Forma di condotta comunicativa atta a trasmettere informazioni e a stabilire un rapporto di interazione che utilizza simboli aventi identico valore per gli individui appartenenti a uno stesso ambiente socioculturale. Dalle peculiarità della lingua rispetto a ogni altro codice semiologico derivano le peculiarità del l. verbale rispetto a ogni altro tipo di semiosi. La capacità di comunicare (cioè di individuare stati dell’esperienza collegandoli a variazioni dello stato di un mezzo fisico nell’ambito di un codice) non è privilegio esclusivo dell’uomo: oggi conosciamo un numero crescente di diversi codici di comunicazione che vengono adoperati dalle più varie specie animali.
Tra i codici animali e i molti codici non verbali o artificiali foggiati dall’uomo, la classe delle lingue storico-naturali spicca per peculiarità (➔ lingua), in quanto il complessivo campo semantico di ciascuna di queste lingue (l’insieme delle cose dicibili in una lingua storico-naturale) coincide con la totalità delle esperienze possibili, diversamente da quanto accade per ogni altro tipo di codice, sia animale, sia foggiato artificialmente dall’uomo. Tale possibilità di individuare ogni tipo di esperienza grazie a uno dei segni di una lingua storico-naturale conferisce al l. verbale una vasta gamma di funzioni nella vita individuale e collettiva della specie.
A rendere vasta la gamma di funzioni di un l. verbale concorre, senza dubbio, il fatto che le variazioni dello stato fisico realizzanti il versante significante dei segni linguistici possono essere, e sono normalmente, di carattere fonico-acustico. La vocalità non è una caratteristica necessaria del l. verbale. Il fatto che i segni linguistici possano essere e siano in effetti realizzati graficamente, a volte anche mimicamente e spesso endofonicamente, prova che la vocalità non è un requisito indispensabile per il linguaggio. Ciò non significa che la preferenza accordata alle realizzazioni di tipo vocale sia casuale o di scarsa importanza. Anzitutto, può osservarsi che la realizzazione fonico-acustica di un segno è possibile con un dispendio di energia minimo rispetto a realizzazioni grafiche o mimiche; inoltre, essa è possibile sfruttando un materiale come l’aria, presente in tutto il pianeta e indispensabile per ogni vivente, mentre realizzazioni grafiche richiedono il reperimento di appositi materiali; essa non richiede strumenti estranei all’organismo umano e, rispetto a realizzazioni mimiche, impegna l’organismo solo in parte minima. In pratica, la realizzazione fonico-acustica di un messaggio non impaccia (diversamente da realizzazioni grafiche o mimiche) l’esecuzione di altre attività proprie dell’uomo. Si aggiunga che le realizzazioni fonico-acustiche sono possibili in ogni condizione di luminosità e, entro certi limiti, possono scavalcare ostacoli e diaframmi. Infine, le vibrazioni acustiche prodotte fonicamente sono agevolmente modulabili quanto a frequenza, e ciò consente di produrre vibrazioni d’alta frequenza che si trasmettono senza che ne sia ubicabile la sorgente e vibrazioni di bassa frequenza che sono invece orientabili in una direzione determinata: due caratteristiche che costituiscono un ulteriore vantaggio rispetto a segnali di tipo ottico-luminoso. Tutto ciò concorre a spiegare perché la specie umana ha adottato segnali di tipo fonico-acustico per realizzare il significante dei segni linguistici. Se a questa duttilità del versante significante si aggiunge la già rammentata plasticità dei significati dei segni linguistici, si comprende come e perché il l. verbale ha potuto assolvere e assolve a molteplici funzioni nella vita individuale e sociale.
