Antifascismo
Al pari del fascismo, l'a. è un fenomeno politico, nato dalla storia d'Italia, che ha travalicato per importanza ed estensione i confini nazionali. Più del fascismo, si è dimostrato provvisto di vitalità e della capacità di durare nel tempo oltre la congiuntura storica che ne ha visto l'origine e le manifestazioni più tipiche.
L'antifascismo al tempo del fascismo
Furono i fascisti italiani stessi a elaborare per primi il concetto di a.: in forza di una visione dicotomica della lotta politica, già prima della marcia su Roma essi iniziarono a raggruppare sotto la comune e indistinta denominazione di 'antifascisti' non solo gli avversari, ma anche gli spettatori più perplessi delle loro gesta o gli interlocutori più tiepidi, tutti considerati, a diverso titolo, l'antitesi dei valori nazionali di cui il fascismo si attribuiva l'esclusiva rappresentanza. Il concetto acquisì però concretezza solo negli anni successivi, attraverso la lotta che gli oppositori del fascismo condussero contro il nuovo assetto del potere politico affermatosi in Italia tra il 1922 e il 1926 e in conseguenza del carattere effettivamente dualistico assunto dalla dialettica politica a mano a mano che il fascismo procedette nell'occupazione dello spazio pubblico del Paese. L'a. in senso proprio nacque allorché nei residui settori non fascisti della società italiana, dalla semplice disposizione critica o anche ostile nei riguardi del fascismo, si passò alla più matura consapevolezza che tra fascismo e non fascismo, anziché uno dei vari fronti della competizione tra i partiti, correva quello centrale, soverchiante tutti gli altri, e decisivo in vista di qualunque ulteriore sviluppo. Deriva da qui un'altra caratteristica originaria dell'a.: il fatto cioè che esso si presentasse sia come motivo ispiratore di condotte individuali e di gruppo, con accentuazioni e tratti distinti da caso a caso in ragione della diversità delle culture politiche e degli orientamenti ideali propri di ciascun soggetto; sia, e allo stesso tempo, come insegna unitaria di una pluralità di forze, protese alla ricerca di linguaggi comuni e di convergenze operative per fronteggiare la sfida più urgente di quel momento storico, che tutte le riguardava e da cui dipendeva il destino di ognuna. Il tentativo di far vivere l'a. come coalizione di forze e culture diverse, oltre i distinti e molteplici a. presenti sullo scacchiere politico, caratterizzò l'intera esperienza dell'opposizione al regime fascista italiano, e da qui si trasmise alla mobilitazione antifascista che si manifestò più tardi sulla scena internazionale.
In Italia un impulso decisivo allo sviluppo di un indirizzo antifascista con le caratteristiche prima delineate venne dalla crisi seguita al delitto Matteotti (1924); più tardi, dopo il passaggio al sistema del partito unico (1926), l'azione proseguì all'interno del Paese in forme illegali e cospirative, mentre fuori d'Italia diede vita al fenomeno dell'esilio politico. Diversi tra i partiti politici banditi in patria proseguirono l'attività pubblica all'estero (comunisti, socialisti, repubblicani), e a essi si aggiunsero formazioni nuove (come il movimento di Giustizia e libertà): tra i principali esponenti di quello che i fascisti definirono spregiativamente 'fuoruscitismo' furono i socialisti P. Nenni e F. Turati, i comunisti R. Grieco e P. Togliatti, il repubblicano R. Pacciardi, i giellisti E. Lussu e C. Rosselli (quest'ultimo assassinato da sicari fascisti nel 1937), lo storico G. Salvemini. Dato il sistema di coercizione e di repressione vigente, in Italia l'a. poté essere animato solo da ristrette minoranze: il periodo di maggiore intensità della cospirazione fu quello compreso tra il 1929 e il 1932, e a impegnarvisi furono soprattutto i comunisti e, in misura minore, Giustizia e libertà. Nell'esilio, dopo un periodo iniziale durato fino al 1934, che vide agire separatamente i comunisti e le altre formazioni politiche, si fece strada la ricerca di intese unitarie tra le diverse espressioni