Il complesso delle attività che si riferiscono alla ‘vita pubblica’ e agli ‘affari pubblici’ di una determinata comunità di uomini. Il termine deriva dal greco pòlis («città-Stato») e sulla scia dell’opera di Aristotele Politica ha anche a lungo indicato l’insieme delle dottrine e dei saperi che hanno per oggetto questa specifica dimensione dell’agire associato.
L’esercizio della p. in una comunità di cittadini è da ricondursi alle pòleis greche, sorte tra l’8° e il 7° sec. a.C. I due maggiori teorici antichi della p. furono Platone, fautore di un ordine politico fortemente unitario, fondato su una rigida gerarchia sociale in grado di evitare conflitti distruttivi, e Aristotele, che individuò nell’uomo «un animale politico» e analizzò le forme di governo e le loro degenerazioni.
L’Età moderna fu caratterizzata in Europa dal primato delle monarchie assolute, nelle quali il potere del sovrano era l’ultima legittimazione della legge (rex legibus solutus). Le rivoluzioni inglesi e francesi contro l’assolutismo (17°-fine del 18° sec.) condussero a un profondo mutamento delle basi della p. e dei soggetti in essa coinvolti: aristocrazia e ceti borghesi, sostenuti da settori popolari, posero fine all’assolutismo monarchico dando origine a regimi liberali e parlamentari, caratterizzati dalla divisione dei poteri, dal sistema rappresentativo-parlamentare, dalle libertà civili e politiche. Con la rivoluzione industriale e con l’affermarsi di istituzioni liberali si verificò (fine del 18°-inizio del 20° sec.) un progressivo spostamento della capacità di influenza politica dalla nobiltà alla borghesia; le masse lavoratrici, formatesi a seguito della rivoluzione industriale, si dotavano, dal canto loro, di organizzazioni sindacali e partitiche. Il suffragio andò mano a mano allargandosi, mentre le istituzioni parlamentari progressivamente diventavano le sedi preminenti della competizione per il potere. Si è così gradualmente imposta la p. di massa, che ha i suoi attori principali nei partiti di massa (➔ partito). Alla fine del 20° sec. risalgono le teorie della cosiddetta ‘fine della p.’, che alludono alla crisi del potere politico, in particolare nel contesto del declino della funzione dello Stato nazionale e a fronte della progressiva affermazione di forme di potere diverse da quello politico (per es. il potere economico e mediatico) nella società.
La p. in generale è stata di volta in volta concepita in modi molto diversi: come ricerca del bene comune, come strumento per la realizzazione della vita buona e virtuosa del cittadino, come arte della conquista e della conservazione del potere, come leva per la neutralizzazione dei conflitti tra individui e gruppi, come luogo della contrapposizione regolata di una pluralità di interessi ideali e materiali divergenti, radicati nella società civile, oppure ancora come relazione ‘amico-nemico’.
In modi altrettanto differenti è stato interpretato il grande tema dei rapporti tra etica e p., anche se nella tradizione dell’Occidente moderno e contemporaneo è risultata per lo più dominante l’idea tipicamente realistica – fissata da N. Machiavelli e poi riformulata da M. Weber – della p. come sfera autonoma e autonormativa dell’agire, indipendente cioè da qualsiasi precetto etico o religioso, e dotata piuttosto di una propria specifica ‘etica’ (la weberiana «etica della responsabilità»).
Soprattutto nella sua dimensione più propriamente statuale, la p. è stata complessivamente intesa come lo strumento per realizzare all’interno un saldo ‘ordine’ politico e per confrontarsi all’esterno con il ‘disordine’ generato dall’esistenza di altre entità politiche sovrane. In entrambi i casi la p. ha sempre fatto ricorso in ultima istanza, come suo specifico strumento d’azione, alla forza, che in casi estremi, nei confronti di altri Stati, si esprime attraverso la guerra. Al tempo stesso, sul piano interno la sfera della p. è venuta progressivamente a coincidere con la sfera di un agire consensuale, in cui è il ‘pubblico’ stesso a decidere, in modo diretto o indiretto, sugli ‘affari pubblici’. In questo quadro gli attori fondamentali della p. sono profondamente mutati nel corso del tempo, insieme alla generale e irresistibile trasformazione della p. da esclusivo campo di azione di individui e di ristrette oligarchie a terreno su cui agiscono più o meno consapevolmente, e comunque contano, grandi masse di uomini. Questo processo non ha annullato il ruolo delle élite politiche, ma le ha costrette ad agire in contesti in cui il consenso popolare è diventato essenziale per la produzione di decisioni politiche. È in questo quadro che i partiti organizzati hanno assunto un ruolo di primo piano tra il 19° e il 20° sec., soprattutto, ma non solo, all’interno dei regimi democratici. Essi, infatti, hanno costituito per lungo tempo, e costituiscono in gran parte ancora oggi, gli unici soggetti in grado di mobilitare e dirigere quelle masse che in vario grado stanno comunque al centro di ogni sistema politico e sociale contemporaneo.
