Avanzamento in senso verticale, verso gradi o stadi superiori, con implicito quindi il concetto del perfezionamento, dell’evoluzione, di una trasformazione graduale e continua dal bene al meglio, sia in un ambito limitato sia in un senso più ampio e totale.
In senso assoluto, lo sviluppo verso forme di vita più elevate e più complesse, perseguito attraverso l’avanzamento della cultura, delle conoscenze scientifiche e tecnologiche, dell’organizzazione sociale, il raggiungimento delle libertà politiche e del benessere economico, al fine di procurare all’umanità un miglioramento generale del tenore di vita e un grado maggiore di liberazione dai disagi.
Il concetto di p. è strettamente connesso a quello di storia: attribuire p. alla storia significa individuare in essa un avanzamento, un continuo miglioramento. Il concetto di p. è relativamente recente nella cultura occidentale, essendo sorto agli inizi dell’età moderna, mentre il mondo classico appare piuttosto legato da un lato alla dottrina della mitica età dell’oro (Esiodo, Platone), in confronto alla quale tutta la storia successiva si configura come un processo di decadenza, dall’altro a quella del ritorno ciclico degli eventi (tipica degli stoici). Il cristianesimo rifiuta il tema del circolare ritorno degli eventi e prospetta una concezione lineare della storia tesa dalla creazione e dal peccato di Adamo verso l’incarnazione del Verbo (momento centrale e irripetibile) e di qui verso la fine dei tempi. In questa concezione il p. può essere inteso come realizzazione dei piani provvidenziali.
Per un concetto di p. come ampliamento di conoscenze e conquista degli uomini si dovrà arrivare alle soglie dell’età moderna. Il senso del p. intrinseco alla storia si fa strada nel Rinascimento, strettamente connesso con l’estendersi delle conoscenze storiche, geografiche, scientifiche, tecniche e quindi con la nuova consapevolezza della capacità di ascesa e di conquista della natura umana.
Caratteristica testimonianza di questo nuovo atteggiamento è in G. Bruno, secondo cui la possibilità dell’avanzamento della scienza è proporzionale alle osservazioni compiute e agli anni trascorsi: l’età recente ha maggiore esperienza dell’antica e, se la sapienza è nella vecchiaia, i veri vecchi sono i moderni. Il tema degli Antichi e moderni (➔) ritornerà lungo tutto il Seicento, sempre più strettamente connesso con la constatazione dei p. compiuti soprattutto nella conoscenza della natura e nel distacco definitivo dalla cultura scolastica: così in T. Campanella come in F. Bacone, in G. Galilei come in B. Pascal sino alla Digression sur les anciens et les modernes di B. de Fontenelle (1688).
Con l’Illuminismo si ha l’estensione del concetto di p. dall’ambito conoscitivo a quello etico e sociale: il p. realizzato nell’ambito scientifico e filosofico deve estendersi anche all’organizzazione della società umana e ai modi del comportamento morale, purché si sia capaci di rimuovere gli ostacoli che frenano lo sviluppo della ragione e che sono soprattutto di ordine dogmatico-religioso e politico; l’estensione dei ‘lumi’ della ragione diviene di per sé strumento di p. che investe tutta l’organizzazione politica e religiosa. Di questa fede nel p. testimoniano quasi tutti i principali rappresentanti dell’Illuminismo europeo: suoi assertori e teorizzatori più espliciti sono per la Francia R.J. Turgot e Condorcet, per la Germania G.E. Lessing e I. Kant.
In parte connesso all’Illuminismo, in questa fusione di p. scientifico e p. etico, appare il positivismo. Tipico rappresentante di questo orientamento è A. Comte, che elaborò il concetto di p. nella forma della ‘legge dei tre stadi’ dell’evoluzione storica e scientifica. H. Spencer tese a estendere il concetto di p. dall’evoluzione biologica a quella storico-sociale secondo i medesimi principi di differenziazione e organizzazione.
Di tipo diverso il concetto di p. nell’idealismo hegeliano, dove appare connesso alla nozione di dialettica, per la quale ogni momento del divenire della realtà è superato da un momento successivo che conserva quanto lo precede. Costitutiva della più profonda natura della realtà, la dialettica opera per G.W.F. Hegel anche, e soprattutto, nella storia, concepita come un processo dialettico teleologicamente orientato: da questo punto di vista il p. dialettico è per Hegel fondamentalmente sviluppo dello spirito attraverso l’opera anche inconsapevole degli individui e dei popoli che di volta in volta lo incarnano («astuzia della ragione») e il suo fine è la realizzazione della libertà, di cui lo Stato ottocentesco è il maggior esempio.
Influenzato dal concetto hegeliano di dialettica, e poi anche dalle concezioni positivistiche, è il marxismo che, almeno nelle formulazioni dottrinarie, ha visto nella storia un’evoluzione inevitabile, e orientata al meglio per quanto riguarda le condizioni materiali e spirituali, verso la società comunista.
Il concetto di inevitabilità storica – a cui spesso è possibile ricondurre la fede nel p., ma anche quella, a essa speculare, nella decadenza delle civiltà (come nel caso di O. Spengler) – è stato fortemente criticato, nel Novecento, da I. Berlin e, soprattutto, da K.R. Popper, che ha raggruppato sotto il nome di storicismo (➔) tutte le concezioni fondate sulla postulazione di leggi di sviluppo della storia, mostrandone la carenza logica e l’infondatezza scientifica e riconducendole a una comune matrice utopistica.