dell'a., analogamente a quanto avveniva in altre realtà europee con la formazione dei cosiddetti fronti popolari. Categoria tipica per alcuni anni della sola realtà italiana, l'a. s'irradiò infatti in Europa dopo l'avvento al potere del nazismo in Germania (1933), che fece temere per le sorti più generali della democrazia nel Vecchio continente. In questa fase, tuttavia, l'espansione dell'a. riguardò il piano del sentimento e delle emozioni più che quello della politica. L'antitesi fascismo/antifascismo si impose come il conflitto di valori preminente in Europa negli anni Trenta del Novecento, e fu il principale catalizzatore delle passioni politiche, toccando l'apice in occasione della guerra civile spagnola; ma a parte i Paesi in cui si affermarono forze riconducibili al prototipo fascista (Germania, Austria, Spagna) o i brevi periodi in cui anche altri Stati (Francia, Belgio) parvero correre rischi analoghi, la politica pratica seguì per lo più dinamiche differenti, orientandosi secondo priorità diverse o determinata da particolarità locali (per es., ad altri processi di eversione della democrazia in Europa, dal Baltico ai Balcani, non si accompagnò una mobilitazione di tipo antifascista). Inoltre, per ciò che concerne in particolare le relazioni internazionali, la linea più battuta dai Paesi democratici fu quella della composizione dei contrasti e della tolleranza nei confronti delle politiche dei governi fascisti. La guerra civile europea tra fascismo e a. si era solo affacciata alla superficie della storia, senza riuscire però a sovrastare cleavages più tradizionali e ad affermarsi come il principale motore dei processi politici.
Il quadro mutò, sia pure non subito, con la Seconda guerra mondiale. Inizialmente, infatti, i governi della Francia e del Regno Unito la presentarono come 'guerra senza ideologie', proprio per non apparire condizionati dalla passione antifascista; mentre l'avvicinamento dell'URSS alla Germania nazista nei primi tempi del conflitto privò l'a. di quel carattere di ampia coalizione, dai liberali ai comunisti (e anzi con i comunisti proprio nel ruolo di principale forza attiva), che l'aveva contraddistinto fino a quel momento. Solo quando dal 1941 il Regno Unito, l'URSS e gli Stati Uniti si trovarono a combattere assieme, la guerra apparve davvero rispondere alla definizione che ne diede poi, nel gennaio 1944, B. Croce: "[…] non […] una guerra tra popoli ma una guerra civile; […] non […] una semplice guerra di interessi politici ed economici, ma una guerra di religione […]" (Scritti e discorsi politici (1943-47), 1° vol., 1963, p. 51). L'a. divenne allora, sul piano ideologico, il principale motivo ispiratore di uno dei fronti impegnati in questo scontro tra opposte concezioni della vita associata e, secondo una tendenza già manifestatasi precedentemente, ma che solo allora ebbe modo di dispiegarsi pienamente, si arricchì di contenuti e di significati positivi e costruttivi, oltre la mera negazione del fascismo. Dalla tensione antifascista si generarono infatti programmi di riforma degli assetti sociali e politici ispirati a una concezione allargata della cittadinanza e dei diritti e a propositi di diffusione del benessere, da cui presero poi le mosse la rifondazione o il rinnovamento degli ordinamenti democratici nell'Europa postbellica. Lo schieramento antifascista, inteso sia come coalizione internazionale di potenze sia come coalizione, nei diversi Paesi, di culture e organizzazioni politiche, restava però intimamente eterogeneo: le differenze rimasero in secondo piano finché prevalse la necessità di contrapporsi al nemico comune, ma alla fine delle ostilità, quando la politica dovette confrontarsi con i compiti della ricostruzione, le spinte centrifughe ripresero progressivamente il sopravvento, finché l'irrompere della guerra fredda diede il colpo finale all'unità antifascista, provocando un riallineamento generale degli Stati e dei partiti all'insegna della discriminante tra Occidente e Oriente, tra liberal-democrazia e comunismo.
