Attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi.
Dal punto di vista economico le i. si distinguono in imperfette e perfette, a seconda che assumano soltanto il rischio tecnico o anche quello economico, a seconda cioè che lavorino soltanto su ordinazione, o direttamente per il mercato. Si dividono anche in grandi, medie e piccole in base a vari criteri: numero dei lavoratori impiegati, volume del capitale investito, fatturato, ampiezza del mercato e, soprattutto, potere di mercato. Da quest’ultimo punto di vista si possono distinguere le i. che hanno possibilità di influire sul prezzo (cosiddette price makers o leaders di prezzo, in genere monopoliste od oligopoliste), da sole o coalizzate con altre, e quelle che subiscono invece il prezzo come un dato (cosiddette price takers o followers di prezzo, soprattutto in regime di concorrenza); si distinguono anche le i. che definiscono per prime le quantità prodotte (leaders di quantità) e le i. che fissano le quantità prodotte in base alle scelte delle prime (followers di quantità).
L’i. individuale, in generale piccola e imperfetta, precede storicamente lo sviluppo dell’i. collettiva, ma continua ad affiancarsi a essa; quest’ultima ha tratto poi particolare impulso dalla società per azioni, che, per la maggior facilità di raccolta del capitale e la minore responsabilità dei dirigenti, ha grandemente facilitato il formarsi di grandi e di grandissime imprese. L’i. diretta da una persona fisica, che fornisce la maggior parte del capitale, assume i rischi tecnici ed economici e sorveglia la mano d’opera, ha caratterizzato il sistema produttivo fino al principio del 20° secolo. Risale infatti a tale periodo la compiuta trasformazione dell’i. da società di persone a società di capitali, cioè gestita in forme atte a limitare la responsabilità degli imprenditori. In base a quest’ultimo tipo di i. i capitali, quando non sono conferiti dai soci, sono presi a prestito, i rischi sono in genere coperti da contratti di assicurazione o assunti da particolari categorie di speculatori o riversati addirittura sui fornitori di capitale, il controllo sui lavoratori è svolto dai dirigenti, che a rigore rientrano anche loro nella stessa categoria. In genere, nell’industria, la grande i. è più vantaggiosa della piccola, in quanto consente maggiori economie interne ed esterne. I. guida (o leader) In situazione di oligopolio o di monopolio parziale, è l’i. che impone la sua politica di prezzi o di quantità alle altre i. del gruppo o del mercato. I. marginale I. il cui costo medio minimo è uguale al prezzo di mercato; è l’i. cioè che riesce a coprire soltanto i propri costi, senza lucrare alcun profitto, e che sarebbe costretta a rinunciare a produrre qualora il prezzo di mercato diminuisse anche di poco. I. extramarginale I. a costo medio minimo superiore al prezzo di mercato, che è quindi destinata a sparire, a meno che non riesca a rinnovare il suo sistema di produzione. I. intramarginale I. a costo medio minimo inferiore al prezzo di mercato, che gode di un vero e proprio profitto più o meno rilevante, ossia una differenza tra ricavo totale e costo totale. I. rappresentativa Concetto astratto, introdotto nella scienza economica da A. Marshall, per indicare un’i. che, soprattutto dal punto di vista dei problemi di costo e di dimensione, possa rappresentare le altre i. di un determinato settore industriale, commerciale ecc. Non va intesa come un’i. media, ma piuttosto come un’i. tipo, costruita secondo un modello cui le altre i. del settore tendono ad adeguarsi.
Nell’ambito della microeconomia, particolare rilevanza hanno le teorie che analizzano il comportamento dell’i. nel mercato. Già nella prima metà del 18° sec., A. Smith aveva attribuito all’i. un ruolo importante nel sistema economico. Egli sosteneva che la cura del proprio interesse da parte di tutti gli operatori nel mercato di libera concorrenza si trasformava in un involontario altruismo, come se tutti gli operatori fossero guidati da una mano invisibile. I neoclassici, invece, descrivono il comportamento della singola i. che opera per il perseguimento del massimo profitto in concorrenza perfetta. Le ipotesi di questa teoria sono però estremamente restrittive (si suppone l’uso di una sola tecnica produttiva, l’esistenza di un’economia stazionaria in cui l’equilibrio è garantito dalla combinazione di due sole variabili di riferimento, i prezzi e le quantità) e gli apporti degli economisti in materia di i. dimostrano un notevole sforzo per ampliare, se non modificare, questa impostazione marginalistica ritenuta comunque di base nella microeconomia tradizionale.
Negli anni 1930 alcuni economisti anglosassoni hanno posto in luce due importanti mutamenti del sistema capitalistico riguardanti l’i. del mercato. A.A. Berle e G.C. Means hanno sostenuto, in particolare, che nell’economia industriale, soprattutto nelle grandi i., si è andata affermando la separazione della proprietà dal controllo, nel senso che i detentori della proprietà giuridica dell’i. non ne esercitano più i poteri; questi ultimi sono invece esercitati dai dirigenti, cioè dai dipendenti posti ai livelli più elevati dell’organizzazione. Pertanto la massimizzazione del profitto non è più ritenuta un criterio valido per l’azione dell’i. ed è sostituita dall’obiettivo di massima crescita dimensionale della stessa. Nel 1933 J. Robinson e E.H. Chamberlin hanno dato all’evidenza empirica una sistemazione concettuale, affermando che il mercato non è generalmente di concorrenza perfetta, come sostenuto dai neoclassici, né di monopolio perfetto, bensì è caratterizzato da forme intermedie che possono approssimarsi ora all’una ora all’altra forma. A ciò si aggiunge la crescita delle dimensioni delle i., che conferisce a queste un potere di mercato non posseduto dalle piccole. La grande i. può infatti influenzare la domanda tramite diverse strategie, quali la discriminazione dei prezzi, la promozione delle vendite, la pubblicità, ecc. A tale proposito J.K. Galbraith afferma, assumendo una posizione ritenuta estremista, che il produttore può praticamente determinare la domanda del consumatore.
Dal fenomeno della separazione della proprietà dal controllo dell’i. hanno preso spunto, a partire dagli anni 1950, le «teorie manageriali dell’i.», le quali si basano sull’ipotesi che le scelte nell’i. siano condizionate dai desideri e dalle necessità dei dirigenti. Secondo W. Baumol le i. di certe dimensioni tendono a massimizzare le vendite, cioè il fatturato, in considerazione del fatto che lo stipendio, lo status e il potere dell’organo di controllo sono a esse commisurati. R. Marris individua, in un contesto dinamico, il nuovo obiettivo dell’i. nella massimizzazione del saggio di crescita del fatturato e della dotazione di capitale. Significativo è anche l’apporto di E. Williamson, il quale presuppone che i manager tendono a massimizzare la loro funzione di utilità (la quale prende in esame fattori quali lo stipendio, la possibilità di spendere discrezionalmente i fondi aziendali, il prestigio, il potere, la sicurezza e lo sviluppo professionale). Infine, negli anni 1950 si è sviluppata «la teoria del comportamento dell’i.» per opera principalmente di R M. Cyert e J.G. March e della loro scuola (anche se le sue origini sono attribuibili a H.A. Simon). Alla base di questi modelli vi è l’ipotesi che nell’i. operino gruppi diversi, portatori di interessi in conflitto.
