favore o il danno di una parte in un processo civile, penale o amministrativo» derivante da fatti di corruzione, con aumento della pena in misura autonoma se dal fatto fosse derivata una sentenza di condanna all’ergastolo o alla reclusione. L’elemento oggettivo è costituito da un fatto di corruzione propria (art. 319 c.p.) o impropria (dopo la l. 6.11.2012, n. 190, denominata «per l’esercizio della funzione», art. 318 c.p.), commesso «per favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo». In questa ipotesi rileva la natura dell’atto da compiere, che deve essere funzionale ad un procedimento giudiziario, ponendosi come strumento per arrecare un favore o un danno nei confronti di una delle parti di un processo (Cass. pen., 25.5.2009, n. 36323; Cass. pen., S.U., 21.4.2010, n. 15208, Mills; Cass. pen., 27.1.2012, n. 24349). Si realizza una notevole anticipazione della soglia della tutela rispetto alla precedente formulazione, che legava l’aumento di pena alla effettiva verificazione del danno o del favore della parte: attualmente non si richiede il raggiungimento dell’obiettivo, ma basta che l’accordo corruttivo sia stretto per favorire o danneggiare una parte processuale, per cui il favore o il danno costituiscono il contenuto del dolo specifico dell’agente. La scelta di configurare la corruzione in atti giudiziari come autonoma fattispecie incriminatrice, anziché circostanza aggravante, è dovuta all’esigenza di «evitare, in considerazione della particolare gravità delle fattispecie regolate, che i sensibili aggravamenti di pena già oggi previsti possano essere vanificati dal gioco della comparazione delle circostanze» (Relazione al d.d.l. governativo n. 2844 del 22.4.1985) ed inoltre «la specifica figura della corruzione in atti giudiziari è oggetto di autonoma incriminazione in molte legislazioni» (Relazione al d.d.l. Vassalli n. 1250 del 15.3.1985). Si è notato che l’elevazione della corruzione in atti giudiziari a figura autonoma tende a sottolineare, anche simbolicamente, l’accentuato disvalore dei comportamenti corruttivi commessi nell’esercizio dell’attività giurisdizionale (Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, pt. spec., I, Bologna, 2012, 234). Considerando il rapporto che intercorre tra la corruzione in atti giudiziari, caratterizzata da maggiore specificità e autonomia, e i più generici fatti di corruzione propria e impropria, ci si domanda se l’art. 319 ter c.p. si limiti a prevedere figure di corruzione parallele a quelle descritte negli artt. 318 e 319 c.p. (aggravate solo dalla circostanza di avere ad oggetto «atti giudiziari» anziché altri atti pubblici) ovvero se la nuova fattispecie presenti un quid pluris in termini di disvalore, che le conferisce una diversa e più specifica fisionomia criminosa, giustificando il trattamento sanzionatorio più severo (ulteriormente inasprito dalla l. n. 190/2012 e dalla l. 27.5.2015, n. 69; Romano, M., I delitti contro la Pubblica Amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali. Art. 314- 335bis c.p., Milano, 2013, 218). Si ritiene preferibile la seconda ipotesi in quanto il fatto corruttivo richiamato dall’art. 319 ter c.p. deve essere commesso allo scopo di favorire o danneggiare una parte processuale e, sebbene non esplicitamente richiesto, deve trattarsi di un vantaggio o un danno ingiusto.
La corruzione in atti giudiziari è una fattispecie autonoma (Romano, M., op. cit., 218) in quanto le è conferito un proprio nomen iuris (a differenza dell’art. 319 bis c.p. sulle «circostanze aggravanti») e la funzione del dolo specifico della commissione del fatto di corruzione in favore o danno di una parte processuale è quella di distinguere la più grave forma di corruzione da quella comune: in tal senso si qualifica anche per la sua plurioffensività, andando a ledere non solo l’interesse del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione, ma anche dell’amministrazione della giustizia (Dupuis, M.B., La corruzione, Padova, 1995, 103). In tal senso è orientata la dottrina maggioritaria (Romano, M., op. loc. ultt. citt.; Del Gaudio, M., Corruzione, in Dig. pen., Aggiornamento, I, Torino, 2000, 154; Benussi, C., I delitti contro la Pubblica Amministrazione, I, I delitti dei pubblici ufficiali, in Marinucci, G.-Dolcini, E., Trattato di diritto penale, pt. spec., Padova, 2013, 772; Manna, A., Materiali sulla riforma dei reati contro la P.A., Padova, 2007, 537; Balbi, G., I delitti di corruzione, Napoli, 2003, 243; Fornasari, G., Delitti di corruzione, in Bondi, A.-Di Martino, A.-Fornasari, G., Reati contro la Pubblica Amministrazione, Torino, 2004, 209; Vinciguerra, G., La corruzione nella giurisprudenza, Padova, 2004, 127; Gambardella, M., Artt. 318-322, in Lattanzi, G.