L’insieme di individui o oggetti in un determinato ambito, considerati nel loro complesso e nell’estensione numerica.
L’insieme di stelle caratterizzate dalla loro composizione chimica, secondo uno schema di classificazione introdotto nel 1944 da W. Baade. Si distinguono due categorie principali: le stelle di p. I, più ricche di elementi pesanti, e quelle di p. II, che ne sono invece più povere (➔ stella).
Branca della genetica che studia la cinetica dei geni nelle popolazioni. Nel 1908 H.G. Hardy e W. Weinberg, indipendentemente, scoprivano quella che oggi è nota come legge dell’equilibrio (➔) di Hardy-Weinberg. L’importanza di questa legge fu riconosciuta solo dopo il 1920, e d’allora in poi si sviluppò la trattazione matematica del problema dell’evoluzione, soprattutto per opera di R.A. Fisher, J.B.S. Haldane e S. Wright, che lavorarono indipendentemente. La legge di Hardy-Weinberg afferma che se in una p. due alleli A e a sono presenti con le frequenze p e q (dove q = 1−p) quali che siano i valori di tali frequenze, essi rimangono immutati nelle successive generazioni, se sono rispettate le seguenti condizioni: a) la frequenza di mutazione A → a non sia diversa da quella della mutazione inversa a → A, cioè il rapporto
non sia diverso da 1; b) nessuno dei tre genotipi AA, Aa, aa, sia favorito rispetto agli altri nella concorrenza vitale; c) non vi sia migrazione differenziale da 0 verso p. contigue di a rispetto ad A; d) la p. sia indefinitamente grande. Le condizioni contrarie a queste quattro proposizioni comportano evidentemente una variazione delle frequenze relative p e q.
È questo il primo passo dell’evoluzione, poiché può costituire la base del differenziamento di razze nel seno di una p. originariamente omogenea. Alla prima causa di variazione, la frequenza differenziale di mutazione, non si attribuisce quindi grande importanza, in quanto la frequenza di mutazione genica è per lo più estremamente bassa e si ritiene che non possa avere un’influenza significativa nel determinare spostamenti delle frequenze geniche. La terza causa, migrazione differenziale, può avere una certa importanza, ma anch’essa piuttosto limitata. Il contrario della seconda delle condizioni elencate corrisponde alla selezione: se uno dei tre genotipi è più adatto alla vita in un determinato ambiente e contribuisce alla generazione successiva con un maggior numero di discendenti, l’equilibrio di Hardy-Weinberg può risultare modificato, e, nel giro di alcune generazioni, le frequenze iniziali possono variare profondamente.
L’efficacia della selezione è stata ampiamente dimostrata in natura sulle piante, sugli animali, sull’uomo, e anche, nei primi due casi, con esperimenti in laboratorio. Il contrario della quarta proposizione è stato studiato soprattutto da Wright; l’effetto della limitazione del numero degli individui di una p. è stato infatti chiamato effetto Wright, o limitazione automatica della variabilità. Quando una p. si riduce a un numero molto piccolo d’individui, la frequenza di due alleli può variare sensibilmente, fino alla scomparsa di uno dei due e alla ‘fissazione’ dell’altro, per puro effetto del caso (deriva). Si può spiegare in tal modo la frequenza, in razze diverse, di caratteri differenti che non hanno alcun valore selettivo. La formazione di razze, che differiscono fra di loro per le frequenze relative di un certo numero di geni, costituisce uno dei principali argomenti di studio della genetica di p., e si può dire che la selezione e la deriva genetica siano sufficienti a spiegare la differenza di frequenze geniche che si trovano fra le razze di una stessa specie. Perché avvenga l’evoluzione, cioè la formazione di nuove specie, è necessario che intervengano fenomeni di isolamento fra le razze, i quali possono essere determinati da eventi diversi (➔ evoluzione).
