Parte variabile del discorso che la tradizione grammaticale classica interpretava e definiva come la categoria che ha la funzione di sostituire il nome, ma che in effetti assolve la più vasta funzione d’indicare, senza nominarli, esseri e cose, precisandone la quantità e la qualità, e a volte i rapporti spaziali. Il p. ha quindi non solo funzione anaforica e cataforica, cioè di richiamare o anticipare una nozione già espressa o che verrà espressa dopo (es.: la casa che ho comprato; questa è la mia casa), ma anche quella di gesto linguistico, di designare nozioni, persone o cose, non espressamente indicate (es.: lui!; è proprio questo; è quello).
Nelle lingue indoeuropee, la categoria del p. è di formazione molto antica; ha in comune con la categoria del nome la distinzione morfologica dei casi, mentre il genere grammaticale non sempre è distinto (per es., nei p. personali: gr. ἐγώ, lat. ego, it. io; gr. σύ, lat. e it. tu ecc.) e il numero è spesso espresso semanticamente e non morfologicamente (gr. σύ, lat. e it. tu del sing., di contro a ἡμεῖς, nos e noi del plurale). La categoria si articola in p. personali (it. io, tu ecc.); possessivi (it. mio, tuo ecc.); riflessivi (it. sé, si); dimostrativi (it. questo, quello ecc.); indefiniti (it. qualcuno, qualcosa ecc.); relativi (it. il quale, la quale ecc.); interrogativi (it. che, chi).
Nella lingua italiana, i p. personali sono i soli, delle varie categorie a flessione nominale, ad avere una loro declinazione che non sia semplice distinzione fra singolare e plurale; così, per es., al nominativo io si oppongono me per il compl. oggetto in posizione forte e dopo preposizione, mi per il compl. di termine e per il compl. oggetto in posizione debole. Le forme me, te, lui, lei, noi, voi, loro (e analogamente sé nel riflessivo) sono comunemente dette forti o toniche, mentre le forme mi (me), ti (te), lo e gli, la e le, ci (ce), vi (ve), li, le, si sono dette deboli o atone.