- Lupo, E., Codice penale: rassegna di giurisprudenza e dottrina, Aggiornamento, III, Milano, 2010, 209; Seminara, S., Artt. 318-360, Comm. breve cod. pen. Crespi-Forti-Zuccalà, Padova, 2008, 783; Catenacci, M., Reati contro la pubblica amministrazione e l’amministrazione della giustizia, Torino, 2011, 105; contrari Padovani, T., Commento alla legge 86/1990, in Corr. giur., 1990, 543; Antolisei, F., Manuale di diritto penale, pt. spec., II, a cura di C.F. Grosso, Milano, 2008, 358) come pure la giurisprudenza (Cass. pen., 6.10.1995, n. 3442; App. Milano, 12.5.2001, Berlusconi, in Cass. pen., 2001, 3554; Cass. pen., 16.11.2001, n. 45275; Cass. pen., 23.1.2003, in Dir. pen. e processo, 2003, 1121; Cass. pen., 4.5.2006, n. 33435, Battistella; Cass. pen., 6.2.2007, in Riv. pen., 2007, 618; Cass. pen., 27.1.2012, n. 24349). Dall’esame dell’art. 319 ter c.p. emerge che il passaggio da circostanze aggravanti ad incriminazioni autonome provoca la trasformazione dei fatti tipici di ingiusto giudizio e di ingiusta condanna da elementi oggettivi a contenuto lesivo non necessariamente voluti dall’agente (quali erano pacificamente considerati prima della riforma delle circostanze ex l. 7.2.1990, n. 19) a specifiche finalità della condotta di corruzione del pubblico ufficiale. Tale condotta risulta così corredata di un ben definito dolo specifico, che è elemento specializzante rispetto a quello richiesto per la fattispecie di corruzione (diversamente inquadrato da Massi, S., “Qui in corruptione versatur etiam pro licito tenetur”, Torino, 2004, 42, e Mezzetti, E., “Nobiltà e miseria” ovvero della corruzione in atti giudiziari, in Cass. pen., 2007, 1635, come «connotato soggettivo della condotta materiale, per la sua funzione di selettore della punibilità in senso offensivo»). La conseguenza della trasformazione è il venir meno della necessità di realizzazione concreta dell’ingiusto giudizio o dell’ingiusta condanna, come effetto della condotta contraria ai doveri di ufficio del pubblico ufficiale. Si sottolinea (Militello, V., Sulla corruzione in atti giudiziari, in La riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione, Atti del Convegno di Siracusa, 16-19 ottobre 1986, a cura di A.M. Stile, Napoli, 1987, 365) che tale forma di anticipazione della tutela è in linea con il dichiarato intento di ampliare la punibilità di fatti che, per gravità obiettiva ed allarme sociale destato, appaiono bisognosi di una tutela adeguata. Ed ancora si è affermato (Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 236) che la corruzione in atti giudiziari presenta un maggior disvalore, rispetto ai fatti di cui agli artt. 318 e 319 c.p., che le conferisce una diversa e più specifica fisionomia criminosa, giustificandone il trattamento sanzionatorio più rigoroso: desta però perplessità il profilo dell’ingiustizia (intrinseca, anche se non richiesta specificamente) del favore o del danno in relazione alla corruzione impropria, basata sul compimento di un atto conforme ai doveri di ufficio; ne deriva pertanto che è più coerente col sistema circoscrivere l’ambito di operatività dell’art. 319 ter c.p. alla corruzione propria antecedente (Grosso, C.F., Commento agli artt. 6-12 1. 26 aprile 1990 n. 86, in Legisl. pen., 1990, 296; Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 236; Seminara, S., op. cit., 784). Secondo la struttura dell’art. 319 ter, per la consumazione del reato è sufficiente che il soggetto attivo si faccia retribuire o accetti la promessa con lo scopo dell’ingiusto giudizio o dell’ingiusta condanna, indipendentemente dalla verificazione di questi obiettivi e persino senza che si verifichi l’omissione o il ritardo o l’atto contrario ai doveri di ufficio che l’agente considerava, all’atto dell’accettazione dell’utilità, come mezzo per realizzare il fine illecito (Cass. pen., 26.11.2002, n. 2302; Cass. pen., 4.5.2006, n. 33435, Battistella). È interessante notare che la Suprema Corte, prima della riforma, aveva deciso che «in tema di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio, la circostanza aggravante dell’essere derivato dal fatto il favore o il danno di una parte in un processo richiede, per la sua applicazione, che si determini come conseguenza dell’attività del corrotto una situazione che, autonomamente considerata, possa essere valutata come aiuto o danno oggettivo per le parti di un processo, non necessariamente concretizzantesi in una condanna» (Cass. pen., 1.6.1988, Amatista).
Il co. 2 dell’art. 319 ter c.p. prevede due circostanze aggravanti (Balbi, G., op. cit., 249; sono invece delitti aggravati dall’evento per Seminara, S., op. cit., 785) per le ipotesi in cui dal fatto derivi l’ingiusta condanna di taluno alla reclusione non superiore a cinque anni ovvero superiore a cinque anni o all’ergastolo: operano solo rispetto ad una ingiusta condanna in un processo penale (e non civile o amministrativo), non necessariamente di un innocente (Segreto, A.-De Luca, G., Delitti contro la Pubblica Amministrazione, Milano, 1999, 441; Antolisei, F., op. cit., 359), ma anche quando venga inflitta una pena maggiore di quella meritata (Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 239). Si discute se la condanna debba essere passata in giudicato: tenuto conto delle pene severe e del carattere afflittivo (legato necessariamente ad una sentenza definitiva) della ingiusta condanna, si ritiene preferibile la tesi positiva (Antolisei, F., op. cit., 359; Romano, M., op. cit., 228; contra Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 239).
