L’utile che viene dall’esercizio di un mestiere, di una professione, di un’industria, da un qualsiasi impiego di capitale.
In economia, il flusso di moneta, beni o servizi, ricevuto da singoli individui, collettività, imprese o dall’economia nazionale nel suo complesso, in un dato periodo di tempo.
R. individuale. Il r. è dato dal flusso di beni e servizi economici che si producono in un determinato periodo di tempo, in genere l’anno solare, mentre il patrimonio e il capitale si considerano nella loro consistenza in un dato momento, come stock. Tale flusso può essere rilevato al netto del deprezzamento dello stock di capitale esistente, pari a quella parte del r. che dovrebbe essere accantonata allo scopo di mantenere inalterata la capacità produttiva del sistema economico, oppure al lordo. Il valore monetario del r. è ricavabile sommando il valore complessivo ai prezzi di mercato dei beni e dei servizi prodotti, oppure sommando, con i dovuti accorgimenti (e in particolare distinguendo, al fine di evitare duplicazioni, i r. originari di chi partecipa alla produzione di un bene o presta un servizio personale da quelli derivati, cui non corrisponde alcuna creazione di utilità), tutti i r. a qualsiasi titolo percepiti entro lo stesso intervallo temporale dai molteplici soggetti economici privati e pubblici che compongono la collettività, quando in essa sia riconosciuta la proprietà privata (nelle società fondate sulla proprietà collettiva, che si pongono come unico soggetto economico, non avrebbe senso partire dai r. individuali). Sia con il secondo metodo, soggettivo o personale, sia con il primo, oggettivo o reale, si dovrebbe in teoria arrivare allo stesso risultato, dato che il valore del prodotto nazionale non è che l’insieme di tutti i r. di individui ed enti pubblici e privati; ma di fatto, per sfasamenti temporali tra produzione e percezione di r. e per varie altre ragioni, la coincidenza non si avvera.
Lo stesso concetto di r. individuale non è del resto facile a determinare, e si discute se escludere o no dal r. i cosiddetti guadagni di congiuntura (vincite al lotto, plusvalore di carattere eccezionale ecc.), in quanto non a carattere regolare. Bisognerebbe poi tener conto degli eventuali r. in natura affluenti direttamente a un soggetto (per es., frutti di un giardino), dei servizi prestati a lui gratuitamente da persone di famiglia, nonché delle utilità derivanti dal patrimonio d’uso (mobili, pellicce, utensili ecc.), o calcolando nel r. dell’anno in cui furono acquistati il valore di questi beni a fecondità ripetuta, o calcolando invece nei r. degli anni successivi il valore dei servizi da essi resi al loro proprietario (e analogo ragionamento dovrebbe farsi per qualsiasi forma di risparmio).
R. nazionale. Ancor più numerosi sono i problemi che si presentano per il r. nazionale: dalla necessità di esprimere in un’unica unità di misura (la moneta) beni e servizi eterogenei, attribuendo a tutti un prezzo, mentre è ben noto come alcuni beni sfuggano alla possibilità di valutazione; dal sommare insieme beni e servizi, tutte le volte che si tratta di beni durevoli il cui valore in fondo è la capitalizzazione dei servizi dei beni stessi che verranno computati negli esercizi futuri; dal precisare cosa si debba intendere per reintegrazione dei capitali fissi, dato che nel valore di questi ultimi possono verificarsi variazioni indipendentemente dal loro concorso alla vera e propria produzione del r. nazionale; dal tener conto dei prelievi di r. operati dallo Stato e dagli enti pubblici attraverso le imposte (in genere, se si calcola il r. nazionale con il metodo personale, si consiglia di non dedurre dal r. dei privati le imposte dirette e di toglierle invece dai r. fiscali degli enti pubblici, e per far coincidere i risultati è necessario aggiungere le imposte dirette alla somma dei r. individuali o toglierle dal r. complessivo calcolato con il metodo reale), degli interessi del debito pubblico, dei r. dei pensionati ecc.
La valutazione del r. nazionale, qualunque sia il metodo prescelto, incontra inoltre gravi difficoltà nella documentazione statistica specialmente con riguardo alla comparatività dei dati relativi ai vari paesi. Neppure facili sono i confronti tra le cifre calcolate in tempi diversi per la stessa collettività, dato che i prezzi dei beni e servizi mutano con il tempo, e non soltanto per il variare del valore della moneta ma anche per il variare della distribuzione dei r., dello stato della tecnica e dei gusti. In ogni caso perciò le cifre del r. nazionale, che sono sempre somme di prezzi, non possono avere che un valore indicativo. Comunque le analisi teoriche e i tentativi di valutazione del r. nazionale si sono andati perfezionando per la necessità di affrontare i problemi relativi allo sviluppo del r., dell’occupazione e del benessere della collettività.
