Indirizzo di pensiero sorto negli USA intorno al 1870 e diffusosi più tardi in Europa, dove ebbe il maggior successo nei primi decenni del Novecento.
Il termine (pragmatism) deriva, come disse il fondatore di questa corrente C.S. Peirce, dalla ripresa della distinzione kantiana tra pratico (il razionale nella sua autonomia come principio a priori della legge morale) e pragmatico (il razionale come mezzo per raggiungere uno scopo). Tuttavia la concezione pragmatica della ragione è usata qui in un contesto del tutto diverso da quello kantiano e fortemente influenzato dalla teoria dell’evoluzione e dalla concezione della coscienza come forma di comportamento volto alla difesa e all’affermazione della vita. La ricerca si configura quindi come la risposta a una sorta di ‘irritazione’, ossia al turbamento di una credenza a cui corrispondeva un’abitudine, per realizzare una nuova credenza capace di fondare una nuova abitudine più adeguata ed efficace. Così il p. rivolge una critica radicale al pensiero cartesiano, soprattutto al criterio di verità secondo cui sarebbe possibile cogliere intuitivamente il carattere chiaro e distinto delle idee.
Come dice il celebre saggio di Peirce How to make our ideas clear (1878), il problema è esattamente l’opposto, e cioè di rendere chiare le nostre idee, e questo non può avvenire mediante l’intuizione e l’introspezione. Si tratta invece di definire il significato di un’idea, scoprendo quali abitudini o conseguenze essa produca. Emergono così due aspetti essenziali del metodo pragmatistico: da un lato la ‘pubblicità’ della verità e dei suoi criteri, nel senso che si tratta d’individuare nessi razionali verificabili intersoggettivamente; dall’altro l’importanza determinante della dimensione temporale o più esattamente del futuro, in quanto il significato di un’idea non può mai essere ritrovato nella sua conformità a un fatto antecedente (anche i cosiddetti ‘dati’ dell’esperienza e le idee ‘semplici’ di cui parlava l’empirismo tradizionale sono il risultato di operazioni di ricerca), ma soltanto nelle conseguenze a cui può dar luogo la sua adozione.
Alle critiche rivolte al p. da quanti vollero scorgere in questa filosofia un’esaltazione indiscriminata del successo connessa ai caratteri utilitaristici della società americana di fine Ottocento, Peirce reagì non soltanto proponendo un nuovo nome per la sua teoria, e cioè il termine ‘pragmaticismo’ (The issues of pragmaticism e What pragmatism is, 1905), ma soprattutto sottolineando come il p. non sia affatto la glorificazione di fini empirici o particolari, bensì la ricerca di una sempre maggiore razionalità dell’esperienza e del comportamento.
Se le precisazioni di Peirce sul carattere fondamentalmente logico e metodologico della concezione pragmatistica ebbero un seguito nel Novecento, è anche vero che alla fine dell’Ottocento con l’opera di W. James e di F.C.S. Schiller il p. accentuò i suoi aspetti etici e vitalistici. Interessato soprattutto a problemi psicologici, morali e religiosi, James dette infatti al p. una svolta che doveva accostarlo maggiormente alle filosofie della vita e dell’intuizione che si andavano allora diffondendo in Europa. Per James quello che conta è il carattere personale e continuo della coscienza, anzi della ‘corrente di coscienza’ ai cui caratteri deve primariamente rifarsi ogni ricerca. Il campo di riferimento principale del p. si sposta così dalla logica alla psicologia e si afferma una concezione sempre più aperta e complessa dell’esperienza. Oggetto dell’esperienza non sono più soltanto le entità di cui è possibile un concetto determinato, ma anche le relazioni, gli stati di tendenza, di attesa, insomma tutta una serie di sfumature che a una prospettiva intellettualistica sono irrimediabilmente destinate a sfuggire. Su questa linea, che per altro verso porta a un ‘empirismo radicale’ (svolto da James in alcuni scritti degli ultimi anni della sua vita), s’innesta il tema della ‘volontà di credere’, ossia del fatto che, rispetto a certi problemi essenziali, veramente decisiva non è la conoscenza, ma l’azione o quanto meno l’atteggiamento, la decisione dell’uomo. Tipico caso il dilemma tra determinismo e indeterminismo, che non potrà mai essere deciso da considerazioni puramente teoretiche e dal quale non c’è scampo se non in senso pratico, e cioè riconoscendo che l’indeterminismo, l’affermazione della libertà, è una concezione più favorevole a promuovere un’azione che dia maggiore significato alla vita. Analogamente non c’è possibilità di decisione puramente teoretica tra ottimismo e pessimismo circa il senso complessivo dell’universo, ma è possibile e auspicabile invece una forma di ‘migliorismo’, ossia la convinzione che il bene dell’universo non è indipendente dal modo in cui l’uomo si impegna per esso.
Da questo punto di vista infine, ancora con James, il p. giunge a elaborare una concezione specifica della religione connettendola, da un lato, con la volontà di credere, con il migliorismo, per cui la stessa divinità è intesa come principio attivo, ancora aperto, non compiuto, con cui l’uomo può e deve collaborare, e dall’altro con il concetto particolarmente ampio di esperienza, per cui viene riconosciuta la legittimità e irriducibilità non solo dell’esperienza religiosa in generale, ma anche delle varie forme di esperienza religiosa. L’accentuazione del momento pratico per la comprensione della stessa verità logica all’interno del p. ha avuto poi la sua formulazione forse più radicale nell’‘umanismo’ dell’inglese Schiller, dove il criterio di scelta in base a valori e interessi umani è considerato determinante per risolvere non solo i problemi di cui non è possibile una decisione strettamente teorica, ma per l’intero processo di pensiero e di conoscenza.
