Capacità di un bene di soddisfare un bisogno, ma anche, nel senso più comune di v. di scambio, il prezzo relativo del bene stesso, cioè la sua capacità di acquistare altri beni. V. aggiunto La differenza tra il v. della produzione di beni e servizi di un’impresa e il v. dei beni e servizi intermedi provenienti da altre imprese e consumati dalla stessa impresa in un periodo dato: tale differenza può essere calcolata al costo dei fattori o ai prezzi di mercato; nel primo caso il v. aggiunto è calcolato sottraendo i consumi di beni e servizi intermedi dalla produzione valutata ai prezzi sostenuti dal produttore (integrata dagli eventuali contributi correnti versati dall’amministrazione pubblica), mentre nel secondo caso al v. aggiunto al costo dei fattori si aggiungono le imposte indirette e si detraggono i contributi alla produzione e all’esportazione.
Il termine v. è usato in contabilità per qualificare gli elementi attivi e passivi del patrimonio di un’azienda. Le espressioni in cui il termine ricorre sono: v. numerari certi, quelli esprimenti quantità di monete di conto esistenti in cassa ed entrate e uscite di quelle monete; v. numerari assimilati, quelli esprimenti crediti e debiti sorti in moneta di conto, affermatisi in luogo di entrate e uscite di cassa; v. numerari presunti, quelli esprimenti crediti e debiti sorti in moneta estera e tradotti in moneta di conto in base a cambi presunti; v. non numerari, quelli applicati agli altri elementi attivi e passivi del capitale; v. sospesi, quelli incorporati in tutti gli elementi che nel ciclo produttivo aziendale sono in attesa di trasformazione. Nella pratica contabile si usa l’espressione fondo oscillazione valori, per designare genericamente il fondo oscillazione prezzi, il fondo oscillazione titoli e altri fondi analoghi (➔ fondo).
Per il v. nominale di monete (in contrapposizione al v. intrinseco o reale), e per il v. nominale di un capitale sociale ➔ nominale.
Nel linguaggio di borsa, il termine valori indica ciò che può essere oggetto di negoziazione nelle borse (dette appunto borse valori), e cioè divise estere, azioni, obbligazioni, cartelle fondiarie, titoli di Stato. V. mobiliari I v. mobiliari sono strumenti di investimento finanziario costituiti da titoli, emessi da organismi sovranazionali, dallo Stato, da enti pubblici o da società. I v. mobiliari hanno primariamente la funzione di fornire le risorse finanziarie necessarie agli operatori economici per investire e raggiungere i loro scopi offrendo agli investitori una forma di impiego del risparmio, normalmente di durata predeterminata, e a rendimento fisso o variabile, a seconda della categoria di appartenenza. Caratteristica dei v. mobiliari è la mobilità, cioè negoziabilità, stanziabilità e liquidabilità; sono, infatti, rappresentati da certificati trasferibili e quindi possono essere scambiati agevolmente, possono essere anche convertiti in liquidità vendendoli sul mercato, più o meno agevolmente a seconda della diffusione del titolo stesso. Carte valori Nome sotto il quale rientrano la carta moneta a corso legale e fiduciario emessa dallo Stato (biglietti di Stato), i titoli di credito dell’istituto di emissione e delle banche autorizzate alla loro emissione (vaglia cambiari, assegni circolari); rientrano tra le carte v. anche i v. bollati, cioè marche da bollo, francobolli, carte bollate e fissati bollati.
La teoria del v. ha costituito da sempre la base dell’intera costruzione economica. In particolare, in un primo tempo si intendeva come teoria del v. la microeconomia, cioè quella branca dell’economia che studia la formazione dei prezzi relativi dei beni e dei fattori produttivi. Il concetto di v. presenta però una certa ambiguità, che risulta evidente già a partire dalla celebre distinzione smithiana. A. Smith infatti distingue il v. d’uso, determinato in ultima istanza da considerazioni soggettive, cioè dall’intensità del bisogno soggettivamente avvertita, dal v. di scambio, determinato dalle forze di mercato. La distinzione smithiana non risolve il problema della determinazione del v., e il suo abbandono lascia posto nella teoria economica a una dicotomia particolarmente sottolineata dagli economisti del 19° secolo. Gli economisti classici infatti, e soprattutto D. Ricardo, sostengono la possibilità della misura oggettiva dei v., e identificano tale misura con il costo di produzione del bene, misurato a sua volta in ore di lavoro. Tale impostazione ha risvolti ideologici importantissimi in K. Marx con l’elaborazione della teoria dello sfruttamento capitalistico e in quella del v.-lavoro, secondo la quale il v. di una merce è la somma del v. dei mezzi di produzione impiegati (capitale costante), del v. della forza lavoro (capitale variabile) e del plusvalore creato nel processo produttivo.