In Italia si è adottato il metodo oggettivo: si calcola cioè il prodotto netto dei vari settori produttivi, deducendo dal valore dei ricavi di ciascun settore quello degli altri acquisti da altri settori e il deprezzamento dei capitali, e arrivando così alla somma delle retribuzioni dei fattori produttivi, lavoro e capitale, impiegati in ogni settore, a quello cioè che si chiama il prodotto netto nazionale al costo dei fattori. Aggiungendo a questo le imposte indirette e togliendone le sovvenzioni statali si può avere il prodotto netto nazionale ai prezzi di mercato che, integrato dal r. netto degli scambi con l’estero, dà il r. nazionale netto ai prezzi di mercato, e quest’ultimo, a sua volta integrato dall’ammortamento e manutenzione dei capitali fissi, dà il r. nazionale lordo.
Organismi internazionali quali l’UE e l’OCSE promuovono la raccolta e l’elaborazione di dati statistici per il calcolo del r. nazionale lordo secondo norme unificate che permettono un confronto a livello internazionale.
Concetto di r. che supera le limitazioni proprie del r. corrente per spiegare l’andamento delle spese per consumi. Secondo tale impostazione, dovuta a M. Friedman dell’università di Chicago, il r. corrente sarebbe il risultato di due componenti: una transitoria, che può essere positiva, nulla o negativa, e una permanente. Il r. corrente può quindi essere superiore, pari o inferiore al r. permanente, che può essere definito come il r. medio annuo atteso dall’individuo per un certo ‘orizzonte’ temporale, superiore all’anno. L’ipotesi è che le singole unità familiari adeguano i loro consumi non al r. corrente, ma al r. permanente, di modo che quando il r. corrente è inferiore a quello permanente, la propensione al consumo (cioè la percentuale di r. corrente destinata al consumo) risulta essere eccezionalmente alta, mentre quando il r. corrente è maggiore di quello permanente, la propensione al consumo si palesa particolarmente bassa. Quest’ipotesi consente di chiarire un contrasto di fondo rilevato fra i dati di breve e quelli di lungo periodo relativi al consumo. I dati di breve periodo, infatti, relativi ai bilanci delle famiglie per classi di reddito, sembravano confermare l’ipotesi keynesiana di decrescenza della propensione al consumo al crescere del reddito. Tale ipotesi conduceva i teorici del ristagno a sostenere l’inevitabilità di una crisi di sovrapproduzione dovuta a carenza della domanda globale. I dati di breve periodo però furono clamorosamente contraddetti da quelli di lungo periodo: secondo gli studi di S.S. Kuznets relativi agli USA per il periodo 1899-1950, la percentuale di r. destinata al consumo è rimasta costante malgrado il r. fosse notevolmente aumentato. L’ipotesi keynesiana quindi è il frutto di un’illusione nell’osservazione dei dati, dovuta al fatto di considerare il consumo funzione del solo r. corrente. Ciò è stato confermato da studi successivi, dovuti a F. Modigliani in collaborazione con R. Brumberg e A. Ando, che hanno ulteriormente sviluppato il tema della funzione del consumo, considerando l’influenza dell’età sul comportamento del consumo. Secondo tale ipotesi, detta del life cycle («ciclo della vita»), il consumo varia in funzione dell’età, di modo che i giovani e i vecchi consumano più del loro r. corrente, mentre nell’età di mezzo si consuma meno di quanto si produce.
In microeconomia, la variazione della quantità domandata di un bene, conseguente a una variazione del potere d’acquisto causata da una variazione del prezzo del bene stesso. Al fine di valutare l’effetto complessivo di una variazione del prezzo sulla domanda (➔) di un bene bisogna anche considerare l’effetto sostituzione che è determinato dalla variazione del saggio di scambio con un altro bene. Se il bene il cui prezzo aumenta è normale, la perdita del potere d’acquisto provoca una riduzione della domanda e quindi l’effetto r. è negativo. In tal caso i due effetti (r. e sostituzione) si sommano e la variazione del prezzo causa una variazione di segno opposto della domanda del bene. Tuttavia, per i beni inferiori l’effetto r. è positivo. In questo caso la variazione complessiva della domanda di un bene dovuta al suo rincaro è indeterminata: può essere negativa, se l’effetto sostituzione prevale sull’effetto r., oppure positiva, nel caso di beni del paradosso di Giffen (➔ Giffen, sir Robert), quando un aumento del prezzo provoca un incremento nella domanda di quel bene nonostante la perdita di potere d’acquisto.
L’espressione fa riferimento a una serie di proposte il cui ruolo attiene prevalentemente alla compatibilità tra sviluppo dell’economia e stabilità dei prezzi, cioè tra crescita del r. e dell’occupazione e mantenimento di un livello dei prezzi costante (o contenimento entro limiti tollerabili delle espressioni inflazionistiche).