Rinviando alla voce Corruzione per la trattazione degli elementi costitutivi dei delitti, si può notare che, rispetto alla precedente disciplina, si verifica una netta anticipazione della soglia di punibilità, in quanto, per la perfezione del reato, è sufficiente che si realizzi l’accordo finalizzato a «favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo», mentre è irrilevante che l’oggetto del pactum sceleris si sia verificato (Insolera, G., Corruzione e concussione nella riforma del diritto e del processo penale, in Studi in ricordo di Giandomenico Pisapia, I, Milano, 2000, 667) e così il favore o il danno alla parte si atteggiano a contenuto del dolo specifico del soggetto agente (Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 235). Per quanto riguarda i soggetti attivi, la l. 7.2.1992, n. 181 ha colmato la lacuna relativa alla punibilità del corruttore, aggiungendo all’art. 321 c.p. il riferimento all’art. 319 ter c.p.; rimane invece escluso dalla nozione di intraneus l’incaricato di pubblico servizio e tale esclusione trova giustificazione nel fatto che solo i pubblici ufficiali rivestono una posizione in grado di influenzare il contenuto delle decisioni giudiziarie (Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 235; Grosso, C.F., Commento agli art. 318-322 c.p., in I delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, a cura di T. Padovani, 206; Amisano Tesi, M., Le tipologie della corruzione, Torino, 2012, 168; sul soggetto attivo v. anche Cass. pen., 10.7.2015, n. 29517).
La Suprema Corte ha stabilito che «deve considerarsi ‘atto giudiziario’ non soltanto l’atto del giudice, bensì l’atto funzionale ad un procedimento giudiziario. Pertanto rientra nella fattispecie in esame l’atto del funzionario di cancelleria, collocato nella struttura dell’ufficio giudiziario, che esercita un potere (l’assegnazione dei processi tramite manipolazione dei criteri automatici di assegnazione) idoneo ad incidere sul suo concreto funzionamento e sull’esito del procedimento giudiziario» (Cass. pen., 19.6.2012, n. 24349). Data la tendenza ad ampliare l’ambito applicativo della fattispecie, come pure quello della figura del pubblico ufficiale, non appare condivisibile tale orientamento in quanto, pur non arrivando a definire atto giudiziario solo quello giurisdizionale (dei magistrati), è preferibile riferirsi all’atto dell’ufficio che, collocandosi nel contesto della funzione giudiziaria, costituisce un anello della catena, che si conclude con l’emanazione del provvedimento finale (Magnini, V., Sui confini applicativi della corruzione in atti giudiziari, in Dir. pen. e processo, 2013, 79).
Ed ancora la corruzione in atti giudiziari è delitto plurioffensivo (Dupuis, M.B., op. cit., 103; Benussi, C., op. cit., 772; Romano, M., op. cit., 218) in quanto determina la lesione non solo dell’imparzialità e del buon andamento, ma anche della correttezza dell’esercizio delle funzioni giudiziarie, andando a colpire qualsiasi forma di «contaminazione del libero ed indipendente esercizio della funzione giurisdizionale», dato che «l’interesse alla correttezza dell’esercizio delle funzioni giudiziarie viene compromesso da una decisione inquinata e alterata dal fatto corruttivo» (Cass. pen., 4.5.2006, n. 33435, Battistella; Cass. pen., 19.6.2012, n. 24349; v. Fornasari, G., op. cit., 216, che ritiene preferibile inserirlo tra i reati contro l’amministrazione della giustizia). Sulla nozione di «parte in un processo civile, penale o amministrativo» la Suprema Corte ha affermato che «tenuto conto dello scopo della norma incriminatrice, consistente nel garantire che l’attività giudiziaria sia svolta imparzialmente, deve ritenersi che la qualità di parte in un processo penale sia da riconoscere non solo all’imputato, ma anche all’indagato e a chi dovrebbe rivestire tale qualità» (Cass. pen., 21.4.1998, Necci, in C.E.D. Cass., n. 211720; Cass. pen., 11.12. 2008, n. 10026, Belforte).
Discussa in dottrina è la configurabilità della corruzione in atti giudiziari impropria, considerando l’esplicito riferimento all’art. 318 c.p.: ritenendo che lo scopo di favorire o danneggiare una parte processuale sia intrinsecamente “ingiusto” (perché altrimenti non si spiegherebbe il più rigoroso trattamento sanzionatorio di questa ipotesi rispetto alle altre) desta forti perplessità la scelta di includere anche la corruzione impropria nelle forme richiamate dall’art. 319 ter c.p. Si pone in luce così l’irrazionalità dell’equiparazione (cfr. anche Insolera, G., op. loc. ultt. cit.) tra corruzione propria e impropria, che obbedisce ad una “esasperazione” dell’interesse tutelato nel senso di «far assurgere a bene protetto una specie di super-moralità o super-correttezza, di cui i giudici dovrebbero dar testimonianza ancor più degli altri soggetti che esercitano pubbliche funzioni. Ma se i giudici non meritano maggiore indulgenza, non per questo vanno sfavorevolmente discriminati, riservando loro un trattamento punitivo ‘sproporzionatamente’ più