In senso ampio, quel ramo della filosofia che si occupa di qualsiasi forma di comportamento (gr. ἦθος) umano, politico, giuridico o morale; in senso stretto, invece, l’e. va distinta sia dalla politica sia dal diritto, in quanto ramo della filosofia che si occupa più specificamente della sfera delle azioni buone o cattive e non già di quelle giuridicamente permesse o proibite o di quelle politicamente più adeguate.
I filosofi nelle loro dottrine etiche hanno avuto di mira due differenti obiettivi, spesso ricercati congiuntamente. Da una parte si sono proposti di raccomandare nella forma più articolata e argomentata l’insieme di valori ritenuti più adeguati al comportamento morale dell’uomo; dall’altra hanno mirato a una conoscenza puramente speculativa del comportamento morale dell’uomo, badando non tanto a prescrivere fini, quanto a ricostruire i moventi, gli usi linguistici, i ragionamenti che sono rintracciabili nel comportamento etico. Nel 20° sec. è invalso l’uso di distinguere nettamente tra questi due indirizzi nella riflessione sulla morale, caratterizzando come e. una filosofia prevalentemente pratica, impegnata in difesa di determinati valori, e come metaetica una filosofia con pretese esclusivamente teoretiche e conoscitive, rivolta a ricostruire la logica e il significato delle nozioni in uso nella morale.
Alle origini dell’e. greca troviamo nei poemi omerici l’affermazione della superiorità di virtù, quali il coraggio e la pietà verso gli dei, adeguate alla vita del guerriero. In risposta alle esigenze di una società contadina troviamo invece, nelle opere di Esiodo, la prevalenza di virtù come l’operosità e la frugalità. Ai sette savi si fanno poi risalire una serie di massime in cui il bene morale viene legato alla ricerca personale di saggezza. Particolarmente vivace fu nella cultura ateniese del 5° sec. a.C. il dibattito sui fini della condotta umana. I sofisti sottolinearono l’origine umana e non divina dei valori, riconducibili all’imposizione o dello Stato o di gruppi di cittadini più forti, e, in contrasto con l’opinione più diffusa, sostennero la tesi dell’insegnabilità della virtù, impegnandosi a elaborare particolari tecniche retoriche volte a ottenere la persuasione a proposito della superiorità di determinati valori.
La ricerca sulla nozione di bene va considerata al centro dell’attività filosofica di Socrate, al quale si fa risalire il primo tentativo di definire la natura propria della virtù, mettendone in luce la non riducibilità alle mutevoli nozioni del bene: l’universale è essenzialmente l’universale etico, e cioè propriamente i concetti con cui si regolano e giudicano le azioni. Tra i socratici, chi meglio capì l’insegnamento del maestro fu Platone, per il quale il problema morale restò al centro della filosofia. Ma il concetto socratico trapassò nell’‘idea’, divenendo forma non più soltanto del mondo umano ma anche di quello naturale; e così l’unità del teorico e del pratico si ruppe. La frattura assunse forma sistematica nella concezione psicologica che contrapponeva, nell’anima, la parte razionale, sede della conoscenza, a quella irrazionale, sede degli affetti. Dall’accentuazione di uno dei termini dell’antitesi nacque il ripiegamento platonico sull’antica escatologia orfico-pitagorica, negatrice della vita presente per una vita oltremondana; la vita divenne distacco progressivo dal corpo dell’esule anima immortale, che nell’iperuranio aveva già contemplato le idee e ora, ricordandosene, aspirava a ritornarvi.
L’ampia trattazione etica di Aristotele (al quale si deve l’introduzione del termine e.) fu rivolta a fondare il bene non tanto su un’idea di perfezione assoluta, quanto piuttosto su una definizione della natura essenziale dell’uomo. Fine supremo della condotta umana è la felicità ( eudemonismo), che potrà essere raggiunta adeguando il comportamento alle esigenze proprie della natura umana. Una volta colto il carattere essenzialmente razionale dell’uomo, la felicità è fatta consistere nella vita secondo ragione. È solo con il prevalere delle facoltà razionali e con la realizzazione delle virtù dianoetiche (sapienza, scienza, intelligenza, arte, saggezza) che l’uomo può essere felice. Anche laddove sono gli impulsi sensibili a determinare le scelte è però possibile indicare una forma di comportamento virtuoso: avremo le diverse virtù etiche (coraggio, temperanza, liberalità, mansuetudine) che consistono nel dominare gli impulsi sensibili secondo un criterio del ‘giusto mezzo’ che esclude gli estremi viziosi.