Inflazione dei costi ed equilibrio dinamico. Per chiarire in cosa consista la politica dei r., è opportuno far riferimento da un lato a quella interpretazione dell’inflazione che va sotto il nome di inflazione dei costi; dall’altro al concetto di sviluppo economico in condizioni di equilibrio dinamico (età dell’oro). La prima interpretazione individua l’origine del processo inflazionistico non in eccessi della domanda rispetto all’offerta globale, ma in aumenti eccessivi dei costi di produzione, e segnatamente dei costi di lavoro. In effetti, in condizioni di concorrenza perfetta in cui le imprese non hanno possibilità di influire sui prezzi di vendita dei loro prodotti, se l’incremento relativo dei salari è maggiore dell’incremento relativo della produttività media del lavoro, il saggio di profitto subisce una riduzione. Se invece la struttura del mercato non è concorrenziale e consente quindi alle imprese una possibilità di manovra sui prezzi, la loro reazione all’ipotizzato squilibrio tra variazione percentuale dei salari e variazione percentuale della produttività è rappresentata appunto da un aumento dei prezzi in difesa del margine di profitto precedentemente realizzato: il fenomeno inflazionistico sarebbe in tal senso provocato da una variazione ‘eccessiva’ di una delle componenti del costo di produzione.
Lo sviluppo di un’economia secondo una linea di equilibrio dinamico, o età dell’oro (che rappresenta, come si è detto, il secondo punto di riferimento per la definizione del ruolo della politica dei r.), avviene quando, in presenza di valori positivi dei saggi d’incremento della forza di lavoro e della produttività del lavoro, le variabili fondamentali (r., consumi, investimenti) crescono a un tasso pari alla somma dei saggi summenzionati; il salario monetario cresce al saggio a cui aumenta la produttività del lavoro e il salario reale, con prezzi costanti (il volume di risparmio è sempre esattamente sufficiente a finanziare gli investimenti necessari per lo sviluppo in situazioni di piena occupazione), segue il medesimo andamento nel tempo del salario monetario. Il saggio di profitto e la distribuzione del r. tra salari e profitti rimangono costanti. È proprio questo insieme di condizioni, il cui carattere di astrazione è peraltro ben sottolineato dall’espressione «età dell’oro», usata da J. Robinson, che la politica dei r. tende, almeno approssimativamente, a realizzare.
Tale politica può così essere definita come quell’insieme d’interventi di politica economica volti ad assicurare, nel processo di sviluppo, la stabilità del livello dei prezzi attraverso il mantenimento della stabilità delle quote distributive attribuite alle categorie (o classi) sociali. Il presupposto del discorso è che nell’odierna realtà economica prevalgono forme di mercato non concorrenziali, in presenza delle quali l’abbandono della regola di crescita ‘equilibrata’ del salario implicherebbe, per la difesa del precedente assetto distributivo, il prodursi di fenomeni inflazionistici.
Limiti di applicazione. La circostanza che le condizioni di crescita ideali di equilibrio dinamico siano ricavate dall’analisi di modelli di sviluppo ‘aggregati’, consente nel contempo di chiarire – con riferimento alle ipotesi che in generale circoscrivono la validità di tali modelli – taluni dei principali limiti che la possibilità di applicare la politica dei r. incontra in concreto.
Un primo gruppo di difficoltà è collegato con il fatto che nelle economie reali, a differenza di quanto si suppone di norma nei modelli teorici di sviluppo, esiste una pluralità di settori nei quali la produttività cresce maggiormente; si rendono così possibili, senza variazioni dei prezzi e del tasso di profitto, aumenti di salari che negli altri settori non sarebbero attuabili: ne nascerebbero sperequazioni tra gli andamenti delle retribuzioni nei vari settori, contro le quali è presumibile un impegno delle organizzazioni sindacali dei lavoratori. Nella misura in cui tale impegno avesse successo, e consentisse così di assicurare a tutti i lavoratori operanti nel sistema i medesimi incrementi percentuali del salario, si renderebbe inevitabile, nei settori meno progressivi, o un aumento dei prezzi (in difesa del preesistente saggio di remunerazione del capitale) o l’accettazione di una riduzione del tasso dei profitti. Con le forme di mercato oggi prevalenti, e in assenza di commercio estero, è la prima delle due alternative quella che presumibilmente si troverebbe realizzata.
Prendendo allora atto della diversità dei ritmi di crescita della produttività nei vari settori, l’obiettivo della politica dei r. diventa quello di mantenere costante il livello generale dei prezzi (non più tutti i prezzi di tutti i beni prodotti) attraverso l’adozione di due canoni: a) aumento dei salari monetari di tutti i settori in misura pari all’aumento della produttività media del sistema economico; b) riduzione dei prezzi dei prodotti offerti dai settori in cui la produttività cresce oltre la media in modo da mantenere costante il tasso di profitto realizzato dalle imprese (questo tasso chiaramente aumenterebbe qualora i prezzi dei prodotti si mantenessero costanti nelle condizioni ipotizzate); e parallelamente aumento dei prezzi dei beni prodotti in settori in cui la produttività del lavoro aumenta meno della media (anche qui l’obiettivo è quello di mantenere costante il tasso di profitto delle imprese, obiettivo che non sarebbe possibile realizzare ove per ipotesi i prezzi dei prodotti di questi settori rimanessero costanti).