L'antifascismo nel mondo bipolare
In Occidente la crisi della funzione coesiva dell'a. indebolì anche il richiamo esercitato dall'a. come principio etico-politico, mentre andava affermandosi un nuovo atteggiamento basato su una logica di contrapposizione assoluta, l'anticomunismo. Il declino dell'a. non riguardò però allo stesso modo tutti i Paesi, come dimostra proprio il caso dell'Italia, dove, quando si trattò di stabilire nel concreto l'assetto della nuova democrazia repubblicana, le forze che più incisero sulla preparazione della Costituzione del 1948 individuarono espressamente nell'a. il comune fondamento di valori del processo costituente. Non che in Italia le divisioni culturali e di partito fossero meno profonde che altrove, ma essendo prevalsa la volontà di realizzare attorno ai nuovi ordinamenti un ampio accordo politico, l'a. offrì a questa intesa i riferimenti ideali e l'apparato simbolico di un'esperienza, quella dell'opposizione al fascismo e della Resistenza, ancora recente e intensamente condivisa. Nello stesso tempo, le correnti politiche italiane, caratterizzate da visioni del mondo radicalmente contrastanti e inclini a scelte di campo opposte nel quadro incombente della guerra fredda, trovarono nel comune richiamo all'a. la base di una reciproca legittimazione.
L'assunzione dell'a. a fondamento della nuova identità democratica dell'Italia si accompagnò, peraltro, a una rielaborazione del recente passato della nazione non sempre aderente alla realtà: si costruì l'immagine retorica, smentita più tardi dalla storiografia, di un Paese intimamente refrattario ai dettami del fascismo e coinvolto nei meccanismi del regime più per conformismo che per convinzione; la premura di favorire l'inserimento nei quadri della nuova democrazia dei più larghi strati della popolazione, guardando avanti, al compito della ricostruzione morale e materiale del Paese più che al passato, indusse a sorvolare sulle responsabilità collettive per la piega assunta dalla vicenda storica nazionale nel ventennio fascista. A dispetto di tali forzature rimanevano in Italia settori di opinione pubblica restii a una radicale rottura con l'epoca appena trascorsa e poco propensi a riconoscersi, sia pure a posteriori, nei principi dell'a., sicché la valorizzazione dell'a. propria del discorso ufficiale non incontrò, sul piano della coscienza collettiva, quella adesione diffusa e convinta, indispensabile perché l'a. potesse davvero assurgere a fattore costitutivo di un ethos nazionale ampiamente condiviso.
Per effetto sia del condizionamento esercitato dalle correnti di opinione conservatrici sia, soprattutto, dell'inasprimento dei contrasti tra le forze che si erano opposte al fascismo, ma che oramai si scontravano frontalmente nell'agone politico dopo la rottura tra la Democrazia cristiana e la Sinistra comunista e socialista, dalla fine degli anni Quaranta l'a. finì ai margini del campo dei riferimenti ideali che innervavano il linguaggio pubblico, sovrastato nella gerarchia dei valori dai principi su cui si fondava la collocazione dell'Italia nel campo democratico occidentale e che guidavano la lotta al comunismo nel mondo divenuto bipolare. Il richiamo all'a. diventò così appannaggio pressoché esclusivo dei partiti di sinistra, che erano stati allontanati dal governo del Paese, o di quelle forze minori del campo governativo, di ispirazione laica, che avevano un passato di più intensa partecipazione alla lotta contro il fascismo. Per le sinistre, in particolare, non si trattava solo di tener viva la memoria delle lotte di un tempo o di trarne ispirazione nel presente, ma anche di reagire alla pressione anticomunista in nome dell'a., accostando l'anticomunismo professato allora in Occidente a quello agitato dal fascismo e sostenendo, in forza di tale comparazione, che alla democrazia si confaceva una sola discriminante, quella antifascista. In tanta conflittualità ideologica, il fatto che la democrazia italiana avesse un'origine condivisa all'insegna dell'a. non mancò tuttavia di esercitare ancora qualche efficacia: l'a. imponeva alle dinamiche politiche un limite, che esse non avrebbero varcato. Se ne ebbe prova nel 1960, quando la sensazione che per responsabilità del governo in carica si stesse ampliando il campo di azione dell'estrema destra, erede della Repubblica sociale italiana, suscitò una vigorosa reazione popolare di esplicito segno antifascista; o ancora nel corso degli anni Settanta, quando in nome dell'unità antifascista originaria le forze costituzionali fecero blocco contro l'imperversare del terrorismo.