Un aspetto interessante di analisi dell’i. consiste nel modo in cui essa si finanzia, se con emissione azionaria o ricorrendo a un prestito sul mercato (per es. emettendo obbligazioni). Secondo il teorema di F. Modigliani e M. Miller, in assenza di tasse e asimmetrie informative, il valore di un’i. non dipende dalle fonti di finanziamento del capitale, né risulta che le politiche di gestione dei dividendi non alterino il valore dell’impresa. Per quanto invece concerne il valore di mercato dell’i., J. Tobin ha evidenziato come il rapporto tra il valore di mercato dell’i. e il suo costo di sostituzione del capitale, rapporto noto come q di Tobin, rappresenta in realtà la differenza tra il livello ‘desiderato’ dello stock di capitale e quello effettivamente in possesso dell’impresa. In altri termini, se il valore della q di Tobin è maggiore di 1, lo stock di capitale desiderato è maggiore del capitale effettivo e quindi l’i. deve effettuare nuovi investimenti per aumentare lo stock effettivo; il contrario accade, invece, se la q risulta inferiore a 1.
Nella dottrina economico-aziendale, si chiama i. l’azienda che produce sistematicamente beni o servizi economici, per lo scambio di mercato, a rischio di una particolare economia, distinta da quella dei consumatori del prodotto. Questo rischio, per l’i. operante in economia di mercato, consiste, in genere, nell’incertezza inerente alla possibilità di conseguire, sia pure a lungo andare, ricavi d’esercizio sufficienti a rimunerare tutti i fattori produttivi richiesti dalla gestione, e a rimunerarli nella misura richiesta dal mercato, laddove essi non siano avviati e vincolati all’azienda da forze non economiche. Comunemente, quando si parla di rischio d’i., si fa riferimento al ‘rischio patrimoniale’, che ricade sul cosiddetto capitale proprio (chiamato anche capitale di rischio) e quindi sul soggetto al quale questo appartiene o sui soggetti fra i quali il medesimo è diviso, nelle i. di società. Ma rischi di carattere patrimoniale sono anche assunti da quanti finanziano l’i. nelle svariate forme del credito, mentre rischi non patrimoniali sono assunti da coloro che partecipano all’i. in altre forme, a cominciare dai lavoratori salariati e dai tecnici più altamente qualificati.
Per soggetto giuridico o titolare dell’i. si intende la persona nel cui nome l’i. viene esercitata e alla quale vengono riferiti i diritti e gli obblighi che nascono dalla sua costituzione e dal suo esercizio. Secondo il codice civile italiano, l’imprenditore, titolare dell’i., è appunto colui che esercita o in nome del quale è esercitata professionalmente un’attività economica organizzata, al fine della produzione di beni o servizi per il mercato. Può essere imprenditore una persona fisica singola o una persona giuridica privata o pubblica (una società commerciale o un ente pubblico). In relazione alla diversa condizione giuridica del titolare si fanno alcune classificazioni delle imprese. Si distinguono così i. individuali (aventi per titolare una persona fisica singola) e i. collettive (aventi per titolare una persona giuridica privata o pubblica); i. private (aventi per titolare una persona fisica o un ente giuridico di diritto privato, come la società commerciale), i. pubbliche (aventi per titolare un ente pubblico) e i. miste (aventi per titolari persone fisiche e giuridiche di diritto privato ed enti pubblici). Alle i. pubbliche sogliono assimilarsi correntemente anche quelle i. miste esercitate da società per azioni con prevalente partecipazione statale.
Dal soggetto giuridico può distinguersi il soggetto economico dell’impresa, con il quale si intende la persona o il gruppo di persone che di fatto ha ed esercita il supremo potere volitivo nell’i., subordinatamente solo ai vincoli di ordine giuridico e morale ai quali deve o dovrebbe sottostare. Nelle i. individuali, soggetto economico è lo stesso proprietario, che ne è il titolare, quando abbia piena capacità giuridica e si occupi di fatto del governo dell’impresa. Quando il proprietario non abbia piena capacità giuridica (per es., neonato o minorenne), il soggetto economico è costituito dalla persona o dalle persone che in forza di legge lo rappresentano e sono delegate ad amministrare in vece sua. Rispetto alle i. di società per azioni, il soggetto economico è da ravvisare nel socio o nel compatto gruppo di soci che, disponendo della maggioranza dei voti nelle assemblee sociali, può in queste assemblee imporre la propria volontà ed esercitare quindi nell’i. il supremo potere di comando, salvi i diritti riconosciuti dalla legge a tutela delle minoranze. La maggioranza dei voti può aversi anche indipendentemente dal possesso della maggioranza del capitale, quando le azioni, divise in diverse categorie, non conferiscano eguali diritti di voto.
Il controllo di una società per azioni può essere disgiunto dalla proprietà, non solo della maggioranza del capitale azionario ma pure di qualsiasi diretta partecipazione nella medesima, in virtù sia delle partecipazioni azionarie possedute da un gruppo sia delle partecipazioni che collegano fra loro le diverse società del gruppo. Grazie appunto a questi collegamenti, il soggetto economico del gruppo può controllare numerose i. nelle quali non possiede alcuna diretta partecipazione. Nei gruppi di società si dà il nome di capogruppo alla società che direttamente o indirettamente controlla tutte le altre, chiamate società consociate o affiliate o semplicemente controllate (➔ holding). La separazione del potere di controllo o di comando su di una società dalla proprietà della maggioranza del capitale della stessa porta a distinguere, rispetto alle i. di società per azioni, il capitale di comando dal capitale controllato, intendendosi per capitale di comando il capitale di cui può disporre il soggetto economico per l’esercizio del potere di comando.
Le persone che hanno il superiore controllo di un’i. esercitano il relativo potere di comando non necessariamente assumendone essi stessi l’alta amministrazione, ma esercitando il potere di nomina o di revoca degli amministratori (e talora anche di qualche alto dirigente) e riservandosi di approvarne, o meno, l’operato. Gli amministratori nominati, per quanto larga possa essere la loro autonomia, sono tenuti a interpretare gli indirizzi amministrativi generali e le eventuali direttive particolari che il soggetto economico creda di dettare. Tuttavia, specialmente nelle vaste i. aventi gestione complessa, le scelte e le decisioni restano in concreto affidate ai tecnici altamente e variamente qualificati che il governo di quelle i. ormai esige e utilizza. Si parla di un nuovo potere (tecnocrazia, potere dei tecnici amministratori o dei manager, non portatori del capitale) che, nelle grandi i., tende a sostituire, almeno di fatto, il potere del capitale, in virtù anche dei processi di autofinanziamento. La separazione del governo dell’i. dalla proprietà del capitale si è affermata parallelamente al formarsi della grande i. o al diffondersi del risparmio e del suo investimento in titoli azionari da parte di risparmiatori che non hanno né la possibilità tecnica né la volontà di occuparsi degli affari sociali.