Il tema delle funzioni del l. verbale è affrontato già nell’Encomio di Elena di Gorgia e nel De interpretatione di Aristotele in cui si distinguono due funzioni: la semantica (designativa), genericamente significativa di qualche cosa (preghiera, ordini ecc.), e la apofantica (enunciativa), che produce enunciati veri o falsi. Questa bipartizione è riaffiorata più volte nella storia delle dottrine linguistiche, come distinzione tra funzione denotativa o descrittiva o prosastica o comunicativa ecc., da un lato, e funzione connotativa o emotiva o poetica o espressiva ecc., dall’altro. In sostanza anche le partizioni di K. Bühler, che distingueva tra funzione rappresentativa (centrata sulla rappresentazione del referente), espressiva (che pone in primo piano l’atteggiamento del soggetto parlante), appellativa (centrata sul suscitare una reazione dell’ascoltatore), e di R. Jakobson, che distingue 6 funzioni (emotiva, centrata sul produttore o emittente di un segno; conativa, volta a suscitare qualche reazione nell’ascoltatore; referenziale, relativa alla rappresentazione e comunicazione di un contenuto; poetica, esaltante le caratteristiche formali del messaggio; fàtica, relativa al controllo della buona trasmissione del messaggio; metalinguistica, relativa al chiarimento della struttura del messaggio), sono partizioni che continuano sia in senso materiale sia in senso formale l’impostazione gorgiana e aristotelica. Per contro L.J. Wittgenstein, nelle Philosophische Untersuchungen, afferma che esistono «innumerevoli» differenti tipi di impiego dei segni linguistici, «e questa molteplicità non è qualche cosa di fisso, di dato una volta per tutte; ma nuovi giuochi linguistici ... sorgono e altri invecchiano e vengono dimenticati». In conformità a tale impostazione, la linguistica scientifica contemporanea è largamente orientata verso l’analisi e descrizione delle molteplici possibili interrelazioni tra fenomeni percettivi e conoscitivi individuali, stati emotivi ecc., e acquisizione e sviluppo di abitudini linguistiche (psicolinguistica), verso l’analisi delle interrelazioni tra abiti linguistici collettivi e vita sociale (sociolinguistica), infine verso l’identificazione, in sede storica, dei vari tipi di norme di realizzazione delle varie lingue, e cioè verso lo studio dell’uso poetico o giornalistico o letterario o rituale o giuridico ecc. di questa o quella lingua nell’una o nell’altra comunità storica.
Gli antecedenti di quella che sarà poi la riflessione filosofica sul l. possono ritrovarsi nelle credenze di età arcaiche sui poteri della parola divina e umana: nell’inno vedico a Vac («la Voce»), traspare l’opinione che tutte le cose dell’universo siano pervase da un’intrinseca vocalità, risuonino di un loro nome; nell’esordio del Genesi la divinità biblica non crea mediante un fare, ma con il semplice parlare. Diffusa era la convinzione e la pratica magica per cui la conoscenza del nome di una persona o di una cosa ne conferisce il dominio (donde, per es., presso gli Aztechi l’abitudine di una doppia imposizione del nome, una segreta e una pubblica). La tradizione speculativa greca conserva ancora tracce cospicue di tali convinzioni magiche. Per la tradizione eraclitea, una delle prove della intrinseca contraddittorietà del reale è che cose che divengono, si mutano, scorrono (per es., un fiume), hanno un nome in permanenza, sicché sussiste una tensione tra il permanere del nome e il continuo tramutarsi della cosa.
Occorre aspettare l’eleatismo del pieno 5° sec. e la sofistica perché cominci ad affermarsi la consapevolezza del carattere convenzionale e non naturale delle denominazioni con cui una lingua inquadra l’esperienza. A Platone dobbiamo la prima estesa trattazione superstite interamente dedicata al l., il Cratilo, dialogo in cui Socrate media tra la tesi della scuola eraclitea (secondo cui i segni ineriscono naturalmente alle cose e le qualità foniche dei significanti riflettono le essenze intime delle cose denominate) e la tesi convenzionalista (secondo cui i nomi sono prodotti umani): i nomi sono strumenti fallibili creati dall’uomo per mezzo dei quali arriviamo a conoscere la natura delle cose. Ad Aristotele si deve la prima sistemazione delle teorie e delle conoscenze intorno al linguaggio. All’analisi dei fatti linguistici egli non giunge tanto sotto la spinta di interessi eruditi (esegesi omerica) o naturalistico-enciclopedici, ma per ragioni che costituiscono parte essenziale del nucleo della sua ontologia e della sua logica. Il l. si presenta come una base per la ragione e, nelle sue partizioni e strutture, riflette partizioni e strutture della realtà, per la cui conoscenza esso è un accesso privilegiato. Da ciò, fin dal De interpretatione, una costante attenzione per le forme linguistiche, che porta Aristotele a edificare una dottrina generale della lingua. Le tesi aristoteliche furono riprese e svolte dai primi stoici: a questi, e ai primi peripatetici, risalgono le elaborazioni e definizioni di categorie grammaticali come i casi nominali, le costruzioni transitive, intransitive e assolute dei verbi ecc. Di tali elaborazioni logico-linguistiche si servirono i filologi alessandrini come base e inquadramento delle loro descrizioni grammaticali del greco, ricalcate poi dai primi scrittori di grammatica latina.