Numerose critiche sono state portate alla teoria classica del v., e in particolare alla possibilità stessa di una sua misura oggettiva. Misurare oggettivamente il v. di un bene infatti equivale a sostenere che quel dato bene ha lo stesso v. per tutti gli individui, il che contrasta con le differenze interindividuali. L’aspetto soggettivo del v. viene sottolineato dai teorici dell’utilità, definita come l’attitudine dei beni a soddisfare i bisogni umani, la cui valutazione è, appunto, soggettiva. L’impossibilità della comparazione interindividuale dell’utilità, e la conseguente impossibilità della misura oggettiva della medesima, sottolineano (e il problema viene evidenziato dalla critica alla scuola edonimetrica) la soggettività del valore. In secondo luogo, anche ammesso che sia logicamente possibile misurare oggettivamente il v. dei beni, non è detto che tale misura coincida con il costo di produzione. Nel breve periodo infatti non è detto che il rapporto fra i costi di produzione di due beni corrisponda al rapporto fra i v. di mercato relativi. In altri termini, la conoscenza del costo di produzione di un bene non è adeguata a individuare il v. del bene stesso, che dipende anche dall’apprezzamento soggettivo di quel bene da parte della collettività dei consumatori. Infine, secondo i critici della teoria classica, è da respingere la misura del costo di produzione del bene in ore di lavoro, e questo per una serie di considerazioni. Anzitutto, la conoscenza del costo reale non è indicazione sufficiente per conoscere quale sarà il costo monetario, data la diversità di tassi di remunerazione del lavoro; inoltre, è semplicistico supporre che le unità di lavoro siano omogenee, data la diversità di qualificazione professionale, di attitudini e qualità soggettive ecc. Anche in presenza di lavoro qualitativamente omogeneo, resta sempre la differenza di produttività determinata da ragioni ‘quantitative’, cioè dal concorso degli altri fattori produttivi non umani (terra, capitale ecc.). È quest’ultima una limitazione notevole; se, infatti, il v. della produzione dipendesse esclusivamente dalla quantità di lavoro concorsa a produrla, i paesi ricchi di mano d’opera dovrebbero produrre in v. più dei paesi poveri di mano d’opera, il che sembra essere clamorosamente smentito dalla realtà di paesi sovrappopolati e sottosviluppati, e di paesi sottopopolati e sviluppati.
Le critiche alla teoria classica conducono a una ridefinizione del concetto di costo di produzione in termini di costo alternativo: la limitazione delle risorse produttive implica che, per incrementare la produzione di un bene, occorre sottrarre risorse ad altre produzioni; il costo di produzione del bene viene così a essere misurato dalla quantità di altri beni che quelle risorse avrebbero potuto produrre se impiegate diversamente, mentre il v. soggettivo attribuito al bene conduce a definire la domanda. La teoria del v. diventa, in questo modo, la teoria di mercato, che trova nell’opera di A. Marshall la sua espressione più illustre: l’elemento soggettivo sottostante alla domanda concorre con l’elemento oggettivo, che sta alla base dell’offerta, alla determinazione del prezzo relativo dei beni.