Anche nell’e. post-aristotelica resta ferma la tendenza a identificare il bene supremo nel raggiungimento della felicità. L’edonismo di Epicuro fu anzitutto esigenza di liberazione dell’uomo dal timore di superiori fini, o volontà, che dominassero il mondo: l’uomo restava pienamente libero, slegato dalle cose, e il piacere consisteva in una tranquilla calma dell’animo, pago di sé e non indotto a uscire da sé per occuparsi del mondo. Questo ascetismo edonistico degli epicurei finiva così per coincidere, nel suo ideale di ‘atarassia’, con l’ideale di ‘apatia’ e di ‘indifferenza’ proprio dell’ascetismo rigoristico dei cinici, che nelle sue premesse teoriche e storiche gli era invece antitetico. Il cinismo assicurava all’uomo la più completa libertà che mai esso avesse potuto desiderare, ma insieme, affrancandolo da ogni motivo d’azione, gliela rendeva perfettamente inutile. Alla concezione cinica dell’io reagì lo stoicismo, pur nell’accettazione dell’ideale dell’autarchia e dell’indifferenza, in quanto vide nel mondo stesso il divino e nell’accadere il realizzarsi di un fato razionale, che nulla poteva alterare e di fronte a cui non restava se non la virtù dell’accettazione. Col neoplatonismo si ebbe una ripresa di motivi tipici dell’e. platonica ma con un’accentuata impronta mistica, che trasfigurava la dottrina delle virtù in funzione dell’ascesi e della ricongiunzione con Dio.
Su una concezione religiosa totalmente nuova si fonda l’e. cristiana: essa è dominata dall’idea, predicata da Gesù di Nazaret, dell’ineffabile paternità di Dio innanzi al quale gli uomini sono tutti uguali e tutti fratelli. La regola di condotta evangelica, proprio perché esemplata sulla perfezione divina, si traduce in comandamento d’amore per gli altri; cade ogni distinzione etnica e sociale e l’incondizionato amore per il fratello, anche se nemico e peccatore, è il sommo comandamento. L’e. cristiana è un operoso donare sé stessi, senza nulla chiedere in cambio, solo in vista dell’attuazione del Regno che è sì dono di Dio, ma insieme meta cui l’uomo deve tendere. Inserita in un messaggio di universale riscatto, l’e. cristiana scopre una nuova dignità dell’uomo, chiama gli umili, gli incolti, i peccatori al più grande ideale di perfezione morale, rivela il senso del dolore e dell’amore, e pone a fondamento della nuova e. l’esempio del Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo che, incarnandosi e morendo in croce, riscattò gli uomini donando loro «il potere di diventare figli di Dio» (Giov. 1, 12).
Inserendosi nella tradizione e nella civiltà del mondo mediterraneo, il cristianesimo doveva necessariamente misurarsi con la cultura greca e, mentre rivendicava la propria assoluta originalità, ne veniva assorbendo motivi essenziali per trasformarli e adeguarli alla nuova concezione della vita e del mondo. Così nei Padri greci e in Agostino il richiamo all’interiorità e alla trascendenza, pur esprimendosi nei termini del linguaggio platonico, assume un significato nuovo: nell’‘uomo interiore’ il cristianesimo scopre non il ricordo di una forma immutabile, ma l’immagine stessa di Dio, presente a ciascuno con la luce dell’intelletto e della grazia.
Nell’Umanesimo e nel Rinascimento l’accentuarsi degli interessi ‘civili’, la polemica contro aspetti della spiritualità medievale (l’ascetismo in particolare), la rivendicazione di un fare politico autonomo rispetto alla legge morale, il ritorno ai filosofi antichi, riportano al centro delle discussioni sull’uomo e sul suo comportamento temi dell’e. classica. Si ricordi l’esaltazione della virtus come attività puramente umana e civile, che accetta i limiti terreni e si distacca da ogni preoccupazione metafisica: l’affermazione di questa virtus è alla base di ogni celebrazione umanistica della dignitas hominis, e trova il suo massimo riconoscimento in N. Machiavelli; e si ricordi ancora la fortuna dell’edonismo epicureo, da L. Valla ai libertini del Cinquecento e Seicento.
La ricerca del piacere e della propria conservazione torna in T. Hobbes, che ne fa l’impulso più forte nella natura umana: gli obblighi morali non riconducibili alla tendenza individuale al piacere sono il risultato delle imposizioni della forza statuale che mira, attraverso queste norme, alla conservazione della pace sociale. Contro la dottrina hobbesiana reagirono gli esponenti della scuola neoplatonica di Cambridge e R. Cumberland, il quale poneva al fondo della vita etica una ricerca del bene comune suffragata da sanzioni divine. La tendenza alla propria conservazione veniva posta al centro dell’e. anche da B. Spinoza, per il quale le valutazioni umane che non riconoscono e accettano l’ordine razionale necessario del mondo sono insignificanti e l’uomo virtuoso deve proporsi di dominare le passioni e seguire la ragione.