Nella tarda antichità, Agostino, Boezio, Isidoro riecheggiano (con originalità il primo) posizioni stoiche, aristoteliche, dottrine grammaticali ed etimologiche; Prisciano raccoglie in un corpus unitario le antiche dottrine grammaticali. Questi autori costituirono la base delle conoscenze e teorie linguistiche durante il Medioevo fino all’affermarsi dei volgari e alla tarda scolastica. Il pensiero linguistico della scolastica, rimasto a lungo ignorato, si è in seguito andato rivelando ricco di contributi profondi e originali in materia di dottrine semantiche e sintattiche, certamente presenti ai logici e grammatici di Port-Royal. L’affermarsi dei volgari, d’altra parte, non è privo di riflessi in sede teorica: esso genera la consapevolezza del legame specifico, storicamente peculiare tra ciascun idioma e ciascun popolo ed età storica.
Nel Convivio e nel De vulgari eloquentia Dante dà i primi documenti di questa concezione storicizzante delle lingue, destinata a precisarsi nel pensiero europeo del Seicento e del Settecento: le relazioni sintattiche e i significati divergono da una lingua all’altra, da una ad altra epoca storica (F. Bacone, J. Locke, G.B. Vico, G.W. Leibniz ecc.); le forme linguistiche condizionano la vita intellettuale, le elaborazioni concettuali, il pensiero (T. Hobbes, G. Berkeley, D. Hume, J.G. Hamann), cosicché le categorizzazioni dell’intelletto e il filosofare (come sottolinea Hamann in polemica con Kant) non sono degli apriori, degli assoluti, ma sono formazioni storicizzate e relativizzate. Dopo Kant, nella filosofia europea l’interesse per il l. viene meno: riaffiorano nel corso dell’Ottocento le idee dell’aristotelismo antico e della tarda scolastica, riflesse nei testi grammaticali di Port-Royal, la cui fortuna dal Seicento all’Ottocento è immensa e quasi incontrastata nelle scuole di tutti i paesi.
A cavallo tra 19° e 20° sec., in ambiti culturali assai diversi, si riaccende l’interesse per le attività simboliche: C.S. Peirce e J. Dewey negli USA, A. Marty e G. Frege nell’Europa centro-orientale, B. Russell e G.E. Moore in Inghilterra, L. Wittgenstein e i neopositivisti del circolo di Vienna in Austria e, dopo la diaspora provocata dall’annessione nazista, nei paesi anglosassoni, E. Cassirer in Germania, B. Croce in Italia, ripropongono, con assai varia articolazione, i temi della filosofia del l. prekantiana. In particolare, nella filosofia analitica del l. assume un ruolo centrale lo studio del significato (➔ logica) e del rapporto tra l. e realtà.
Il problema delle basi fisiologiche del l. umano ha dato vita a uno dei capitoli più significativi e più intensamente dibattuti della polemica sulle localizzazioni cerebrali. L’avvio alle ricerche anatomo-cliniche è stato dato dal chirurgo francese P. Broca, che in due soggetti che avevano perso la capacità di esprimersi verbalmente, pur conservando quella di comprendere quanto veniva loro detto e anche quella di esprimersi a gesti, riscontrò una lesione distruttiva nella parte posteriore della terza circonvoluzione frontale dell’emisfero cerebrale sinistro, e tale reperto considerò prova della esistenza, in quella zona della corteccia, di un centro del l. articolato. Il difetto funzionale fu denominato da Broca afemia, termine sostituito successivamente da quello di afasia (afasia motoria o di Broca).
Le successive ricerche hanno portato a una migliore configurazione e definizione delle molteplici varianti di afasia e dei disturbi affini (agnosie, asimbolie), e a una descrizione particolareggiata, ma non sempre esatta, dei corrispondenti focolai di lesione. Fra i contributi più importanti vanno citati quelli di C. Wernicke (1874) sull’afasia sensoriale e sull’afasia di conduzione: della prima, che contrappose a quella di Broca, attribuì l’origine alla compromissione di una zona della prima circonvoluzione temporale sinistra, cui riconobbe il significato di area auditiva del l.; nella descrizione della seconda valorizzò l’importanza delle connessioni esistenti tra le diverse aree implicate nella funzione del l. e attribuì alla lesione di queste vie l’insorgenza di un’afasia a corteccia cerebrale integra. Alle tendenze a ridurre il l. nei limiti di un fenomeno neurofisiologico elementare, si oppose H. Jackson che analizzò attentamente il processo di verbalizzazione. Jackson osservò che l’importanza che a buon diritto veniva data all’emisfero sinistro non doveva significare tassativa esclusione dell’emisfero destro, e a questo attribuì una funzione nel meccanismo della riviviscenza volontaria delle immagini. Le ricerche anatomo-cliniche successive, in particolare quelle di H. Head, hanno messo l’accento sull’artificiosità della suddivisione della parola in componenti elementari (motorie, auditive e visive) e sulla impossibilità di separare nel l. la formulazione dall’espressione. Il fatto che i disturbi possono essere provocati, sia pure con diversa frequenza per le singole varietà, stimolando una qualsiasi delle aree citate, ha suggerito a W. Penfield, cui si devono i maggiori contributi su questo argomento, l’idea che dette regioni siano unite da collegamenti trans- e sottocorticali, che le fanno diventare funzionalmente un tutto unico.
