C. del negozio giuridico Intesa da alcuni in senso soggettivo come l’ultimo motivo determinante della volizione negoziale, viene rappresentata oggi dalla dottrina prevalente quale la ragione e la funzione economico-sociale del negozio, quindi in senso oggettivo è nettamente distinta dallo scopo individuale che spinge il soggetto (o i soggetti) al negozio stesso (motivo). In questo senso si distingue anche dagli altri elementi essenziali del negozio: sia dall’oggetto, sia dall’intento. Nella sua più coerente formulazione la c. vale a identificare il tipo negoziale, ma nella dottrina sembra prevalere una tendenza contraria; si osserva che spesso negozi giuridici hanno identità di funzione e pertanto sono qualificabili solo in termini di struttura. La c. è illecita quando è contraria a norme imperative, ordine pubblico e buon costume; tale illiceità rende nullo il negozio (art. 1343 c.c.). Si ritiene che la c. possa essere illecita solo nei negozi atipici, essendo determinata in quelli tipici dalla legge. Ciò non esclude che un determinato tipo negoziale, e specificamente contrattuale, possa essere, per così dire, piegato a svolgere concretamente una funzione illecita, il che avviene soprattutto mediante collegamento negoziale. Si ritiene che non vi sia vera e propria illiceità della c. nelle altre ipotesi che sembrano essere riportate sotto tale concetto dal codice, e cioè nel caso del negozio in frode alla legge e in quello dell’illiceità del motivo determinante.
C. petendi Espressione latina («ragione del domandare») con la quale si indica l’insieme dei fatti che, alla luce della norma di legge invocata, hanno l’effetto di costituire il diritto soggettivo fatto valere in giudizio con la domanda proposta. I fatti che confluiscono nella c. petendi vengono pertanto detti costitutivi, per distinguerli da quelli posti a fondamento delle eccezioni di merito sollevate dal convenuto, che sono chiamati estintivi, impeditivi o modificativi, in quanto negano il diritto affermato dalla controparte. L’incidenza della c. petendi sulla disciplina del processo è notevole. Rappresentando, infatti, assieme al petitum, uno degli elementi oggettivi che contribuiscono all’identificazione dell’azione esercitata (cosa giudicata), la c. petendi ha rilevanza in tutti quegli istituti la cui disciplina dipende dall’esatta determinazione dell’oggetto del giudizio. Ciò accade, per es., in relazione al contenuto della citazione, per quel che concerne la funzione di edictio actionis che a questa appartiene, alla disciplina della litispendenza e della continenza, nonché in relazione alla problematica dei limiti oggettivi del giudicato.
In quanto elemento identificativo della domanda, la c. petendi interviene anche quando occorra determinare la sussistenza di vincoli di connessione oggettiva tra cause diverse. Può accadere, infatti, che tra due distinte cause si verifichi un’identità (anche parziale) della fattispecie costitutiva, o addirittura che una causa, rientrando nella fattispecie costitutiva di un altro diritto, si ponga come questione pregiudiziale rispetto alla decisione sul rapporto sostanziale dedotto in giudizio in via principale. In dottrina si usa anche distinguere tra c. petendi attiva, con riferimento ai fatti costitutivi del diritto azionato, e c. petendi passiva, con riferimento ai fatti lesivi del diritto dalla cui allegazione emerge il bisogno di tutela giurisdizionale.
Il concetto di c. ha significato correlativo a quello di ‘effetto’ significando comunemente ciò da cui e per cui una cosa è. Il rapporto della c. all’effetto costituisce la causalità. L’idea di questo rapporto riferito a tutta la realtà costituisce il principio di causalità. C. ed effetto presuppongono entrambi il divenire, l’accadere e la capacità attiva di uno degli eventi di esso (causa) a produrre un evento ulteriore (effetto). S’intende quindi che la legittimità dell’assegnazione della causalità (o, come si suole altrimenti dire, con formula equivalente, del ‘nesso causale’) è condizionata dalla legittimità dell’asserzione della potenza determinatrice di un evento nei riguardi di un altro evento. Giacché tale asserzione della potenza determinatrice può considerarsi arbitraria (dal momento che quanto noi conosciamo nell’ordine fenomenico è pur sempre soltanto la successione, se anche regolare e costante), contro la concezione della causalità, accusata di essere un indebito trapasso dal post hoc al propter hoc, si è sempre volta la critica scettica, già nell’età antica e medievale, ma soprattutto in quella moderna, in cui tale critica fu portata alla sua più rigorosa formulazione da D. Hume. Contro questo I. Kant rivendicò il valore della causalità come categoria fondamentale dell’intelletto, che pensando la natura le impone tale forma.