Il ridimensionamento dell’idea di avanzamento verso il meglio è stato anche determinato dalle disillusioni indotte dai conflitti mondiali e dalle loro conseguenze alimentatrici di pessimismo sul futuro della civiltà, mentre successivamente è apparso legato a considerazioni di tipo ecologico-ambientale suggerite da quello che viene avvertito come un eccessivo e poco accorto sviluppo tecnologico. La cultura filosofica ha d’altra parte posto in evidenza quanto il concetto di p. sia impregnato di valori e come spesso rappresenti un’assolutizzazione di ideali propri del mondo occidentale: da questo punto di vista va segnalata la riflessione di J.-F. Lyotard su quella che ha definito la «condizione postmoderna» (➔ postmoderno) tipica della contemporaneità.
Gli sviluppi della storiografia scientifica e della filosofia della scienza nel Novecento hanno avuto come esito la nascita di un vasto dibattito sul concetto di p. scientifico, che ha visto contrapporre alla tradizionale concezione cumulativa dello sviluppo scientifico concezioni di tipo discontinuista, il cui maggior rappresentante è T. Kuhn.
Per p. tecnico si intende l’acquisizione di conoscenze che permette l’uso di nuovi processi produttivi o la produzione di nuovi beni. Nell’economia classica, il p. fu analizzato in relazione alla ricerca e alle applicazioni tecnologiche in campo industriale e fu considerato, in particolare da K. Marx, tra i fattori trainanti dello sviluppo economico. Agli inizi del 20° sec., J. A. Schumpeter approfondì ulteriormente lo studio della natura del p. tecnico distinguendo l’invenzione, che contribuisce al p. tecnico attraverso la ricerca, e l’innovazione, che consiste nell’introduzione e nella diffusione di nuovi processi produttivi o di nuovi beni. La misurazione del p. tecnico incontra numerose difficoltà poiché gli avanzamenti della conoscenza non si possono quantificare con precisione. Gli indicatori generalmente utilizzati sono la spesa in ricerca e sviluppo e il numero dei brevetti: ciascuno di essi è però un indicatore parziale in quanto il primo considera solo le risorse investite nel miglioramento delle conoscenze, mentre il secondo non considera le invenzioni e le innovazioni non brevettate.
Gli economisti neoclassici trattarono il p. come una variabile indipendente del sistema economico rinunciando a studiarne le cause e concentrandosi sugli effetti del p. sulla crescita del reddito nazionale, sulla produttività dei fattori, sull’occupazione. Negli anni 1930, J. Hicks definì p. neutrale quello in grado di determinare un uguale aumento del prodotto marginale del lavoro e del prodotto marginale del capitale. In seguito, R.F. Harrod considerò neutrale quel p. che lascia invariato il rapporto capitale/prodotto; il p. tecnico è invece labour-saving se diminuisce il rapporto lavoro/prodotto e capital-saving se il rapporto capitale/prodotto decresce.
Con l’impiego di una funzione di produzione aggregata divennero più fruttuosi gli studi empirici rivolti a misurare gli effetti del p. tecnico sull’aumento della produttività del lavoro. Verso la fine degli anni 1960, R.M. Solow trovò che il p. tecnico aveva contribuito per il 90% alla crescita della produttività del lavoro verificatasi negli Stati Uniti tra il 1909 e il 1949, mentre l’accumulazione del capitale aveva contribuito solo per il restante 10%. Considerando nella funzione di produzione altri elementi quali la qualità del lavoro, le economie di scala, la ricerca e lo sviluppo come suggerito dagli studi di J. Kendrick, D. Sorgenson, E. Denison, Z. Griliches, il contributo del p. tecnico all’aumento della produttività risultava invece notevolmente ridotto.
Gli effetti del p. tecnico sono stati poi ulteriormente analizzati dalla scuola evolutiva. R. Nelson, S. Winter, C. Freeman, G. Dosi, L. Soete, G. Silverberger hanno illustrato il ruolo del sistema innovativo (relativo a variazioni non solo tecnologiche ma anche istituzionali e sociali) nel determinare il successo produttivo e commerciale del progresso. In particolare, è stato rilevato che il p. non è indipendente dal sistema economico, come sostenuto dai neoclassici, ma è determinato anche dalle decisioni degli operatori. Già Harrod aveva ipotizzato che una fonte di p. tecnico, la crescita del capitale umano, dipendesse dalle decisioni degli agenti economici; negli anni 1960 H. Uzawa presentò un modello in cui la crescita endogena del capitale umano determinava la crescita del prodotto. Ma fu solo nella seconda metà degli anni 1980 che i modelli di crescita endogena ebbero una maggiore diffusione, dando luogo a un nuovo filone di studi con i contributi di P. Romer, R.E. Lucas, H. Grossman e E. Helpman, P. Aghion e P. Howitt. Secondo i primi modelli di crescita endogena, il p. tecnico è una conseguenza dell’apprendimento per esperienza; in quelli successivi diviene il risultato delle spese in ricerca effettuate intenzionalmente dalle imprese per ottenere maggiori profitti mediante l’introduzione di nuovi beni sul mercato. Il p. tecnico perde pertanto qualsiasi connotazione di residuo e viene invece considerato simile a un fattore di produzione, il cui utilizzo dipende dal suo costo e dalla sua produttività. Successivi lavori empirici utilizzano questa impostazione per spiegare fenomeni precedentemente poco compresi, quali la mancata convergenza tra paesi industriali e quelli in via di sviluppo – poiché il basso livello di reddito impedisce una rapida accumulazione di conoscenza tecnologica – o le fluttuazioni economiche, generate da shock endogeni connessi allo sviluppo della conoscenza tecnologica.