L’adozione concreta di tali regole incontra ulteriori difficoltà: in primo luogo, poiché verrebbero evidentemente perpetuate eventuali differenze settoriali o geografiche esistenti tra remunerazioni salariali (la crescita allo stesso tasso di salari inizialmente diversi implica infatti il mantenimento della sperequazione) e potrebbero manifestarsi resistenze e obiezioni sia da parte dei responsabili delle scelte di politica economica, sia da parte degli interessati e quindi pressioni dirette all’eliminazione delle differenze retributive. Nella misura in cui queste pressioni riuscissero ad avere successo, l’accettazione delle regole di comportamento da parte delle altre componenti potrebbe essere posta in discussione e l’obiettivo della costanza del livello dei prezzi potrebbe divenire irraggiungibile. In secondo luogo, dalla prevalente struttura non concorrenziale dei mercati, si può presumere che i prezzi dei beni offerti dai settori in cui la produttività aumenta in misura inferiore alla media aumentino (per mantenere invariato il tasso di profitto di fronte agli aumenti salariali), mentre è assai improbabile, per non dire impossibile, che si riducano i prezzi di quei prodotti offerti dai settori in cui la produttività è cresciuta più della media. In queste condizioni, evidentemente, anche l’accettazione della regola di comportamento da parte dei sindacati non sarebbe sufficiente a garantire il raggiungimento dell’obiettivo della stabilità monetaria. Le imprese tecnologicamente più efficienti (quelle che operano, con poteri monopolistici, nei settori con più elevati aumenti della produttività) registrerebbero un aumento del margine di profitto, che sarebbe presumibilmente utilizzato per un rafforzamento della loro posizione sui mercati: e la politica dei r. assumerebbe i contorni, difficilmente accettabili da parte sindacale, di una politica di contenimento dei salari reali.
Con riferimento alle ipotesi dei modelli di sviluppo, può essere posta in risalto ancora una difficoltà di applicazione della politica dei redditi. Le uniche due categorie di r. considerate normalmente nei modelli di sviluppo economico e nel discorso della politica dei r. sono i profitti e i salari. Nella realtà concreta, invece, vengono distribuiti anche r. che hanno natura diversa da profitti e salari, e ai quali, nonostante le considerevoli difficoltà di classificazione e di qualificazione, si usa fare riferimento con l’espressione rendita. I principali fenomeni di questo tipo possono individuarsi nel settore edilizio e urbanistico, nel settore della distribuzione commerciale, in fenomeni collegati con talune inefficienze dell’apparato fiscale, nel settore di talune professioni ‘liberali’, e nell’assetto e nella struttura del bilancio dello stato e degli enti pubblici. Nella misura in cui le pressioni inflazionistiche siano dovute a fenomeni di questo tipo, anche la più scrupolosa attuazione delle suaccennate regole di comportamento della politica dei r. non sarebbe sufficiente ad assicurare il mantenimento della stabilità dei prezzi, cioè la finalità dichiarata di questo tipo di politica.
Ma la difficoltà maggiore che l’attuazione della politica dei r. incontra nella realtà è collegata con la sua ‘filosofia’ di fondo, che è rappresentata, come si è detto, dal mantenimento dell’assetto distributivo già esistente. Poiché non esistono criteri di alcun tipo per definire aprioristicamente la giustezza, o equità, di una qualsiasi situazione della distribuzione del r. tra categorie di percettori, e poiché il movimento sindacale è sorto con il preciso scopo di modificare l’assetto distributivo attribuendo ai lavoratori una quota maggiore del r. prodotto, è difficile presumere in via generale che i sindacati operai, anche a prescindere da questioni attinenti alla loro adesione al quadro istituzionale e politico, accettino le prescrizioni della politica dei r. come un canone fondamentale della loro strategia e quindi delle scelte di comportamento concrete che da tale strategia discendono. Accettare tali criteri significherebbe infatti considerare come ‘giuste’ o ‘eque’ le quote distributive che caratterizzano la situazione di partenza – cosa che per motivi, si potrebbe dire, ‘istituzionali’ il sindacato trova difficoltà a fare. La presenza di elementi di carattere non concorrenziale, che consentono alle imprese di trasferire sui prezzi eventuali aumenti dei costi in difesa del tasso di profitto, induce inoltre i sindacati a considerare tali elementi responsabili dei fenomeni inflazionistici allo stesso titolo degli aumenti salariali. I suggerimenti alternativi di politica economica fanno in generale perno sull’uso dello strumento fiscale ai fini redistributivi, rispetto al quale resta tuttavia aperto il problema dell’effettiva manovrabilità.
