La c. nella filosofia antica è concepita come un processo le cui modalità vengono diversamente interpretate: secondo la concezione di Pitagora, ripresa successivamente da Eraclito e da Empedocle, c. è azione di un elemento omogeneo su un altro (si conosce il «simile con il simile»), mentre per Anassagora gli elementi in questione risultano opposti (si conosce infatti il «contrario con il contrario»). Platone, riprendendo la problematica dei presocratici, svolge compiutamente una teoria della c. come identificazione, fissando altresì l’oggetto di essa: su questa base diventa possibile distinguere la c. vera e valida dalla pseudoconoscenza e nel contempo ammettere una serie di gradi dell’attività conoscitiva a seconda del grado di realtà degli oggetti che essa coglie: vera c. è quella delle idee; essa si rivolge all’essere e nella sua forma più alta è c. del bene. Anche Aristotele intende la c. come identificazione, processo che si risolve nell’identità del soggetto che conosce e dell’oggetto che è conosciuto, e oggetto della c. è l’essere, considerandosi nel contempo come c. vera soltanto quella che coglie l’universale.
La tesi per cui la c. è processo d’identificazione si mantiene sostanzialmente immutata sia nella speculazione post-aristotelica sia nella scolastica. Per Alberto Magno la c. è assimilazione («simili simile cognoscimus»), per s. Tommaso adeguazione.
Per R. Descartes, in cui possono rintracciarsi spunti platonici, di quel platonismo che trova sviluppo in teorie come quella dell’illuminazione di s. Agostino (c. immediata di sé stessi e della verità per illuminazione divina), la c. è essenzialmente un ‘vedere’: il suo oggetto è l’idea, le cui caratteristiche sono la chiarezza e la distinzione, mentre il suo correlato fondamentale è l’evidenza. Questa riduzione della c. a conoscenza di idee non altera comunque la base realistica della concezione gnoseologica cartesiana, dato che l’idea è concepita per lo più come immagine della realtà. Descartes ammette tuttavia un altro strumento di c., cioè la deduzione, che se è in qualche modo riconducibile all’‘intuito’, rende però possibile la c. dell’ordine e della successione.
La distinzione, effettuata da B. Spinoza, di vari tipi di c. si fonda su un’analoga concezione, e così la problematica di una c. adeguata o inadeguata. G.W. Leibniz considera accanto a una c. a priori anche una c. delle rappresentazioni, consistente nella concordanza di queste con le cose. Se lo schema è ancora quello identificatorio, la c. è vista tuttavia non solo come identificazione con i singoli elementi, ma anche, in senso lato, con l’ordine che tra di essi si costituisce. Per J. Locke piuttosto che in una non verificabile adeguazione, la c. consiste nella reciproca connessione delle rappresentazioni; analogamente G. Berkeley concepisce la c. come connessione di rappresentazioni conforme a norme; D. Hume riduce la c. a connessioni di rappresentazioni in base all’esperienza, spiegate con l’abitudine.
Per I. Kant la c. è una complessa interazione di sensibilità e spontaneità, elementi a posteriori ed elementi a priori, un’operazione di sintesi. Le leggi a priori delle connessioni conoscitive sono le leggi stesse di una realtà che non è più vista come trascendente, ma come fenomenica. Conseguentemente l’oggetto non è oggetto assoluto, cosa in sé, ma fenomeno. Per J.G. Fichte invece, e per l’idealismo tedesco in generale, la c. è vista come processo che pone o produce il proprio oggetto: in questo caso, attuata l’eliminazione di qualsiasi realtà al di fuori del soggetto conoscente, si avrà esclusivamente un’interazione dell’io con sé medesimo. Nella filosofia di G.W.F. Hegel, il conoscere è l’attività in cui si realizza l’unità del soggettivo e dell’oggettivo, momento del venire a sé stesso dell’Assoluto come idea.
Persino la teoria linguistica del primo L. Wittgenstein presuppone una teoria della c. come identificazione, sulla base di un’impostazione realistica tradizionale di tipo aristotelico. Radicalmente diversa la posizione di E. Husserl, per il quale la c. è un rapportarsi all’oggetto, in cui questo si «presenta» nella sua datità originaria; come «riempimento di un’intenzione significativa» essa solo allora è evidente, quando l’oggetto sia dato intuitivamente. Allo schema dell’identificazione con l’oggetto si sostituisce quello del «venire in presenza» e al suo modo di darsi (Gegebenheits;weise), diverso a seconda delle diverse zone ontologiche, si fa corrispondere un tipo diverso di conoscenza.