Un altro fenomeno molto studiato è il polimorfismo genetico, cioè la persistenza in una stessa p. di genotipi diversi, come per es., nell’uomo, i quattro gruppi sanguigni del sistema AB0 e le emoglobine anormali, che in alcune p. si trovano con frequenza elevata, nonostante siano sfavorevoli agli individui che ne sono provvisti. La persistenza del polimorfismo è dovuta, in generale, al fatto che il genotipo eterozigote (Aa) è avvantaggiato, rispetto ai due omozigoti, in certi particolari ambienti. Per es., gli individui eterozigoti per il gene della falcemia o talassemia, nelle regioni malariche sono avvantaggiati rispetto agli individui normali, perché sono più resistenti all’infezione malarica. In base al meccanismo mendeliano e all’equilibrio di Hardy-Weinberg, e tenendo conto dei tipi d’incrocio (mating types) prevalenti in una p. (panmissia, o limitazione dei tipi d’incrocio, consanguineità più o meno stretta ecc.) è possibile elaborare modelli matematici della cinetica dei geni, che possono poi servire di base per l’interpretazione dei risultati di osservazioni o di esperimenti.
La p. mendeliana è un modello teorico di p. naturale (per la modellizzazione della dinamica di p. in ecologia ➔ modello) in cui si verifica una libera circolazione di geni, ovvero i cui individui si riproducono sessualmente con incroci casuali, al quale si fa particolare riferimento nello studio dei fenomeni di microevoluzione (variazione delle frequenze geniche, speciazione, polimorfismi ecc.).
Gruppo di individui di una determinata specie che occupa un’area geografica definita, e in vario grado isolato da gruppi simili della stessa specie. Densità di p. Il numero stimato di individui di una p. che occupa quella determinata area. Dinamica di p. Campo di studi sulle variazioni (e i fattori che le determinano) dei parametri che caratterizzano una p., quali: a) la dimensione (numero di individui in un determinato momento, indicato solitamente con il simbolo N); b) la composizione in classi di età; c) i tassi di mortalità, natalità, migrazione e immigrazione.
La regolazione di una p. è la tendenza dimostrata dalla p. stessa a diminuire la propria dimensione N se quest’ultima è al di sopra di un particolare livello, o ad aumentarla se essa è al di sotto dello stesso. Questo livello, denominato K, o capacità portante, rappresenta il numero di individui che possono essere mantenuti in quel determinato ambiente. I fattori estrinseci di regolazione dell’abbondanza di una p., cioè della sua consistenza numerica, possono essere distinti in fattori densità dipendenti, se il loro effetto è funzione della densità (competizione, parassitismo, predazione ecc.), e fattori densità indipendenti, se l’effetto prodotto è indipendente dalle dimensioni della p. (fattori chimici, fisici, climatici ecc., v. fig. 1). Anche fattori intrinseci alla p. stessa contribuiscono alla sua regolazione. L’abbondanza di una p. dipende quindi dall’effetto combinato di tutti i fattori sopra citati, ma, in particolare, dai tassi di natalità/immigrazione e di mortalità/emigrazione. Si ipotizza che le p. siano regolate o tramite fattori densità indipendenti, o tramite fattori densità dipendenti, o tramite meccanismi endogeni che limitano o incrementano la natalità e la mortalità. Spesso la regolazione di p. è un compromesso tra le condizioni imposte dagli estremi ambientali e le strutture fisiologiche della specie. In ecosistemi sottoposti a stress fisici notevoli, dove le p. mantengono basse densità, come, per es., la tundra, le p. tendono a essere regolate da fattori densità indipendenti. Negli ecosistemi ad alta diversità, come, per es., la foresta pluviale, o in assenza di forti stress fisici, le p. tendono a essere regolate da fattori densità dipendenti.
La p. umana mondiale ha raggiunto nel 2008 il tetto di 6.691.337.751 abitanti, con una densità media, considerando solo le terre emerse, di 53 ab. per km2; le aree più densamente popolate sono: in Asia, l’Asia tropicale (maggiori concentrazioni in India e nella Cina meridionale), la Cina settentrionale e il Giappone; l’Europa, in particolare l’Europa occidentale; l’America del Nord, in particolare la parte orientale. La distribuzione della p. nello spazio geografico riguarda sia il numero sia gli aspetti qualitativi, come la struttura, l’etnia, l’istruzione, l’occupazione, il reddito e i consumi. Essa si misura in termini assoluti o in riferimento allo spazio occupato, rapportando il numero degli abitanti alla superficie, misurata in km2 per gli spazi più grandi o in ha per quelli urbani. Il rapporto di densità diventa più significativo se al denominatore si considera la superficie produttiva o coltivata, o un altro tipo di spazio specializzato, per es. quello abitativo. La densità economica regionale si calcola rapportando la proporzione della p. che vive in una regione alla proporzione di ricchezza nazionale ivi prodotta. Il riferimento alla qualità della superficie occupata viene fatto per moduli amministrativi oppure secondo insiemi geografici, come fasce altimetriche, zonazioni rurali-urbane, regioni geografiche. Può essere importante misurare la concentrazione o la dispersione della p., il grado di continuità del popolamento e la frequenza degli insediamenti per unità di superficie. Un clima mite, terre fertili e acqua abbondante rappresentano tuttora, nell’insieme, i fattori esplicativi più soddisfacenti, alla scala globale, della distribuzione delle aree densamente abitate. Tuttavia la stessa crescita demografica deve essere chiamata in conto per spiegare la presenza delle grandi concentrazioni urbano-metropolitane, soprattutto quelle poste nei paesi in via di sviluppo, da Mumbai a Città di Messico, a Shanghai. Nella storia dell’umanità, infatti, i grandi addensamenti hanno dimostrato la tendenza a crescere su sé stessi.