L’organizzazione dell’i., in senso lato, riguarda la predisposizione e la riunione di condizioni e di fattori, materiali e immateriali e fra loro complementari, per la durevole vita dell’impresa. Compito fondamentale proprio dell’organizzazione è l’ordinamento degli organi che dovranno operare nell’i., nonché la determinazione e coordinazione delle loro funzioni. L’organizzazione si fonda essenzialmente sull’uomo. In quanto significa scelta di uomini e impiego di essi nel modo più economico compatibile con i diritti naturali della persona, l’organizzazione costituisce fattore di primaria importanza per il buon andamento dell’impresa. Nell’organizzazione dell’i. ha importanza sempre notevole la cura delle cosiddette relazioni umane. I concreti problemi di organizzazione del lavoro umano nell’azienda non sono soltanto relativi all’efficienza, al rendimento e al costo del lavoro, ma anche all’impiego dell’uomo nel lavoro, in modo da rispettarne la personalità e favorirne il perfezionamento. Fra i più generali problemi di organizzazione si è a lungo discusso e ancora si discute quello concernente la partecipazione dei lavoratori dipendenti al governo economico dell’impresa. La soluzione di questo problema, compatibile con l’efficiente funzionamento dell’azienda, trova naturali limiti sia nella competenza tecnica delle persone chiamate a partecipare al governo dell’azienda sia nell’unità di comando che ogni complessa organizzazione e attività di gestione esigono. Le varie forme studiate o tentate per realizzare la partecipazione del personale dipendente (impiegati e operai) al governo economico dell’i. (consigli di gestione o di fabbrica, partecipazione di alcuni lavoratori al consiglio di amministrazione, nomina di uno o più membri del consiglio di amministrazione da parte di assemblee dei lavoratori ecc.) presentano, in astratto, pregi e difetti. Notevolmente trasformata risulta poi l’attività direttiva: ridotta la sfera delle decisioni empiriche, si estende la collaborazione in vario modo articolata a diversi livelli decisionali, si afferma il lavoro di gruppo per l’analisi di problemi richiedenti svariate competenze specifiche, si dilata e perfeziona l’informazione e migliorano su queste basi le decisioni, i piani di azione e i controlli, resi più illuminati, tempestivi ed efficaci.
Si designa con questa espressione il sistema dinamico delle operazioni simultanee e successive poste in essere per realizzare i fini dell’impresa. La gestione costituisce un sistema esteso nello spazio e nel tempo e si presenta, in questo senso, unitaria, nonostante la varietà e la mutabilità delle produzioni, dei processi e delle operazioni d’impresa. Nel suo complesso e in ogni sua particolare esplicazione, si attua secondo programmi di attività annuali o pluriennali. Nei grandi gruppi aziendali, si pone il problema della specializzazione economico-tecnica dei processi di fabbricazione e distribuzione dei prodotti e insieme quello della diversificazione delle produzioni: il processo di sviluppo deve combinare la specializzazione di singoli stabilimenti o di distinte aziende con l’espansione del gruppo nelle più diverse direzioni, mediante aziende collegate. Lo sviluppo dei grandi complessi si accompagna così alla diversificazione delle produzioni, che trova stimoli e motivi nella mutabilità del mondo economico, nei rischi di questa mutabilità e nel costo della ricerca continua ed esperta, necessaria per alimentare nuove iniziative d’investimento.
La ricerca industriale metodicamente perseguita e organizzata, con tecnici variamente e altamente qualificati e scambi di esperienze, è coltivata come potente fattore di sviluppo dell’economia particolare delle i. e dell’economia generale del paese. Questa ricerca impone ingenti oneri che solo le grandi i. e i potenti gruppi industriali possono sopportare, grazie appunto alla molteplicità dei settori produttivi verso i quali possono indirizzare le iniziative d’investimento.
In generale, l’economicità si giudica in relazione ai risultati economici della gestione o alle condizioni economiche cui l’i. deve soddisfare perché possa avere durevole esistenza. Queste condizioni non sono uguali per tutte le i., in qualunque ordinamento economico-sociale esse operino e qualunque forma esse abbiano. Per l’i. operante in economia di mercato e che negli scambi di mercato deve trovare possibilità di durevole esistenza, senza essere sistematicamente sorretta da altre economie private o pubbliche, una necessaria condizione di economicità è costituita dall’autosufficienza economica dell’esercizio, intesa come attitudine della gestione a rimunerare, alle condizioni richieste dal mercato, tutti i fattori produttivi di cui l’i. ha bisogno per avere vita durevole e conveniente sviluppo. L’autosufficienza economica dev’essere considerata e giudicata nel tempo, in quanto le iniziative economiche e i programmi di i. esigono tempi di attesa più o meno lunghi, prima che possano dare i frutti economici possibili e sperati. Perché un’i. possa giudicarsi economica occorre quindi che i tempi d’attesa richiesti dai suoi programmi siano compatibili. Altra condizione propria dell’economicità dell’i. è costituita dall’efficienza di questa nel realizzare i processi economico-tecnici della sua gestione: efficienza espressa in termini di rendimenti fisico-tecnici dei diversi fattori e dei vari processi impiegati e, più largamente, in termini di costi di produzione e di vendita.
Le condizioni ora ricordate riguardano l’economicità aziendale, intesa come economicità dell’i. considerata per sé stessa, nell’equilibrio economico del suo esercizio. Talora si parla anche di economicità superaziendale e precisamente di economicità di gruppo e di economicità collettiva. Una i. che per sé stessa non riesca a raggiungere l’autosufficienza economica può, in dati casi, essere tenuta in vita per considerazioni di economicità di gruppo, qualora produca utilità indirette per altre aziende del gruppo di cui fa parte. Analogamente, un’i. per sé stessa non autosufficiente, per tempo lungo o indefinito, può essere convenientemente costituita o, se già esistente, può essere mantenuta in vita secondo un criterio di convenienza macroeconomica, riferita all’economia generale del paese. Si parla in proposito di economie esterne all’azienda o di effetti secondari o indiretti della sua attività: effetti non sempre precisamente misurabili in valore ma pure reali e considerevoli e tali da potere essere ritenuti, in date condizioni, fondatamente e largamente compensativi, sul piano dell’economia nazionale, dell’onere diretto che al paese arreca l’esercizio di quella azienda. Evidentemente solo le i. pubbliche possono di regola essere costituite e condotte secondo criteri che privilegiano l’interesse generale quando questo sia in contrasto con il criterio di economicità aziendale.