Una ripresa di teorie kantiane è invece la posizione della scuola di Marburgo, specie quella di E. Cassirer (influenzata dagli sviluppi della scienza e dalle riflessioni epistemologiche), per cui la c. è il processo che consente il passaggio dall’immediatezza della sensazione e della percezione alla ‘mediatezza’ di categorie puramente mentali, processo mai compiuto, in cui le variabili dell’esperienza sono continuamente sostituite da costanti, in una connessione funzionale dei dati.
Sia in M. Heidegger, che sviluppa in modo peculiare alcune suggestioni fenomenologiche, sia nel pragmatismo di J. Dewey, il problema della c. come rapporto tra soggetto e oggetto sembra definitivamente superato. Per il primo, la c., vista come ‘trascendenza’ verso l’oggetto, è un modo tra gli altri di «essere-nel-mondo», mentre per il secondo la c. si riduce a essere il momento terminale di un processo di ricerca: gli oggetti sono concepiti come reali solo in dipendenza da certe operazioni che hanno permesso di risolvere una situazione problematica costituendoli appunto come oggetti, in senso lato. Svanisce così, con l’eliminazione dei termini filosofici tradizionali (e la sottolineatura del momento operativo), qualsiasi problema relativo alla natura della c., lasciandosi piuttosto aperto il campo a una molteplicità di problemi particolari delle singole scienze, oggetto di specifiche ricerche metodologiche.
Nell’ambito della teoria della c. (detta anche epistemologia, secondo un uso ormai consolidato nella tradizione angloamericana e nella letteratura filosofica) una delle svolte più rilevanti è il riorientamento di tipo naturalistico-biologico cui si è assistito negli ultimi decenni del 20° secolo. Tra i programmi di ricerca più conseguenti e articolati, nell’obiettivo di fornire un’immagine naturalistica dei processi cognitivi, va innanzitutto ricordato quello dell’ epistemologia evoluzionistica, dove il ricorso alle categorie biologiche evoluzionistiche introdotte da C. Darwin non si riduce, come spesso in passato (per es., nel darwinismo sociale), a una loro estensione metaforica, quando non metafisica, ad ambiti estranei alla biologia. L’idea fondamentale che informa l’approccio evoluzionistico alla c. è che i processi cognitivi, al pari delle altre capacità animali e umane, non siano altro che funzioni estremamente complesse sviluppatesi nel corso della filogenesi per assicurare la conservazione della specie. In tale prospettiva la vita stessa può essere considerata come un processo conoscitivo. Secondo K. Lorenz, che insieme con K.R. Popper e D.T. Campbell è stato uno dei maggiori rappresentanti dell’orientamento epistemologico evoluzionistico, l’attività fondamentale degli organismi viventi è quella di immagazzinare ‘informazioni’ sull’ambiente per meglio adattarsi a esso. Si tratta naturalmente di un processo caratterizzato tanto dal caso quanto dalla ‘sperimentazione’ cui l’organismo sottopone le sue informazioni. Non sempre tale sperimentazione ha un esito positivo: la sopravvivenza è generalmente una funzione dell’adattamento riuscito e questo dipende, per Lorenz, dalla capacità di assimilare e sperimentare le informazioni giuste.
L’epistemologia evoluzionistica di Popper vede nel meccanismo di tentativo ed errore l’attività di ogni organismo e la fonte di ogni c.; le stesse ipotesi e teorie scientifiche che determinano il progresso della c. non sono che tentativi di adattamento a un ambiente, con una differenza di rilievo tra l’uomo e gli altri organismi naturali: laddove la selezione elimina l’organismo che propone una soluzione sbagliata, l’uomo è in grado di ‘far morire’ i propri prodotti (ipotesi e teorie) al suo posto; l’attività scientifica si caratterizza così come eliminazione selettiva delle ipotesi errate (soluzioni inadatte) e conservazione selettiva di quelle corrette o vere (soluzioni adatte).
L’obiettivo di fornire un’articolata teoria evoluzionistica della c. è stato perseguito su basi strettamente psicobiologiche da Campbell, al quale si devono contributi di rilievo sull’articolazione del modello evoluzionistico sia nell’analisi della percezione e dei processi induttivi sia nella teoria delle ‘aspettative innate’ che, prodotte dalla filogenesi, caratterizzano gli organismi in quanto soggetti conoscitivi.
Le prospettive evoluzionistiche in campo epistemologico vanno collocate, senza peraltro esaurirlo, nel quadro di quella che W.V.O. Quine definiva epistemologia naturalizzata, locuzione con cui il filosofo statunitense indicava un progetto di ricerca sull’attività conoscitiva rientrante a pieno titolo nella sfera delle scienze positive e come tale radicalmente innovativo rispetto alla gnoseologia tradizionale che aveva perseguito l’obiettivo di fondare filosoficamente su principi definitivi e indubitabili l’attività conoscitiva. Quine sosteneva, in una forma che sarebbe diventata paradigmatica del suo approccio alla teoria della c., che ogni discorso sensato sulla c., dai più elementari livelli percettivi fino all’elaborazione di sofisticate teorie scientifiche, non può che essere basato sulle risorse, gli strumenti e i risultati delle scienze stesse. Il programma di Quine prevedeva naturalmente una fervida cooperazione tra le più varie scienze naturali, dalla psicologia comportamentista (di tipo skinneriano) alla neurofisiologia, dalla biologia evoluzionistica alle scienze del linguaggio.