rigoroso» (Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 236; Del Gaudio, M., op. cit., 159; Gambardella, M., op. cit., 213; Rampioni, R., I delitti di corruzione, Padova, 2008, 230; Fornasari, G., op. cit., 220; Grosso, C.F., Commento agli art. 318-322 c.p., cit., 209; Catenacci, M., op. cit., 106). Favorevoli all’equiparazione sono invece coloro che ritengono insuperabile l’argomento della volontà espressa del legislatore (Romano, M., op. cit., 221; Mezzetti, E., “Nobiltà e miseria” ovvero della corruzione in atti giudiziari, in Cass. pen., 2007, 1632; Seminara, S., op. cit., 784; Benussi, C., op. cit., 782), seguiti dalla giurisprudenza (Cass. pen., 9.7.2007, n. 35118; Cass. pen., 20.6.2007, n. 25418; Cass. pen., 9.11.2005, n. 44971; Cass. pen., 4.2.2004, n. 23024). In particolare, si è affermato che «per stabilire se la decisione giurisdizionale sia conforme o contraria ai doveri di ufficio, deve aversi riguardo non al suo contenuto, ma al metodo con cui a essa si perviene, nel senso che il giudice, che riceve da una parte in causa denaro o altra utilità o ne accetta la promessa, rimane inevitabilmente condizionato nei suoi orientamenti valutativi e la soluzione del caso portato al suo esame, pur accettabile sul piano della formale correttezza giuridica, soffre comunque dell’inquinamento metodologico a monte» (Cass. pen., 4.5.2006, n. 33435; Cass. pen., S.U., n. 15208/2010, cit.; Cass. pen. n. 24349/2012, cit.). La Cassazione ha anche statuito che «la presenza, all’interno di un organo giurisdizionale collegiale, di un componente privo del requisito dell’imparzialità, perché partecipe di un accordo corruttivo, inficia, nonostante l’estraneità degli altri componenti all’accordo corruttivo, la validità dell’intero iter decisionale, per sua natura dialettico e sinergico, e conseguentemente del provvedimento giudiziario emanato, poiché il giudice corrotto è del tutto privo di legittimazione» (Cass. pen., 16.5.2007, n. 35325, Rovelli; Cerqua, L.D., Art. 319 ter, in Comm. breve cod. pen. Crespi-Forti-Zuccalà, Complemento giurisprudenziale, Milano, 2013, 1348). Ed infine sono posti in luce «gravissimi profili di illegittimità che segnano in modo indelebile la norma vigente» (Balbi, G., op. cit., 245; Rampioni, R., I reati dei pubblici ufficiali contro la P.A., in Questioni fondamentali della parte speciale del diritto penale, a cura di A. Fiorella, Torino, 2013, 756). Dibattuta è anche l’ammissibilità della corruzione in atti giudiziari susseguente, in quanto, richiedendo l’art. 319 ter c.p. che «il fatto sia commesso per favorire o danneggiare una parte», si incontra un limite logico insuperabile alla sua configurabilità: ed infatti, se il provvedimento giudiziale è già stato emesso, non si capisce come il privato “successivamente” dia o prometta denaro o altra utilità allo scopo di conseguire un obiettivo che, in quel momento, è già acquisito: la condotta corruttiva del privato, lungi dall’essere rivolta ad uno scopo futuro, si atteggia a corrispettivo di un interesse ormai già soddisfatto e consistente nel danno concreto o nel vantaggio arrecato all’altra parte. Si sottolinea che la corruzione in atti giudiziari è caratterizzata dalla tensione finalistica verso un risultato che la rende strutturalmente incompatibile con quella proiezione verso il passato, quell’interesse già soddisfatto, su cui è impostato lo schema della corruzione susseguente (Romano, M., op. cit., 223; Balbi, G., op. cit., 246; Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 237; Mezzetti, E., “Nobiltà e miseria” ovvero della corruzione in atti giudiziari, in Cass. pen., 2007, 1635; Seminara, S., op. cit., 784; Rampioni, R., I delitti di corruzione, cit., 225; Catenacci, M., op. cit., 106; Benussi, C., op. cit., 784; di diverso avviso Segreto, A.-De Luca, G., op. cit., 429; Dupuis, M.B., op. cit., 106; Pagliaro, A.-Parodi Giusino, M., Principi di diritto penale, pt. spec., I, Delitti contro la pubblica amministrazione, Milano, 2008, 246; Amisano Tesi, M., op. cit., 176). La Suprema Corte, dopo aver in precedenza correttamente affermato che «la fattispecie di corruzione in atti giudiziari si caratterizza per essere diretta a un risultato e non è compatibile con l’interesse già soddisfatto su cui è modulato lo schema della corruzione susseguente, perché la disposizione normativa richiede che il fatto sia commesso ‘per favorire o danneggiare una parte’, sicché resta fuori dell’area della tipicità la mera remunerazione di atti già compiuti» (Cass. pen., 4.5.2006, n. 33435, Battistella), l’ha poi ritenuta configurabile (Cass. pen., 3.7.2007, n. 25418, Giombini; Cass. pen., 18.9.2009, n. 36323, Drassich). L’orientamento è stato ancora ribadito a Sezioni Unite (Cass. pen., S.U., n. 15208/2010, cit.) con una sentenza non condivisibile, dettata forse più da considerazioni politiche che giuridiche, intervenendo «nel contesto di vicende giudiziarie di rilevanza nazionale, con significative implicazioni anche di carattere politico» (Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 237).
