Complesso di credenze, sentimenti, riti che legano un individuo o un gruppo umano con ciò che esso ritiene sacro, in particolare con la divinità, oppure il complesso dei dogmi, dei precetti, dei riti che costituiscono un dato culto religioso (v. fig.).
Il concetto di r. non è definibile astrattamente, cioè al di fuori di una posizione culturale storicamente determinata e di un riferimento a determinate formazioni storiche. Il termine viene dal lat. religio, parola di discussa etimologia, con cui gli antichi Romani indicavano un tipo di atteggiamento di fronte a determinate cose (per es., tombe o genitori); malgrado i caratteri specifici del concetto romano di religio (religiosum, in latino, è distinto da sacrum), con il cristianesimo il termine si è esteso a tutto quanto riguardava il rapporto dell’uomo con Dio. Da questo concetto d’origine cristiana della r. si è svolto quello della r. in generale.
L’origine storica del concetto ha per lungo tempo impedito un’adeguata comprensione di quelle formazioni culturali che comunemente si chiamano r. e che sono di origini particolari e diverse: non è necessario infatti che una r. implichi un concetto di Dio, abbia articoli di fede, comprenda azioni di culto, né forme di carattere morale; come massimo comune denominatore di ogni complesso chiamato r. si può ritenere il rapporto di un gruppo umano con ciò che esso ritiene ‘sacro’, tenendo tuttavia presente che anche quest’ultimo concetto è indefinibile e storicamente condizionato.
Nella cultura europea fra tardo Rinascimento e Illuminismo si maturò il concetto di r. naturale, intesa come la r. i cui articoli, semplici e universalmente accessibili, sono pienamente conformi alla ragione. Tale r. finisce per articolarsi sul riconoscimento dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima e, soprattutto, in un complesso elementare di leggi morali. Accezione diversa dà all’espressione r. naturale la tradizione teologica, che distingue fra r. naturale e r. rivelata: la prima riferita alle capacità naturali dell’uomo, la seconda fondata invece sulla rivelazione divina che fa conoscere verità e mezzi spirituali che trascendono le possibilità naturali dell’uomo e gli permettono di realizzare un rapporto nuovo con il Dio che si rivela e si dona.
La storia delle r. è lo studio delle r. come prodotti storici; studio indipendente, cioè, da ogni riferimento trascendentale rispetto alla storia, come sarebbero la questione della verità obiettiva o del valore soteriologico che il soggetto religioso può attribuire alla propria r. e che rientrano nella competenza dello studio teologico delle singole r., mentre per la storia delle r. anche l’atteggiamento dei soggetti religiosi costituisce materia di studio dal punto di vista storico.
La storia delle r. come disciplina scientifica non ha, nella pratica, bisogno di una definizione precisa del concetto della r.: sia perché essa parte preferibilmente dalla più larga accezione possibile del termine, per non escludere a priori alcun fenomeno che possa eventualmente interessarle, sia perché, in effetti, la r. si presenta inscindibilmente intessuta nella totalità degli aspetti della civiltà umana. Istituzioni politiche e sociali (come, per es., la regalità o la famiglia), economiche (caccia, agricoltura, mestieri vari), arti, tecniche, costumi, hanno immancabilmente addentellati storici, quando non addirittura le radici stesse, nella r.; anche la visione della natura, dell’ambiente, della storia, presso i singoli popoli, è raramente priva di nessi con idee religiose.
Antichità classica. In una visione d’insieme, limitandosi all’orizzonte culturale europeo, si può dire che gli inizi degli studi storico-religiosi risalgono alla civiltà greca arcaica. La r. diventa oggetto di riflessione per chi non la vive più spontaneamente: così i primi pensatori greci trovano inconciliabili miti e culti con i criteri razionali e morali del pensiero. Contemporaneamente i primi storiografi viaggiatori (Ecateo di Mileto, Erodoto) vengono a conoscere le r. di altri popoli e intuiscono la relatività delle forme religiose. Con Aristotele e la sua scuola si hanno i primi studi sistematici sulle varie religioni. La critica filosofica delle tradizioni religiose e il confronto di r. differenti pone il problema dell’origine delle r., mentre la tendenza dei pensatori a purificare l’idea della divinità da ogni elemento antropomorfico suggerisce di considerare gli dei delle credenze popolari come demoni minori, intermediari tra la vera divinità e gli uomini.
Medioevo. Il primo cristianesimo accoglie volentieri queste teorie, in cui trova armi utili per combattere il paganesimo: allegorie, o personaggi umani o demoni, gli dei pagani non sono dei. Poiché però il confronto delle diverse r. era ormai entrato nella cultura generale, neanche agli apologeti cristiani sfuggivano alcuni elementi comuni tra cristianesimo e r. pagane (soprattutto i misteri). Le spiegazioni in proposito (sviluppate poi nel Medioevo) erano sostanzialmente due: o i pagani antichi avevano avuto sentore della dottrina rivelata a Mosè e l’avevano malamente copiata (teoria del plagio) o Dio stesso, in considerazione dell’ignoranza umana, avrebbe permesso agli antichi Ebrei certe forme pagane del culto che dovevano essere superate successivamente dalla vera religione (teoria della condiscendenza divina). Queste restano le teorie sulle r. per tutto il Medioevo e nel Rinascimento, anche perché la cultura classica resta il fondamento di ogni istruzione. Il contatto con il mondo islamico non produce, in Europa, alcun orientamento nuovo (interpretazione allegorica del Corano).