I modelli tradizionali della p. sono sottoposti a profonde tensioni nel mondo attuale per almeno due ragioni. Da un lato, perché l’ambito da secoli consolidato dell’impresa politica, lo Stato, sta progressivamente perdendo – sotto la spinta dei processi di globalizzazione – quel ruolo centrale che ha detenuto negli ultimi cinque secoli, sia sul piano della costruzione dell’ordine interno sia su quello delle relazioni internazionali. Dall’altro lato, perché anche i partiti stanno perdendo la loro centralità in quanto soggetti della produzione del consenso politico e, quindi, della decisione politica, di fronte all’emergere di nuovi mezzi di comunicazione di massa, e dunque di formazione del consenso, quali innanzitutto la televisione, che sempre più sta trasformando la p. in ‘videopolitica’. In questo duplice contesto, si producono, a diversi livelli, profondi e sempre più visibili mutamenti. Tra i più importanti, la crescente dipendenza della p. interna degli Stati – un tempo luogo per eccellenza della sovranità e dello stesso consenso democratico – dai condizionamenti vieppiù pressanti e ineludibili di istituzioni e organizzazioni sovranazionali e, soprattutto, dei mercati economici e finanziari globali; quindi, la trasformazione delle dinamiche strutturali della p. internazionale e del loro fenomeno più drammatico, la guerra, che non si manifesta più nelle forme tradizionali della guerra tra Stati, bensì attraverso forme più o meno inedite di guerra civile, di guerre umanitarie, di operazioni di polizia internazionale, di terrorismo transnazionale; e, ancora, una crescente disaffezione per la p. e la democrazia ‘dei partiti’, che in diverse realtà nazionali sta alimentando un diffuso sentimento ‘antipolitico’. È in questo quadro che si parla sempre più spesso di ‘crisi’ o addirittura di ‘fine della politica’. Altrettanto significativo è l’emergere dei fondamentalismi religiosi i quali, fuori dall’Occidente ma anche al suo interno, mettono radicalmente in discussione quei processi di secolarizzazione della p. che tanta parte hanno avuto nel definire, quanto meno nel mondo occidentale moderno, la natura e i caratteri della p. stessa.
Antropologia politica Ambito di studi, interno all’antropologia sociale e culturale, particolarmente interessato alla dimensione politica dei fatti sociali.
Fin dal 19° sec. gli studi antropologici sono stati attratti dall’analisi dei fenomeni politici. Negli scrittori evoluzionisti d’epoca vittoriana problematiche di natura politica erano costantemente presenti, sia pure in forme spesso inconsapevoli, nelle grandi opere di ricostruzione del progresso di forme istituzionali e culturali. Scritti come Ancient law (1861) di H. Maine e Ancient society (1871) di L.H. Morgan sono emblematici di quest’approccio. Interrogandosi sul passaggio da società basate sullo status e sulla parentela a società fondate sul contratto e sulla contiguità locale (Maine), o postulando una differenziazione evolutiva tra comunità organizzate sulla forma della societas e società legate all’idea di civitas (Morgan), questi studiosi impostarono fin dalla seconda metà dell’Ottocento quadri concettuali evolutivi che hanno a lungo guidato la comprensione della p. in società ‘altre’.
A partire dagli anni 1930 l’impostazione evoluzionistica cedette il passo ad approcci di tipo diverso e all’esigenza di una comprensione funzionale, concreta e puntuale delle istituzioni politiche delle società cosiddette ‘primitive’. Una simile prospettiva era legata, anche se spesso in maniera indiretta, alle concrete esigenze delle p. coloniali e quindi connessa alle assunzioni ideologiche del colonialismo. Nonostante ciò, proprio agli studi di impianto funzionalista si devono la nascita di una moderna antropologia politica, la strutturazione del suo apparato categoriale e l’acquisizione di notevoli conoscenze sul funzionamento di sistemi politici non caratterizzati dalla presenza dello Stato, o connotati da forme non moderne di questo. Negli scritti The Nuer (1940) di E. Evans-Pritchard, o African political systems, curato da M. Fortes ed Evans-Pritchard (1950), si elaborano nozioni, come quella di sistema segmentario, attraverso le quali si affronta il problema di come possano essere mantenuti l’ordine e il controllo politico in società (africane) prive di un potere centralizzato (acefale).