L’art. 322 c.p. attualmente incrimina la cd. istigazione alla corruzione, che può essere realizzata da chi offre o promette denaro o altra utilità, non dovuti, ad un pubblico ufficiale o ad un incaricato di pubblico servizio per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri o per indurlo a compiere un atto contrario ai doveri di ufficio o ad omettere o ritardare un atto di ufficio, qualora l’offerta ovvero la promessa non sia accettata. La l. n. 86/1990 aveva affiancato all’istigazione del privato quella del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, che solleciti una promessa o dazione di denaro o altra utilità per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri o per compiere un atto contrario ai doveri di ufficio. Tale comportamento era già pacificamente ammesso da dottrina e giurisprudenza come tentativo e rappresenta quindi un contributo alla chiarificazione del problema. La Cassazione ha giudicato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 322 c.p., in relazione alla diminuzione di pena prevista per il tentativo, in quanto si tratta di due fattispecie autonome, la cui diversa configurazione discende dalla volontà del legislatore (Cass. pen., 27.5.2009, n. 36077). I primi due commi dell’art. 322 c.p. nel 1990 sono rimasti sostanzialmente invariati, eccettuato un ritocco formale: mentre il testo previgente parlava di «denaro od altra utilità» come «retribuzione non dovuta», ora si richiede che il denaro o l’altra utilità non siano dovuti. Nella fretta di approvare la l. n. 86/1990 il legislatore aveva dimenticato il soggetto dell’ultima parte del co. 2, particolare che era stato posto in luce dalla dottrina e che è stato emendato dalla l. n. 181/1992. Nei co. 3 e 4 si richiede che il p.u. o l’incaricato di p.s. “solleciti” una promessa o dazione di denaro o altra utilità da parte del privato per il compimento di un atto conforme o contrario ai doveri di ufficio (Cass. pen., 23.11.2006, n. 41339): si è rilevato che il verbo “sollecitare” pone un problema soprattutto perché complica il nodo cruciale della distinzione tra corruzione e concussione; ed infatti, solo precisando l’ambito di operatività della sollecitazione, si può lasciare uno spazio all’ “induzione” nella concussione e viceversa (Palazzo, F.C., La riforma dei delitti dei pubblici ufficiali: un primo sguardo d’insieme, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1990, 826; Stortoni, L., La nuova disciplina dei delitti dei pubblici ufficiali contro la P. A.: profili generali e spunti problematici, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1990, 721; Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 241; Seminara, S., op. cit., 788; Cass. pen., 25.2.2003, n. 15117; Cass. pen., 25.2. 1994, n. 6113).
Dopo la scissione dalla concussione della induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319 quater c.p.), la giurisprudenza ha affrontato il problema prospettato, stabilendo che «il tentativo di induzione indebita a dare o promettere utilità si differenzia dall’istigazione alla corruzione attiva perché, mentre quest’ultima fattispecie si inserisce sempre nell’ottica di instaurare un rapporto paritetico tra i soggetti coinvolti, diretto al mercimonio dei pubblici poteri, la prima presuppone che il funzionario pubblico, abusando della sua qualità e dei suoi poteri, ponga potenzialmente il suo interlocutore in uno stato di soggezione, avanzando una richiesta perentoria, ripetuta, più insistente e con più elevato grado di pressione psicologica rispetto alla mera sollecitazione, che si concretizza nella proposta di un mero scambio di favori» (Cass. pen., S. U., 24.10.2013, n. 12228, in CED Cass., 258475; Cass. pen., 26.2.2016, n. 8051). Pertanto la sollecitazione si configura come «richiesta formulata dal pubblico agente senza esercitare pressioni o suggestioni che tendano a piegare ovvero a persuadere, sia pure allusivamente, il soggetto privato, alla cui libertà di scelta viene prospettato, su basi paritarie, un semplice scambio di favori, connotato dall’assenza sia di ogni tipo di minaccia diretta o indiretta sia, soprattutto, di ogni ulteriore abuso della qualità o dei poteri» (Cass. pen., 4.2.2014, n. 23004; Cass. pen., 25.1.2013, n. 19190).
Un delicato problema interpretativo sorge rispetto alla configurabilità dell’istigazione alla corruzione in atti giudiziari, in quanto l’art. 322 c.p. non richiama l’art. 319 ter c.p., ma solo gli artt. 318 e 319 c.p.: si potrebbe superare l’argomento testuale considerando che la condotta di istigazione compiuta con il dolo specifico di cui all’art. 319 ter c.p. è comunque riconducibile, tramite gli artt. 318 e 319 c.p., al modello dell’istigazione alla corruzione (Palazzo, F.C., op. cit., 826; Grosso, C.F., Commento agli artt. 6-12, cit., 301 s.; Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 240). Se invece – come è preferibile – non c’è istigazione, rimane il tentativo, come ha fatto la Suprema Corte, ravvisando la possibilità di configurare il tentativo di corruzione in atti giudiziari nell’offerta di denaro a un consulente tecnico, da questi non accettata (Cass. pen., 24.3.2007, n. 12409; Romano, M., op. cit., 146; Rigo, F., Artt. 318-322, in Codice penale, a cura di T. Padovani, I, Milano, 2011, 1904; Benussi, C., op. cit., 815). Nonostante la rubrica parli di istigazione, il termine non è inteso nell’accezione dell’art. 115 c.p. (in cui il soggetto che istiga non pone in essere alcun comportamento “tipico” agli effetti della norma che incrimina il reato oggetto dell’istigazione): ed invero, nell’istigazione alla corruzione il comportamento dell’extraneus è già un inizio di comportamento tipico ai sensi degli artt. 318-321 c.p. e, quindi, il comportamento previsto dall’art. 322 c.p. è un tentativo elevato a figura autonoma di reato (Del Gaudio, M., op. cit., 164; Fornasari, G., op. cit., 219; Romano, M., op. cit., 260; Rampioni, R., I reati dei pubblici ufficiali contro la P.A., cit., 765). Sulla base di tale interpretazione, la Corte ha affermato che l’art. 322 c.p. «configura in sostanza un tentativo di corruzione attiva che il legislatore ha elevato a figura autonoma di reato per evitare che potessero rimanere impuniti, ex art. 115 c.p. in ordine alla istigazione non accolta, fatti tendenti ad insidiare il senso di rettitudine e di disinteresse che deve sempre accompagnare l’esercizio delle pubbliche funzioni» (Cass. pen., 19.11.1968, Varricchio; Cass. pen., 24.3.2007, n. 12409; Antolisei, F., op. cit., 361).