La distribuzione della p. sulla Terra non è molto mutata nell’ultimo secolo. La crescita localizzata tende dunque a prevalere in confronto all’espansione su nuovi spazi. Aumenta, tuttavia, quasi ovunque, il popolamento della costa e, in generale, gli ecosistemi dell’interfaccia terra-mare, con le diverse combinazioni di acque salate e acque dolci, sono sempre più soggetti alle implicazioni derivanti da un crescente addensarsi della p. nei bacini idrici che vi hanno sbocco. La p. vi produce un impatto diretto, con i reflui urbani e i rifiuti solidi, e uno indiretto, legato alla produzione di energia, all’attingimento di risorse naturali, alle emissioni industriali. Non sempre la crescita demografica, con la parallela maggiore urbanizzazione, prelude a scenari di aggravamento degli squilibri ambientali, poiché il buon governo del territorio, sostenuto da adeguati mezzi finanziari e tecnologici, tende ad alleggerire l’impatto ambientale attraverso la ristrutturazione controllata degli spazi abitati e utilizzati, la depurazione degli scarichi e la gestione razionale dell’acqua (v. fig.).
L’economia ha affrontato il problema del profilarsi di uno squilibrio crescente tra la p. e le risorse territoriali, soprattutto quelle alimentari. Se in passato il sovraccarico sulle terre agricole ha colpito aree ristrette, si teme oggi che l’incremento della p. mondiale che, secondo le stime, ancora seguiterà per qualche decennio, porti il problema a una dimensione planetaria. Il progresso realizzato nel reperire nuove risorse e nel potenziare quelle già utilizzate apre, tuttavia, prospettive ragionevolmente fiduciose nella capacità della società umana di affrontare la sfida dell’espansione demografica. Secondo una prospettiva economica, la crescita della p., a partire dalla seconda metà del 18° sec., ha agito come una variabile indipendente, promuovendo la produzione di derrate alimentari, la bonifica e la colonizzazione di nuove terre, mettendo così in moto un processo di crescita. La p. è stata una risorsa all’epoca in cui era importante poter disporre di numerose braccia: l’aumento di p. nel 18° sec. ha infatti significato il potenziamento delle capacità di produrre e di consumare, nonché un più alto potenziale innovativo, che si realizzava anche attraverso una maggiore mobilità di una p. più numerosa e meglio attrezzata.
Negli ultimi decenni le diverse correnti di pensiero hanno continuato ad alimentare il dibattito sul futuro dell’umanità, per un verso accentuando l’insostenibilità della dinamica demografica e per l’altro sottolineando che il progresso tecnologico sposta continuamente i limiti delle risorse conosciute e ne crea di nuove. Nel rapporto dinamico della crescita della p. e dell’economia, le prime tendono a prevedere rischi di abbassamento del tenore di vita, mentre le seconde accentuano il peso positivo di un potenziale umano più numeroso. La necessità di un urgente controllo delle nascite viene prospettata anche al fine di ridurre il deterioramento ambientale, in concomitanza con il mutamento dei sistemi di produzione e di consumo.