Ai fini della rilevanza giuridica, l’i. è un insieme di atti che, seppure soggetti singolarmente alla disciplina generale prevista per ciascuno di essi, nel loro insieme comportano l’assoggettamento di chi li esercita anche a una disciplina particolare, cosiddetto statuto dell’imprenditore.
Sul piano giuridico, l’i. è un insieme di atti che, seppure soggetti singolarmente alla disciplina generale prevista per ciascuno di essi, nel loro insieme comportano l’assoggettamento di chi li esercita anche a una disciplina particolare, il cosiddetto statuto dell’imprenditore.
L’attività di i. è definita, dall’art. 2082 c.c., come attività economica (ossia preordinata alla copertura dei costi con i ricavi) organizzata (con risorse produttive umane e materiali, organizzate dall’imprenditore), svolta in maniera professionale (né occasionale né casuale, ma sistematica, anche se non continuativa né esclusiva) e destinata alla produzione o scambio di beni o servizi.
L’imprenditore. - È il soggetto che esercita l’attività d’i., destinatario della disciplina dettata per l’esercizio dell’attività di impresa. L’individuazione dell’imprenditore viene fatta sulla base del principio della spendita del nome, in forza del quale gli effetti degli atti giuridici ricadono solo sul soggetto il cui nome è stato validamente speso nel traffico giuridico; anche quando l’imprenditore si avvalga della collaborazione di rappresentanti, la qualità di imprenditore resta in capo al preponente o al rappresentato.
Può capitare, però, che l’imprenditore eserciti l’attività d’i. per mezzo di un prestanome o di una società etichetta, celando ai terzi la propria qualità di dominus dell’i., fornendo i mezzi finanziari e dirigendo di fatto l’i., facendo propri i risultati. In tal caso, di parla di imprenditore occulto, per enfatizzare la dissociazione tra il soggetto cui è formalmente imputabile la qualità di imprenditore e l’imprenditore indiretto. Alla base del fenomeno vi è, di solito, l’interesse dell’imprenditore occulto di sottrarre il patrimonio personale al rischio di impresa. Tuttavia, l’esigenza di tutelare i creditori, specie in caso di nullatenenza o di società di comodo, ha portato dottrina e giurisprudenza a elaborare varie teorie al fine di imputare all’imprenditore occulto la responsabilità delle obbligazioni assunte.
La qualità di imprenditore si acquista con l’effettivo inizio dell’esercizio dell’attività da parte dell’imprenditore e si perde con la sua effettiva cessazione, ossia con la definitiva disgregazione del complesso aziendale.
L’i. societaria cessa con la cancellazione dal registro delle imprese. Essa presuppone la capacità all’esercizio dell’attività di i., che si acquista con la piena capacità di agire mentre si perde in seguito a interdizione e inabilitazione; è tuttavia possibile l’esercizio di attività di i. per conto di un incapace o da parte di soggetti limitatamente capaci di agire, con l’osservanza delle disposizioni dettate al riguardo.
L’imprenditore è soggetto ad un insieme di norme, definite come “statuto generale dell’imprenditore” e comprendenti parte della disciplina dell’azienda e dei segni distintivi dell’i., la disciplina della concorrenza sleale e dei consorzi tra imprenditori, nonché la disciplina antitrust.
La qualità soggettiva di imprenditore assume, poi, rilevanza sul piano negoziale sia prevedendosi regole speciali rispetto alla disciplina generale dei contratti (per esempio, quella che attribuisce ultra-attività all’efficacia degli atti prenegoziali formulati dall’imprenditore nonostante la sua morte o sopravvenuta incapacità, art. 1330 c.c.), nei rapporti dell’imprenditore con i lavoratori (per esempio, nella contrattazione collettiva) o con i consumatori, sia prevedendosi riserve di accesso a singoli tipi o a intere categorie contrattuali.
L’i. può articolarsi, in concreto, secondo una molteplicità di forme organizzative alle quali corrispondono, sotto il profilo della disciplina, statuti particolari, i quali si identificano in negativo rispetto a quello riservato all’imprenditore commerciale privato non piccolo e si sostanziano nella esenzione da alcune regole proprie dello statuto di quest’ultimo.
Classificazione per oggetto. - In relazione all’oggetto dell’attività, si distinguono i. commerciale e i. agricola.
L’i. commerciale può avere ad oggetto, secondo l’elencazione di cui all’art. 2195 c.c., l’esercizio di attività industriale, diretta alla produzione di beni o di servizi; di attività di intermediazione nella circolazione dei beni; di attività di trasporto per terra, per acqua per aria; di attività bancaria o assicurativa e di altre attività ausiliarie delle precedenti.
L’i. commerciale è soggetta allo statuto dell’imprenditore commerciale, che prevede obblighi di iscrizione di alcuni atti nel registro delle i., con effetto di pubblicità dichiarativa; l’obbligo della tenuta della scritture contabili; l’assoggettamento al fallimento e alle altre procedure concorsuali.
L’i. agricola ha per oggetto attività di coltivazione del fondo, di selvicoltura e allevamento di animali (cosiddette attività principali) e le attività a queste connesse, di carattere accessorio rispetto alle prime. La disciplina originariamente prevista dall’art. 2135 c.c., è stata modificata dal d. lgs. 228/2001, che ne ha esteso l’ambito applicativo anche attraverso l’introduzione del concetto di «ciclo biologico», con il fine di adeguare la nozione di i. agricola alle nuove esigenze connesse al processo tecnologico. All’i. agricola si applica lo statuto generale dell’imprenditore, con l’obbligo di iscrizione nella sezione speciale del registro delle i., e con l’esclusione dal fallimento.
Classificazione per dimensioni. - Quanto alle dimensioni, si distingue la piccola i. dall’impresa medio-grande, definita in via residuale rispetto alla prima.
La piccola i. è quella esercitata da coltivatori diretti del fondo, artigiani, piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia. La definizione contenuta nel codice civile all’art. 2083 riserva una posizione centrale alla prevalenza, quale requisito generale per enucleare, sul piano qualitativo, il lavoro dell’imprenditore e dei suoi familiari dal complesso degli altri fattori produttivi, anche se va registrata un’evoluzione della categoria verso quella dell’i. minore, specialmente per l’evoluzione delle figure dell’artigiano e del coltivatore diretto del fondo, oggi spinti dal confronto con il mercato a ricorrere a forme giuridiche e strumenti tecnici sempre più evoluti.