La Cassazione richiede, ai fini della sussistenza del reato di istigazione alla corruzione, che «l’offerta o la promessa di denaro o altra utilità, sia effettiva, seria, potenzialmente e funzionalmente idonea ad indurre il destinatario a compiere o ritardare un atto dell’ufficio o del servizio, ovvero a fare un atto contrario ai doveri d’ufficio, sicché possa provocare in lui turbamento psichico facendo sorgere il pericolo che accetti l’offerta o la promessa» (Cass. pen., 14.2.1985, Daluiso; Cass. pen., 30.11.1995, n. 2716; Cass. pen., 5.5.2004, n. 21095; Cass. pen., 25.1.2012, n. 3176; Cass. pen., 4.11.2015, n. 1935; Cass. pen., 22.2.2016, n. 6849). Essendo necessaria un’offerta o promessa avente per oggetto una reale utilità, cioè una promessa seria e idonea a conseguire lo scopo prefissato, il reato non si realizza quando «sia mancata la idoneità potenziale e funzionale dell’offerta o promessa di denaro per l’evidente ed assoluta impossibilità del p.u. di compiere l’atto illecito» (Cass. pen., 16.11.1967, Luppi; Cass. pen., 25.3.1977, Davoli; Cass. pen., 11.11.1987, Erba; Cass. pen., 21.7.2015, n. 31902). Non di meno, l’elemento materiale del delitto previsto dall’art. 322 c.p. consiste nella reale offerta di denaro o altra utilità, ancorché non determinata nella qualità o nella quantità; qualora invece l’offerta dei doni o la promessa non risultino avvenute concretamente, la preghiera, la sollecitazione, l’insistenza o l’invito non sono idonei a realizzare tale elemento (Cass. pen., 29.5.1972, Bis; Cass. pen., 23.1.2004, n. 23018). Si è precisato che «il giudizio circa la serietà e l’idoneità dell’offerta va formulato ex ante, con riferimento alla qualità del destinatario, alle sue condizioni finanziarie, alle stesse possibilità dell’offerente e ad ogni altra connotazione del caso concreto» (Cass. pen., 15.4.1985, Scarpati; Cass. pen., 8.5.2003, Esposito; Cass. pen., 25.1.2012, n. 3176; Cass. pen., 29.1.2013, n. 7505; Cass. pen., 21.7.2015, n. 31902; Gambardella, M., op. cit., 238). È stato inoltre affermato che «il delitto si realizza attraverso un’offerta obiettivamente possibile, senza che sia necessaria l’attuazione immediata della promessa, consistendo il dolo nella volontà e coscienza di fare la promessa e non già in quella di adempierla» (Cass. pen., 13.12.1978, De Rosa). Ne deriva che la norma dell’art. 322 c.p. intende proteggere il retto funzionamento e il prestigio della p.a. contro il pericolo che coloro che ne fanno parte possano cedere alla venalità (Cass. pen., 12.12.1973, Giacomazzi). La Suprema Corte insegna che «il delitto di istigazione alla corruzione si configura come reato di mera condotta, per la cui consumazione si richiede che il colpevole agisca allo scopo di trarre una utilità o di conseguire una controprestazione dal comportamento commissivo od omissivo del p.u. indipendentemente dal successivo verificarsi o meno del fine cui è preordinata l’istigazione» (Cass. pen., 26.11.1985, Fevarello; Cass. pen., 4.3.1992, n. 5518; Cass. pen., 10.1.2008, n. 10305); ed ancora, con decisioni non condivisibili, «ai fini della configurabilità del delitto di istigazione alla corruzione, basta che l’offerta sia in rapporto causale con una qualsivoglia prestazione, indipendentemente dalla possibilità di determinare quella effettivamente richiesta» (Cass. pen., 15.10.1987, Bloise; Cass. pen., 30.11.1995, in Foro it., 1996, II, 414; Cass. pen., 22.2.2016, n. 6849).