Disturbi del l. possono osservarsi sia nel periodo evolutivo sia nell’età adulta. Nel primo ne possono essere responsabili anche un insufficiente contatto affettivo con l’ambiente o una insufficienza di riverberazione linguistica (per es., bambini isolati). Ritardo o mancanza del suo normale sviluppo possono aversi per mancata percezione del suono e difficoltà o assenza del riconoscimento del suono e della parola nel suo significato simbolico (sordità verbale). La complessa elaborazione psichica che presuppone lo sviluppo del l. spiega il difetto che quest’ultimo presenta nei casi di ritardo o minorazione psichica; il fenomeno è, però, in questi casi, secondario al deficiente sviluppo intellettuale. Esistono altri casi, invece, nei quali il bambino presenta difficoltà o mancata formazione del l. parlato pure essendo il l. esattamente percepito o compreso e il livello psichico normale o subnormale (aprassia verbale, afasia congenita, audimutismo, in contrapposizione al sordomutismo). Il l. resta allora allo stadio affettivo e gesticolatorio. Nei casi in cui il l. anche all’età di 6-7 anni è povero e incompleto, per quanto lo sviluppo psichico sia normale, e ugualmente normale la comprensione del l. parlato, si riscontrano spesso soggetti mancini o ambidestri e disturbi del l. nei familiari; si può ammettere, per tali soggetti, l’esistenza di una rallentata maturazione dei centri funzionalmente impegnati nella realizzazione del l. parlato.
Fra le lesioni acquisite come cause di un disturbo o arresto nell’evoluzione del l. sono da ricordare: a) la perdita dell’udito che, quanto più è precoce, tanto più condizionerà una perdita rapida e completa del l. locutorio; b) l’afasia propriamente detta (di natura vascolare, infiammatoria, tumorale); c) disturbi dell’articolazione del l. dovuti a un difetto nella coordinazione dei movimenti e nell’integrità della muscolatura interessata (anartrie, disartrie). Tali forme rientrano nel quadro della paralisi cerebrale infantile, frequentemente di origine vascolare, legata a un trauma da parto. Vanno infine ricordate, fra i disordini dell’articolazione del l., le dislalie, organiche e funzionali, queste ultime frequenti nei bambini durante lo sviluppo della parola. Fra le dislalie organiche rientrano quelle dovute ad anomalie o difetti degli organi periferici del l. verbale (labbra, lingua, palato). Causa di dislalia può anche essere una ipoacusia o un deficit psichico. Clinicamente vi rientrano il rotacismo o errata articolazione della r, il sigmatismo o errata pronuncia della s ecc. Una distonia della muscolatura locutoria a carattere clonico o tonico è, infine, responsabile della balbuzie, di origine organica per imperfetta organizzazione delle strutture nervose, o funzionale, spesso come sintomo nevrotico.
Nell’adulto si possono osservare: a) disturbi dell’articolazione, per paralisi o disturbi dell’innervazione di singoli muscoli (come l’inceppamento, la disartria della paralisi progressiva, la parola scandita della sclerosi multipla), balbuzie; b) afasia in cui il l. è degradato verso le forme più elementari e primitive e che può concretarsi in un disturbo dell’evocazione volontaria dei vocaboli, della costruzione sintattica della frase, in una incapacità a concepire l’insieme del l. che resta solo nella sua forma affettiva e pratica e perde la componente rappresentativa e dialettica; c) disturbi psicotici, cioè in corso di malattie mentali, fra cui il mutacismo, espressione di un’inibizione psichica, altre volte fenomeno isterico o intenzionalmente voluto, e la logorrea che spesso si accompagna alla fuga delle idee (➔ ideazione). Vi rientrano i disturbi del l. dialogato, quali il parlare a traverso, in cui il soggetto non dà alcuna risposta esatta nonostante le capacità intellettuali siano integre (paralogia; sindrome di Ganser ➔ Ganser, Sigbert), e l’‘incoerenza’ del l., espressione di un grave disturbo del decorso ideativo (per es., schizofrenia).