La relazione di causalità è diventata uno dei temi di maggiore rilievo nel panorama epistemologico della seconda metà del 20° sec. sia per gli sviluppi della concezione neoempiristica sia per le teorie alternative che hanno messo in discussione alcuni principi fondamentali di quella concezione. Nell’ambito di un orientamento radicalmente antimetafisico, i neoempiristi avevano sostanzialmente ripreso l’analisi proposta da D. Hume verso la metà del Settecento, secondo la quale l’asserzione che un evento E1 è causa di un evento E2 si può parafrasare dicendo che: eventi simili a E1 risultano regolarmente congiunti nell’esperienza a eventi simili a E2; eventi simili a E1 precedono eventi simili a E2 con un intervallo costante; per associazione di idee siamo condizionati ad attenderci E2 ogniqualvolta osserviamo E1. In luogo del ricorso di Hume alla psicologia associazionistica, i neoempiristi introducevano la richiesta per cui gli enunciati che garantiscono l’inferenza da E1 a E2 devono essere non semplici generalizzazioni ma vere e proprie leggi di natura. Una parafrasi ancora più astratta delle asserzioni causali era stata elaborata nell’ambito della teoria neoempiristica della spiegazione (➔), dovuta essenzialmente a C.G. Hempel, per la quale la spiegazione causale risulta un caso particolare di quella nomologico-deduttiva e le c. sono concepite come i fattori esplicativi di un dato evento. Oltre che per la teoria esplicativa della causalità, la concezione empiristica si è rivelata feconda anche per l’elaborazione delle varie teorie probabilistiche e funzionalistiche. Le prime costituiscono un tentativo di riformulare il punto di vista di Hume in un linguaggio probabilistico: il probabilismo è stato ritenuto inevitabile dopo che la meccanica quantistica sembrava aver messo in discussione il principio di causalità e il determinismo causale, ritenuti confutati dal comportamento prevedibile solo probabilisticamente delle particelle subatomiche. Nonostante questa tendenza verso l’indeterminismo, c’è tuttavia sufficiente accordo sul fatto che il principio di causalità può continuare ad avere un ruolo come postulato metodologico e che il linguaggio causale può continuare a convivere con quello probabilistico. Nella prospettiva probabilistica la relazione causale è interpretabile come l’incremento della probabilità del verificarsi di un evento E2 in seguito al verificarsi di un evento E1. Nella prospettiva funzionalistica, invece di parlare di correlazioni statistiche, si parla di dipendenza funzionale tra variabili.
Il funzionalismo, elaborato particolarmente da economisti e sociologi, risale almeno a E. Mach ed era stato teorizzato da B. Russell, secondo il quale in tutte le scienze avanzate, sull’esempio della fisica, le leggi causali sarebbero state rimpiazzate da relazioni matematiche funzionali. La previsione di Russell non si è tuttavia verificata: le scienze biologiche, quelle umane e la stessa fisica non hanno abbandonato la terminologia causale. Su ciò hanno peraltro insistito quanti propendono a interpretare la relazione causale non in termini di regolarità empiriche ma come trasmissione di energia, a volte parafrasata in termini di trasmissione d’informazione. A questa interpretazione sono riconducibili tanto la teoria della causalità di M. Bunge, per il quale essa è una relazione di produzione, quanto la cosiddetta teoria dei poteri causali di R. Harré. A conforto della tesi di Bunge vengono talvolta invocate le ricerche di J. Piaget sulla genesi del concetto di c. nei bambini, i quali sono coscienti prima di tutto della propria capacità di produrre o manipolare oggetti e attribuiscono poi la stessa capacità agli oggetti. Nel modo più chiaro e conseguente questa interpretazione è stata articolata da G.H. von Wright che, riprendendo tesi di R.G. Collingwood, ha basato la nozione di c. su quella di azione, cioè sul provocare intenzionalmente determinati effetti, connettendola a una concezione ‘sperimentalistica’ della causalità.
Nell’ambito del cosiddetto postpositivismo (T.S. Kuhn, P.K. Feyerabend, I. Lakatos) vi sono poi diversi spunti a favore di una concezione antiempiristica della causalità. In particolare, s’insiste sul fatto che le spiegazioni causali sono dipendenti dalle teorie di sfondo, per cui la risposta alla domanda «qual è la causa dell’evento En?» è diversa a seconda della teoria presupposta e degli obiettivi che si pone il ricercatore. A D.K. Lewis si deve infine la cosiddetta teoria controfattuale della causalità, fondata sull’antica nozione della c. come conditio sine qua non, che ha avuto un ampio ruolo nella filosofia del diritto (e che era stata utilizzata da M. Weber per la soluzione del problema dell’imputazione causale in storia). Mettendo in rilievo che una conditio sine qua non per un dato evento viene espressa attraverso un condizionale controfattuale, cioè un periodo ipotetico dell’irrealtà come «se quel fiammifero non fosse stato sfregato non si sarebbe acceso», Lewis, mediante gli strumenti della semantica modale, ha mostrato che un tale enunciato può essere parafrasato nel seguente: «in tutti i mondi possibili più simili all’attuale in cui il fiammifero non è stato sfregato, esso non si è acceso», ritenendo non essenziale per l’analisi della relazione di c. il ricorso alle problematiche leggi di natura (➔ legge).