Molto problematico appare ancora il campo dei rapporti fra corruzione e concussione, che da sempre affatica dottrina e giurisprudenza (sulla problematica dei rapporti fra corruzione e concussione cfr. le relazioni di A. Pagliaro, E. Palombi, S. Ardizzone, C.F. Grosso, e M. Zanotti, in La riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione, cit.). Attualmente (respinta la concezione tradizionale secondo cui i due reati si distinguerebbero in considerazione dell’iniziativa rispettivamente del p.u. e del privato) si identifica il criterio differenziale nella posizione delle parti e in particolare dell’extraneus. Pertanto il privato, mentre nel delitto di concussione è consapevole di essere vittima di una sopraffazione e di non dover dare nulla, ma è indotto a cedere alla richiesta di denaro o altra utilità per il timore della pubblica autorità, nel delitto di corruzione non agisce sotto l’influenza di altre persone o del funzionario, ma è libero e collabora col pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio alla ricerca di un accordo nella illecita contrattazione. La differenza tra i reati non è costituita dalla liceità o no del vantaggio che il privato tende a conseguire, ma dal diverso atteggiamento della volontà dei soggetti, perché solo nella concussione la volontà è coartata e condizionata dal timore del danno che il pubblico ufficiale potrebbe cagionargli per effetto della mancata adesione alle sue richieste. Tali principi sono stati sottolineati e ribaditi dalla sentenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione (Cass. pen., S.U., 27.11.1982, Dessì, in Cass. pen., 1984, 260 e successiva giurisprudenza conforme, tra cui Cass. pen., 17.11.1994, Provini, in Guida dir., 1995, fasc. 14, 45; Cass. pen., 21.12.1995, Bruno, ivi, 1996, fasc. 27, 46; Cass. pen., 19.10.2001, Berlusconi, in Cass. pen., 2002, 205), secondo cui: «in tema di criteri differenziali tra concussione e corruzione non rileva tanto la circostanza della contrarietà dell’atto ai doveri di ufficio quanto la condotta del pubblico ufficiale il quale, nel caso di concussione, deve aver creato o insinuato nel soggetto passivo uno stato di paura o di timore atto ad eliderne o viziarne la volontà, di guisa che sia costretto o indotto ad esaudire la illecita pretesa al fine di evitare nocumento. Il privato, ove sia consapevole della antigiuridicità dell’atto offerto dal pubblico ufficiale, accettando di pagare o comunque sollecitando lo stesso pubblico ufficiale a ricevere la iniqua mercede, agisce in piena coscienza, posto che il suo consenso non è viziato, ma è finalizzato, al pari di quello dell’intraneus, a realizzare un indebito lucro in condizione di parità contrattuale: di qui l’ipotesi di corruzione propria ex art. 319 c.p. La evidente preminenza intimidatoria del pubblico ufficiale, basata sull’abuso della qualità o delle funzioni e la volontà del privato, del tutto viziata da quella preminenza, danno luogo alla tipica figura della concussione». A tale fondamentale criterio è stato aggiunto quello secondo cui è necessario valutare il fine perseguito dal privato che offre o promette denaro o altra utilità: se egli, essendo in stato di soggezione rispetto al pubblico funzionario, agisce allo scopo di evitare un danno (certat de damno vitando) sussiste il delitto di concussione. Se invece il privato offre o promette denaro o altra utilità al pubblico agente, spinto dall’intento (esclusivo o prevalente) di trarre da ciò un vantaggio (certat de lucro captando), il fatto configura la corruzione, non potendosi ravvisare in tal caso gli estremi dello stato di soggezione che caratterizza la concussione (Cass. pen., 28.5.1996, n. 5308). «Ai fini dell’individuazione del requisito della volontà prevaricatrice e condizionante da parte dell’agente pubblico, in relazione a quella forma particolare di concussione per induzione che va sotto il nome di ‘concussione ambientale’, rilevano sia la cornice storico-fattuale idonea a rendere meno formale il comportamento condizionante del funzionario pubblico, che deve comunque sussistere ai fini della configurabilità del delitto di concussione, sia l’esistenza di un sistema di mercanteggiamento dei pubblici poteri in cui il privato liberamente si inserisce per trarne, mediante corruzione, illecito vantaggio» (Cass. pen., 19.10.2001, Berlusconi; Cass. pen., 21.11.2002, n. 36551; Cass. pen., 12.4.2011, n. 16335).
La scissione effettuata dalla l. n. 190/2012 tra la concussione per costrizione e l’induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319 quater c.p.) da un lato imposta nettamente il problema del rapporto concussione-corruzione, ma dall’altro lo complica per l’evidente attrazione dell’induzione nell’ambito dei delitti di corruzione e, conseguentemente, scatta la punibilità del privato: i confini tra corruzione e concussione sono spostati e si deve dare un contenuto al termine “elastico” di induzione (Padovani, T., Il confine esteso, metamorfosi dei rapporti tra concussione e corruzione ed esigenze “improcrastinabili” di riforma, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1999, 1302). La questione è stata risolta dalle Sezioni Unite: «la fattispecie di induzione indebita è caratterizzata da una condotta di pressione non irresistibile da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio, che lascia al destinatario della stessa un margine significativo di autodeterminazione e si coniuga col perseguimento di un suo indebito vantaggio. Nella concussione di cui all’art. 317 c.p., invece, si è in presenza di una condotta del pubblico ufficiale che limita radicalmente la libertà di autodeterminazione del destinatario» (Cass. pen., S.U., 24.10.2013, n. 12228; Manna, A., La differenza tra concussione per costrizione e induzione indebita: riflessioni a margine del dispositivo delle Sezioni Unite, in www.archiviopenale.it; Balbi, G., Sulle differenze tra i delitti di concussione e di induzione indebita a dare o promettere utilità, in Dir. pen. cont., 2015, fasc. 1, 143).
