Distinzione, diversificazione o differenziazione, operata fra persone, cose, casi o situazioni.
Principio che vieta, in via generale, l’applicazione di un trattamento diverso in situazioni che si presentano sostanzialmente uguali. Nato in ambito internazionale, per contrastare la proliferazione di misure protezionistiche degli Stati, ha trovato massima espressione in ambito comunitario, dove è stato posto in relazione diretta con il principio di libera circolazione di beni, persone, servizi e capitali, che è l’obiettivo della politica comunitaria. Esso rappresenta una garanzia per il soggetto di diritto nei confronti di norme che determinino, come effetto immediato o mediato, differenze nella disciplina normativa prive di obiettiva giustificazione.
Gli art. 90 e seg. del Trattato CE prevedono esplicitamente il principio di non d. fiscale. Con riferimento alle imposte indirette, il legislatore comunitario ha vietato agli Stati membri di mantenere o introdurre imposizioni interne discriminatorie o protezionistiche nei confronti dei prodotti provenienti dagli altri Stati dell’Unione Europea. Il divieto in questione riguarda sia i casi di d. diretta sia quelli di d. indiretta; quest’ultima può essere valutata procedendo a un giudizio di comparazione sull’incidenza effettiva del tributo, rispettivamente sul prodotto comunitario che si ritiene discriminato e su un prodotto nazionale, analogo e comparabile al primo. Per quanto riguarda le imposte dirette, invece, il principio è ricavato per via interpretativa, al fine di garantire ai contribuenti che si trovino nella medesima situazione un eguale trattamento fiscale. Secondo il Trattato, infatti, l’esercizio delle quattro libertà fondamentali non può essere assoggettato a trattamenti restrittivi e discriminatori che non siano giustificati da ragioni di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di protezione della salute.
La giurisprudenza della Corte di giustizia della Comunità Europea ha, tuttavia, elaborato la cosiddetta rule of reason, per tener conto anche di altri interessi nazionali imperativi; in particolare, la Corte ha ritenuto che l’effettività dei controlli tributari, il rispetto del principio di territorialità dei sistemi impositivi e la coerenza del sistema fiscale di uno Stato siano idonei, in determinate condizioni, a giustificare la restrizione di una libertà, purché la misura sia proporzionale all’obiettivo conseguito e non esista una diversa possibilità di raggiungere il medesimo risultato.
Ai sensi dell’art. 43 del d. legisl. 286/1998 (art. 41 l. 40/1998), è considerato discriminatorio ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza, l’origine o la convinzione religiosa. In particolare, il comportamento, oltre a essere oggettivamente discriminatorio, deve avere lo scopo o l’effetto di distruggere, o quantomeno di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica. La definizione è comprensiva sia dei casi di d. diretta, sia di quelli di d. indiretta. Inoltre, non è richiesto lo scopo di perseguire il risultato discriminatorio, essendo sufficiente, per considerare illegittimo il comportamento, il fatto che questo abbia l’effetto di produrre la discriminazione.
Oltre alla tutela civile prevista e disciplinata dalla legge sopra indicata, la legislazione italiana contiene altre norme, di stampo penale, destinate a sanzionare il rischio di d. razziali, etniche o religiose. La l. 654/1975, per es., all’art. 3 punisce con la reclusione da 15 giorni a 3 anni chiunque diffonda idee fondate sulla superiorità o sull’odio, e con la reclusione da 6 mesi a 4 anni chiunque inciti a commettere, o commetta lui stesso, violenza o metta in atto provocazioni, motivate da idee di superiorità razziale, etnica, o religiosa. A scopo preventivo viene altresì punita la semplice partecipazione o assistenza prestata a una qualunque associazione che abbia tra i suoi scopi l’incitamento alla d. ovvero alla violenza. I partecipi sono puniti con la reclusione da 6 mesi a 4 anni e i dirigenti con quella da 1 a 6 anni. Sono previste anche possibili sanzioni accessorie, tra le quali l’obbligo di prestare un’attività non retribuita a favore della collettività.
Il successivo d.l. 122/1993, convertito nella l. 205/1993, ha ampliato la sfera di punibilità dei comportamenti potenzialmente razzisti, in quanto ha disposto il divieto di manifestare in pubbliche riunioni ostentando simboli di associazioni di stampo razzista, pena la reclusione fino a 3 anni. Nei confronti delle persone denunciate o condannate per i reati di propaganda razziale, incitamento alla violenza per motivi razziali, ovvero per partecipazione ad associazioni di stampo razzista, opera il divieto, ispirato da evidenti finalità preventive, di accedere ai luoghi ove si svolgono competizioni agonistiche, pena l’arresto da 3 mesi a 1 anno. Tra le varie norme introdotte da questa legge, è importante ricordare l’art. 3 che ha previsto una particolare aggravante, applicabile quando un qualunque reato è stato commesso per finalità di d., odio etnico ecc., ovvero per favorire un’associazione che di tale d. faccia il proprio scopo.
Sotto il profilo giurisprudenziale, la Corte di cassazione (sent. 44295/2005) ha affermato che, ai fini della configurabilità dell’aggravante in questione, non può considerarsi sufficiente che l’odio etnico, nazionale, razziale o religioso sia stato, più o meno riconoscibilmente, il sentimento che ha ispirato dall’interno l’azione delittuosa, occorrendo invece che questa, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto nel quale si colloca, si presenti come intenzionalmente diretta e almeno potenzialmente idonea a rendere percepibile all’esterno e a suscitare in altri il suddetto, riprovevole, sentimento o comunque a dar luogo, in futuro o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori per ragioni di razza, nazionalità, etnia o religione. Pur essendo contenuta nelle disposizioni del testo unico del 1998, la nozione di comportamento discriminatorio non riguarda soltanto i cittadini stranieri, ben potendo applicarsi anche agli italiani che subiscano d. basate sulla loro razza, colore, ascendenza, origine o convinzioni religiose.
D. dei prezzi Pratica monopolistica (detta anche dei prezzi multipli) che consiste nel porre in vendita a prezzi diversi unità del bene o del servizio prodotte allo stesso costo, in modo da sfruttare meglio la capacità di acquisto dei vari gruppi di consumatori. Un caso speciale della d. dei prezzi è il dumping. D. commerciale (o doganale). Insieme delle politiche (dette anche discriminatorie) consistenti nell’introduzione di tariffe doganali differenziate (d. tariffaria), di contingenti d’importazione (anch’essi differenziati, a seconda del paese da cui provengono le merci), di tassi di cambio multipli e di altri strumenti, che producono l’effetto di deviare o ridurre gli scambi internazionali, provocando una diminuzione del benessere mondiale.
D. dei redditi Diverso trattamento fiscale attuato ai fini di una più equa ripartizione del carico tributario. Si parla di d. quantitativa dei redditi quando l’obiettivo è quello di contenere l’erosione della base imponibile (➔ base), di d. qualitativa dei redditi quando si persegue il rispetto del principio dell’equità verticale.
Tempo di reazione complessa di d. Il tempo che il soggetto impiega per dare, discriminandoli, una risposta differente a stimoli differenti.
Approfondimento:
La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità di Rachele Cera