In demografia, la p. umana è stata definita come un insieme stabile di individui che hanno in comune un patrimonio storico e culturale. Tra gli elementi che le danno identità e coesione, il territorio da essa organizzato nel tempo ha grande significato, per quanto esistano p. prive di un preciso riferimento territoriale, come i Rom o alcune comunità che hanno subito forme di diaspora. A seconda della stabilità del rapporto con il territorio, si distingue la p. residente, la presente e la fluttuante. La p. residente (p. legale) è iscritta nelle liste della circoscrizione amministrativa dove vive abitualmente; all’atto del censimento può essere tuttavia censita come presente (p. di fatto) in un altro luogo dove si trova occasionalmente; si parla di p. fluttuante per quelle persone che d’abitudine si spostano per brevi periodi di tempo per motivi di lavoro, studio, turismo o altro. Quando lo spostamento assume una cadenza ripetitiva, dirigendosi verso un polo urbano, si parla di p. gravitante o pendolare.
Si definisce in base a tratti demografici, come il sesso e l’età, e sociali, come lo stato civile e la famiglia. Sulla base dell’età, la p. viene solitamente divisa in 3 gruppi: giovani, fino a 15 anni, adulti, tra i 16 e i 64 anni, e anziani, dai 65 in poi. Si distingue così la fascia centrale, che è la componente più impegnata nella produzione e dalla quale in varia misura dipendono per il proprio mantenimento le altre due fasce. La proporzione tra le 3 fasce d’età è significativa dello stadio di evoluzione demografica e quindi dell’andamento della natalità e della mortalità, ma anche, a livello locale, delle condizioni del mercato del lavoro e dei caratteri dello sviluppo sociale.
Generalmente la classe centrale costituisce il 60-70% del totale (in diversi paesi dell’Africa, tuttavia, la p. al di sotto dei 15 anni si avvicina alla metà del totale). La proporzione degli anziani cresce in rapporto sia ai giovani sia al totale della p., man mano che, con il procedere della transizione demografica, la natalità si abbassa e aumenta la sopravvivenza. La fascia centrale costituisce la p. in età da lavoro, che in gran parte forma poi la p. attiva. Questa, si trovi nella condizione di occupazione oppure alla ricerca di lavoro, si distingue dalla p. non attiva, che non chiede un lavoro remunerato perché impegnata nell’attività domestica, o per motivi di studio, di salute o altri.
La dinamica demografica della p. produce la variazione del suo numero tra due date e il mutamento della struttura, ossia della composizione per sesso e per età. In una p. chiusa, ovvero priva di scambi con l’esterno, la variazione è data dal bilancio tra nati e morti, che può essere in guadagno o in perdita. In una p. aperta, invece, va tenuta in conto anche l’altra componente del mutamento, la migrazione. Il saldo tra gli arrivi e le partenze dà il bilancio migratorio, che si combina con il bilancio naturale determinando la variazione complessiva. Da queste 4 componenti (nascite, morti, immigrazioni ed emigrazioni) è costruita la formula della p. Pt=P0+N0−t−M0−t+I0−t−E0−t, dove la differenza tra la p. all’inizio del periodo (0) e alla fine (t) è data dal bilancio nati/morti, o saldo naturale, che va sommato algebricamente al bilancio migratorio, ottenuto detraendo gli emigrati dagli immigrati. Nei paesi avanzati il saldo naturale si avvicina allo zero e mostra solo deboli variazioni orizzontali interne.
Solo una parte della p. è coinvolta nella riproduzione, che consiste nel rimpiazzo degli individui di una data fascia d’età da parte della generazione successiva. La struttura per età e per sesso influenza quindi la fecondità, ossia il potenziale di riproduzione. Se il tasso di natalità generico si riferisce pertanto a tutta la p., è il tasso di fecondità, ossia il rapporto tra il numero dei nati in un anno e il numero di donne in età feconda, che consente di meglio apprezzare l’incidenza della natalità. Oggi, per mantenere una p. costante (in un paese avanzato) è sufficiente che ogni donna, nel corso della vita, abbia mediamente 2,05 figli. La gran parte dei paesi industriali sono al di sotto di tale valore, che viene invece ancora abbondantemente superato dai paesi a basso reddito.
La distribuzione della mortalità mostra differenze meno marcate. I motivi che limitano la longevità effettiva delle p. sono biologici e sociali. I progressi della medicina preventiva e terapeutica tendono ad abbassare le differenze della durata della vita umana nei vari ambienti della Terra. L’aspettativa di vita alla nascita o ad altra data mostra tuttavia ancora l’esistenza di forti scarti, i cui estremi vanno dalla maggior parte dell’Africa, dove non si superano i 50-60 anni, ai paesi avanzati, dove viceversa si superano i 70.