Sin dall'inizio le cose si erano presentate in modo assai diverso nella Germania uscita dal nazismo, dove lo status dell'a. fu condizionato da fattori quali l'assenza di un movimento popolare nella fase del crollo militare, l'impossibilità in cui si trovò l'opposizione antinazista di rivendicare per sé un ruolo attivo nella transizione, la divisione del Paese dopo la guerra in due entità ideologicamente contrapposte. Nella Repubblica Democratica Tedesca l'a. non trovò posto tra i valori attorno a cui si costruì una nuova identità collettiva democratica, sia perché prevalse la tendenza a rimuovere il conflitto ideologico degli anni della dittatura, sia perché nei riguardi dell'a. erano ampiamente diffusi sentimenti di riprovazione - identificandosi la sua opera contro il Terzo Reich con un atteggiamento antinazionale - e di sospetto - lo si assimilava infatti a quel comunismo che nell'altra metà del Paese aveva imposto un nuovo regime autoritario. Solo sul finire degli anni Sessanta, in un mutato clima politico e con l'affacciarsi sulla scena di una nuova generazione intellettuale, si affermò un più deciso atteggiamento critico, che non indulgeva a compiacenze e reticenze nei riguardi del passato e aprì la via a una valorizzazione delle forze che avevano agito per provocare la caduta del nazismo. Ancora nel 1985, tuttavia, la solenne affermazione da parte, per la prima volta, della più alta autorità dello Stato - l'allora presidente della Repubblica R. von Weizsäcker - che l'esito della Seconda guerra mondiale aveva comportato la 'liberazione' del popolo tedesco suscitò reazioni contrastanti, a dimostrazione che per settori della pubblica opinione il rovinoso destino cui la nazione tedesca era andata incontro a causa della sconfitta del Terzo Reich continuava a rappresentare un impedimento alla piena identificazione con le ragioni dell'antinazismo. Nella Repubblica Federale di Germania, al contrario, l'a. era assurto al rango di ideologia ufficiale e fonte di legittimazione del potere. Il regime tedesco-orientale si poneva come erede della lotta dei comunisti tedeschi contro il nazismo e come espressione di 'un'altra Germania', immune da responsabilità di ordine morale o giuridico per il passato nazista, tutte sbrigativamente poste a carico dello Stato tedesco-occidentale, a sua volta presentato come incarnazione della continuità del fascismo hitleriano. L'a. fu così confinato in una memoria unilaterale e in una visione canonica della storia, ridotto a liturgia celebrata secondo i dettami del potere, in conformità alle sue esigenze di ricerca del consenso. Un quadro simile presentavano gli altri Paesi dell'Est, nei quali l'edificazione di nuovi ordinamenti economici e istituzionali, ispirati al modello sovietico, fu accompagnata da una motivazione antifascista. Qui l'uso dell'a. come instrumentum regni comportava sia la rivendicazione di una continuità tra le ragioni della guerra antinazista e i principi posti alla base dei nuovi regimi di 'democrazia popolare', sia un'attualizzazione dei contenuti dell'a., sicché la contrapposizione all'Occidente e persino le convulsioni interne alle compagini al potere, con il loro carico di sangue, poterono essere presentate come momenti di una rinnovata lotta antifascista.
