Nel significato più ampio e generico, ogni singolo contenuto del pensiero, ogni entità mentale, e più in particolare, la rappresentazione di un oggetto alla mente, la nozione che la mente si forma o riceve di una cosa reale o immaginaria.
Il termine greco ἰδέα entrò nel linguaggio filosofico già con Democrito, che designò con esso l’atomo. Ma la sua grande fortuna derivò dall’uso che ne fece Platone. ᾿Ιδέαι o εἴδη furono per lui le uniche vere realtà eterne, fuori del tempo e dello spazio, oggetto di scienza, contrapposte al mondo sensibile che di quelle è pallida immagine. Tale aspetto formale e obiettivo dell’i. platonica si accentuò nella stessa critica aristotelica, che ridusse l’εἶδος a pura forma della concreta individualità, e si perpetuò sostanzialmente in tutto il pensiero del Medioevo, pur attraverso le polemi;che dei realisti e dei nominalisti. Nell’età moderna il termine i. è venuto invece assumendo sempre più quel significato di entità mentale, di contenuto del pensiero, che poi gli è rimasto anche nella sua accezione più comune.
Per R. Descartes i. è ogni contenuto di coscienza in generale (da cui poi la sua distinzione fra i. innate, non sopravvenute dall’esterno alla coscienza, i. avventizie, suscitate nell’anima dal mondo esterno, e i. fittizie, formate dall’attività mentale); e come contenuto mentale in genere fu intesa l’i. da J. Locke e D. Hume, che tuttavia negarono ogni forma di innatismo. In una prospettiva radicalmente empiristica, G. Berkeley chiamò i. anche le percezioni sensibili. Un significato più specifico attribuì al termine I. Kant, che l’adoperò per designare i concetti della ragione, i quali, a differenza delle categorie dell’intelletto, non hanno per la conoscenza valore costitutivo, ma semplicemente regolativo, rappresentando ideali a cui si deve tendere nell’ampliamento della conoscenza. Una valenza fortemente metafisica assunse poi l’i. in G.W.F. Hegel, da lui considerata la categoria ultima, sintesi suprema dell’essere e del pensiero, archetipo platonico del reale ma anche ragione che, attraverso un processo dialettico di esternazione e sviluppo, raggiunge infine la propria autocoscienza e si realizza nell’assoluto. Avversando le tesi hegeliane, A. Schopenhauer concepì l’i. come oggettivazione immediata della volontà, che le arti esprimono direttamente, ciascuna secondo gradi diversi. E. Husserl, infine, tornò a parlare di εἶδος, con cui intendeva il contenuto oggettivo delle espressioni, ossia l’essenza ideale oggetto di un’intuizione non empirica, bensì eidetica (➔ eidetico).
Il valore assunto dal concetto di i. nel pensiero sull’arte deriva dall’aver Platone opposto agli imitatori tecnici i veri artisti che mirano a rappresentare non l’oggetto quale appare, ma l’i. dell’oggetto. Tale concezione, presente anche in Aristotele e in Plotino e prevalente in Italia nel 16° sec., sfociò nella teoria secondo la quale l’i. dell’artista deve emendare il modello naturale (G. Vasari, L. Dolce). Variamente formulata nel secolo successivo, ebbe da G.P. Bellori nel 1664 un’organica sistemazione rimasta esemplare fino al neoclassicismo, che accettò da J.J. Winckelmann la tesi della perfezione greca come attuazione dell’i. della bellezza assoluta e però degna d’imitazione.