Età moderna. Soltanto nel 18° sec. un ampliato orizzonte dell’osservazione (dovuto anche ai missionari) e gli studi più approfonditi portano qualche nuova posizione teorica e sollevano nuovi problemi. A G.B. Vico spetta il primato d’intuire l’origine puramente umana e spontanea della mitologia, in cui egli scopre il prodotto di una fantasia primitiva impressionata dai grandiosi fenomeni naturali; Vico è il primo a inserire la r. nell’insieme della civiltà umana. Ma il suo pensiero resta in ombra per lungo tempo, mentre con l’Illuminismo prevale una posizione intellettualistica nell’interpretazione storico-religiosa: la r. naturale, cioè corrispondente allo spirito umano, e non più quella rivelata, starebbe alle basi di tutte le r., le quali tuttavia ne presenterebbero deformazioni dovute a interessi delle classi sacerdotali e alla debolezza umana. Sempre al 18° sec. risalgono anche le origini di quell’evoluzionismo che dovrà dominare il campo degli studi storico-religiosi per un intero secolo: D. Hume è il primo a sostenere che il politeismo, appunto in quanto più primitivo del monoteismo, è più antico di quest’ultimo, che rappresenterebbe un progresso della mente umana.
La prima metà del 19° sec. porta a una maturazione progressiva degli studi contemporaneamente su due linee: anzitutto su quella dei criteri scientifici della ricerca (formazione della filologia, archeologia, storiografia moderne) e in secondo luogo su quella dell’approfondimento teorico, sempre più libero dalle eredità classiche e teologiche. Si arriva così alla seconda metà del 19° sec., in cui si forma una vera storia delle r. come disciplina scientifica autonoma. La scoperta linguistica della famiglia di lingue indoeuropee e la relativa teoria del ‘protoindoeuropeo’ stanno alle basi della teoria storico-religiosa di un’originaria r. protoindoeuropea che, in base alle r. dei singoli popoli di lingua indoeuropea, M. Müller e E.B. Tylor tentano di ricostruire. La base teorica di questo nuovo indirizzo è l’evoluzionismo, secondo cui l’intero genere umano percorrerebbe una linea unica di progresso, segnato da tappe successive, che si possono determinare nell’animismo, nel politeismo e nel monoteismo.
Età contemporanea. Successivamente anche questo modo di vedere viene superato, soprattutto per l’apporto degli etnologi, che, sul finire del 19° sec. e nei primi anni del 20° sec., al posto di uno schema unico di evoluzione, introducono la distinzione di cicli storico-culturali qualitativamente differenti (L. Frobenius, F. Graebner, B. Ankermann, W. Schmidt). Con ciò i ‘primitivi’ cessano di essere considerati come un grado basso dell’evoluzione lineare e l’interesse degli etnologi, anche dal punto di vista della r., si rivolge piuttosto al carattere qualitativo della mentalità dei popoli primitivi (H. Lévy-Bruhl).
In parte per opera di queste ricerche, in parte di altre (come quelle di R. Otto, condotte particolarmente sulle r. indiane e sul cristianesimo) la r. non è più considerata come una ‘scienza primitiva’, ma rivela il suo carattere di fenomeno spirituale autonomo. La r. viene così interpretata in funzione delle forme d’esistenza dei popoli, e soprattutto della loro organizzazione sociale. Il punto di vista sociologico domina le ricerche di eminenti studiosi francesi (É. Durkheim, M. Mauss, H. Hubert, la cosiddetta scuola sociologica). L’indirizzo funzionalistico trova la propria limitazione nell’esistenza di fenomeni religiosi analoghi in civiltà per ogni altro aspetto differenti: se questi, nell’indirizzo evoluzionistico, formavano la base di una comparazione universale con il presupposto di un progresso lineare e di ‘sopravvivenze’ inerti, nella nuova visione essi costituiscono il fondamento di una nuova fenomenologia religiosa (G. van der Leeuw, M. Eliade). L’apporto degli studi psicologici moderni, specie della psicanalisi, ai problemi storico-religiosi (S. Freud, C.G. Jung, O. Rank) si fa notare del resto anche nell’interpretazione di singole r. storiche (K. Kerényi). Infine l’universalità di singoli fenomeni o strutture religiose, anche nei pochi casi in cui si possa sostenerla, non esclude la storicità della loro formazione.
Oggi, oltre ai problemi metodologici, gli studi storico-religiosi si trovano di fronte alle difficoltà derivanti dalle crescenti esigenze di specializzazione, dato che lo studio di una r. richiede la precisa conoscenza filologica, archeologica, storica e sociale delle civiltà di cui essa fa parte.