Nel mondo bipolare della guerra fredda la conflittualità politica e ideologica si tradusse quindi in una contrapposizione attorno all'eredità e al significato dell'a., a cui si sottrassero, con l'assunzione di posizioni più equilibrate e rispettose del senso vero dei valori in gioco, solo limitati settori di 'terza forza'. Da un lato le forze gravitanti attorno al comunismo sovietico, facendo leva sul contributo di prim'ordine prestato alla lotta contro il fascismo, rivendicavano a sé la rappresentanza esclusiva dell'a. e si presentavano come le sole depositarie dei suoi valori, dei quali però l'esperienza dell'Est europeo costituiva un pervertimento. Dall'altro lato l'antitotalitarismo, invocato in Occidente a fondamento ideale del ripudio di ogni forma di espropriazione dei diritti, nominalmente comprendeva in sé anche l'a., ma di fatto si manifestava essenzialmente come anticomunismo, lasciando sullo sfondo il fatto che la democrazia europea si fosse salvata in opposizione al fascismo e grazie all'apporto anche di forze che allora si trovavano, territorialmente o idealmente, dall'altra parte della cortina di ferro.
La crisi dell'antifascismo
Lo stretto legame che sin dal tempo della lotta al fascismo si era stabilito tra l'a. e le culture politiche della sinistra, e in particolare tra a. e comunismo, fece sì che, avviandosi il comunismo verso il tratto discendente della sua parabola, anche l'a. fosse messo in discussione. Con l'emergere, alla fine degli anni Sessanta, soprattutto in Francia, in Germania e in Italia, delle critiche radicali alla tradizione comunista ufficiale da posizioni neocomuniste di estrema sinistra, l'esperienza storica dell'a. fu sottoposta a una revisione che prese di mira il principio dell'unità antifascista, della collaborazione cioè tra sinistra classista e 'democrazia borghese' fortemente perseguita dai partiti comunisti soprattutto alla metà degli anni Trenta e nella fase culminante della Seconda guerra mondiale. Allo spirito di compromesso insito in tali politiche unitarie si rimproverava di aver offuscato il nesso causale tra capitalismo e fascismo e di aver sviato la lotta antifascista dall'obiettivo della rivoluzione sociale, circoscrivendola nell'angusto orizzonte della restaurazione democratica. Esauritasi nell'arco di un decennio questa ventata critica, che aveva investito non l'idea in sé dell'a. ma la sua traduzione politica, a partire dagli anni Ottanta la tradizione antifascista andò incontro a più radicali e sostanziali obiezioni, che riguardavano da una parte il modo stesso in cui l'a. era venuto strutturandosi come categoria politica negli anni fra le due guerre e dall'altra la sua funzione ideologica nell'epoca successiva alla Seconda guerra mondiale.
Epicentro di questa rielaborazione furono la Francia e l'Italia, non a caso i due Paesi in cui erano cresciuti i maggiori partiti comunisti occidentali, che proprio dall'a. avevano tratto preziose risorse politiche e che in nome del contributo prestato alla lotta per la libertà avevano rivendicato il riconoscimento di una vocazione nazionale e democratica come elemento distintivo della loro accezione del comunismo: su questo sfondo la critica dell'a. produceva quindi anche l'effetto di minare i fondamenti di legittimità e il valore della tradizione storica dei partiti comunisti, finché più tardi il crollo dei comunismi operò a sua volta come fattore di ulteriore delegittimazione della memoria antifascista.
Al centro del discorso critico fu posta la congiunzione realizzatasi sotto l'insegna dell'a. tra la democrazia liberale e il comunismo alla metà degli anni Trenta, proprio quando la violenza e la disumanità del dispotismo staliniano giungevano al culmine: constatazione non nuova, ma da cui si ricavavano argomenti per respingere la pretesa di attribuire contenuti etici o significati esemplari a un fenomeno viziato all'origine da quel fondamentale conflitto di valori e anche in seguito caratterizzato dalla compresenza di punti vista opposti sulla democrazia. La trasposizione di una contingente convergenza tattica in una dimensione ideologica e la sua amplificazione in una cultura politica dotata di un fortissimo potere di suggestione, capace di perpetuarsi oltre la fine del fascismo, vennero così presentati come un capolavoro delle tecniche manipolatrici dei partiti comunisti. "Mito staliniano per eccellenza", secondo il giudizio di A. Kriegel, poi sviluppato da F. Furet, l'a. era valso a sviare l'attenzione dagli orrori del regime sovietico, impedendone la comparazione con l'hitlerismo, e aveva fornito ai partiti comunisti un efficacissimo strumento di penetrazione nell'opinione pubblica, avvalorando l'appartenenza del comunismo alla tradizione umanistica occidentale.