Il l. parlato è, fra le varie forme, quello che consente la maggiore complessità e rapidità di trasmissione dell’informazione. Forme di l. non verbale precedono o accompagnano il l. verbale a mezzo della motricità facciale (mimica) o dell’intero corpo (pantomimica) o servendosi di suoni (espressione fonica). La condotta comunicativa che si avvale della mimica, della pantomimica e dell’espressione fonica è presente fin dai primi giorni di vita come manifestazione infantile preparatoria del l. articolato, ed esprime gli stati emotivi e affettivi; tale condotta si può ritrovare, negli adulti, solo sotto forma di rinforzo del l. parlato o come espressione di stati d’animo.
Il l. umano si può considerare come costituito da due aspetti: uno extra-individuale (la lingua che si parla) e uno individuale (la parola); le informazioni che esso trasmette hanno tre funzioni: esprimono lo stato e le intenzioni di chi parla (espressione); influenzano chi le riceve (richiamo) e informano su cose (rappresentazione). Queste funzioni fanno sì che un segno del l. divenga un sintomo, un segnale o un simbolo o tutte e tre le cose.
Il bambino impara a parlare per imitazione, secondo i modelli che gli forniscono la tradizione e l’ambiente sociale in cui vive. Lo sviluppo riguarda tre aspetti: il fonetico, il morfologico e il semantico. Per quanto riguarda il primo, il bambino comincia a emettere dei suoni (fonemi) seguendo un ordine in rapporto con il grado di maturazione dell’apparato fonatorio. Anche lo sviluppo morfologico segue delle tappe: dopo lo stadio della parola-frase viene quello della frase contratta e, infine, quello grammaticale. Quanto allo sviluppo semantico, la comprensione del significato di una parola si acquista al momento stesso in cui la nuova parola viene appresa: l’utilizzazione che se ne fa finisce con il delimitare e precisare il significato che ciascuna di esse assume.
Il l. interiore è un l. senza suono, che costituisce in parole mentali la forma del pensiero. L’elettromiografo ha consentito di evidenziare un innalzamento del tono della muscolatura vocale durante il l. interiore, e di attuare importanti indagini sul pensiero dei non udenti, sulle allucinazioni uditive (‘voci’), sulla lettura atona. Il l. interiore è stato studiato con indagini sperimentali dagli psicologi e neurolinguisti sovietici (A.R. Luria, A.N. Sokolov, L.S. Vygotskij).
È necessità pressoché universale per gli animali comunicare informazioni ad altri membri della propria specie. Ciò avviene attraverso segnali chimici (gusto, olfatto) o fisici (udito, tatto, vista), a seconda dell’ambiente in cui vivono, del grado di acuità sensoriale per i diversi stimoli, e del tipo di informazione che deve essere fornito.
Comunemente una stessa specie utilizza vari canali per trasmettere informazioni diverse: il topo domestico (Mus musculus), per es., usa segnali olfattivi per comunicare a un altro topo il proprio sesso, oppure il gruppo familiare di appartenenza; utilizza invece segnali visivi (atteggiando in modo particolare il proprio corpo, e facendo o meno vibrare la coda) se vuole indicare intenzioni aggressive o di sottomissione, e infine da giovane emette ritmicamente ultrasuoni quando vuole essere ritrovato dalla madre. Il numero dei segnali utilizzati da una specie (vocabolario) e la complessità del l. che ne può scaturire sono in diretta proporzione con il grado di organizzazione sociale. L. complessi e perfezionati si ritrovano infatti negli Insetti sociali (termiti, formiche, api). Anche animali appartenenti a specie con rapporti sociali più semplici risultano avere un vocabolario abbastanza vario. Il fringuello (Fringilla coelebs), per es., possiede 14 canti-base (fig. 1), che possono variare producendo 21 differenti segnali.