Superato nella Costituzione (prima ancora che nell’accordo di modificazione del concordato del 18 febbraio 1984), il principio della r. cattolica come sola r. dello Stato, la giurisprudenza costituzionale ha affermato che, venuto meno il significato originario dell’espressione r. di Stato, la stessa aveva comunque acquisito quello diverso e sufficientemente determinabile di r. cattolica in quanto già r. dello Stato. La legittimità costituzionale del regime di speciale tutela riconosciuto alla r. cattolica rispetto agli altri culti è stata d’altra parte giustificata, pur nella individuazione del sentimento religioso come oggetto di tutela penale, con la sua persistente rilevanza in ragione dell’antica, ininterrotta tradizione del popolo italiano, la quasi totalità del quale a essa appartiene. Il superamento di tale orientamento emerge peraltro dalla sentenza della Corte costituzionale 440/1995, con la quale la norma dell’art. 724, co. 1, che punisce la bestemmia, è stata dichiarata costituzionalmente illegittima limitatamente alle parole «o i simboli e le persone venerate nella r. di Stato». Muovendo dal presupposto che la residua parte della norma è legittima in quanto punisce la bestemmia contro la divinità in genere, proteggendo dalle invettive e dalle espressioni oltraggiose tutti i credenti e le fedi religiose (purché non contrastanti con il concetto costituzionale di buon costume), la Corte ha invece ritenuto in contrasto con i principi dell’eguaglianza di fronte alla legge senza discriminazione di r. (art. 3 Cost.) e della eguale libertà di tutti i culti (art. 8, co. 1) la parte che considerava la bestemmia contro i simboli e le persone con riferimento esclusivo alla r. cattolica. Con sent. 329/1997, la medesima Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 404, co. 1, c.p., nella parte in cui prevedeva, per il reato di offese alla r. dello Stato mediante vilipendio di cose, la pena della reclusione da uno a tre anni, anziché la pena diminuita prevista dall’art. 406 c.p. per chi commette detto reato contro altro culto ammesso dallo Stato. In questa sentenza la Corte ha rilevato che, nella visione costituzionale attuale, non può più riconoscersi alla Chiesa e alle r. cattoliche un valore politico, quale fattore di unità morale della nazione, e ha sottolineato che, con il principio costituzionale della laicità e non confessionalità dello Stato, la protezione del sentimento religioso è divenuta un corollario del diritto costituzionale di libertà di r. (➔ libertà), corollario che deve, naturalmente, abbracciare allo stesso modo l’esperienza religiosa di tutti coloro che la vivono, nella sua dimensione individuale e comunitaria, indipendentemente dai differenti contenuti di fede delle diverse confessioni. La Corte ha, poi, chiarito che il richiamo alla cosiddetta coscienza sociale quale criterio di giustificazione delle differenze fra confessioni religiose operate dalla legge, se può valere come argomento di apprezzamento delle scelte del legislatore sotto il profilo della loro ragionevolezza, è viceversa vietato laddove la Costituzione nell’art. 3, co. 1, stabilisce espressamente il divieto di discipline differenziate in base a determinati elementi distintivi, tra i quali appunto la r., poiché la protezione del sentimento religioso, quale aspetto del diritto costituzionale di libertà religiosa, non è divisibile. Con la successiva sentenza 508/2000, la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo anche l’art. 402 c.p., che puniva con la reclusione fino a un anno chiunque pubblicamente vilipendesse la r. dello Stato, accordando una tutela privilegiata alla sola r. cattolica. La Corte ha affermato che non sono conformi ai principi fondamentali di uguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di r. (art. 3 Cost.) e di uguale libertà davanti alla legge di tutte le confessioni religiose (art. 8 Cost.), nonché al principio supremo di laicità, che caratterizza in senso pluralistico la forma del nostro Stato, l’atteggiamento dello Stato stesso non equidistante e imparziale nei confronti di tutte le confessioni religiose e la mancanza di parità nella protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosca in una fede, quale che sia la confessione di appartenenza.
A seguito dei citati interventi della Corte costituzionale e dell’abrogazione dell’art. 406 c.p. per opera della l. 85/2006, il codice penale italiano, nel titolo IX del libro II, prevede come delitti contro il sentimento religioso: l’offesa a una confessione religiosa mediante vilipendio di persone e danneggiamento di cose (art. 403-04) e il turbamento di funzioni religiose (art. 405).
Guerre di r. Espressione con cui si indicano i conflitti che si svolsero nell’Europa centro-occidentale, fra Stati cattolici e Stati protestanti o fra partito cattolico e partito riformato, dalla pace di Cateau-Cambrésis (1559) alle paci di Vestfalia (1648). In particolare le 8 guerre combattute in Francia fra cattolici e ugonotti dal 1562 al 1598, terminate con l’ascesa al trono di Enrico IV e la concessione dell’editto di Nantes.