Dalla piccola i. si distingue, sebbene presenti possibili sovrapposizioni, l’i. familiare, introdotta con la riforma del diritto di famiglia (l. 151/1975) e disciplinata dall’art. 230-bis c.c., al fine di tutelare i membri della famiglia nucleare (coniuge, parenti entro il terzo grado e affini entro il secondo) che prestano la loro attività (in passato caratterizzata dalla gratuità) in modo continuativo nella famiglia o nell’i. familiare. In particolare è garantito il diritto al mantenimento, alla partecipazione agli utili e ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato. I familiari hanno diritto di prelazione, in caso di divisione ereditaria o di trasferimento d’azienda; essi concorrono alle decisioni sugli atti di gestione straordinaria, mentre sono di competenza esclusiva dell’imprenditore gli atti di gestione ordinaria.*
Forme particolari di impresa. - Nella categoria dell’i. sono sovente fatte rientrare fattispecie peculiari, non del tutto sovrapponibili al modello tradizionale di impresa. Si tratta, in particolare, dell’i. etica e dell’i. sociale.
Con l’espressione i. etica si usa indicare l’i. che abbia oggetto, scopo e modalità di gestione dell’agire economico conformi a canoni socialmente condivisi di comportamento e persegua, in modo rigoroso, un bilanciamento tra gli obiettivi perseguiti e i valori moralmente diffusi. Si considera, per esempio, etica l’i. che, anche a seguito della volontaria adozione di un ‘codice etico’, scelga di operare in settori merceologici socialmente ritenuti di ‘particolare valore sociale’, come l’istruzione, l’arte, la conservazione e la valorizzazione dei beni culturali o ambientali, l’aiuto alle categorie socialmente svantaggiate; che garantisca il rispetto dei diritti umani e dei lavoratori; che non danneggi l’ambiente. Di norma, l’applicazione di tale qualifica è anche connessa al ridimensionamento del ruolo svolto dal profitto, non più considerato fine ultimo dell’attività di i., ma come elemento funzionale al raggiungimento di scopi ulteriori.
Diverse dall’i. etica, ancorché a questa contigua, sono l’i. sociale, introdotta in Italia con d.lgs. 155/2006), e l’i. socialmente responsabile, oggetto di considerazione da parte dell’Unione Europea.
La prima, caratterizzata dall’assenza dello scopo di lucro, può essere esercitata da tutte le organizzazioni private che svolgano in via stabile e principale un’attività economica volta alla produzione e allo scambio di beni o servizi di utilità sociale. All’art. 2 del citato decreto vengono tassativamente individuati i settori di attività rispondenti a tale carattere e volti alla realizzazione di «interessi di finalità generale»: per esempio, vengono annoverati l’assistenza sociale e sanitaria; l’educazione e l’istruzione; i servizi culturali; il turismo sociale o le attività volte all’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati e/o disabili. Lo statuto speciale dell’i. sociale modifica le regole organizzative proprie del modello di base adottato (per esempio, il modello di società), in particolare quelle riguardanti la struttura proprietaria, la nomina e il funzionamento delle cariche sociali e degli organi di controllo. All’adozione della qualifica di i. sociale non è ricondotto alcun meccanismo di carattere premiale, quale per esempio, un’agevolazione tributaria, ma solo la possibilità di limitare la responsabilità patrimoniale dei partecipanti e l’esenzione dal fallimento.
Si definisce, invece, socialmente responsabile l’i. che scelga di ridimensionare il ruolo svolto dal profitto facendosi carico di ulteriori preoccupazioni di natura sociale e/o ecologica. L’assunzione volontaria di responsabilità viene perseguita principalmente mediante una governance cosiddetta multistakeholder, ossia caratterizzata dal coinvolgimento dei lavoratori e degli altri portatori di interessi – diversi dagli azionisti – nei processi decisionali aziendali, oltre che con l’introduzione di codici di autoregolamentazione e di particolari forme di contabilità, volte ad attestare l’effettivo livello di responsabilità dell’impresa.
Dà luogo a i. pubblica l’attività svolta da un ente pubblico in regime di concorrenza, effettiva o potenziale, qualora sia rivolta al perseguimento di uno scopo di lucro e non costituisca diretta e immediata rea;lizzazione di un fine pubblico. Si applicano anche allo Stato e agli altri enti pubblici, quando svolgono un’attività economica, lo statuto generale dell’imprenditore e, se l’i. ha per oggetto un’attività commerciale, lo statuto speciale conseguente. Tuttavia, in caso di insolvenza, operano la procedura della liquidazione coatta amministrativa e le altre previste in leggi speciali. Il fenomeno ha assunto dimensioni rilevanti in età repubblicana. L’art. 41, co. 3, della Costituzione fornisce la base costituzionale all’impiego da parte del pubblico potere dei tipici strumenti giuridici dell’attività economica: l’i. e la società. Ne consegue che l’i. pubblica si riconduce alla categoria economica delle aziende di produzione, venendo meno l’attributo di imprenditorialità quando essa si limiti a erogare beni e servizi per il soddisfacimento diretto di finalità di natura pubblicistica. I modelli di azione, che si sono anche succeduti nel tempo, sono diversi. Sono i.-organo le articolazioni dello Stato o di altro ente pubblico che esercitano, in via secondaria e accessoria rispetto ai fini istitutizionali, attività imprenditoriale. Si definiscono enti pubblici economici quelli che esercitano, in via esclusiva o principale, un’attività d’impresa. Se l’estensione del regime privatistico proprio dello statuto d’i. privata è la regola per l’ente pubblico economico, si deve sottolineare come per altro verso la sua organizzazione non possa comunque non risentire della sua intima natura pubblica, il che vale ad assoggettarlo, almeno parzialmente, alla disciplina pubblicistica. E ciò rende ragione del potere statuale nella nomina (o revoca) dei titolari degli uffici di vertice dell’ente pubblico economico, così come dei poteri di direttiva o di approvazione di atti particolarmente rilevanti nella vita dell’ente (come i bilanci o i programmi di attività). Sicché può dirsi che il rapporto tra lo Stato e i singoli enti economici rimane un rapporto di tipo pubblicistico, che si esprime attraverso interventi o provvedimenti rientranti nell’ambito di una attività amministrativa in senso stretto.
Per società a partecipazione pubblica si intendono le società che svolgono attività d’i. attraverso strutture di diritto privato (in particolare, s.p.a.). Il sistema delle partecipazioni statali e più in generale delle imprese pubbliche è profondamente mutato negli anni, seguendo un percorso analogo a quello di molte i. pubbliche in Europa, anche e soprattutto in relazione ai limiti imposti dalla normativa europea. All’attività imprenditoriale dello Stato svolta attraverso gli enti pubblici economici si è infatti venuto a sostituire il sempre più diffuso fenomeno delle c.d. privatizzazioni.
Il processo di privatizzazione, iniziato negli anni 1990 e motivato da esigenze di bilancio dello Stato, ha comportato la trasformazione delle imprese pubbliche in s.p.a., dapprima permettendo a queste ultime di conservare una partecipazione statale (cosiddetta impresaprivatizzazione formale), poi, avviandone in molti casi la progressiva dismissione (cosiddetta privatizzazione sostanziale).
