U. fantastici Nella dottrina vichiana, generalizzazioni operate dalla mente dei popoli nelle età ferina ed eroica quando prevale la fantasia (detti anche caratteri poetici, in quanto poetica è ogni espressione ed esperienza di quei popoli, anteriore a ogni processo razionale).
Strumento, detto anche u. geodetico, fondamentale in passato nella geodesia e astronomia geodetica per misurare angoli orizzontali e verticali; oggi per tali misurazioni si ricorre a teodoliti; si seguita a chiamare u. un teodolite di elevata precisione usato quasi esclusivamente per misurazioni di astronomia geodetica.
In biologia, recettore u., individuo di gruppo AB che, privo di agglutinine, può ricevere sangue dai 4 gruppi A, B, AB, 0; donatore u., individuo di gruppo 0 il cui sangue, privo di agglutinogeni, può essere trasfuso negli individui dei 4 gruppi.
Questione degli u. Controversia dibattuta nel Medioevo, specie nel 12° sec. (ma le estreme, significative propaggini si rintracciano sino a tutto il 14° sec.), che verteva intorno al quesito se i generi e le specie fossero solo realtà mentali, oppure avessero una realtà oggettiva al di fuori della mente e, in quest’ultimo caso, se fossero realtà corporee o incorporee, se esistessero separate o solo nelle cose sensibili. La formulazione del problema si trova nelle prime righe dell’introduzione (Isagoge) di Porfirio alle Categorie di Aristotele, dove peraltro non si fornisce alcuna soluzione. Boezio, nonostante la sua profonda ispirazione platonica, nel commento all’Isagoge adotta una soluzione ispirata ad Aristotele: generi e specie non hanno altra realtà che quella di essere proprietà dell’individuo, che l’intelletto conosce distinguendole da tutti gli elementi con cui sono congiunte: gli u. sussistono in unione con le cose, ma sono conoscibili dal nostro intelletto separatamente dai corpi. Nel 12° sec. si fronteggiano due tipi di soluzione: una s’ispira alla tradizione platonica, per la quale gli u. hanno esistenza oggettiva; tra i sostenitori di essa, detti realisti, va ricordato Guglielmo di Champeaux; l’altra, riconoscendo che nella realtà sussistono solo individui, afferma aristotelicamente che u. è ciò che è predicabile di più cose, e perciò u. per un verso è il concetto, segno naturale di una classe di individui, per un altro verso è la ‘voce’, capace per convenzione di significare le cose significate dal concetto. Nominalisti (➔ nominalismo) sono detti i sostenitori di questa soluzione; tra i più noti rappresentanti vi sono, sia pure con sfumature diverse, Roscellino e Abelardo nel 12°, Guglielmo d’Occam nel 14° secolo.
È da ricordare anche la soluzione tomista del problema: l’u. ante rem è l’esemplare eterno della cosa esistente in Dio; in re è l’essenza della cosa, principio intelligibile individuato nella materia; post rem è il concetto che l’intelletto astrae dalle condizioni individuanti a partire dalle conoscenze sensibili; tale soluzione è nota come ‘realismo moderato’.
U. linguistici L’insieme di proprietà che risultano comuni a tutte le lingue del mondo o perlomeno a un alto numero di esse.
La convinzione che le lingue abbiano tratti comuni è molto antica, e proprio su di essa si è formata la disciplina chiamata linguistica generale. Ma l’attenzione verso gli u. linguistici propriamente intesi, e la denominazione stessa, sono recenti. Solo negli anni 1960, infatti, J.H. Greenberg, della Stanford University, impostò un vasto progetto di ricerca in cui venivano messe a confronto 30 lingue del mondo prive di relazioni genetiche, il che permetteva di escludere che le proprietà comuni si fossero diffuse per contatto. L’indagine rivelò un sorprendente catalogo di proprietà comuni, di cui fu dato conto in una pubblicazione in più volumi diretta dallo stesso Greenberg (Universals of human language, 1978). Nel corso di uno storico congresso sugli u. (Universals of language, a cura di Greenberg, 1960), C.F. Hockett e altri linguisti statunitensi costruirono una lista imponente di u. totali o tendenziali, valevoli su tutti i livelli linguistici (fonologia, morfologia, sintassi, semantica). Greenberg non ebbe solo il merito di definire una vasta gamma di proprietà che potevano essere considerate u.; la sua scoperta più importante fu che taluni u. non si presentano isolati, ma ne implicano necessariamente altri. Per es., osservò che, se in una lingua l’Oggetto tende a seguire il Verbo, in essa il Genitivo tende anche a seguire il Nome a cui si riferisce; all’inverso, se l’Oggetto si pone prima del Verbo, anche il Genitivo tenderà a porsi prima del Nome. Un u. di questo tipo, che ne implica necessariamente (o quasi) un altro, fu chiamato da Greenberg u. implicazionale. Greenberg accertò anche che le lingue non sfruttano tutte le possibilità teoriche che hanno a disposizione, ma solamente alcune. Per es., gli ordini delle parole teoricamente possibili e le corrispondenti lingue in cui si riscontrano sono i seguenti:
Queste possibilità non sono tutte ugualmente frequenti. I primi due ordini s’incontrano di gran lunga più spesso degli altri, l’ultimo (OSV) è addirittura inesistente. Questo singolare fatto mise in evidenza che, tra le opzioni che le lingue scelgono, ce ne sono alcune di alta frequenza, altre di frequenza via via decrescente. In generale, si suppone che le soluzioni più frequenti siano quelle più ‘naturali’, cioè più agevoli dal punto di vista del parlante e più efficaci dal punto di vista della comunicazione.