Con questa espressione si fa riferimento in generale a un insieme di proposte di politica economica tendenti a trasformare l’attività ridistributiva dello Stato, e in particolare a sostituire un sistema di ridistribuzione in moneta all’attuale meccanismo di ridistribuzione in natura, che viene attuato fra l’altro attraverso la fornitura di servizi sociali gratuiti o sotto costo. Tale trasformazione avrebbe il vantaggio di separare il problema della distribuzione del r. da quello della sua produzione, e consentirebbe inoltre di salvaguardare la libertà di scelta dei singoli nella distribuzione del r. fra più consumi. Una delle proposte relative che più hanno avuto successo è quella della cosiddetta imposta negativa sul reddito, sostenuta negli USA da un gran numero di economisti di tutte le tendenze. Secondo una delle formulazioni di tale proposta, il sistema si articolerebbe nel modo seguente: stabilito un certo livello di r. minimo al di sotto del quale non si pagherebbero imposte, e individuata una certa aliquota di imposta negativa, i percettori di r. inferiori a quel minimo riceverebbero dallo Stato una somma pari a una percentuale della differenza fra il r. minimo e quello effettivamente percepito. Le obiezioni alle varie proposte di r. garantito sottolineano soprattutto i possibili effetti negativi che potrebbero derivarne per ciò che riguarda l’incentivo al lavoro; ma se r. garantito e aliquota fossero fissati a un livello ragionevolmente basso, secondo i sostenitori della proposta tali effetti sarebbero trascurabili e largamente compensati dai vantaggi ad essa inerenti.
Il concetto risale a una visione ‘naturale’ della proprietà economica; essendo le risorse naturali un bene collettivo, a ogni individuo deve essere attribuito un ‘dividendo’ sociale (il r.) che lo indennizzi dello sfruttamento di tali risorse e gli consenta di vivere dignitosamente. Viene spesso citato un brano di B. Russell risalente al 1918 che sintetizza questo concetto: «Tutti dovrebbero aver garantita una quantità di r. sufficiente per soddisfare i bisogni basilari sia che lavorino sia che no, e coloro che desiderano svolgere qualsiasi tipo di lavoro che la comunità riconosce come utile dovrebbero ricevere una quantità di r. maggiore». Nel tempo tale misura è divenuta sinonimo di intervento redistributivo di sostegno alle fasce socialmente più esposte al rischio povertà. Si tratta di misure universalistiche (cioè rivolte a tutti i cittadini di una data area geografica) che, a fronte dell’erogazione di un r., dovrebbero assicurare ogni individuo dal rischio povertà ed emarginazione sociale. Dibattuto è il carattere di ‘universalità’ di tale misura; se inteso in senso ampio esso non discrimina tra individui ricchi e poveri e, quindi, il r. di cittadinanza dovrebbe spettare anche gli individui abbienti. Si tratta evidentemente di una forzatura terminologica; se obiettivo rimane il sostegno alle fasce povere, allora tale misura di welfare deve essere ‘selettiva’ e non universale, rientrando nelle misure redistributive che utilizzano un means testing (criterio di selezione in base ai mezzi) per discriminare i beneficiari della redistribuzione. Alcuni economisti, in particolare della scuola neoclassica liberista, ritengono inoltre che l’erogazione di un sussidio non condizionato a una qualche misura di impegno morale dell’individuo, quale per esempio l’impegno a cercare un lavoro, finisca con il disincentivare l’individuo ad adottare comportamenti socialmente e moralmente corretti, quali appunto la ricerca di un lavoro o di un dignitoso standard di vita.
Esperimenti in Italia di r. di cittadinanza sono attivi nella regione Campania, che devolve un sussidio mensile di 350 euro ai nuclei familiari che dichiarano un r. minore di 4500 euro l’anno e in Friuli Venezia Giulia, dove la soglia di r. (2007) è di 5000 euro annui.
La tassazione del r. costituisce una prerogativa di ogni sistema fiscale, in quanto il r., qualificato in linea generale come variazione del patrimonio, individua una delle maggiori espressioni di ricchezza economica che ogni soggetto tributario (persona fisica, giuridica o altro) può produrre e realizzare nella sua esistenza.
Nel sistema giuridico nazionale il r., considerato fatto espressivo di capacità contributiva (secondo l’art. 53 della Costituzione), è tassato attraverso l’IRPEF (imposta sul r. delle persone fisiche, ➔) e l’IRES (imposta sul r. delle società, ➔); IRPEF e IRES costituiscono il sistema delle imposte sui r. e sono disciplinate dal d.p.r. 917 /1986 (o testo unico delle imposte sui redditi, t.u.i.r.). Nella disciplina di tali imposte non è prevista una definizione generale di reddito. Il presupposto dell’IRPEF (ricavabile dal combinato disposto degli art. 1 e 6, co. 1, del t.u.i.r.) e dell’IRES (ricavabile dal combinato disposto degli art. 72 e 6, co. 1, del t.u.i.r.) è costituito dal possesso di r., in denaro o in natura, rientranti nelle categorie indicate nell’art. 6 del d.p.r. 917 /1986. L’indicazione delle categorie di r. è fondamentale per la definizione del presupposto, in quanto, ai fini IRPEF e IRES, costituisce r. imponibile soltanto quello inquadrabile in una delle categorie reddituali indicate.
