Stato di benessere fisico e psichico, espressione di normalità strutturale e funzionale dell’organismo considerato nel suo insieme; il concetto di s. non corrisponde pertanto alla semplice assenza di malattie o di lesioni evolutive in atto, di deficit funzionali, di gravi mutilazioni, di rilevanti fenomeni patologici, ma esprime una condizione di complessiva efficienza psicofisica.
Dal punto di vista della bioetica, si può notare che il rapido progresso biomedico dell’epoca contemporanea ha introdotto, accanto alla medicina dei bisogni, la medicina dei desideri. Il dominio del dolore fisico e le promesse della genetica hanno modificato il significato di s. e di malattia, concetti centrali nella definizione della qualità della vita. Le moderne teorie si possono ricondurre a due diverse definizioni: a) qualità della vita intesa come misura di normale funzionamento e di indipendenza dell’individuo; b) qualità della vita come soggettiva soddisfazione per la propria esistenza e come capacità di valutazione di essa. In termini più comuni, nell’attuale società medicalizzata con l’espressione qualità della vita ci si riferisce alla capacità della medicina di preservare e ripristinare il completo stato di s. del soggetto, agli effetti degli interventi terapeutici sui pazienti malati o disabili, alla durata della vita. In particolare nei paesi anglosassoni ha avuto origine il concetto economico di equality of opportunity (pari opportunità), che nella definizione della qualità della vita conferisce un ruolo-chiave alle possibilità di preservare la s. dell’individuo e di prevenire le malattie e l’handicap, considerate un ostacolo alla realizzazione di pari opportunità economico-sociali. In particolare, da quando nel 1946 l’OMS ha definito la s. come «uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale», e non soltanto come «un’assenza di malattie e di infermità», la qualità della vita ha assunto anch’essa il significato di uno stato di benessere fisico e psichico. Questa nuova concezione, soggettivistica, della s. è divenuta il fondamento di un concetto relativistico di beneficialità e di ‘bene’ del paziente, non più identificato necessariamente con un bene oggettivo, ma con un ‘bene’ che viene fatto corrispondere a ciò che aumenta lo stato di benessere soggettivo, secondo una ‘percezione’ individuale di ciò che può essere considerato sinonimo di ‘desiderabile’, in base ai criteri di piacere/dolore, benessere/malessere, soddisfazione/insoddisfazione.
Il problema derivante da questo concetto di s. è quello di non poter fondare il contenuto del principio di beneficialità (ossia del perseguimento del bene del paziente attraverso ogni decisione e ogni atto medico), che scisso dalla ricerca del bene oggettivo del paziente, si viene a radicare in un principio assoluto di autonomia, mirante a esaltare solo le sensazioni soggettive del paziente rispetto alla propria salute. Bene e benessere non necessariamente coincidono e nulla esclude che il soggetto possa ritenere lecito ogni evento in grado di aumentare il proprio benessere, anche a scapito dei valori morali e, se la circostanza lo richiedesse, della vita altrui. La qualità della vita, infatti, non è riducibile a un benessere fisico o materiale in funzione di una condizione statica di s. psicofisica, bensì deve inglobare tutte le dimensioni della persona e l’armonia di queste. In tal senso, il desiderio non può essere la sola ‘misura’ della qualità della vita, ma deve essere ancorato a un sistema di valori. Questa visione ‘globale’ dovrebbe essere la prospettiva cui ricondurre ogni dimensione umana, inclusa la s., la quale non può essere ricercata come una condizione stabile, o una misura perfetta, ma deve essere concepita come un equilibrio dinamico: all’interno del soma, fra il soma e la psiche, fra l’individuo e l’ambiente. E va certamente integrata nella dimensione etica della vita dell’uomo, nella sua libertà e responsabilità individuale e sociale.