In filosofia il termine non ha un significato unico e universalmente accolto; è stato inteso come principio e idea di validità universale, o come principio, soprattutto di vita morale, dipendente da una valutazione soggettiva e pratica. Filosofia dei v. Indirizzo di pensiero sviluppatosi nella prima metà del 20° sec. e alla cui nascita e diffusione contribuirono elementi diversi: la reazione al materialismo positivistico, il rifiuto del richiamo del neohegelismo a una ragione assoluta, l’esigenza di rispondere all’annuncio nietzschiano del trionfo del nichilismo e della svalutazione di tutti i v. tradizionali. La filosofia dei v. in senso proprio va distinta da una più generale concezione del v. in senso metafisico e religioso; essa costituisce piuttosto un tentativo di riaffermare la validità di principi etici, politici, religiosi, estetici ecc. anche indipendentemente dalla metafisica o, meglio, nonostante il rifiuto di ogni metafisica. Non è quindi un caso che si faccia risalire la filosofia dei v. proprio a I. Kant, che nella ‘dignità’ morale dell’uomo ravvisava il v. assoluto. Tuttavia è soprattutto con l’opera del filosofo tedesco R.H. Lotze che nel 19° sec. si viene elaborando e diffondendo, anche sul piano terminologico, la concezione di un «regno dei v.» quali principi dotati di una validità propria. L’esigenza di chiarire il fondamento di tale validità porta però la filosofia dei v. ad articolarsi in diverse tendenze. La tendenza psicologistica (specialmente con A. Meinong e C. von Ehrenfels) pone l’accento sul rapporto tra i v. e il desiderio e l’apprezzamento o, quanto meno, sulla loro desiderabilità, mentre quella neokantiana (con W. Windelband e H. Rickert) intende preservare i v. da ogni possibile riduzione al piano emotivo e psicologico e riportarli invece a un a priori rigorosamente critico, dove però la critica vuole estendersi al mondo storico, del cui sviluppo appunto i v. sono principi e norma; in questo senso la filosofia dei v. ha avuto notevole importanza all’interno dello storicismo.
La tendenza fenomenologica porta a escludere qualsiasi fondazione o riduzione psicologistica dei v., ma, al tempo stesso, a contestare un loro essere puramente formali. Tipica in questo senso la polemica di M. Scheler contro il formalismo dell’etica kantiana; secondo Scheler, Kant ha ridotto la morale a qualcosa di astratto, senza avvertirne tutta la ricchezza di contenuti, che non sono empirici, ma tuttavia oggettivi, proprio in quanto valori. Si apre così la via, secondo Scheler, a un’analisi e classificazione di diversi livelli di v., che vanno da quelli propri della sensibilità a quelli della convivenza sociale, per salire poi a quelli spirituali e, infine, a quelli religiosi. Anche per H. Hartmann il metodo fenomenologico è essenziale per cogliere il carattere di «essere in sé» dei v., che costituiscono una sorta di vero e proprio mondo intelligibile o ideale indipendente dal fatto che li realizziamo o meno e dal variare delle nostre valutazioni.
La filosofia dei v. ha avuto poi sviluppi anche in Francia nella corrente nota come philosophie de l’esprit (L. Lavelle e R. Le Senne) e nella polemica a sfondo esistenziale contro le concezioni puramente fenomenologiche dei v., accusate di cadere in una prospettiva contemplativa, oggettivante, classificatoria. Con M. Heidegger, infine, si è avuta una critica estremamente recisa contro ogni forma di filosofia dei v.: riprendendo il tema nietzschiano del tramonto e della svalutazione dei v., Heidegger lo radicalizza e lo rivolge contro Nietzsche stesso, accusato di essere ancora prigioniero della metafisica proprio perché auspicava nuove «tavole di valori».
V. assoluto Se a è un numero reale, il suo v. assoluto è a stesso quando a ≥ 0, è −a quando a<0; si indica con il simbolo |a|. Valgono per i v. assoluti, le due diseguaglianze: |a+b|≤|a|+|b|; è inoltre |ab|=|a||b|, |a/b|=|a|/|b|. Teorema del v. medio nel calcolo differenziale (o teorema di Lagrange) Se f(x) è una funzione continua nell’intervallo (a, b) e derivabile nell’interno, esiste un punto interno x0 tale che risulta f(b)−f(a)=f′(x0)(b−a). Espresso in altro modo, tale teorema assicura che per ogni v. di x e per ogni incremento h esiste un numero ϑ, compreso tra 0 e 1, tale che
f(x+h)=f(x)+hf′(x+ϑh).
Teorema del v. medio nel calcolo integrale Se f(x) è una funzione continua nell’intervallo chiuso [a, b], esiste un punto x0 nell’interno, tale che
∫ba f(x)dx = f(x0) (b−a).