Agli studi funzionalistici si sono affiancati, nel corso dei decenni successivi, diversi approcci all’antropologia politica: a) una prospettiva neoevoluzionista, o genetica, di matrice statunitense, che partendo dagli studi evoluzionistici e da un’assunzione critica di alcune nozioni marxiane, tenta una modellizzazione delle forme di organizzazione politica, legandole a diversi livelli di complessità socioeconomica. Studiosi come M. Harris, M. Sahlins, E. Service, M. Fried, negli anni 1960, hanno elaborato la tipologia antropologica che distingue tra banda (forma di organizzazione politica delle società di caccia e raccolta), tribù (propria invece di gruppi sedentari e agricoli), chiefdom («potentato»: presente in società agricole, commerciali e militarizzate) e Stato primitivo; b) una prospettiva giuridico-politologica, legata alle riflessioni weberiane, che ha prestato particolare attenzione alla definizione di termini e concetti adoperati nell’interpretazione di categorie e comportamenti politici non occidentali e nella loro traduzione da una cultura all’altra. Tra i più importanti, i lavori di M.G. Smith, di M. Gluckman e, successivamente, quelli di C. Geertz; c) una prospettiva strutturalistica, tesa a cogliere coerenze logiche e non solo funzionali tra organizzazione religiosa e organizzazione politica (per es., la nozione di regalità sacra nelle analisi di L. De Heush), interessata a rinvenire forme strutturali e ideologiche comuni a più settori di una stessa società o a un insieme di società vicine (gli studi di J. Pouillon e di M. Augé sull’Africa occidentale), o tesa a cogliere meccanismi strutturali di controllo messi in atto dalla società nei confronti dei detentori del potere per evitare un’eccessiva istituzionalizzazione (i lavori di P. Clastres sul mondo amazzonico, 1974); d) una prospettiva dinamistica, tesa a cogliere la dimensione processuale, storica, di ogni sistema politico e sociale, sia nei confronti di contesti esterni sempre più pressanti sia rispetto a dinamiche interne a ogni gruppo. Fondamentali gli studi di E. Leach sulla Birmania (1954), quelli di M. Gluckman (1965) e di V. Turner sull’Africa australe; o ancora i numerosi scritti di R. Bastide e G. Balandier, che hanno indagato i rapporti tra occidentalizzazione e organizzazione politica di società africane e americane; e) una prospettiva interazionistica che, spostando l’interesse dalla comprensione dei sistemi politici a quella dell’azione politica, e dunque dall’analisi delle istituzioni a quella dei comportamenti dei concreti attori sociali, ha indagato la capacità di manipolazione politica e sociale propria di ogni essere umano. Da ricordare, in questa prospettiva, i lavori di C. Mitchell, J. Van Velsen, F. Barth, J. Boissevain, F.G. Bailey.
Nei decenni successivi l’antropologia politica ha spostato la sua attenzione su altri temi, legati ad aspetti nodali contemporanei: i fenomeni dell’etnicismo, l’invenzione politica delle identità etniche e della tradizione (J.-L. Amselle e E. M’Bokolo; E. Hobsbawm e T. Ranger); o lo studio della violenza politica (per es., i lavori di M. Taussig sull’America Latina). Altro importante slittamento di interesse è quello, in parte avviato dalla prospettiva transazionalistica, ma più strettamente legato alle riflessioni di M. Foucault e P. Bourdieu, che vede nei rapporti di potere una dimensione essenziale di tutte le relazioni sociali, e che di conseguenza privilegia lo studio dei meccanismi di costruzione, legittimazione, applicazione e incorporamento del potere, piuttosto che la descrizione delle forme istituzionali nelle quali tale potere si esprime.
P. economica Complesso degli interventi adottati dall’operatore pubblico per indirizzare l’andamento dell’economia verso gli obiettivi desiderati; anche lo studio degli orientamenti teorici cui si ispirano tali interventi. In questo senso la p. economica è, quindi, quella parte della scienza economica che utilizza le conoscenze dell’analisi teorica come guida dell’azione pratica. In relazione all’economia politica, la quale rappresenta lo studio di ciò che l’economia è (in senso positivo), la p. rappresenta ciò che l’economia dovrebbe essere (in senso normativo).