Per quanto influenti, le teorie naturalistiche della c. sono state spesso criticate. H. Putnam, per es., ha sottolineato come l’epistemologia evoluzionistica poggi in ultima analisi su una inaccettabile concezione realista-metafisica della verità, trascurando la dipendenza della c. dall’inevitabile pluralità delle descrizioni che è tipica dell’attività cognitiva umana. Gli approcci ‘biologistici’ e causali non riuscirebbero inoltre a rendere conto in modo adeguato delle considerazioni di accettabilità razionale delle credenze e, quindi, degli aspetti normativi e argomentativi che sovrintendono all’attività epistemica. D’altra parte, secondo S. Stich, la tesi che i processi inferenziali e le capacità di pervenire a credenze vere siano un prodotto dell’evoluzione naturale si basa su un’idea eccessivamente ottimistica della razionalità umana. Essa attribuirebbe a ideali normativi (appartenenti a una certa cultura) lo status di descrizioni biologico-naturalistiche, estendendo ai meccanismi biologici che presiedono all’adattamento degli organismi requisiti di razionalità che in realtà non trovano in quei meccanismi perfetta esemplificazione: strategie che conducono a inferenze sbagliate o a credenze false si rivelano non di rado più adattive rispetto a strategie perfettamente razionali.
Il dibattito ha visto in qualche modo schierati tre orientamenti: uno di tipo naturalistico (per lo più biologico-evoluzionistico); un altro di tipo culturalistico o postmodernista, secondo cui la c. è fondamentalmente un’attività mediata dalle regole, dalle convenzioni e dalle presupposizioni culturali vigenti in una data comunità o gruppo sociale; un terzo di tipo cognitivo, volto a individuare (di solito tramite simulazione al computer) gli specifici processi psicologici che sovrintendono all’acquisizione e all’utilizzazione della conoscenza.
Tra gli approcci di tipo tradizionale alla teoria della c. va menzionata la cosiddetta teoria affidabilista della c., che ha goduto di una certa diffusione negli anni 1980. Tale teoria intende fondamentalmente porre dei vincoli alla concezione tradizionale secondo cui l’autentica c. consiste nella credenza vera giustificata, una concezione che fornirebbe condizioni necessarie ma non sufficienti per la c. vera, dato che potrebbero darsi credenze vere ma giustificate solo in modo accidentale, quindi prive di valore conoscitivo. Più di un autore ha individuato nell’affidabilità dei processi cognitivi coinvolti la garanzia per la c. autentica. Si possono ricordare, tra questi, D.M. Armstrong, R.E. Nozick e A.I. Goldman. Quest’ultimo ha inoltre sottolineato come l’individuazione dei processi cognitivi che permettono di generare credenze vere non possa essere di esclusiva pertinenza della filosofia, ma coinvolga necessariamente anche le indagini nel campo della scienza cognitiva, dal quale la filosofia può trarre utili indicazioni per un’autentica comprensione della razionalità umana.
Nell’ingegneria gestionale, la gestione della c. (traduzione dall’inglese knowledge management) è una disciplina nata intorno alla metà del 20° sec. con l’obiettivo di individuare le pratiche e gli strumenti grazie ai quali le organizzazioni complesse possono gestire in modo codificato, centralizzato e strutturato le c. che le persone a esse appartenenti detengono o acquisiscono nell’esecuzione dei compiti loro affidati. Questa disciplina ha ricevuto negli ultimi anni un notevole impulso perché, con la crescente globalizzazione dei mercati e con la progressiva flessibilità introdotta nelle modalità di lavoro delle persone, diventa particolarmente cruciale per le organizzazioni dotarsi di meccanismi che ne preservino e ne strutturino il patrimonio conoscitivo, diventato nel frattempo sempre più importante come fattore competitivo. Un altro stimolo decisivo all’adozione di queste pratiche è stato fornito dallo sviluppo dei sistemi informativi, delle reti telematiche e di Internet che hanno allargato gli orizzonti comunicativi delle organizzazioni e generato nuove comunità di lavoro e di interessi (le cosiddette communities), rendendo più ‘trasparenti’ le barriere tra le diverse organizzazioni e fornendo al contempo una serie di strumenti informatici che favoriscono a loro volta la gestione della conoscenza.