Principio-guida dell’azione morale, che include diversi significati: autodeterminazione, autodecisione, diritto alla libertà e alla riservatezza. Tematizzato in particolare nell’ambito della teoria etica del ‘principialismo nordamericano’ (fondata sui principi di a., beneficialità, giustizia), il rispetto dell’a. viene sovente ridotto al rispetto dell’a. decisionale di soggetti coscienti. Nella bioetica personalista, l’a. è una condizione ontologica dell’essere umano, cosciente e non cosciente: essa, pertanto, va rispettata sempre sul presupposto del riguardo per la vita umana (condizione di sussistenza di ogni principio ontologico).
L’a. privata costituisce un concetto fondamentale del diritto: in generale, è il potere dei privati di regolare liberamente i propri interessi e di decidere della propria sfera giuridica, nel rispetto dei limiti e degli obblighi stabiliti dall’ordinamento. In base al rapporto tra soggetto privato e ordinamento giuridico, l’a. privata viene definita di volta in volta o come potere riconosciuto ai privati ovvero come libertà originaria, fenomeno anzitutto sociale e preesistente a qualunque tipo di riconoscimento giuridico. La Costituzione non la menziona espressamente ma la tutela indirettamente all’art. 3 (come strumento necessario al pieno sviluppo della persona umana) e all’art. 41 (come iniziativa economica privata). All’interno del concetto generale di a. privata occorre distinguere varie categorie: si parla di a. contrattuale (art. 1322 c.c.) con riferimento specifico al potere di determinare liberamente il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge, sia in caso di contratti il cui schema astratto è previsto dal legislatore (contratti tipici), sia in caso di contratti che non appartengano a nessuno schema astratto previsto dal legislatore (contratti atipici), purché, in questo secondo caso, siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico. Si parla altresì di a. negoziale come categoria più generale dell’a. contrattuale perché riferita a tutti i negozi giuridici, benché occorra precisare che l’a. privata non si possa esplicare per tutti i negozi con la stessa ampiezza.
Si distingue inoltre tra a. individuale e a. collettiva, a seconda se si voglia fare riferimento alla libertà del singolo ovvero ad un potere, attribuito a gruppi di singoli soggetti (ad esempio, i sindacati), di regolare determinati interessi, comuni ai componenti, che vengono individuati come interessi del gruppo stesso (ad esempio, il potere di negoziare le clausole di un contratto collettivo); l’a. collettiva è oggi prevalentemente studiata dal diritto del lavoro. Negli ultimi decenni si parla anche di a. assistita: si intende con questo termine il potere attribuito ai privati di concludere specifiche pattuizioni negozi giuridici solo con la necessaria cooperazione di determinate associazioni di categoria.
L’a. è la capacità di autodeterminazione e autoregolazione riconosciuta ad alcuni enti pubblici, anche in chiave di decentramento amministrativo dello Stato. Rispetto alla forma più alta di a., che è quella politica e che consiste nell’autodeterminazione da parte della collettività, l’a. giuridica si identifica con la capacità di determinati enti e organi di agire in campo giuridico per il raggiungimento delle proprie finalità.
In particolare, si usa distinguere l’ a. normativa, consistente nella capacità di un ente di emanare norme giuridicamente vincolanti, dall’ a. organizzatoria, consistente nella capacità di darsi una struttura organizzativa (ciò che implica una potestà regolamentare e, per gli enti dotati di maggiore a., quali Regioni, Province, Comuni, una potestà statutaria), e dall’ a. finanziaria e contabile, consistente nella capacità di imporre propri tributi e, più in generale, di avere proprie fonti di entrata.
Forme particolari di a. sono poi disciplinate con riferimento alla scuola e all’università. Così, l’ a. scolastica racchiude varie forme di a., e cioè finanziaria, organizzativa-didattica e funzionale (consistente, quest’ultima, in particolare, nel riconoscimento alle istituzioni scolastiche di funzioni e competenze proprie dell’amministrazione centrale e periferica della pubblica istruzione relative alla carriera scolastica, all’amministrazione e gestione del personale, del patrimonio e delle risorse finanziarie), disciplinate dalla l. 59/1997, e dal d.p.r. 275/1999. L’ a. universitaria, che trova fondamento nella stessa Costituzione (art. 33), ha ricevuto attuazione attraverso la l. 168/1989, che ha riconosciuto alle università la personalità giuridica e un’ampia a. normativa, didattica, scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile.