Nell’ambito delle varie teorie economiche la p. economica può essere sempre ricondotta a una finalità generale: il raggiungimento per la collettività nel suo complesso di una posizione di massimo (o di ottimo), sebbene di quest’ultimo vengano date diverse definizioni. L’antica connessione della scienza economica con il «calcolo dei piaceri e delle pene» o, con altra terminologia, delle soddisfazioni e delle insoddisfazioni legate ai bisogni umani, presupponeva che queste sensazioni fossero misurabili nella loro entità presso individui diversi e fossero in definitiva esprimibili mediante numeri cardinali. Secondo tale visione la finalità degli ordinamenti sociali era il «benessere del maggior numero possibile». La concezione, che costituiva la base dell’ideale di J. Bentham, nella seconda metà del Settecento, era condivisa da economisti italiani quali C. Beccaria, P. Verri, A. Genovesi.
Da Pigou a Pareto. A.C. Pigou (The economics of welfare, 1920) libera il concetto di benessere dalle sue connessioni filosofiche e circoscrive l’esame al benessere economico, l’insieme cioè delle soddisfazioni assoggettabili a misurazione mediante il metro della moneta. Con questi presupposti il cosiddetto benessere economico viene a coincidere con il reddito nazionale, cioè con il flusso annuo di beni e servizi che fornisce la base materiale per l’appagamento dei bisogni di una collettività. La concezione di una misura delle soddisfazioni di tipo cardinale, ritenuta irrealizzabile, è superata da una concezione di misura di tipo ordinalistico che, applicata all’ambito economico, porta a una graduazione in cui è sufficiente stabilire se una posizione sia superiore o inferiore rispetto a un’altra.
L’effetto ultimo di queste revisioni critiche, legate soprattutto al nome di V. Pareto, è quello di negare la possibilità di esprimere valutazioni scientifiche circa i processi di ridistribuzione del reddito da alcune categorie sociali ad altre; conseguentemente il concetto di massimo va circoscritto soltanto all’ambito dell’efficienza produttiva. Per ottimo paretiano si intende quindi una situazione nella quale è impossibile, mediante una diversa utilizzazione delle risorse produttive o dei beni prodotti, rendere migliore la posizione di un componente della collettività considerata, senza rendere nel contempo peggiore la posizione di un altro. Ne segue che non esiste un solo ottimo, ma un numero indefinito di diversi possibili ottimi, ciascuno distinto dall’altro, a causa delle differenze nella distribuzione del reddito sociale rispetto a un’altra.
La funzione di benessere sociale di Bergson. L’americano A. Bergson (1938) introduce lo strumento analitico della funzione di benessere sociale (concetto successivamente approfondito da altri economisti quali P. Samuelson e K. Arrow). Secondo Bergson si può desumere l’aspetto distributivo desiderabile dalle stesse preferenze degli individui di una collettività. In altri termini, le preferenze sulle quali i singoli soggetti sarebbero chiamati a pronunciarsi riguarderebbero non solo gli aspetti relativi alla produzione, ma anche quelli attinenti alla distribuzione. Ciò consentirebbe la costruzione di una scala di preferenze per l’intera collettività cui si dà, appunto, il nome di funzione del benessere sociale, o di funzione di preferenza macroeconomica (R. Frisch) o di funzione dell’utilità sociale (J. Tinbergen), costruzione che in realtà ha sempre incontrato difficoltà insormontabili. In particolare, un problema è rappresentato dal peso da attribuire alle singole preferenze. Ciò ha portato a utilizzare la funzione in un significato diverso, cioè come espressione delle preferenze dei politici responsabili dell’andamento della p., impostazione sviluppata soprattutto da Frisch (1950) e Tinbergen (1956). Entrambi mirano a elaborare uno schema logico in cui vengono inseriti gli obiettivi che i politici si propongono di conseguire e gli strumenti da loro utilizzabili, in modo da valutare l’adeguatezza dei secondi rispetto ai primi. Ogni intervento presuppone quindi l’esistenza di uno schema teorico sul modo di funzionamento dell’economia, una precisa definizione quantitativa degli obiettivi perseguiti e una valutazione dei tempi con cui le azioni intraprese potranno produrre i loro effetti. Sulla base di tali elementi e del supporto di analisi statistiche, può essere quindi effettuata la scelta degli interventi relativamente più efficaci per il raggiungimento degli obiettivi di base della p. economica.