Buona parte della comunicazione tra gli animali ha finalità riproduttive. Quando specie affini coabitano, si sviluppano segnali distintivi di specie, il cui fine primo è quello appunto di impedire che avvengano fenomeni di ibridazione. In tutte le specie poi sono presenti segnali di sesso. È regola frequente che, per il riconoscimento e la sincronizzazione dei sessi, sia il maschio a iniziare l’emissione di segnali specifici (inizia cioè il corteggiamento): attraverso questa stimolazione viene abbassata la soglia di recettività della femmina, che a sua volta risponde al maschio con segnali specifici, accettando. Questi segnali spesso interessano la forma o il colore dell’animale (Fasianidi, uccelli del paradiso, certi Coleotteri). Nelle lucciole (Lampiridi) le singole specie emettono lampi luminosi che sono differenziati sia per il ritmo e l’intensità sia per il colore (fig. 2). Nelle testuggini terrestri (Testudo) il riconoscimento avviene mediante segnali tattili: i maschi picchiettano il carapace delle femmine con un ritmo diverso per ogni specie. Sono frequenti i segnali acustici (Anfibi Anuri, Uccelli notturni, Insetti), e quelli chimici (molte specie di Mammiferi e di Insetti). Certi Protozoi emettono segnali chimici sia per identificare la specie, sia come richiamo sessuale. In molti invertebrati acquatici, fissi o poco mobili, non vi è accoppiamento, ma gli spermi, emessi nell’acqua, devono raggiungere le uova e fecondarle. In questo caso quando un sesso è maturo manda segnali chimici che raggiungono l’altro sesso il quale, così avvisato, a sua volta emette i gameti. Numerosi Insetti producono sostanze chimiche specifiche per richiamare gli individui dell’altro sesso da grandi distanze. Basta che poche molecole della sostanza emessa vengano a contatto dei recettori di un individuo di sesso opposto, perché questo si diriga nella giusta direzione. Per il maschio della blatta rossa (Periplaneta americana) e per la farfalla del baco da seta (Bombyx mori) è sufficiente il contatto con 10–4μg, circa 30 molecole.
Avvenuta la fecondazione, in molte specie inizia un periodo di collaborazione tra i coniugi che interessa la costruzione del nido, l’incubazione, l’allevamento della prole. Ciò implica scambi di messaggi sia tra i coniugi, sia tra prole e genitori. Durante l’incubazione, per es., al momento di darsi il cambio, è spesso necessaria una cerimonia di riconoscimento tra maschio e femmina, con formule talora molto elaborate (Albatros).
Subito dopo la nascita dei piccoli in un periodo temporalmente e ontogeneticamente ben definito, i genitori emettono segnali specifici (di solito ottici o acustici negli Uccelli, olfattivi nei Mammiferi) che vengono appresi e fissati indelebilmente nella memoria dei giovani. Questi segnali saranno alla base dei futuri rapporti tra la prole e i genitori, e influiranno poi su numerosi aspetti della vita adulta (imprinting). In molte specie i giovani emettono segnali per richiedere il cibo: le larve delle api, molti nidiacei di Uccelli e cuccioli di Mammiferi.
Un tipo di comunicazione che generalmente viene trasmesso dai genitori alla prole riguarda l’avvicinarsi di un predatore. Alla recezione del segnale i giovani istintivamente si acquattano, contando sull’aspetto mimetico del manto, oppure corrono a nascondersi sotto le ali della madre (per es., Galliformi). I segnali d’allarme sono comuni in molti gruppi. Negli Imenotteri sociali certi individui sono specificamente deputati a fare la guardia, ed essi danno l’allarme a tutta la comunità emettendo segnali sia chimici sia acustici. In molte specie di pesci che vivono in gruppo, se un individuo è aggredito, secerne da ghiandole cutanee una sostanza che allarma alcuni individui particolarmente sensibili; questi, attraverso segnali ottici, danno l’allarme all’intero gruppo, che si disperde o si nasconde. In certi Uccelli (Fringilla, Vanellus) esistono segnali d’allarme diversi secondo che il predatore venga dal cielo o da terra, essendovi differenti reazioni di difesa. Nei cervi esistono differenti segnali d’allarme in rapporto alla maggiore o minore gravità del pericolo. Va rilevato che, mentre i segnali di attrazione sessuale sono altamente specifici, quelli d’allarme sono spesso compresi anche da specie affini. Certe cavallette, quando spiccano un salto, emettono un piccolo suono (segnale di partenza). Se esiste un pericolo saltano senza emetterlo: le altre cavallette, allarmate, salteranno a loro volta senza segnale di partenza, e in breve l’allarme si spargerà a tutto il gruppo.
Comunicare la presenza di accumuli di sostanze alimentari è un altro meccanismo di cooperazione sociale molto usato, per es. nei gibboni, avvoltoi, gabbiani, pernici, mosche, formiche e api; in quest’ultima specie (Apis mellifica) si raggiunge la massima complessità e perfezione (➔ comunicazione).