A. tributaria e finanziaria. - È la facoltà degli enti locali (Regioni, Province e Comuni) di regolare le proprie entrate ( a. tributaria) e le proprie spese ( a. finanziaria) in modo indipendente rispetto allo Stato. Le Regioni e gli enti locali hanno goduto, fino alla riforma del titolo V della Costituzione (2001), di una limitata a. finanziaria e tributaria. Nella formulazione del 1948, l’art. 119 Cost. attribuiva al legislatore ordinario l’individuazione delle forme e dei limiti dell’a. finanziaria delle Regioni e il coordinamento della finanza statale e locale. Inoltre, lo stesso art. 119 demandava al legislatore ordinario l’individuazione dei «tributi propri» delle Regioni e delle quote di tributi erariali, in relazione ai bisogni delle stesse per le spese necessarie ad adempiere le loro funzioni. In tale contesto costituzionale, la riforma del sistema tributario italiano attuata negli anni 1970 determinò la pressoché totale sospensione dell’a. tributaria degli enti locali, presente dalla riforma Minghetti del 1865. Si assistette così all’affermazione di un modello di finanza locale derivata (ossia, fondato essenzialmente su trasferimenti erariali). Pur senza modifiche costituzionali, questo modello è stato parzialmente abbandonato a partire dal 1990 e durante tutto il decennio seguente al fine di favorire maggiori spazi di autonomia. L’art. 54 della l. 142/1990 ha riconosciuto la potestà impositiva degli enti locali (ribadita poi nel d. legisl. 267/2000) e, successivamente, l’art. 52 del d. legisl. 446/1997 ha affermato la potestà regolamentare generale dei Comuni e delle Province in tema di entrate proprie. In tale quadro normativo, questa limitata a. tributaria mal si conciliava con l’a. di cui godevano gli enti locali ai sensi degli art. 5 e 128 della Costituzione. Infatti, all’a. finanziaria riconosciuta agli enti locali e costituita dalla responsabilità della determinazione dei propri indirizzi politico-amministrativo non corrispondeva una piena autonomia di individuazione delle entrate tributarie. Con la nuova formulazione dell’art. 117 Cost. è stata quindi attribuita alle Regioni una competenza legislativa generale esclusiva («in ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato») e allo Stato la legislazione esclusiva per specifiche materie tra le quali «il sistema tributario e contabile dello Stato».
Alla legislazione concorrente Stato-Regioni è stato, invece, attribuito il «coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario». In tal modo si è ridisegnata l’a. finanziaria e tributaria delle Regioni e degli altri enti locali. L’a. finanziaria degli enti locali (i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni) è ora riconosciuta dal nuovo art. 119, co. 1 Cost. ed è stata espressamente definita come «autonomia di entrata e di spesa». A essa è stata affiancata quella tributaria (art. 119, co. 2 Cost.). Poiché l’art. 117 Cost. riferisce indistintamente sia alle Regioni sia agli altri enti locali il potere di «stabilire» e «applicare» i tributi e le entrate proprie, il riconoscimento a livello costituzionale dell’a. tributaria va coordinato con il principio di riserva di legge stabilito dall’art. 23 della Costituzione. Infatti, se per le Regioni non si pone alcun problema di osservanza della riserva, in quanto a esse sono pacificamente riconosciuti poteri legislativi, altrettanto non può dirsi per gli altri enti locali, perché questi ultimi non sono dotati di analoghi poteri. Ciò, dunque, esclude l’esistenza di un autonomo potere di istituzione di tributi per gli enti locali diversi dalle Regioni, se non nei limiti disposti da atti (statali o regionali) aventi forza di legge. Pur essendo gli atti normativi regionali idonei a «stabilire» tributi propri (in quanto costituiscono «leggi» che assolvono la riserva di cui all’art. 23 Cost.), la competenza esclusiva riconosciuta allo Stato in materia di «sistema tributario dello Stato» e la competenza concorrente Stato-Regioni in materia di «coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario» delimitano fortemente la potestà normativa regionale. In questo contesto dei rapporti tra a. tributaria locale e potere impositivo dello Stato vanno inserendosi i primi interventi degli enti locali tesi a individuare i propri tributi allo scopo di modificarli secondo le singole esigenze.
Nell’intervenire per arginare le istanze autonomistiche degli enti locali, la Corte costituzionale ha statuito che «non può considerarsi ‘tributo proprio della Regione’, nel senso in cui oggi tale espressione è adoperata dall’art. 119, co. 2 Cost., essendo indubbio il riferimento della norma ai soli tributi istituiti dalle Regioni con propria legge, nel rispetto dei principi del coordinamento con il sistema tributario statale» (Corte cost., sent. 296/2003). Al fine di definire i «tributi propri», la Corte ha ritenuto irrilevante sia l’attribuzione del gettito dell’imposta, sia l’espletamento dell’attività amministrativa connessa alla riscossione da parte dell’ente locale, sia il potere di variazione dell’importo del tributo. Secondo la Corte quello che rileva è la fonte normativa del tributo; così facendo, la Corte ha escluso dal novero dei «tributi propri»: l’imposta comunale sugli immobili (Corte cost., sent. 75/2006), il tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi (Corte cost., sent. 397/2005), l’imposta regionale sulle attività produttive e la tassa automobilistica regionale (Corte cost., sent. 296/2003).
Come concetto etico, il principio dell’a. è teorizzato nella filosofia di I. Kant. In essa, in antitesi a ‘eteronomia’ (che si ha quando la volontà si lascia determinare da una norma estrinseca, per il tramite delle inclinazioni sensibili), si definisce come a. della ragion pratica il determinarsi della volontà pura in virtù della sua essenza razionale (ossia della sola forma universale della legge morale, che è il dovere), escludendo ogni impulso sensibile. Questo principio dell’a. pratica è quindi l’espressione della libertà del volere, sia nel suo aspetto negativo di esclusione di ogni norma che non derivi dalla sua stessa natura, sia in quello positivo di affermazione del potere dello spirito di dare a sé stesso la propria norma.
In meccanica l’a. è la capacità, per macchine e impianti, di funzionare compiendo il proprio servizio per un periodo di tempo più o meno lungo senza rifornimento di energia o di materiali che forniscano l’energia occorrente per il funzionamento. Nei mezzi di trasporto, l’a. è la lunghezza del percorso che essi possono effettuare senza attingere a una sorgente esterna di energia. Per gli aeromobili l’ a. di volo si distingue in a. di tempo e a. di distanza; la prima ha per condizione il minimo consumo e la minima velocità, che permettono di rimanere in volo il maggior tempo possibile; la seconda comporta una velocità di regime e un consumo tali da consentire di percorrere la massima distanza possibile.