Le categorie di r. sono tassative. Ogni categoria presenta una disciplina fiscale autonoma, relativa al criterio di imputazione soggettiva del presupposto, all’individuazione specifica della nozione di possesso di r., alla commisurazione del r., al computo della base imponibile, ai principi di imputazione temporale, alle disposizioni sulla rilevanza delle componenti negative. Nella nozione di r. imponibile rientrano anche i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale (art. 14, co. 4 e 4 bis, l. 537/1993 e art. 36, co. 34 bis, d.l. 223/2006), i proventi conseguiti in sostituzione di r. e le indennità acquisite a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi. A tale proposito si rileva che per ogni tipo di somma ricevuta a titolo di risarcimento o altro, è necessario distinguere la parte destinata a coprire il danno emergente (che non costituisce r., in quanto è una forma di r. - integrazione patrimoniale) dalla parte destinata a sostituire il lucro cessante (che avrà natura reddituale e sarà assoggettata a tassazione).
Disciplinati dagli art. 25 e s. del t.u.i.r., i r. fondiari sono definiti come r. inerenti ai terreni e fabbricati situati nel territorio dello Stato che sono o devono essere iscritti, con attribuzione di rendita, nel catasto dei terreni o nel catasto edilizio urbano. La peculiarità di tale categoria reddituale è costituita dalla loro assoggettabilità a tassazione sulla base delle risultanze catastali, con riferimento al ‘r. medio ordinario’ ritraibile dal terreno o da ciascuna unità immobiliare urbana. I r. fondiari devono essere inoltre determinati indipendentemente dalla relativa percezione per il solo fatto della titolarità di un diritto reale che attribuisce il possesso di un bene immobile. La disciplina generale di tali r. prevede che il verificarsi di determinati eventi (naturali, atmosferici o umani), incidendo sulla possibilità di produrre r. dell’immobile, faccia venire meno in tutto o in parte l’obbligo di assolvere all’imposta, secondo la rendita catastale.
I r. fondiari si suddividono in: r. dominicali dei terreni e r. dei fabbricati (i quali si considerano conseguiti dai soggetti che possiedono a titolo di proprietà o di altro diritto reale, rispettivamente, terreni atti alla produzione agricola o fabbricati), da un lato, e r. agrari (imputati a coloro, anche se affittuari, che svolgono attività agricola sul fondo), dall’altro. I r. dominicali e i r. agrari, pur originando entrambi dal possesso di terreni, differiscono tra loro in quanto con i primi si assoggetta a tassazione il mero possesso, con i secondi invece l’esercizio di un’attività sui terreni stessi. Ai sensi dell’art. 43 del t.u.i.r., gli immobili strumentali (vale a dire quelli relativi a imprese commerciali e quelli che costituiscono beni strumentali per l’esercizio di arti e professioni) non sono produttivi di r. fondiario.
Tali r. non sono definiti in via normativa. L’art. 44 del t.u.i.r. contiene un’elencazione di una serie di proventi, accomunati – secondo le interpretazioni prevalenti – da una caratteristica unitaria: la circostanza di attenere al risultato della gestione di un capitale pecuniario, realizzato attraverso atti di impiego finalizzati a ottenere un’utilità economica tendenzialmente stabile, periodica e permanente. Generalmente i r. di capitale sono classificati in tre tipologie: gli interessi e i proventi dei finanziamenti; i dividendi e gli utili derivanti da rapporti partecipativi; gli altri proventi emergenti da atti di gestione del capitale. Si tratta, quindi, di rapporti aventi ad oggetto un impiego del capitale dal risultato certo nell’an, ma non nel quantum; gli impieghi di capitali che hanno come risultato un evento incerto producono r. diversi. Non rientrano in questa categoria i r. di capitale conseguiti nell’esercizio di impresa, in quanto attratti nella diversa categoria dei r. d’impresa. Per quel che concerne la determinazione del r. tassabile, non è riconosciuta alcuna possibilità di deduzione delle spese sostenute: i proventi sono assunti al lordo. Per quanto attiene al criterio di imputazione temporale, è utilizzato il principio di cassa; sono quindi imputati nel periodo di imposta in cui vengono percepiti. I r. di capitale non partecipano – nella maggior parte delle ipotesi – alla determinazione complessiva del r., in quanto sono tassati attraverso imposte sostitutive o ritenute alla fonte a titolo d’imposta. Tale disciplina risponde alla finalità legislativa di attuare una tassazione semplificata rispetto al modello impositivo ordinario.