Le i. a partecipazione pubblica – statale o di enti territoriali – hanno prevalentemente la forma di società per azioni. Se la maggioranza del capitale è in mano pubblica, si applicano i controlli della Corte dei conti (Corte cost. n. 466/1993); se è in mani private, l’impresa è sostanzialmente al di fuori dell’a. pubblica. Può permanere in taluni casi l’esercizio della cosiddetta ‘golden share’, che consente all’azionista pubblico di porre il veto ad acquisizioni di pacchetti azionari.
La nozione di i. assume rilievo, dal punto di vista fiscale, sia ai fini dell’identificazione dei soggetti che producono reddito d’i., e quindi con riferimento all’imposizione diretta, sia per l’individuazione di una parte dei soggetti passivi obbligati all’applicazione dell’IVA, ossia sotto il profilo dell’imposizione indiretta.
L’i. commerciale. - La nozione fiscale di i. commerciale è più ampia di quella civilistica, in quanto tende a prescindere dall’organizzazione quale elemento essenziale per la qualificazione dell’attività in termini di i., al fine di tassare ogni fonte di reddito, ovvero di assoggettare a IVA operazioni realizzate nell’ambito di un’effettiva attività economica.
Ai fini delle imposte sul reddito, ai sensi dell’art. 55 del d.p.r. 917/1986 (Testo unico delle imposte sul reddito, t.u.i.r.), sono redditi d’i. quelli che derivano dall’esercizio di un’i. commerciale. A tale scopo, per i. commerciale si intende l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività indicate all’art. 2195 c.c. (vale a dire: attività industriale diretta alla produzione di beni o servizi, attività intermediaria nella circolazione di beni, attività di trasporto, attività bancaria o assicurativa, altre attività ausiliarie alle precedenti), nonché di alcune attività agrarie previste dall’art. 32, co. 2, lett. b e c del t.u.i.r., se eccedono i limiti stabiliti per la qualificazione in termini di reddito agrario. Tutte queste attività sono considerate produttive di redditi d’i., anche se non sono organizzate in forma d’impresa. Rientrano nella nozione di i. commerciale, inoltre: l’esercizio di attività organizzate in forma d’i. e dirette alla prestazione di servizi che non rientrano nell’art. 2195 c.c.; lo sfruttamento di miniere, cave, torbiere, saline, laghi, stagni e altre acque interne, nonché dei terreni, per la parte derivante dall’esercizio delle attività agricole di cui all’art. 32 del t.u.i.r., pur se nei limiti ivi stabiliti, dove spettino alle società in nome collettivo e in accomandita semplice ovvero alle stabili organizzazioni di persone fisiche non residenti esercenti attività d’impresa. Il reddito d’i. è calcolato su basi effettive, attraverso un procedimento articolato, che parte dal bilancio di esercizio e giunge, mediante l’applicazione di specifiche disposizioni fiscali, alla ricostruzione analitica del reddito. Occorre inoltre precisare che, secondo il sistema delle imposte sul reddito, tutti i redditi prodotti dalle società di persone commerciali o dalle società di capitali sono considerati redditi d’i.; da ciò emerge che l’attività posta in essere dalle società a forma commerciale, indipendentemente dall’oggetto e dall’attività concretamente svolta, deve essere qualificata in termini di impresa. Una deroga a questo principio è costituita dalla disciplina delle società non operative, vale a dire delle società che realizzano nel corso di un periodo d’imposta un valore della produzione inferiore a un reddito figurativo individuato in ragione delle immobilizzazioni presenti nel patrimonio societario; a tali società – definite anche società di comodo e considerate prive di i. – viene attribuito un reddito calcolato in via forfetaria.
Per quanto riguarda l’IVA, la nozione di i. costituisce, insieme all’esercizio di arti o professioni, l’elemento soggettivo del presupposto generale dell’imposta (costituito, appunto, dalla cessione di beni o prestazione di servizi nell’esercizio di i., arti o professioni). L’art. 4 del d.p.r. 633/1972 definisce l’esercizio d’i. quale l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività commerciali o agricole di cui agli art. 2135 e 2195 c.c., anche se non organizzate in forma d’i., nonché l’esercizio di attività, organizzate in forma d’i., dirette alla prestazione di servizi che non rientrano nell’art. 2195 c.c. Tale nozione presenta alcune differenze rispetto a quella formulata nel t.u.i.r. ai fini delle imposte dirette, soprattutto in quanto ricomprende anche l’i. agraria. In via generale, invece, la definizione di i. ai fini dell’IVA risente dell’influenza costante della normativa comunitaria, dalla quale l’imposta discende; normativa che tende a rendere la nozione funzionale agli obiettivi europei, in base ai quali è necessario che l’IVA sia applicata nell’esercizio di tutte le attività di produzione o di scambio dirette al consumo e operanti nel mercato. Ai fini IVA si considerano, in ogni caso, effettuate nell’esercizio di i. le cessioni di beni e le prestazioni di servizi realizzate da società di persone, da società capitali, da enti pubblici e privati che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali o agricole. Particolari disposizioni si prevedono per gli enti che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali o agricole, ove sono assoggettate a IVA solo le cessioni di beni e le prestazioni di servizi realizzate nell’esercizio delle attività commerciali o agricole ovvero determinate operazioni tassativamente individuate e considerate oggettivamente commerciali. Non sono considerate i., anche ai fini IVA, le società che non realizzano un’attività produttiva ma si limitano al godimento di beni (le società, cioè, la cui attività consiste nel mero godimento di beni immobili o nel possesso di partecipazioni societarie non strumentale allo svolgimento di altre attività).
L’i. agricola. La nozione di imprenditore agricolo rileva, ai fini tributari, per l’individuazione dei soggetti che realizzano il presupposto IRPEF del possesso di redditi fondiari, nell’ambito dei quali si collocano, in particolare, i redditi agrari, cioè i redditi che si ritraggono dallo svolgimento di un’i. agricola. Ai sensi dell’art. 32 del t.u.i.r. (d.p.r. 917/1986), il reddito agrario è infatti costituito dalla parte del reddito medio ordinario dei terreni imputabile al capitale d’esercizio e al lavoro di organizzazione impiegati, nei limiti della potenzialità del terreno. Il limite della ‘potenzialità del terreno’ definisce la linea di demarcazione fra l’i. agricola e quella commerciale, in quanto ogni attività che travalica le capacità produttive del terreno entra nell’area dell’i. commerciale. La nozione di i. agricola, e i limiti oltre i quali l’i. non può essere ritenuta tale, sono individuati dal legislatore nell’art. 32 del t.u.i.r., in base al quale sono considerate attività agricole: le attività dirette alla coltivazione del terreno e alla silvicoltura; l’allevamento di animali con mangimi ottenibili per almeno un quarto dal terreno e le attività dirette alla produzione di vegetali tramite l’utilizzo di strutture fisse o mobili, anche provvisorie, se la superficie adibita alla produzione non eccede il doppio di quella del terreno su cui la produzione stessa insiste; le attività dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione, ancorché non svolte sul terreno, di prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali (art. 2135 c.c., co. 3). Alcune attività, come l’agriturismo, sono inoltre definite ‘agricole’, ai fini fiscali, in base a normative specifiche. Va infine rimarcato che il reddito agrario è un reddito medio ordinario, determinato, ai sensi dell’art. 34 del t.u.i.r., mediante l’applicazione di tariffe d’estimo stabilite per ciascuna qualità e classe di terreno, in base alle norme della legge catastale periodicamente aggiornate.