L’insieme degli obiettivi da perseguire e gli strumenti disponibili per raggiungerli costituiscono i problemi fondamentali della p. economica; fra i suoi principali obiettivi si annoverano in particolare la stabilità dell’andamento dei prezzi, l’equilibrio della bilancia dei pagamenti, la soddisfacente crescita del reddito, il raggiungimento della piena occupazione (variabili il cui valore dipende dalla situazione del sistema economico cui si riferiscono).
Nell’applicazione degli interventi di p. economica si effettua una rappresentazione schematica del sistema economico attraverso un insieme di equazioni matematiche, il modello, in cui le variabili esogene sono rappresentate dagli strumenti e dai dati disponibili e le variabili endogene dagli obiettivi. Mediante elaborazioni matematiche è possibile esprimere le variabili endogene che interessano (obiettivi) in funzione delle variabili esogene (dati e strumenti) ottenendo la forma ridotta del modello. Si può anche procedere in modo inverso, attribuendo agli obiettivi determinati valori e stabilendo quali valori debbano essere dati agli strumenti nell’intento di raggiungere quei determinati obiettivi. Secondo il principio di Tinbergen, affinché il modello sia risolvibile, il numero degli strumenti deve essere almeno uguale a quello degli obiettivi. Gli obiettivi possono essere rappresentati anche da una funzione da massimizzare, e in tal caso si designano come flessibili. Tuttavia, le diverse teorie utilizzano modelli divergenti volti ad attribuire funzioni e modalità differenti all’intervento pubblico in economia, laddove se ne riconosca la necessità. Le stesse ipotesi poste alla base dell’intervento distinguono i vari approcci teorici. Basti pensare alla dicotomia esistente fra gli economisti di matrice neoclassica, per i quali l’intervento statale deve essere ridotto al minimo perché le forze di mercato racchiudono in sé un meccanismo riequilibratore, e gli economisti di matrice keynesiana, per i quali l’intervento economico dell’operatore pubblico è condizione indispensabile all’equilibrio del sistema.
Le principali categorie di interventi che i responsabili della p. economica utilizzano ai fini della p. di stabilizzazione o congiunturale (cioè l’insieme di p. cui è affidato il compito di moderare le fluttuazioni del sistema economico) sono riconducibili alla p. monetaria e alla p. fiscale; la p. industriale influisce sull’andamento dell’apparato industriale di un paese; la p. commerciale regola il commercio (➔).
P. monetaria. È rappresentata dall’insieme di interventi effettuati dalle autorità monetarie (in Italia, ministero del Tesoro e Banca d’Italia) per influire sull’andamento del mercato monetario. Nei vari paesi gli strumenti di p. monetaria dipendono dalla struttura istituzionale, dal sistema politico, dal grado di sviluppo economico, ma la variabile su cui intervengono direttamente le autorità monetarie è la quantità di moneta in circolazione.
In generale, nelle economie capitaliste più sviluppate vengono utilizzati i seguenti strumenti: la manovra del tasso di sconto, le operazioni di mercato aperto, la variazione del coefficiente di riserva obbligatoria. In presenza di determinate condizioni, attraverso la manovra del tasso ufficiale di sconto la banca centrale può rendere più oneroso il costo del denaro avendo come obiettivo la contrazione del livello di liquidità in circolazione nel sistema economico (per esempio, di fronte a una pressione inflattiva). Viceversa il tasso ufficiale di sconto può essere ridotto quando, per esempio di fronte a una tendenza deflattiva, si riterrà opportuno promuovere un’espansione del credito.
Le operazioni di mercato aperto consistono nell’acquisto o nella vendita di titoli pubblici da parte della banca centrale. Una vendita di titoli rastrella liquidità dal sistema, contraendo quindi la quantità di moneta in circolazione; il contrario avviene nel caso di acquisto di titoli da parte della banca centrale. La vendita dei titoli determina inoltre, a parità di altre condizioni, un declino del loro corso e una tendenza al rialzo del saggio di interesse: viceversa il loro acquisto favorisce un aumento del corso dei titoli e una corrispondente riduzione del saggio di interesse.