Le p. della Terra sono, inoltre, continuamente modificate dalla dinamica orizzontale, o mobilità. A spiegarne incidenza e modalità non è oggi più ritenuta sufficiente la sola teoria economica della mobilità, che prospetta come causa generale dello spostamento la ricerca del lavoro o, più in generale, la massimizzazione economica del rapporto tra luogo di residenza e luogo di lavoro. Ricongiungimenti familiari, accesso ai servizi e agli spazi per il tempo libero, miglioramento abitativo e ambientale, e anche questioni riguardanti l’etnia o la classe sociale di appartenenza, sono le principali variabili che concorrono a rendere lo spostamento di residenza un atto dalle motivazioni complesse.
Le teorie della p. hanno ricercato le leggi esplicative dell’evoluzione demografica in modo induttivo, partendo cioè dall’analisi statistica di p. concrete, o in modo deduttivo, derivandole da fattori naturali e socio-economici. In quest’ultimo tipo rientrano le teorie deterministiche, che considerano l’evoluzione demografica una conseguenza della disponibilità di risorse.
Tra queste, il maltusianismo, teoria che prende il nome dall’economista e demografo inglese T.R. Malthus, prevedeva che la p. sarebbe cresciuta in una progressione geometrica, cui non avrebbe potuto tener dietro la produzione alimentare, che, a quei tempi, cresceva in progressione aritmetica. Per evitare terribili carestie, si sarebbe dovuto limitare il numero dei nuovi nati, con il matrimonio tardivo e la castità. Questa teoria è stata ripresa agli inizi del 20° sec. con il nome di neomaltusianismo. La constatazione che alcuni gruppi umani si riducono fino a sparire ha indotto gli studiosi a cercare una spiegazione biologica del fenomeno. Il neoorganicismo (C. Gini, 1945) teorizzava che l’evoluzione delle p. passasse attraverso stadi variabili di vitalità e dinamicità, concludendosi con un invecchiamento di tipo primario che ne avrebbe comportato il declino e quindi la scomparsa.
Un ruolo crescente viene oggi riconosciuto alle condizioni ambientali e politico-economiche nello spiegare la scomparsa di p. umane. Secondo T.P. Schultz, nelle economie avanzate l’aumento della produttività e l’esigenza di migliorare la qualità della vita sono all’origine della diminuzione della fertilità e del calo demografico. Il problema ambientale ha spinto a riformulare su nuove basi la teoria dell’optimum demografico. P. e ambiente non sono più concepiti come due termini contrapposti, ma la p. viene rapportata all’ambiente integrato e trasformato nel corso della storia, dove l’accumulazione di sapere e l’incessante progresso tecnologico si sono accompagnati alla crescita demografica, superando i condizionamenti naturali e rendendo agibili sempre nuove risorse. Il ruolo delle risorse nel determinare lo sviluppo e la crescita delle p. viene nuovamente accolto, dopo il rifiuto del determinismo, tenendo conto della capacità delle p. di moltiplicare le risorse e di superare i limiti ambientali (J.L. Simon, E. Boserup). Nello sviluppo delle risorse disponibili ha le radici la rinnovata fiducia che la Terra possa alimentare una p. ben più numerosa (J. Vallin).
Tra le teorie interpretative dei cicli demografici, la transizione demografica serve sia a interpretare l’evoluzione demografica del passato sia a prevedere l’evoluzione futura delle p. che stanno attraversando gli stadi in cui essa si articola. La transizione demografica rappresenta una fase di passaggio (che tutte le p. umane dovrebbero prima o poi vivere) da un regime di basso incremento demografico, in cui un’alta mortalità falcidia i nuovi nati, a uno di bassa crescita, dovuto alle nascite scarse a fronte di una mortalità ridotta. Tra i due si interpone un periodo di forte aumento, perché la natalità si abbassa più lentamente della mortalità. Il calo della mortalità, iniziato in alcuni paesi europei nel 17° sec., ha richiesto circa 2 secoli per estendersi al resto del mondo, peraltro con maggiore rapidità dove l’avvio è stato tardivo. Esso è legato al successo nella lotta ad alcune grandi malattie epidemiche (come il vaiolo e il colera) ed endemiche (la malaria). Non va comunque sottovalutato il ruolo dei mutamenti intervenuti all’epoca della rivoluzione industriale nella produzione agricola, manifatturiera e nell’espansione dei trasporti. La transizione demografica, che si accompagna a un mutamento della distribuzione della p. tra campagna e città e al passaggio dai lavori agricoli a quelli non agricoli, contrassegna di fatto l’evoluzione della società dalla fase tradizionale a quella moderna.