Un fenomeno comune a molti Invertebrati (Crostacei, Aracnidi, Insetti, Molluschi Cefalopodi), e presente in tutti i gruppi di Vertebrati, è quello della territorialità, cioè la conquista e la difesa di un’area, prevalentemente per fini riproduttivi e alimentari. I confini del territorio vengono segnalati mediante segnali chimici, ottici o acustici. I Passeriformi emettono canti di proclamazione del territorio che hanno insieme lo scopo di tenere lontani i maschi e di attrarre le femmine.
Talora la trasmissione di informazioni avviene tra individui di specie diversa (fig. 3), come per es. il pesce Labroides dimidiatus (b), che si nutre degli ectoparassiti che rimuove dalle pinne di altri pesci, come Plectorhyncus diagrammus (a). Questi, in risposta a particolari segnali ottici, assumono una posizione di invito, cui Labroides risponde con una danza. Attraverso questo scambio di ‘parole d’ordine’ i pesci lo riconoscono e si lasciano liberare dai parassiti. Un pesce (Aspidontus taeniatus; c, in fig. 3), somigliante a Labroides, simula i segnali di Labroides per farsi accettare in sua vece, ma invece che liberare i pesci dai parassiti mangia loro le pinne.
Talora, nel l. di una specie, possono comparire modificazioni considerate dialetti. Ciò è stato visto in farfalle (l. chimico), in uccelli (l. acustico), e nelle api. In queste ultime, per es., è stata rilevata una differenza tra esploratrici tedesche e italiane nel modo di segnalare la distanza del bottino dall’alveare. Se si riesce a far accettare una esploratrice italiana in un alveare tedesco, questa poi dà informazioni che vengono mal interpretate dalle raccoglitrici tedesche, che così si dirigono in un punto sbagliato.
Il l. degli animali non sempre è innato: esperienze di allevamento in isolamento hanno mostrato che esso è ereditato totalmente per via genetica in certi animali (per es., nelle tortore), mentre viene in gran parte trasmesso culturalmente in altri (per es., nei Passeriformi canori).
Un l. è un sottoinsieme dell’insieme delle stringhe di lunghezza finita ottenibili per concatenazione (ovvero giustapposizione) di simboli appartenenti a un insieme finito, detto alfabeto, con l’aggiunta eventuale della stringa vuota (cioè della stringa di lunghezza zero). Un l. può essere descritto per mezzo di una grammatica, che descrive esattamente come ‘costruire’ le stringhe del l. che rappresenta mediante l’uso di regole di produzione; N. Chomsky propose una classificazione delle grammatiche basata sul tipo (ossia sulla struttura) delle regole di produzione. Molti importanti problemi teorici sono riconducibili a quello dell’appartenenza di una stringa a un linguaggio.
Insieme di parole e di regole, definite in modo formale, per consentire la programmazione di un calcolatore affinché esegua compiti predeterminati. I l. di programmazione sono tipicamente classificati in base al tipo di istruzioni ammissibili o al paradigma di programmazione che supportano; secondo la prima tassonomia si distinguono l. imperativi, funzionali e logici; possibili paradigmi sono la programmazione procedurale, quella strutturata e quella orientata agli oggetti.
I primi ricercatori utilizzarono l. di programmazione molto semplici, sostanzialmente basati sulle istruzioni elementari eseguibili dai componenti delle prime macchine di elaborazione; solo negli anni 1950 iniziò lo sviluppo di l. di programmazione adatti all’implementazione di procedure e algoritmi per risolvere problemi scientifici e tecnici di larga diffusione; tale sviluppo influì in modo significativo sull’evoluzione del settore, soprattutto dal punto di vista applicativo. Nel 1953 A. Liapounov propose un primo l. per la costruzione di algoritmi, ma tale risultato ebbe poca diffusione. Negli anni 1954-57 un gruppo guidato da J.W. Backus, dell’IBM, sviluppò il l. FORTRAN per applicazioni tecniche e scientifiche; negli anni 1960 si sviluppò il BASIC, molto diffuso nei piccoli calcolatori da tasca e che realizzava in modo interattivo gran parte delle funzioni del FORTRAN. Nel 1956 A. Newell, J.C. Shaw e H.A. Simon, studiando metodi euristici per la soluzione di problemi di decisione e di ottimizzazione, formalizzarono diversi concetti e introdussero il primo l. di elaborazione di liste (ossia di insiemi di dati opportunamente strutturati e concatenati), denominato IPL (information processing language), che, sebbene con applicazioni dirette limitate, ebbe una notevole influenza sui successivi l. di programmazione. Nel 1958 A.J. Perlis e K. Samelson, parzialmente in collaborazione con J.W. Backus, proposero il l. ALGOL, basato su principi di programmazione strutturata, che consentono una migliore descrizione degli algoritmi e una più facile verifica di correttezza del programma. Nel 1959 J. McCarthy progettò il l. LISP. Nonostante l’interesse teorico, tale l., basato sul concetto matematico di funzione e sulla possibilità di usare la ricorsione, restò di uso limitato in ambiente algoritmico per la scarsa efficienza computazionale e leggibilità. Nel 1959 il gruppo CODASYL (Conference On Data Systems Languages, formato da costruttori e utilizzatori di calcolatori) realizzò la prima versione del l. COBOL che diventò rapidamente il l. di riferimento per le applicazioni gestionali.