Ai sensi dell’art. 49 del t.u.i.r., sono r. di lavoro dipendente quelli derivanti da rapporti aventi ad oggetto la prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri. Risulta evidente il richiamo indiretto alla nozione civilistica di lavoratore dipendente di cui all’art. 2094 c.c. Il legislatore considera r. di lavoro dipendente anche tutte le pensioni e le somme percepite ai sensi dell’art. 429 c.p.c. La disciplina dei r. di lavoro dipendente prevede (art. 50 del t.u.i.r.) anche diverse ipotesi di r. assimilati, che si caratterizzano per l’assenza di determinati elementi che tipizzano la categoria di r. in esame: in alcuni casi si tratta di fattispecie in cui manca il vincolo di subordinazione; in altri non è ravvisabile lo svolgimento di un’attività di lavoro; infine vi sono delle ipotesi di r. assimilati in cui è assente lo svolgimento di un’attività lavorativa vera e propria. La base imponibile dei r. di lavoro dipendente è soggetta al principio di omnicompresività, in base al quale sono tassate tutte le somme, i valori e i proventi, a qualsiasi titolo percepiti, in relazione al rapporto di lavoro. In questo modo è stata risolta, a favore della tassabilità, la discussa questione relativa all’imponibilità o meno dei diversi compensi in natura, regali e agevolazioni di ogni tipo ottenuti dal lavoratore in ragione del rapporto di lavoro (i cosiddetti fringe benefits). Esiste, pertanto, una disciplina molto dettagliata relativa ai diversi beni e servizi che sono messi a disposizione del lavoratore o devoluti allo stesso dal datore di lavoro, che prevede in determinate ipotesi una tassazione totale o parziale al valore normale, in altre ed entro determinate franchigie un’assenza di imposizione. L’imputazione temporale dei r. di lavoro dipendente segue il criterio di cassa con una precisazione. Il r. viene assunto al lordo delle eventuali spese sostenute dal lavoratore; sono tuttavia previste (art. 13 t.u.i.r.) delle detrazioni d’imposta forfettarie. Lo strumento attraverso cui si attua l’imposizione fiscale di tali r. è la ritenuta alla fonte a titolo d’acconto, sulla base delle norme contenute nel d.p.r. 600/1973.
Come specificato dall’art. 53 del t.u.i.r., sono r. di lavoro autonomo quelli derivanti dall’esercizio di arti e professioni, cioè dall’esercizio per professione abituale ancorché non esclusiva di un’attività di lavoro autonomo. Si caratterizzano, pertanto, per: il requisito dell’abitualità (le prestazioni occasionali rientrano, infatti, nei r. diversi), l’autonomia (che li distingue dai r. di lavoro dipendente), la non commercialità dell’attività svolta (individuata, generalmente, nell’elemento ‘personale’, che rende infungibile la prestazione professionale o artistica). La determinazione della base imponibile avviene tramite l’individuazione del differenziale tra l’ammontare dei compensi (in denaro o in natura) percepiti dal lavoratore autonomo e quello delle spese sostenute in un determinato periodo d’imposta. Le spese devono essere inerenti all’attività esercitata: la sussistenza di tale nesso di collegamento è indispensabile ai fini della deducibilità delle stesse. Nel caso in cui i beni acquistati siano utilizzati promiscuamente, per scopi personali e professionali, è prevista una deduzione non integrale ma percentuale, al fine di dar conto dell’utilizzazione promiscua. Qualora l’attività venga esercitata in forma associata da associazioni senza personalità giuridica, i relativi proventi sono da considerare comunque r. di lavoro autonomo, stante l’equiparazione delle stesse alle società semplici, ai sensi dell’art. 5, co. 3, lett. c, del t.u.i.r. I r. di lavoro autonomo sono imputati temporalmente secondo il principio di cassa, a eccezione di alcune ipotesi, in cui legislatore ha espressamente stabilito per alcune componenti reddituali l’imputabilità per competenza. I soggetti che producono r. di lavoro autonomo devono osservare una serie di obblighi contabili previsti dall’art. 19 del d.p.r. 600/1973. La tassazione viene operata tramite un sistema di ritenute alla fonte a titolo d’acconto. Tuttavia, per effetto dell’introduzione del regime dei minimi ad opera della l. 244/2007, in presenza di determinate condizioni, è possibile sottoporre il r. di lavoro autonomo a una imposizione sostitutiva del 20%.