Secondo il sistema IVA le operazioni realizzate nell’esercizio dell’i. agricola sono soggette all’imposta e, a tal fine, si considera imprenditore agricolo colui che svolge le attività indicate nell’art. 2135 c.c. anche se non organizzate in forma d’impresa. Viene, quindi, effettuato un rinvio alla definizione civilistica di imprenditore agricolo, escludendo la rilevanza dell’organizzazione quale fattore determinante per la configurazione dell’impresa. Ai sensi dell’art. 34 del d.p.r. 633/1972, ai produttori agricoli che cedono prodotti agricoli e ittici, è riservato un regime fiscale semplificato caratterizzato dall’applicazione di peculiari aliquote e dal riconoscimento di una detrazione forfetaria dell’IVA sugli acquisti. Sono considerati produttori agricoli (dall’art. 34, co. 2, del d.p.r. 633/1972) coloro che svolgono le attività di cui all’art. 2135 c.c. o esercitano attività di pesca in acque dolci, di piscicoltura, di mitilicoltura, di ostricoltura e di coltura di molluschi e crostacei; peculiari organismi agricoli di intervento, che effettuano cessioni di prodotti in applicazione di regolamenti dell’Unione Europea, concernenti l’organizzazione comune dei mercati dei prodotti stessi; particolari tipologie di cooperative, consorzi o associazioni che svolgono determinate attività. Peculiari norme relative all’applicazione dell’IVA sono stabilite dall’art. 34 bis del d.p.r. 633/1972 anche per l’esercizio di attività agricole connesse.
L’i. familiare. Una particolare disciplina impositiva, ai fini delle imposte sul reddito, è dettata per le i. familiari (art. 5, co. 4 t.u.i.r, d.p.r. 917/1986), che sono individuate attraverso un richiamo alla normativa civilistica di cui all’art. 230 bis c.c. Per i. familiare si intende quella in cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo grado. La peculiare normativa fiscale è finalizzata a evitare un aggiramento della progressività dell’IRPEF da parte dell’imprenditore, che si realizzerebbe laddove quest’ultimo dividesse il reddito prodotto per i soggetti facenti parte della famiglia, che non partecipano però effettivamente all’attività, o non godono dei risultati dell’impresa. È stato previsto, quindi, che i redditi prodotti dall’i. familiare possano essere imputati a ciascun familiare in misura non superiore al 49% dell’ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore, laddove il familiare abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell’i., proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili. Tale disposizione può inoltre essere applicata a condizione che: i familiari partecipanti all’i. risultino nominativamente, con l’indicazione del rapporto di parentela o di affinità con l’imprenditore, da atto pubblico o da scrittura privata autenticata, anteriore all’inizio del periodo d’imposta, recante la sottoscrizione dell’imprenditore e dei familiari partecipanti; la dichiarazione dei redditi dell’imprenditore rechi l’indicazione delle quote di partecipazione agli utili spettanti ai familiari e l’attestazione che le quote stesse sono proporzionate alla qualità e quantità di lavoro effettivamente prestato nell’i., in modo continuativo e prevalente, nel periodo d’imposta; ciascun familiare attesti, nella propria dichiarazione dei redditi, di aver prestato la sua attività di lavoro nell’i., in modo continuativo e prevalente. Le quote di reddito imputate ai familiari, costituenti all’origine reddito d’i. e come tali tassate nella parte attribuita all’imprenditore, sono assimilate ai redditi da lavoro dipendente, in coerenza con la mancanza della componente del capitale con riguardo ai partecipanti all’i. diversi dall’imprenditore.
L’i. multinazionale. - Operando in mercati esteri, attraverso società controllate o collegate (cosiddette subsidiaries), l’i. multinazionale solleva alcune importanti questioni tributarie, legate, in particolare, all’esigenza di controllare i possibili abusi derivanti dalla pianificazione fiscale internazionale, ossia dalla politica imprenditoriale volta a individuare i paesi caratterizzati dalle discipline impositive maggiormente favorevoli, al fine di ridurre quanto più possibile il carico fiscale gravante sull’impresa. In linea generale, la pianificazione fiscale internazionale si deve svolgere nel rispetto delle norme interne e delle convenzioni internazionali in materia fiscale. Più in particolare, nella disciplina dell’i. multinazionale il sistema fiscale non può, da un lato, precludere la circolazione del lavoro e dei fattori produttivi al livello mondiale con politiche particolarmente restrittive o aggressive ma, dall’altro, deve contrastare i comportamenti volti a minimizzare il carico fiscale servendosi di vari artifici. A tal fine, nell’ordinamento nazionale sono state previste specifiche norme di contrasto, con riferimento ad atti o soluzioni organizzative ben individuate, nelle quali si evidenzia un intento elusivo. In questo ambito si collocano: le discipline generali sui paradisi fiscali (che mirano a contrastare gli abusi derivanti dalla localizzazione del reddito o dell’attività d’i. in paesi a bassa fiscalità, dove il carico fiscale è lieve o inesistente); la normativa in materia di Controlled foreign companies, contenuta nell’art. 167 del t.u.i.r. (d.p.r. 917/1986), volta a neutralizzare i benefici che un gruppo di i. italiano può ritrarre dalla localizzazione fittizia di una società del gruppo in un paradiso fiscale; la recente norma sulla ‘esterovestizione’ dell’attività d’i. (di cui all’art. 73, co. 5 bis e 5 ter, t.u.i.r.), finalizzata a contrastare la localizzazione di attività d’i. in paesi a bassa fiscalità; le disposizioni in materia di transfer pricing (art. 110, co. 7, t.u.i.r.) o quelle che dispongono l’indeducibilità dei corrispettivi pagati a i. situate in paradisi fiscali. Il sistema tributario nazionale tende anche ad agevolare l’i. multinazionale, riconoscendone, in determinate ipotesi, l’unità economica. È quindi possibile una tassazione consolidata dell’i. multinazionale, ricorrendo alcune condizioni (➔ consolidato fiscale). Per quel che concerne, invece, il rischio di una doppia imposizione nell’ambito dell’i. localizzata in diversi Stati, la questione è oggi disciplinata dalle convenzioni internazionali contro la doppia imposizione che tendono a ripartire la potestà impositiva tra gli Stati contraenti (➔ convenzione).
