consanguineità Relazione tra persone che discendono da un comune capostipite.
Dal punto di vista biologico è il fenomeno per cui, nell’ascendenza di un individuo, il numero effettivo dei suoi antenati è inferiore a quello teorico. Un certo grado di c. è in ciascun uomo, perché se ogni persona oggi vivente dovesse avere il numero teorico di antenati che le compete, la popolazione totale della Terra avrebbe dovuto essere, alcuni millenni or sono, molto maggiore dell’attuale, mentre è vero il contrario. Quanto più gli antenati comuni sono prossimi all’individuo, e quanto maggiore è il loro numero nella scala degli ascendenti, più alto è il grado di consanguineità.
La c. favorisce la formazione d’individui omozigoti; gli omozigoti per un gene raro recessivo si originano, la maggior parte delle volte, da matrimoni fra consanguinei, in cui i due individui hanno una maggiore probabilità di essere entrambi portatori eterozigoti per la stessa coppia di alleli. Negli animali e nelle piante si effettuano, a scopo sperimentale, incroci tra consanguinei mediante l’inincrocio e l’autofecondazione. La c. applicata in zootecnia per la purificazione e il perfezionamento delle razze ha un uso limitato perché determina un alto grado di sterilità.
La c. è computabile per linee e per gradi. La linea può essere: retta, se la discendenza procede direttamente da un soggetto a un altro (per es., padre e figlio); collaterale o obliqua, se le persone, pur avendo lo stipite comune, non discendono l’una dall’altra (per es., fratelli, cugini). Il grado della parentela è determinato dal numero delle generazioni: in linea retta non si computa il capostipite; in linea obliqua, tanti sono i gradi quante sono le persone in tutte e due le linee insieme, tolto il capostipite (per es., i fratelli sono parenti in secondo grado, zio e nipote in terzo, i cugini in quarto).