A.G. Oettinger (1961), N. Chomsky (1962) e M.P. Schutzenberger (1963), nell’ambito dei loro studi sugli automi a pila, contribuirono a definire, in termini di commutabilità, una classificazione e una valutazione delle caratteristiche primitive dei l. di programmazione, ovvero l’insieme di componenti elementari del l., direttamente implementabili, sulla base del quale sono costruite le espressioni più complesse e le relative funzioni. Nel 1964 nacque in ambito IBM il l. PL/1 (programming language number 1), che si proponeva come sintesi di FORTRAN, ALGOL e COBOL, ma la sua diffusione al di fuori della IBM rimase limitata. Nel 1967 nacque ‘ufficialmente’, come estensione dell’ALGOL, il SIMULA 67, il primo l. orientato agli oggetti, sviluppato per trattare problemi di simulazione; ispirandosi a tale l., A. Kay, della Xerox, sviluppò a partire dal 1969 SMALLTALK, uno fra i più diffusi l. a oggetti. Nel 1968 N. Wirth, studiando un programma di sistematizzazione di alcuni paradigmi algoritmici, sviluppò il l. Pascal, così denominato in onore del matematico e filosofo B. Pascal. Tale l., anche se computazionalmente non molto efficiente (almeno nelle implementazioni standard), era di notevole leggibilità e diventò un paradigma universalmente accettato per la scrittura, la valutazione e la diffusione di algoritmi. Negli anni 1969-71, presso i laboratori Bell, B.W. Kernighan con diversi collaboratori, nel corso dello sviluppo del sistema operativo UNIX, definì il l. C che diventò rapidamente uno standard in molti settori applicativi e di largo uso per i problemi di ottimizzazione. Lo stesso Kernighan, con vari collaboratori, lo utilizzò estesamente nella costruzione di una serie di programmi applicativi per la soluzione di problemi discreti e di ottimo su reti.
Nel 1983, su spinta del dipartimento della difesa degli USA., nacque il l. ADA, che possedeva molte delle caratteristiche positive dei l. precedenti e, in più, consentiva di utilizzare meccanismi di esecuzione parallela delle istruzioni. Il diffondersi di calcolatori con elevate possibilità di esecuzione parallela di operazioni rendeva il tema del parallelismo sempre più significativo per l’ottimizzazione. Nel decennio 1980-90, in parte sulla scia dello sviluppo dell’intelligenza artificiale, il numero di l. dedicati a specifiche fasce di utenza si moltiplicò e arrivò a comprendere tutte le fasi di formulazione e sviluppo di un’applicazione; nacque il concetto di ambiente di sviluppo sia di tipo generale sia per assegnate classi di applicazioni.
A partire dagli ultimi anni del 1990 l’evoluzione dei l. di programmazione è stata caratterizzata da alcuni fattori dominanti, quali, in particolare, l’orientamento agli oggetti, la specializzazione, l’integrabilità, la facilità di uso; le idee alla base dei moderni l. risalgono agli anni 1970, ma solo un ventennio più tardi si sono tradotte in ambienti di programmazione operativi e concretamente utilizzabili. Tra le diverse evoluzioni di l. diffusi in ambito industriale e scientifico, l’esempio più importante è quello del l. C++, evoluzione del l. C, che è divenuto uno standard molto diffuso, in concorrenza con i nascenti l. a oggetti che vengono periodicamente proposti. Uno dei più diffusi di questi l. a oggetti è JAVA, introdotto intorno al 1995 dalla Sun Microsystems Inc. di Palo Alto in California. Esso fornisce una base tecnologica comune sia al controllo di processo sia alla cosiddetta EIT (enterprise information technology), consentendo, almeno in linea di principio, se integrato con opportuni software applicativi, di poter gestire l’intero processo di produzione dell’impresa. Negli ultimi anni anche l’evoluzione dei l. di programmazione è stata largamente influenzata dall’espansione di Internet e sono stati proposti l. specializzati per lo sviluppo di applicazioni Web, quali javascript e PHP.