Ai fini dell’individuazione delle fonti del r. di impresa si ricorre generalmente a criteri soggettivi e oggettivi. I criteri soggettivi si riferiscono alla natura giuridica del soggetto produttore di r., e sono disciplinati dagli art. 6 e 81 del t.u.i.r.; i criteri oggettivi si riferiscono alle caratteristiche dell’attività esercitata e trovano il proprio referente normativo nell’art. 55 del t.u.i.r.. In particolare, i r. conseguiti da società in nome collettivo e in accomandita semplice, nonché quelli prodotti da società di capitali e da enti commerciali residenti nel territorio dello Stato, sono qualificati espressamente come r. d’impresa a prescindere dal tipo di attività esercitata (art. 6 e 81 t.u.i.r.). Tali soggetti producono sempre r. d’impresa, ma mentre le società di persone e gli enti equiparati (art. 5 t.u.i.r.) sono assoggettati alla disciplina IRPEF, le società di capitali e gli enti commerciali residenti a quella IRES. Qualora l’attività sia posta in essere da un ente diverso o da una persona fisica è necessaria la verifica della rispondenza dell’attività alle caratteristiche enunciate nell’art. 55 (➔ impresa). Il primo comma di tale norma definisce r. d’impresa quelli derivanti dall’«esercizio di imprese commerciali», intendendo riferirsi, con tale formula linguistica, alle attività elencate nell’art. 2195 c.c. e a quelle di cui all’art. 32 t.u.i.r., che eccedono i limiti per rientrare fra i r. fondiari (in particolare, fra i r. agrari). Queste attività devono essere esercitate in forma abituale ancorché non esclusiva: il carattere occasionale dell’attività, quindi, determina l’inclusione del r. prodotto nella categoria dei r. diversi ai sensi dell’art. 67 lett. i, del t.u.i.r. Per espressa previsione normativa, non è necessario che le attività suddette siano organizzate in forma d’impresa. Tale organizzazione è, invece, richiesta dal co. 2 dell’art. 55, per le attività dirette alla prestazione di servizi non rientranti nell’elenco di cui all’art. 2195 c.c.: la mancanza di questo requisito determina la riconducibilità dei proventi relativi nella categoria dei r. da lavoro autonomo, se derivanti da attività svolta in via continuativa, o dei r. diversi, se l’attività è esercitata occasionalmente. Il legislatore ha previsto altre fattispecie generatrici di r. d’impresa, in particolare: i r. derivanti dallo sfruttamento di miniere, cave, torbiere, saline, laghi, stagni e altre acque interne nonché i r. dei terreni, per la parte derivante dall’esercizio delle attività agricole, se prodotti da società (di cui all’art. 32 del t.u.i.r). La determinazione del r. d’impresa segue le modalità previste dall’art. 83 del t.u.i.r., che sancisce il principio di derivazione del r. d’impresa dal conto economico: il r., infatti, è la risultante delle variazioni in aumento o in diminuzione – previste dalle disposizioni del t.u.i.r. – all’utile o alla perdita risultante dal conto economico. Componenti positive del r. d’impresa sono: i ricavi, le plusvalenze, le sopravvenienze attive, altre fattispecie; componenti negative, invece, sono: spese, minusvalenze, sopravvenienze passive, e altre ipotesi. Sotto il profilo temporale, tali componenti vengono imputati, salvo limitate eccezioni, secondo il principio di competenza, dando pertanto rilevanza all’esercizio di perfezionamento delle singole operazioni (secondo quanto stabilito dall’art. 109 t.u.i.r.) e non a quello del pagamento; è tuttavia prevista una deroga a tale principio nel caso di componenti reddituali di cui non sia certa l’esistenza o non sia determinabile in modo obiettivo l’ammontare: in tal caso infatti i componenti concorrono a formare il r. nell’esercizio in cui si verificano le suddette condizioni. Un altro principio di carattere generale viene individuato nell’inerenza: esso attiene al rapporto (di afferenza e di relazione) che deve sussistere tra le componenti negative del r. e l’attività dell’impresa. Tale principio comporta una verifica ‘caso per caso’: è necessario che, affinché un componente negativo possa dedursi dal r., esso presenti un collegamento significativo con la sfera dell’impresa; non risulta pertanto deducibile, per es., una spesa sostenuta dall’impresa ma afferente alla sfera personale o familiare dell’imprenditore.
In questa categoria residuale confluiscono r. eterogenei non riconducibili nelle altre categorie, per assenza di un elemento tipizzante di queste ultime. Sono previsti all’art. 67 del t.u.i.r., il quale contiene un’elencazione analitica di fattispecie reddituali. Rientrano fra i r. diversi: ipotesi di plusvalenze immobiliari, plusvalenze realizzate con la cessione di titoli azionari e obbligazionari (definite, anche, capital gain), plusvalenze emergenti da cessione di contratti di associazione in partecipazione, r. derivanti da beni immobili situati all’estero, r. di attività di lavoro autonomo e da attività commerciali non svolte abitualmente, vincite delle lotterie, altre fattispecie. Esiste poi una formula di chiusura di portata generale che include in tale categoria i r. derivanti dall’assunzione di obblighi di fare, non fare, permettere. L’imputazione temporale per tutti i proventi segue il principio di cassa, si attribuisce pertanto rilevanza al momento della realizzazione del reddito. La determinazione di tali r. non avviene secondo criteri uniformi.
Complesso di coefficienti sui beni e sul tenore di vita dei contribuenti, in base al quale si calcola in via presuntiva il loro r. effettivo. Secondo il d.p.r. 600/29 settembre 1973, il redditometro si utilizza nel caso in cui il r. presunto sia superiore al 25% del r. dichiarato, per due anni consecutivi; gli indici che lo costituiscono vengono pubblicano con cadenza biennale.