Se l’accentuazione dell’aspetto pratico e operativo del p. poteva portare a tendenze addirittura attivistiche come quelle che si diffusero in Italia a opera di G. Papini soprattutto nei primi decenni del Novecento, non mancarono anche in Italia richiami a una concezione più sobria e rigorosa del p. come metodo di ricerca capace di andare oltre tanto al positivismo quanto all’idealismo. In questo senso è di particolare importanza l’opera di G. Vailati, che non solo insistette sugli aspetti logici e metodologici più specifici del p. di Peirce, ma mise in luce numerosi punti di contatto tra il metodo del p. e gli sviluppi più recenti della logica matematica, sottolineando il carattere ipotetico delle proposizioni generali e mostrando interesse per lo sviluppo storico delle ricerche scientifiche.
Tuttavia la ripresa più importante del p. nel Novecento è costituita dallo ‘strumentalismo’ di J. Dewey, anche per le sue vastissime implicazioni etiche, politiche e pedagogiche e per l’influenza esercitata in campo mondiale a favore della diffusione di una ‘scuola attiva’. L’essenza del p. consiste nel riconoscere la funzione operativa del pensiero, per cui nulla in astratto è un ‘dato’ o è un ‘problema’, ma quello che in una certa situazione disturbata, indeterminata, è un problema, una volta chiarito e risolto, può diventare un dato in un’altra situazione e viceversa. Il p. si pone quindi in una posizione diversa tanto da quella dell’empirismo quanto da quella dell’idealismo. Contro l’empirismo, il p. nega la riduzione del pensiero a induzione o a convenzione e afferma che nulla ci è mai dato in modo discreto, separato, oggettivo, ma che gli oggetti sono eventi dotati di una funzione evidenziale in quanto inglobati in un nesso di relazioni che corrispondono a progetti operativi. Contro l’idealismo di tipo trascendentale il p. rivendica invece il carattere evolutivo del pensiero e il suo nesso con una situazione indeterminata di cui è la soluzione mediante la simbolizzazione di comportamenti atti a determinarla, per cui non ci può essere nessuna serie di forme o categorie a priori rigidamente definite. Contro l’idealismo di tipo platonico e contro ogni ontologia di carattere assoluto il p. obietta che l’ipostatizzazione dei risultati della ricerca in idee eterne e immutabili o in strutture assolute della realtà e la loro contrapposizione al mondo concreto dell’esperienza impediscono di cogliere il carattere operativo del pensiero e non fanno altro che riprodurre inconsapevolmente una situazione sociale di divisione storica e classista del lavoro. Se dunque con Dewey il p. ripropone in campo logico-epistemologico la rivendicazione della continuità della ricerca e della sua capacità di autorettificarsi a qualsiasi livello, proprio per il suo carattere sperimentale e strumentale insieme, in campo etico questa rivendicazione si traduce in una vigorosa polemica contro ogni possibile divisione a priori, ontologica, tra fini e mezzi come se ci fossero valori costituiti in sé e per sé e all’uomo non restasse che subordinarvisi.
L’aspetto sociologico-antropologico e quello epistemologico-linguistico del p. hanno avuto interessanti sviluppi rispettivamente con l’opera di G. Mead e con quella di C.W. Morris. Con Mead il p. si configura come ‘behaviorismo sociale’, in quanto la società è considerata come condizione per il sorgere del ‘sé’, ossia della mente individuale, attraverso il linguaggio. Con Morris invece si ha l’incontro tra il p. e il neopositivismo: muovendo dalla concezione pragmatistica del linguaggio e della scienza come formulazioni simboliche di possibili operazioni, Morris approfondisce lo studio della semiotica connettendola con la pragmatica, inserendola così in un campo più vasto di quello dell’analisi linguistica in senso stretto.
Benché il p. abbia concluso la sua parabola nella prima metà del Novecento, molte sue istanze rimangono vive soprattutto in quei settori della filosofia della scienza statunitense che dovevano trarre alimento dall’incontro tra p. e positivismo logico. Notevoli e influenti, da questo punto di vista, le riflessioni di W.V.O. Quine sui criteri che informano l’elaborazione e il controllo delle teorie scientifiche, criteri di semplicità, fecondità e rispondenza agli scopi predittivi ed esplicativi piuttosto che di riduzione (secondo gli originari obiettivi neopositivistici) ai dati osservativi. Da segnalare anche, su un piano più generale, il ‘neopragmatismo’ di R. Rorty e H. Putnam, i quali hanno messo in discussione soprattutto la tradizionale concezione corrispondentistica della verità a favore di un’immagine della conoscenza come corpus di enunciati e credenze che trova i suoi fondamenti nell’intersoggettività. A Rorty, inoltre, si deve il tentativo di una sistematizzazione storica di quella che ha chiamato la «graduale pragmatizzazione del positivismo logico e della filosofia analitica», consistente soprattutto nella concezione del linguaggio come strumento piuttosto che come raffigurazione di un mondo dato da catturare nella sua reale natura.