La variazione della riserva obbligatoria implica invece una modifica della frazione della riserva (in forma di depositi, titoli pubblici ecc.) che le banche di credito ordinario devono tenere a titolo cautelativo e che in genere è commisurata a una certa percentuale dei depositi bancari. L’aumento della frazione di riserva obbligatoria condiziona quindi le banche a utilizzare una minore quantità di depositi per le consuete operazioni e riduce la liquidità del sistema. Al contrario, la riduzione del coefficiente di riserva favorisce l’utilizzo del denaro detenuto presso le banche, che entra così in circolazione nel sistema (attraverso il meccanismo del moltiplicatore dei depositi).
Questi strumenti possono essere utilizzati singolarmente o in concomitanza, a seconda degli obiettivi perseguiti. Gli effetti delle operazioni monetarie non sono comunque univoci, in quanto dipendono sempre dalle condizioni generali del sistema. In un’economia aperta agli scambi internazionali, la manovra di p. monetaria è condizionata soprattutto dal regime del tasso di cambio in vigore.
P. fiscale. Strettamente legata alla p. monetaria, è rappresentata dagli interventi sulla spesa pubblica e sul meccanismo di prelievo fiscale, quelli cioè che agiscono direttamente sull’andamento delle entrate e delle spese dello Stato (➔ finanziaria, legge). La p. fiscale agisce in 3 modi: attraverso decisioni modificative del volume delle entrate e delle spese pubbliche, attraverso modifiche della composizione delle spese e delle entrate pubbliche, attraverso modifiche della composizione del sistema di finanziamento del disavanzo. La manovra delle entrate agisce invece sul livello di prelievo fiscale: a parità di altre condizioni, aumentando le aliquote fiscali si riduce il reddito disponibile e si contrae la domanda globale; il contrario avviene riducendo il prelievo fiscale. Anche per la p. fiscale gli effetti dipendono dalle condizioni globali del sistema e dall’andamento di tutte le variabili macroeconomiche.
Gli interventi di p. monetaria e di p. fiscale devono quindi essere combinati fra loro e dosati accuratamente nel perseguimento dei diversi obiettivi; inoltre sono in genere accompagnati da interventi rivolti ai settori specifici.
Un legame fondamentale fra p. monetaria e p. fiscale è rappresentato dal finanziamento del debito pubblico realizzato attraverso l’aumento dell’offerta di moneta, cioè attraverso l’acquisto da parte della Banca d’Italia di titoli pubblici emessi dal Tesoro. Esso è particolarmente vincolante per l’autonomia delle autorità monetarie soprattutto in paesi, come l’Italia, in cui il livello del debito è strutturalmente alto (➔ debito; prestito). In Italia, fino agli anni 1980, la Banca d’Italia era obbligata ad acquistare i titoli del debito pubblico a breve termine che il Tesoro non riusciva a collocare sul mercato. Successivamente quest’obbligo è stato abolito (1981), garantendo una maggiore autonomia all’istituto di emissione.
P. industriale. È rappresentata dall’insieme degli interventi statali che influiscono sul funzionamento dell’apparato industriale di un paese, anche nel lungo periodo, sia in maniera diretta (imprese pubbliche) sia, in maniera più indiretta, attraverso diverse forme di regolazione dell’economia. Nasce dall’esigenza di regolare lo sviluppo industriale di un paese laddove si riveli indispensabile l’intervento diretto dello Stato (presenza di settori strategici di particolare rilevanza, situazioni di squilibrio della distribuzione territoriale dell’industria ecc.). Lo Stato può quindi intervenire anche per sostenere imprese che potrebbero apparire non competitive allo scopo di ridurre la disoccupazione, creare infrastrutture che favoriscano anche la mobilità dei lavoratori, creando esternalità positive ed effettuando una redistribuzione più equa del reddito. In realtà, nelle moderne economie capitaliste qualunque tipo di intervento di p. economica incide sul funzionamento dell’industria. Del resto, se è vero che la struttura industriale di un paese deve essere sostenuta sul nascere affinché si formino le basi per la crescita, è anche vero che devono essere assicurati l’autonomia e il libero svolgersi delle forze di mercato e l’abolizione delle forme di predominio industriale che possono inibire lo sviluppo di un paese.
Come il settore industriale, anche il settore agricolo può essere sostenuto da interventi statali. La p. di sostegno all’agricoltura può essere realizzata con l’erogazione diretta di sussidi alle aziende agricole o ai lavoratori agricoli, mediante il sostegno dei prezzi dei prodotti ecc.; in questi casi si parla di p. agricola. Per la p. agricola comunitaria ➔ PAC.