antinomia
La dottrina delle antinomie è parte della Dialettica trascendentale, la terza parte della Critica della ragion pura (➔) di Kant, e illustra con grande efficacia la tesi generale di tutta l’opera, ossia che soltanto l’esperienza è in grado di dare realtà ai nostri concetti. In mancanza di essa, ogni concetto non è che un’idea sfornita di verità e di rapporto all’oggetto, proprio perché quest’ultimo non è dato empiricamente. L’intelletto che pretende di considerare i fenomeni come cose in sé, derogando così dalla norma fondamentale della limitazione dell’uso delle categorie alla sfera dell’esperienza possibile, diventa perciò stesso «ragione», cioè conoscenza illusoria.
Il termine a. viene usato da Kant in riferimento a una delle tre idee della ragione, l’idea di mondo. Le a., ossia le opinioni contrapposte sulle origini e sulla natura del mondo, sono costituite da quattro tesi, alle quali si oppongono quattro antitesi. Ciascuna di queste coppie si riferisce a una delle quattro classi nelle quali Kant suddivide le categorie (quantità, qualità, relazione e modalità). Prima coppia. Tesi: il mondo ha un inizio nel tempo e un limite nello spazio; antitesi: il mondo non ha né inizio nel tempo né limiti nello spazio, ma è infinito sia nel tempo sia nello spazio. Seconda coppia. Tesi: tutto nel mondo consta di elementi semplici; antitesi: nel mondo non vi è niente di semplice, tutto è composto. Terza coppia. Tesi: vi sono nel mondo delle cause agenti con libertà; antitesi: nel mondo non vi è libertà, ma tutto accade esclusivamente secondo la necessità delle leggi fisiche. Quarta coppia. Tesi: nel mondo vi è un essere necessario come sua causa; antitesi: non esiste un essere assolutamente necessario né nel mondo, né fuori del mondo come sua causa. Ognuna di queste tesi viene dimostrata mediante la confutazione dell’antitesi e viceversa. Kant definisce tali contrasti «opposizioni dialettiche», ossia opposizioni di termini contrari, e non «opposizioni analitiche», cioè opposizioni di termini contraddittori, perché esse affermano qualcosa di più di quanto la contraddizione richiede. Kant presuppone la distinzione – fissata dalla logica aristotelica – fra contrari (bianco/nero) e contraddittori (bianco/non bianco), e il suo scopo è quello di stabilire che tesi e antitesi, in ciascuna delle quattro a., sono entrambe false, perché fanno riferimento a un concetto illusorio. Infatti, dal momento che «il mondo» come insieme di tutti i fenomeni fisici «non esiste per nulla», neppure esiste come un tutto infinito o come un tutto finito. L’idea di mondo – come le altre idee della ragione, io e Dio – non è altro che il prodotto della erronea sostantificazione o ipostatizzazione che la ragione, nel tentativo illusorio di liberarsi dal peso dell’esperienza, effettua nei confronti di quelle che sono solo idee regolative, aspirazioni a una completezza delle nostre conoscenze che tuttavia non potrà mai essere raggiunta.
Anche la ragion pratica ha la sua a. che consiste nella impossibilità di considerare la felicità tanto come causa quanto come effetto della virtù. Se essa fosse causa della virtù, non ci sarebbe più virtù, bensì soltanto azione interessata; ma essa neanche può essere effetto, perché «la connessione pratica delle cause e degli effetti, come conseguenze della determinazione della volontà, non si conforma alle intenzioni morali della volontà, ma alla cognizione delle leggi naturali, e al potere fisico di usarle per i propri fini». La soluzione di questa a. è analoga a quella della terza a. della ragione teoretica.
Nella Critica del giudizio (➔) Kant ammette una dialettica non del gusto, ma della critica del gusto considerata nei suoi principi. Essa dà luogo a una antinomia. Tesi: il giudizio di gusto non si fonda sopra concetti, perché altrimenti di esso si potrebbe disputare (decidere mediante prove); antitesi: il giudizio di gusto si fonda sopra concetti, perché altrimenti non si potrebbe contestare, qualunque fosse la diversità dei giudizi (non si potrebbe pretendere alla necessaria approvazione altrui). La soluzione di quest’ultima a. è analoga a quella dell’a. della ragion pratica. Kant ne conclude che le a. ci costringono a guardare al di là del sensibile e a cercare nel sovrasensibile il punto di unione di tutte le nostre facoltà a priori; poiché non resta nessun’altra via d’uscita per mettere la ragione d’accordo con sé medesima. Un’ultima a. s’incontra nel giudizio teleologico (Critica della ragion pura, Dialettica trascendentale, II, cap. II; Critica della ragion pratica, parte I, II, cap. I-II; Critica del giudizio, parte I, sez. II e parte II, sez. II; Prolegomeni ad ogni futura Metafisica, §§ 50-54).