La situazione attuale continua a non essere incoraggiante, come già emergeva dalla ricerca sulla percezione sociale e il controllo penale della corruzione in Italia negli ultimi decenni (Davigo, P.-Mannozzi, G., La corruzione in Italia, percezione sociale e controllo penale, Bari, 2007), anche se l’Italia è passata dal 69° al 61° posto nella classifica mondiale della percezione della corruzione. Non è dunque servita tutta la mobilitazione dei tempi di Tangentopoli, né l’istituzione nel 2003 dell’Alto commissario anticorruzione (dal 2014 Presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione), né riesumare la Proposta di Cernobbio, perché restano valide tutte le critiche emerse dopo il 1994 (cfr. Sgubbi, F., Considerazioni critiche sulla proposta anticorruzione, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1994, 941; Gallo, M., Corruzione e concussione: deserti della simonia, in Crit. dir., 2007, 8; Rampioni, R., I delitti di corruzione, cit., 243). Si è pervenuti così, dopo una lunga attesa (Palazzo, F.C., Gli effetti ‘preterintenzionali’ delle nuove norme penali conto la corruzione, in La legge anticorruzione, a cura di B.G. Mattarella e M. Pelissero, Torino, 2013, 17), alla l. n. 190/2012, in cui la strategia si amplia al quadro delle misure di prevenzione e controllo del fenomeno corruttivo, alla sempre maggiore trasparenza dei procedimenti amministrativi, alla vigilanza sugli appalti, alle ipotesi di ineleggibilità e all’inasprimento delle pene dei reati contro la p.a. (in generale, v. Severino, P., Il problema del contrasto alla corruzione, in Il contrasto alla corruzione nel diritto interno e nel diritto internazionale, a cura di A. Del Vecchio e P. Severino, Padova, 2014, 3). La legge ha certamente dato una risposta alle sollecitazioni internazionali e comunitarie e alle insistenti richieste di riforma dei reati contro la p.a. (una valutazione positiva è espressa da Dolcini, E., La legge 190/2012. Contesto, linee di intervento, spunti critici, in Dir. pen. cont., 2013, fasc. 3, 152 e Viganò, F., La riforma dei delitti di corruzione, in Libro dell’anno del Diritto, Roma, 2013, 163), ma non ha affrontato il problema fondamentale della prescrizione, risolto indirettamente col progressivo e deciso innalzamento dei limiti edittali nel 2015 (Grosso, C.F., Novità, omissioni e timidezze della legge anticorruzione in tema di modifiche al c.p., in La legge anticorruzione, cit., 5; Mongillo, V., Le riforme in materia di contrasto alla corruzione introdotte dalla legge n. 69 del 2015, in Dir. pen. cont., 15.12.2015). L’esigenza di semplificazione probatoria viene esaudita con l’eliminazione del riferimento all’«atto di ufficio» nell’art. 318 c.p., che diviene «corruzione per l’esercizio della funzione» (novità di «forte impatto sistematico», che altera il rapporto simmetrico tra corruzione propria e impropria per Romano, M., op. cit., 137; contra Grosso, C.F., op. ult. cit., 9). La concussione è divisa tra l’ipotesi tradizionale “per costrizione” e la nuova «induzione indebita a dare o promettere utilità» (art. 319 quater c.p.); viene introdotto il «traffico di influenze illecite» (art. 346 bis) e riscritta la «corruzione fra privati» (art. 2635 c.c.). Si perviene così ad una moltiplicazione di incriminazioni (Palazzo, F.C., Gli effetti ‘preterintenzionali’, cit., 18), che portano, piuttosto che a una semplificazione da tempo auspicata (sia permesso rinviare a Mirri, M.B., Corruzione, in Enc. giur. Treccani, Aggiornamento, Roma, 1991, 1), a un ampliamento dell’area di responsabilità e a problemi di concorso di norme, oltre ad una esasperata anticipazione della tutela (Rampioni, R., I reati dei pubblici ufficiali contro la P.A., cit., 684). Le interferenze illecite costituiscono la punta avanzata del sistema repressivo dei fatti di corruzione mentre la modifica dell’art. 318 c.p., assecondando la pericolosa prassi giurisprudenziale di ampliamento dell’atto di ufficio (Mirri, M.B., op. cit., 5) – così da eliminarne i confini e quindi la differenza dall’atto contrario ai doveri di ufficio, su cui si basa l’art. 319 c.p. – sfuma nell’«esercizio della funzione», nebulosa, dai confini indefiniti e non conforme ai principi costituzionali fondamentali. Da condividere l’eliminazione della corruzione impropria susseguente (come da tempo richiesto, Mirri, M.B., op. cit., 4; Rampioni, R., I reati dei pubblici ufficiali contro la P.A., cit., 734; cfr. invece Romano, M., op. cit., 192) mentre l’annoso problema della distinzione tra corruzione e concussione non è risolto, ma anzi aggravato e acuito dalle nuove fattispecie.
Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, sottolinea l’importanza di una rivolta morale dove l’intervento giudiziario non è sufficiente perché la battaglia contro la corruzione è innanzitutto di carattere culturale (intervista a Il Messaggero, 2.1.2015, 6; v. anche Marotta, G., Aspetti criminologici del fenomeno corruttivo, in Sociologia, 2015, fasc. 3, 96).
Rimangono sempre valide le osservazioni di Paliero: «proprio le difficoltà intrinseche che questa materia manifesta sotto il profilo del controllo penale confermano che solo un tasso elevato di comportamento osservante spontaneo delle regole di gestione della cosa pubblica possono essere fattore preventivo sufficiente a controbilanciare le spinte verso l’illegalità. Questo però significa cultura della legalità: una cultura della società civile non circoscritta ad espressive pretese di correttezza da parte del mondo politico, ma radicata in ogni strato della compagine sociale» (Paliero, C.E., Ma la vera svolta deve partire dalla società civile, in Il Sole-24 Ore, 18.2.2008, 9).
Artt. 319 ter-322 ter c.p.; l. 26.4.1990, n. 86 (Modifiche in tema di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione); l. 7.2.1992, n. 181 (Modifiche al codice penale in tema di delitti contro la pubblica amministrazione); l. 29.9.2000, n. 300 (Ratifica ed esecuzione di atti internazionali); l. 3.8.2009, n. 116 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione di Merida); l. 6.11.2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione); l. 27.5.2015, n. 69 (Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazione di tipo mafioso e di falso in bilancio).
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