L’i. minore. - Destinataria di una disciplina semplificata sugli obblighi contabili e sugli adempimenti strumentali, nonché di un regime facilitato di determinazione del reddito ai fini IRPEF, l’i. minore è definita, ai sensi dell’art. 18 del d.p.r. 600/1973, sulla base del volume annuo di ricavi realizzato, che non deve essere superiore a 309.874 euro, se l’i. ha per oggetto un’attività di prestazioni di servizi, o a 516.456 euro, se ha per oggetto altre attività (tale nozione va distinta da quella di «piccolo imprenditore», di cui all’art. 2083 c.c.). La disciplina in esame si applica alle società in nome collettivo, alle società in accomandita semplice e alle società a esse equiparate, nonché alle persone fisiche che esercitano imprese commerciali; sono invece escluse dall’ambito di applicazione le società di capitali e gli enti commerciali. La determinazione del reddito delle i. minori è il risultato della somma delle principali componenti reddituali (quali: ricavi, spese documentate, quote di ammortamento, sopravvenienze attive e passive).
È il complesso di strategie, programmi, messaggi che un’i. attiva al fine di porsi in relazione con il contesto economico, sociale, culturale nel quale opera e del quale fa parte, con l’obiettivo di promuovere la propria immagine e quella dei beni/servizi che produce. Le forme e i modi attraverso i quali la comunicazione d’i. viene concretizzandosi nei singoli casi sono molteplici: può trattarsi di un messaggio pubblicitario; del design degli imballaggi nei quali sono contenuti i prodotti; della grafica di brochure promozionali o di manuali d’istruzione; dello stile e del contenuto dei giornali aziendali per il personale, ma anche del modo con il quale clienti e fornitori vengono accolti e trattati nelle sedi dell’i. ecc. La comunicazione d’i. sfrutta linguaggi e modalità espressive diversi e può essere attuata in modo sia volontario, con programmi, iniziative e messaggi specifici, sia involontario, quando, pur non essendovi l’intenzione dichiarata, viene messo in atto un processo comunicativo che veicola messaggi dell’i. verso il mondo nel quale essa opera e del quale è parte. È tipico, sotto questo profilo, il rapporto che si stabilisce, per es., fra l’i. e il suo contesto operativo, attraverso il comportamento dei dipendenti nei confronti del più diversificato pubblico di riferimento dell’i. stessa. Ogni i. ha un pubblico differenziato che è interessato alle sue operazioni, ai suoi prodotti, al suo sviluppo. Si può distinguere fra pubblico esterno all’i. e pubblico interno a essa. Del primo fanno parte i clienti, i fornitori, la comunità finanziaria, gli enti locali, i sindacati, gli opinion leaders (giornalisti, economisti ecc.). Del secondo fanno parte i dipendenti, i rappresentanti, i concessionari/distributori (che, anche se giuridicamente non fanno parte dell’i., ne vivono in gran parte problemi e realtà). In funzione dei contenuti dei programmi e delle iniziative di comunicazione e dei relativi destinatari, la comunicazione d’i. si articola in più segmenti che sono comunque fra loro strettamente correlati. Più precisamente, tali segmenti sono la comunicazione interna (rivolta a quanti operano all’interno dell’i. e quindi fondamentalmente al suo personale) e la comunicazione esterna, che può essere distinta in comunicazione istituzionale, comunicazione finanziaria e comunicazione di marketing. Infine, nell’ultimo ventennio del 1900, con l’aumentare delle esigenze e delle problematiche sociali, è venuto emergendo, nel complesso dei programmi di comunicazione delle i., un particolare insieme di iniziative denominate ‘programmi di responsabilità sociale’, cioè attività svolte dalle aziende per affiancare iniziative e interventi dello Stato e delle istituzioni in campo sociale e culturale. Attraverso tali attività le aziende comunicano messaggi al contesto in cui operano, segnalando la loro adesione a iniziative positive per il paese di cui fanno parte.
È l’insieme di conoscenze, valori, simboli, concezioni, modelli di comportamento, nonché di attività materiali che caratterizzano il modo di vita di un’impresa. Attraverso le proprie attività istituzionali, l’i. genera costantemente nuove esperienze che si sedimentano. Si configura così una cultura specifica, espressione dell’insieme dei valori definiti dall’esperienza, capace di rappresentare l’i. stessa all’interno del suo ambiente e anche nei confronti del mondo esterno. Questo tipo di cultura aziendale, più tipico e tradizionale, viene generalmente designato come corporate culture.
Un’altra forma di cultura d’i. è legata a un’attività di promozione imprenditoriale, che assume un valore strategico per la gestione dell’i. nel cui ambito tendono a prevalere nuove professionalità legate a un lavoro sempre più intellettuale. Questa tendenza diventa maggiormente manifesta con il passaggio dall’organizzazione aziendale di tipo tayloristico-fordista al modello di i. a rete verso il quale si vanno orientando le unità produttive. L’i. tende a trasformarsi in una rete di strutture, ma soprattutto in una rete di individui in cui si devono sviluppare ed esprimere capacità di autonomia intellettuale affinché siano in grado di operare positivamente per il conseguimento dei risultati. Si crea infine una rete di i. d’indotto verso cui viene trasferita la cultura aziendale, con l’intento di uniformare le azioni per il conseguimento di risultati adeguati agli obiettivi assegnati e agli standard di qualità perseguiti. L’i. tende così ad allontanarsi dalle forme pure di produzione totalmente internalizzate per privilegiare sempre più l’apporto di attività esternalizzate e diventa macroimpresa, ossia rete di i. che collaborano in vista di obiettivi comuni e, nello stesso tempo, anche rete di individui imprenditori di sé stessi. In questo modello, basato essenzialmente sull’autonomia dei diversi operatori, si rileva però la presenza di pericolose forze centrifughe, che tendono a dissolvere la concezione unitaria globale. La cultura d’i. diventa allora l’elemento in grado di sviluppare lo spirito di corpo aziendale e di determinare un’omogeneità di comportamenti.
Rappresentazione simbolica di un proposito, per mezzo di un motto e di una figura che vicendevolmente si interpretano. Già usata nel mondo greco-romano, l’i. fu diffusa specialmente nel Medioevo nella società cortese di Francia, da cui passò in Italia al tempo di Luigi XII. In Italia le sue regole furono fissate nel 16° e 17° sec. (P. Giovio, Dialogo delle imprese militari e amorose, 1555). La letteratura sulle i. è vastissima: basti ricordare, fra l’altro, i volumi di i. di scopo religioso o didattico, destinati spesso all’educazione dei principi. La moda delle i. passò nel 18° secolo. Grande fu la rilevanza delle i. nella storia dell’arte, dal Rinascimento al Barocco.
Impresa agricola ed energie da fonti rinnovabili di Pietro Masi