Alla dottrina kantiana delle a. si riallacciò Hegel, definendole il momento dialettico della logica, in cui viene avvertita «la necessità della contraddizione». Da questo punto di vista – egli precisa – l’a. non si trova soltanto nei quattro oggetti particolari presi dalla cosmologia, ma in tutti gli oggetti, in tutte le rappresentazioni, in tutti i concetti, in tutte le idee perché la contraddizione si trova ovunque. Hegel vanifica, in sostanza, la distinzione, prima aristotelica e poi kantiana, tra contraddittori e contrari, affermando che i contrari sono anche contraddittori e viceversa. Questa indistinzione gli permette non solo di interpretare la dottrina kantiana delle a. come il precedente immediato della logica dialettica, ma anche di dare concretezza all’intero sistema, presentando continuamente i contrari – quindi le specifiche articolazioni dell’Idea – come generati dai contraddittori per via puramente logica (il procedimento di «interpolazione» denunciato da F.A. Trendelenburg e dal giovane Marx).
Al di là del suo ricorrere nei secoli e del suo periodico riproporsi nel pensiero di molti grandi pensatori, il tema delle a. non subisce cambiamenti radicali fino alla fine del sec. 19°. Ciò era dovuto soprattutto all’insolubilità, nei termini della logica aristotelica, della maggior parte delle a. conosciute. In sostanza tali problemi venivano considerati ‘fallacie’ ineliminabili dovute a errori o a imprecisioni del linguaggio, quando non argomenti pretestuosi messi in campo dagli scettici per dimostrare la generale inaffidabilità del discorso razionale. Una prima vera svolta si determina nel 1899 con la scoperta, a opera del giovane Russell, dell’a. che porta il suo nome. L’a. di Russell infatti si presenta come un paradosso del tutto nuovo che colpisce al cuore una delle teorie in quel momento in più grande espansione: il logicismo di cui lo stesso Russell sarà paladino e che si propone di ridurre matematica e logica a fondamenti comuni, attraverso la teoria delle classi. In sintesi il filosofo britannico scopre che, se ogni oggetto può essere definito in termini di classi e il numero delle classi è, di conseguenza, infinito, ed è quindi possibile definire una classe (o insieme ordinato) a partire da una qualunque proprietà logica, si possono individuare classi caratterizzate da un comportamento «sgradevole». Se, per es., si tenta di definire la «classe di tutte le classi che non si appartengono» (che chiameremo R), ci si deve porre il problema se tale classe goda o meno della proprietà riflessiva, se cioè appartenga o meno a sé stessa. Ora se R appartiene a R allora è una classe che non si appartiene. Ma se non si appartiene, di conseguenza gode della proprietà R e dovrebbe appartenere a R. La scoperta di tale a. provocò una crisi anche personale nel filosofo tedesco Frege, che, in pratica, suggerì semplicemente di considerarla un’eccezione. Russell invece continuò a studiare il problema, arrivando in seguito a proporre vari modi per tentare di risolvere quello che nel frattempo era divenuto il ‘problema delle antinomie’. Infatti, a partire da quella prima scoperta, diverse altre a. vennero identificate o riscoperte, conducendo la logica all’inizio del Novecento a un vero e proprio momento di crisi. Solo a partire dagli anni Venti, infatti, i logici d’Europa cominciarono a sviluppare teorie che consentivano il superamento di molte a. soprattutto attraverso l’elaborazione di linguaggi multilivello che permettevano di risolvere le a. determinate da contraddizioni del linguaggio (come le due riportate sopra) o, addirittura, attraverso l’elaborazione di logiche cosiddette polivalenti, cioè con più di due valori di verità (vero e falso), dette anche ‘non aristoteliche’ o ‘non aristippee’ (ma esistono differenze fra queste ultime due definizioni). La soluzione delle a. da punti di vista differenti da quello critico ha costituito oggetto particolare di studio delle filosofie postkantiane.