Si chiama c. fortuito qualunque accadimento che renda inevitabile il verificarsi di un evento, costituendo l’unica causa efficiente di esso. Non ha valore concreto la distinzione tra c. fortuito e forza maggiore; allo stesso modo è da negare una costante coincidenza tra c. fortuito e impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile. L’esistenza del c. fortuito libera il soggetto da ogni e qualsiasi responsabilità: se concerne un rapporto obbligatorio ne determina l’estinzione, se si tratta di un fatto dannoso extracontrattuale, esonera il soggetto dall’obbligo di risarcire il danno (art. 2051-2052 c.c.). Secondo un diffuso orientamento il c. fortuito, considerato come esimente di responsabilità, dovrebbe far qualificare quest’ultima come oggettiva, prescindendosi totalmente dalla colpa.
Il concetto di c. ha assunto nella storia della filosofia diversi significati a seconda che esso sia stato inteso in senso soggettivistico (come incapacità di conoscere le cause di un evento) o in senso oggettivistico (se riferito a eventi che sono privi di cause o sono frutto di serie causali intrecciate e indipendenti). Aristotele distingue tra τύχη (fortuna) e αὐτόματον (c. in senso proprio): entrambi sono effetti accidentali di cause finali esterne a essi e concomitanti, dove la τύχη indica l’evento che avrebbe potuto essere intenzionalmente prodotto, mentre l’αὐτόματον può anche esprimere un evento completamente estraneo all’attività intenzionale umana. Il senso oggettivistico di c. prevale in Epicuro, il quale attenua il rigido determinismo democriteo introducendovi un c. privo di cause mediante la nozione di clinamen (➔). Per gli Stoici, assertori di un universo perfettamente determinato, così come per i filosofi cristiani convinti dell’esistenza di un Dio provvidente, si dà c. solamente per l’incapacità della ragione di trovare le cause di un fenomeno. Analoga concezione ritorna in Spinoza, per il quale il c. è il risultato di una carenza della nostra conoscenza, e in Leibniz che, distinguendo fra contingenza del sapere umano e necessità di quello divino, fa del c. una espressione della prima e imperfetta forma di conoscenza. In età moderna H. Bergson attribuisce il c. a un’illusione soggettiva determinata dalla sorpresa di rinvenire un ordine meccanico dove ci si attendeva un ordine finalistico (e viceversa).
La teoria del c. come intersezione di serie causali indipendenti è stata sostenuta nel 19° sec. da A.-A. Cournot e accolta e sviluppata da pensatori positivisti, dai quali il c. viene trattato in termini di una sua possibile previsione, e quindi in termini di probabilità. L’assunzione di una radicale casualità è poi alla base della metafisica di C.S. Peirce, il quale pone il c. come un carattere stabile dell’universo che ne spiega la varietà e diversità. Al fondamentale uso della nozione di c. fatto dall’evoluzionismo darwiniano si riallaccia J. Monod, che vede la fonte ultima del progetto riproduttivo nel messaggio genetico i cui casuali errori replicativi vengono conservati e trasmessi dal meccanismo dell’invarianza guidato dalla più ferrea necessità. Il principio di indeterminazione di W. Heisenberg e gli sviluppi della meccanica quantistica, infine, hanno posto il problema dell’esistenza di eventi intrinsecamente casuali a livello delle particelle subatomiche.
Il termine c. indica la forma particolare che il nome assume, in lingue flessive o agglutinanti, per esprimere un determinato rapporto sintattico: per es., in latino il c. genitivo esprime, di solito, il rapporto di specificazione rispetto ad altro nome. Il numero dei c. varia da lingua a lingua. Le lingue caucasiche e ugrofinniche ne contano più di quelle indoeuropee: otto i c. che attribuiamo all’indoeuropeo e che ha il sanscrito (nominativo, accusativo, strumentale, dativo, ablativo, genitivo, locativo, vocativo); cinque il greco (nominativo, genitivo, dativo, accusativo, vocativo), sei il latino (i precedenti più l’ablativo) che in latino volgare si riducono a due (un c. retto, l’antico nominativo, e un c. obliquo che riassume le funzioni di tutti gli altri casi), quattro il germanico mantenutisi nel tedesco moderno. L’italiano, come le altre lingue romanze moderne, ha quasi perduto l’alterazione del nome nei c. (solo nel pronome si ha ancora un nominativo: io, egli; un accusativo: me, lui; un dativo: mi, gli); ricorre invece per alcuni c. alle preposizioni.
In statistica e calcolo delle probabilità, con il termine c. s’intende generalmente la risultante di un gran numero di fattori i cui effetti in un fenomeno è difficile, o impossibile, studiare singolarmente; si dice, per es., che nel lancio di un dado il risultato è determinato dal caso. In tali condizioni è impossibile conoscere in anticipo il risultato (nell’es. considerato, quale faccia mostrerà il dado); è possibile però fare previsioni sull’andamento del fenomeno, basandosi sulla regolarità che il fenomeno presenta, empiricamente, a lungo andare. Tali previsioni sono fondate sull’accostamento tra il concetto matematico di probabilità e le osservazioni empiriche, accostamento descritto dalla legge (o postulato) empirica del c., che esprime la nostra fiducia nel permanere della regolarità del fenomeno: «facendo n prove su un evento di probabilità costante p, indicando con m il numero di volte che l’evento si verifica, la frequenza m/n dà un valore approssimato della probabilità p, e ordinariamente l’approssimazione è tanto migliore quanto più è grande il numero n delle prove. Così, nell’es. citato, se il dado è ben costruito, si ammette per ragioni di simmetria che la probabilità sia la stesssa per ogni faccia, e quindi che la probabilità che si presenti la faccia contrassegnata con il numero 1 sia 1/6, e ci si aspetta, lanciando 100 volte il dado, che essa compaia all’incirca 100/6≈16 volte. Le probabilità di eventi più complessi vengono elaborate dal calcolo delle probabilità (➔), mediante il quale sono formulate leggi casuali a cui obbediscono, nel senso detto sopra, i fenomeni dipendenti dal caso.