Intorno alla metà del 18° sec. la storia demografica dell’umanità ha lasciato alle spalle una prima fase, protrattasi per il 99% della durata della presenza umana sulla Terra, in cui la p. mondiale era lentamente cresciuta fino a circa 600 milioni, per registrare l’avvio di una crescita sempre più rapida che l’ha decuplicata. Soprattutto negli anni tra il 1950 e il 1970 l’incremento ha avuto un andamento definito ‘esplosivo’, attingendo il tasso annuo di 2,05% nei primi anni 1970, per iniziare poi gradualmente a diminuire fino a giungere all’attuale 1,19%. La p. mondiale dovrebbe intorno al 2030 superare gli 8 miliardi, mentre la stazionarietà sarebbe raggiunta intorno al 2050, probabilmente poco oltre i 9 miliardi. Si instaurerebbe allora un andamento ciclico di breve periodo della fertilità, non più come un tempo a causa di epidemie e carestie, ma a seguito dell’attuazione di politiche demografiche e di variazioni del mercato del lavoro e del benessere.
Le politiche demografiche hanno lo scopo di modificare, nel senso desiderato, il numero e la qualità della popolazione. Fine primario delle politiche demografiche è il controllo della fertilità, ma esse possono estendersi anche al controllo delle migrazioni e a vari altri aspetti. In tema di fecondità, le politiche si distinguono in nataliste e antinataliste, a seconda che incoraggino comportamenti demografici tendenti a mantenere o accrescere il numero medio dei figli per donna o viceversa a contrarlo. Il timore del declino demografico spinge alcuni paesi avanzati ad aumentare le misure di protezione della maternità e della famiglia, nel tentativo di risollevare la natalità per assicurare il rimpiazzo della popolazione. Nei paesi in cui la natalità è ancora alta si cerca, al contrario, di spingere le coppie a fare meno figli, anche attraverso misure disincentivanti e persino coercitive. Grazie a questi interventi si è ottenuta in Cina una netta diminuzione delle nascite, con effetti di rilevanza mondiale. La pianificazione familiare è diventata uno strumento di politica demografica internazionale e, insieme al controllo delle migrazioni internazionali, forma l’oggetto di periodiche conferenze mondiali della p., quali quelle tenutesi a Stoccolma, Bucarest, Città di Messico, Il Cairo. L’ambiente urbano ha sempre favorito il diffondersi, nella p., di metodi contraccettivi e l’attuazione di politiche di controllo; nelle campagne, per contro, più a lungo si è conservata la convenienza economica di utilizzare la forza-lavoro di una prole numerosa. L’emancipazione femminile, sotto il profilo dell’istruzione e del lavoro extra-domestico, è stata una potente causa di abbassamento delle nascite. L’aumentato costo dell’allevamento dei figli e una più estesa protezione sociale della vecchiaia hanno pure contribuito al contenimento della fertilità. Anche la mobilità interna può essere oggetto di misure tendenti a scoraggiare l’afflusso verso le aree congestionate o a mantenere quote di p. laddove il regresso può peggiorare le condizioni di vita e di produzione.
Per quanto riguarda le migrazioni internazionali, forme di reclutamento organizzato, politiche di regolazione del soggiorno e di agevolazione del ritorno in patria degli stranieri, ma anche di assimilazione e stabilizzazione, fanno ormai parte delle strategie concernenti la forza-lavoro e tutta la p. straniera dei paesi avanzati.
Il termine indica ogni insieme, finito o infinito, di unità statistiche sul quale si vuol condurre un’indagine statistica. Le unità statistiche sono i soggetti in corrispondenza dei quali si manifesta un dato fenomeno oggetto di studio, che prende il nome di carattere. Spesso non è possibile avere informazioni dirette su tutte le unità della p.; è quindi compito della statistica dedurre informazioni sull’intera p. sulla base di un numero limitato di osservazioni (➔ campione).