La ricerca sugli u., mettendo a confronto i tratti comuni a un alto numero di lingue, va gradualmente a sfumare in quella dei ‘tipi’ linguistici, cioè delle classi entro cui possono essere collocate lingue che presentano proprietà comuni indipendentemente dalle relazioni genetiche tra loro. Quest’ultimo è l’ambito d’interesse della disciplina della tipologia linguistica (➔ tipologia). L’operare congiunto della tipologia e della ricerca sugli u. ha mostrato che le lingue possono essere diverse l’una dall’altra, ma non differenziarsi infinitamente; in altre parole, ci sono limiti precisi entro cui le lingue possono essere diverse (teoria della variazione limitata).
Gli u. linguistici sono stati classificati in diversi modi. Normalmente (seguendo un suggerimento di A.N. Chomsky) si distingue tra u. sostanziali e formali. Gli u. sostanziali si riferiscono alle risorse che le lingue effettivamente hanno: è per un u. sostanziale che tutte le lingue hanno, per es., parole specializzate per indicare chi sta emettendo il messaggio (‘io’) e chi lo sta ricevendo (‘tu’), oppure alcune consonanti e vocali obbligatorie. Gli u. formali, invece, si riferiscono ai meccanismi che le lingue devono mettere in opera per poter funzionare: è un u. formale, per es., che stabilisce che per ottenere una frase interrogativa si debbano compiere certe manipolazioni sulla dichiarativa corrispondente.
Per quali ragioni le lingue hanno proprietà universali? Questa domanda ha ricevuto tre tipi di risposte: una biologica, una pragmatica e una storico-genetica. La prima sostiene che le lingue hanno caratteri comuni perché l’equipaggiamento fisico-mentale e cognitivo dell’uomo è unico e impone a esse certe proprietà e non altre. La versione più accreditata di questa posizione è quella elaborata da Chomsky negli anni 1980, nota come grammatica universale. Secondo questa prospettiva (chiamata teoria dei principi e parametri), tutte le lingue funzionano in base a un ristretto numero di principi (per es., in tutte i sintagmi devono avere una testa, cioè un elemento con funzione essenziale, e una determinata struttura), ma ciascuna è libera solo di assegnare a quel principio una specifica forma tra quelle possibili (un ‘parametro’: per es., la testa del sintagma può essere o iniziale o finale).
La seconda spiegazione è pragmatica. Le lingue sono somiglianti, in questa prospettiva, perché servono all’uomo per fare le stesse cose, cioè a compiere gli stessi tipi di azioni pratiche. Per es., poiché tutte le lingue devono servire alla funzione di raccontare eventi passati, dovranno avere risorse per localizzare gli eventi nel passato (per es., le forme verbali o altri modi espressivi).
La terza spiegazione si basa sull’assunto che tutte le lingue derivino, attraverso una serie complessa di ramificazioni storiche e geografiche, da un’unica lingua primigenia, e che quindi abbiano conservato delle affinità, che si attenuano tanto più quanto più ci si allontana dal punto di separazione. Questa ipotesi (detta monogenetica), formulata in più occasioni nella storia della ricerca linguistica, è stata ridicolizzata come assurda fino a che, negli anni 1970, gli studi di genetica delle popolazioni non hanno mostrato che la popolazione del globo sembra derivare davvero da un unico ceppo per migrazioni e successive separazioni, e che la ramificazione delle popolazioni corrisponde con sorprendente precisione a quella delle lingue.