In Italia, dove tra i fattori della crisi di credibilità dell'a. va annoverato anche il fallimento dei governi di solidarietà nazionale dei tardi anni Settanta, in cui si era voluto vedere un ritorno allo spirito unitario della Liberazione, la critica dell'a. si arricchì di altri motivi, che investivano la plausibilità del richiamo all'a. come fondamento degli ordinamenti democratici del Paese. Da un lato, ebbe accoglienza più ampia il punto di vista sostenuto già in passato da A. Del Noce, secondo il quale l'a. era una categoria priva di consistenza propositiva, prigioniera del prefisso 'anti', definibile solo in relazione all'esistenza di un avversario e destinata a estinguersi assieme a esso, sicché nell'attualità politica non le si poteva attribuire alcun valore normativo. Da un altro lato, il nesso tra antifascismo-Resistenza e democrazia repubblicana fu declassato a mito, a espediente retorico cui le forze impegnate nella ricostruzione democratica del Paese avevano fatto ricorso per esibire titoli di legittimità tratti dall'esperienza storica nazionale e oscurare il fatto di essere debitrici del potere agli eserciti stranieri, che erano stati i veri vincitori della lotta al fascismo.
Tipico della discussione italiana attorno al tema dell'a. fu da allora l'intersecarsi di diversi piani del dibattito, da quello ideologico e culturale a quello storiografico, fino a quello più direttamente legato agli sviluppi politici correnti. L'apertura, fra il 1991 e il 1994, di una nuova fase dell'esperienza repubblicana, caratterizzata dalla scomparsa dei partiti un tempo protagonisti della lotta al fascismo e dall'affacciarsi alla guida del Paese di forze non legate al patto costituzionale originario e all'impegno antifascista che lo aveva motivato, ha costituito uno spartiacque anche nella rielaborazione del passato, e si è fatto pressante l'invito ad accostarsi con spirito nuovo ed equanimità di giudizio alla storia dell'Italia nell'età fascista, a prendere congedo da antiche contrapposizioni ideologiche, a ricomporre le memorie in una visione condivisa della storia nazionale: sollecitazioni tutte convergenti verso una dichiarazione di obsolescenza dell'a., poiché il richiamo a una categoria politico-ideale dall'implicito significato selettivo ed escludente comprometterebbe l'affermazione di un sentimento nuovo di coesione nazionale attorno ai valori comunemente accettati della democrazia.
In questa prospettiva l'a. resta consegnato tutt'al più a una condizione di premessa logica e cronologica della democrazia, ma non può costituirne un principio informatore: punto di vista convergente con quello a cui era giunto proprio il partito politico italiano che a lungo aveva conservato un'ispirazione neofascista, il Movimento sociale italiano, il quale, all'atto di assumere per la prima volta la responsabilità di governo e di mutare la sua denominazione in Alleanza nazionale (1994-95), aveva accompagnato questo passaggio con il riconoscimento che l'a. è stato in Italia "il momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato", ma non poteva essere considerato "un valore a sé stante e fondante" (Alleanza nazionale, Congresso nazionale, Fiuggi 25-29 gennaio 1995, Tesi politiche approvate dal congresso). Sul piano più immediatamente politico, la manifestazione maggiormente significativa di questo indirizzo di pensiero è stata l'affermazione del presidente del Senato M. Pera, secondo il quale, essendo implicito nel principio democratico il rifiuto di qualsiasi istanza con esso inconciliabile, la Repubblica e la Costituzione non vanno più definite come "antifasciste", ma "democratiche" tout-court (15 dicembre 2003).
