Tecnica e abilità di presentare gli argomenti adatti a dimostrare un assunto, a persuadere un interlocutore.
Il termine e il concetto di διαλεκτικὴ τέχνὴ, propriamemte «arte dialogica», risale al 5° sec. a.C., a quell’ambiente socratico in cui il metodo del discutere per brevi domande e risposte fu contrapposto al sistema sofistico del lungo discorso, con cui l’oratore, adoperando ininterrottamente la sua forza di persuasione, mirava a convincere chi ascoltava. In Platone la d. divenne la conoscenza dei rapporti tra le idee. Riflettendo sulle difficoltà che nei riguardi della sua dottrina delle idee nascevano dalla problematica dell’eleatismo e in particolare dalla rigorosa esclusione parmenidea del non essere dall’essere, Platone trasformò quest’ultima antitesi in quella dell’«identico» e del «diverso» e considerò quale suprema conoscenza del «dialettico» quella dei rapporti di identità e diversità delle varie idee, così il concetto di d. rimase da allora in poi legato a quei problemi del rapporto logico fra l’identità e l’alterità, fra l’identità e la contraddizione, fra l’affermazione e la negazione, che ancor oggi costituiscono il tema della dialettica.
Il termine d. assunse un significato negativo in Aristotele, che, analizzando le varie forme dell’argomentazione nella sua «analitica», riservò alla «dialettica» la considerazione delle forme argomentative imperfette, perché prive di rigorosa necessità; e analoga svalutazione tornò a manifestarsi in I. Kant, che dopo aver studiato nell’«analitica trascendentale» il retto uso delle categorie nell’esperienza, considerò nella «dialettica trascendentale» gli errori e le antinomie a cui l’intelletto andava incontro quando pretendeva di valicare i limiti dell’esperienza possibile. Gli idealisti postkantiani tornarono invece a dare valore massimo alla d., in cui videro la forma fondamentale non solo del pensiero ma anche della realtà. J.G. Fichte fece corrispondere il processo dialettico, articolato nei tre momenti della tesi, dell’antitesi e della sintesi, allo sviluppo teleologico dell’Io che, essendo un atto, deve limitarsi distinguendosi dal non-Io, e poi superare via via le contraddizioni che incontra, determinando esso stesso il non-Io, in modo pratico. F. Schelling affermò l’importanza della d. per il superamento dell’antinomia tra l’assoluto e le forme finite. G. Hegel, introducendo nell’assoluto il divenire, portò a perfezione la d., quale schema dell’essere, che dispiega, per mezzo della negatività, le sue determinazioni e poi raccoglie in sé tale sviluppo. Varie correzioni e riforme subì la d. hegeliana nelle formulazioni di L. Feuerbach, di S. Kierkegaard e, soprattutto, di K. Marx. Quest’ultimo vide nella dialettica hegeliana un apriorismo idealistico, che ipostatizza i momenti ideologici e sovrastrutturali, concependoli come i soggetti reali della storia umana e propose di ricercare la genesi di quei momenti nello sviluppo della società civile.
In Italia, dopo la revisione che B. Spaventa fece di alcune categorie della logica hegeliana, B. Croce distinse un «nesso» o «dialettica dei distinti», per cui lo spirito, secondo un processo circolare, passa da un grado all’altro senza annullare il precedente, dalla «dialettica degli opposti» che sintetizza la tesi e l’antitesi nella sfera concreta di ogni grado. G. Gentile trasferì la dialettica dal logo ipostatizzato e contemplato come oggetto di pensiero (quale era in Hegel) all’atto del pensare, o processo di reale formazione dell’individuo, il quale in tanto è, in quanto non è, e diviene, ossia si attua.
È definita teologia d. (o della crisi) quella di K. Barth, F. Gogarten ed E. Thurneysen, che ha trovato numerosi seguaci presso teologi ed esegeti del protestantesimo tedesco. Il termine d. si riferisce al fatto che il discorso teologico può svolgersi solo attraverso una continua contrapposizione di tesi ad antitesi nell’intento, mai esaurito, di trascendere il limite del finito in cui si muove ogni discorso umano; questo processo tende pertanto a superare le forme logiche del conoscere e le sue consuete forme espressive.