Di fronte a questo incalzare di posizioni, indicate come 'antiantifasciste' o 'postantifasciste', la difesa dell'a. è consistita in una differente interpretazione dei dati della storia: a studiosi e commentatori contrari a una radicale separazione tra presente e passato della democrazia italiana è parso che diverse tesi elaborate in precedenti fasi della vita intellettuale del Paese potessero superare il vaglio delle critiche, riaffermando così il valore positivo dell'a. come lievito della rinascita democratica dell'Italia, luogo storico in cui si formò un ceto politico in grado di proporsi come nuovo gruppo dirigente nazionale dopo la sconfitta militare, esperienza decisiva per l'avvicinamento alla democrazia di culture politiche prima refrattarie. È emersa però anche la convinzione che il sommovimento ideologico in atto segnalasse l'usura di parti pure significative della rappresentazione dell'a. trasmessa a partire dal dopoguerra dalla cultura a esso ispirata, e questo non solo a causa dello scorrere del tempo, ma per l'intrinseca debolezza di quegli assunti, sicché la crisi dell'a. era un'occasione per sottoporre a revisione critica il cosiddetto paradigma antifascista, prendendo le distanze da moduli retorici, semplificazioni concettuali, parzialità e reticenze, funzionali in passato a esigenze di legittimazione delle forze politiche antifasciste, ma ormai in contrasto con i progressi della ricerca storica e con l'affinamento del giudizio critico sul passato.
Per quanto riguarda la vexata quaestio del nesso antifascismo/comunismo, se la funzione democratica esercitata dall'a., e dal comunismo al suo interno, nella lotta per il ripristino delle libertà, era motivo per respingere la pretesa di annullare l'a. in nome dell'anticomunismo, per una valutazione complessiva del fenomeno occorreva però anche considerare che la forma storicamente assunta dall'alleanza antifascista con l'inclusione dell'URSS, come il richiamo esercitato dal dispotismo sovietico sui partiti comunisti, compresi i più contaminati dal potenziale democratico della lotta al fascismo, avevano impedito all'a. di risolversi in un progetto di liberazione integrale.
Oltre la rilettura del passato sta però l'interrogativo se all'a., depurato dagli orpelli retorici, si possa ancora riconoscere un posto, in Italia, tra i fattori di una moderna identità democratica o se di esso debba perdersi traccia in una democrazia senza aggettivi o, come pure si è detto, 'senza qualità'. Chi si pone nella direzione indicata dalla prima ipotesi rivendica innanzitutto che oggetto di giudizio e centro del discorso, anziché l'appropriazione ideologica dell'a. durante e soprattutto dopo il fascismo, sia l'a. come movimento reale, scelta di vita ed esperienza concreta di lotta di donne e di uomini, quell'a. che appartiene effettivamente al processo genetico della democrazia repubblicana e che come tale non ne è un mero antecedente, ma un fattore costitutivo: affermazione che non sembra in contraddizione con l'esigenza di rinvigorire il sentimento di appartenenza nazionale, posto che la nazione è realtà storica e che il sentimento di appartenenza a una comunità nazionale comporta anche il sentirsi parte della sua storia e ricavarne un'identità da convertire in energia attiva nel presente. Nessun processo storico, però, è un fluire indifferenziato di eventi: il legame con la storia nazionale richiede, quindi, atti di responsabilità, scelte di valore, distinzioni tra passati diversi, che il trascorrere del tempo può consentire di guardare con più maturo distacco, ma non di eguagliare. È nelle cose che, mutando il quadro storico-sociale, le forme di legittimazione e la tavola dei valori di una democrazia si rinnovino e si espandano oltre il perimetro dei miti di fondazione; tuttavia, è anche vero che "una democrazia vitale mantiene viva la memoria della propria origine" (Rusconi 1995, p. 10).
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