Nella filosofia inglese del 18° sec. a porsi in primo piano è piuttosto la questione dell’identificazione del criterio o facoltà che permette agli uomini di distinguere tra vizio e virtù. Già in A. Shaftesbury il recupero dell’e. stoica e l’affermazione, in contrasto con l’e. ‘egoistica’ di Hobbes, della presenza nella natura umana di un ‘senso morale’ si congiungono con il riconoscimento che il comportamento virtuoso deriva da una benevolenza universale. La tesi di una radice sentimentale delle distinzioni morali verrà ripresa da F. Hutcheson, D. Hume e A. Smith, i quali riterranno di potere provare la presenza nella natura umana di un’inclinazione alla benevolenza. Su questa base il comportamento virtuoso risulta quello che ha di mira non tanto la felicità individuale quanto una più intensa felicità del maggiore numero di persone cointeressate.
Un fondamento razionale alle distinzioni etiche daranno invece autori come S. Clarke e W. Wollanston. Non diversamente procederà J. Butler che recupererà, per denominare la facoltà in gioco nel comportamento morale, il termine di coscienza. Più interessati all’identificazione dei valori etici saranno gli esponenti dell’Illuminismo francese, che contro qualsiasi e. spiritualistica faranno valere una ricerca attiva del piacere e un comportamento che adatti l’individuo alla vita sociale. Un analogo rifiuto della morale tradizionale si trova in J.-J. Rousseau, che contro l’e. razionale dell’amor proprio auspica una morale liberatoria fondata sui sentimenti naturali e sulla compassione.
In polemica con l’e. utilitaristica, per I. Kant realtà morale può esserci solo quando la volontà sia determinata da un imperativo categorico, e cioè voluto assolutamente e di per sé, senza alcun riguardo ad altri fini. Questa autonomia e assolutezza della legge morale è, per Kant, il segno della sua universalità, del suo carattere a priori. Dall’apriorismo e dal rigorismo, che veniva a porre l’uomo in perenne conflitto con le passioni, nascono le più gravi difficoltà dell’e. kantiana, che Kant stesso cercò di superare postulando l’esistenza di un’altra vita e di Dio come principio del sommo bene, nel quale virtù e felicità, in terra perennemente dissociate, venissero a coincidere. La filosofia post-kantiana approfondisce questi problemi, ora accentuando il concetto di autonomia della morale, ora tornando a un’idea oggettivistica dell’e.: così nell’idealismo etico di J.G. Fichte trova pieno sviluppo il concetto kantiano di libertà, ponendo come suprema norma etica l’obbedienza alla pura convinzione razionale della propria coscienza, mentre G.W.F. Hegel vede il superamento della moralità individuale nell’ eticità (Sittlichkeit) che lo Stato incarna e alla quale il soggetto deve sottostare se vuole elevarsi sopra la sua singolarità. L’eticità in Hegel designa dunque quel complesso di istituzioni umane (famiglia, società civile, Stato) in cui la libertà si realizza oggettivandosi, ossia passa gradualmente dalla sua astratta espressione individualistica alla universalità concreta.
In polemica contro alcune tesi centrali dell’e. idealistica, S. Kierkegaard sostiene l’irriducibile individualità della scelta etica, contrapponendo poi la sfera della vita morale, caratterizzata dalla continuità e dall’impegno per l’universalità, alla vita estetica, dominata dal caso, e alla vita religiosa, come ‘scandalo’ e superamento della dimensione della società. In senso anti-hegeliano A. Schopenhauer presenta una morale in netta antitesi con la storia e la società: fine della condotta etica non è l’integrazione nella tradizione, ma piuttosto la negazione completa dei bisogni naturali fino all’annullamento di ogni desiderio e al più completo ascetismo. In F. Nietzsche contro i valori, accettati dall’e. cristiana e socialista dell’altruismo, del livellamento, della sottomissione, si propone una scelta ‘immoralistica’ in nome della volontà di potenza, dell’autoaffermazione e della completa liberazione degli istinti.
Di natura completamente diversa è lo sviluppo della riflessione sull’e. nella cultura inglese, in cui prevale l’accettazione del principio utilitaristico che vede la condotta morale nella realizzazione della maggiore felicità per il maggiore numero di persone. All’interno dell’e. utilitaristica del 19° sec. si tenterà principalmente di determinare con maggiore precisione il calcolo dei piaceri richiesto dall’applicazione del principio dell’utilitarismo. Così, mentre con J. Bentham aveva prevalso una concezione puramente quantitativa, con J.S. Mill i piaceri vengono distinti non solo per la loro intensità ed estensione, ma anche per la loro qualità.
Alla seconda metà del 19° sec. risale il tentativo di H. Spencer di utilizzare il modello evoluzionistico per rendere conto della condotta morale degli uomini. L’insieme dei valori etici è visto come uno strumento adottato dagli uomini nel tentativo di adattarsi sempre meglio alle condizioni vitali e la stessa coscienza del dovere morale non è altro che il residuo nell’individuo dell’esperienza acquisita dalla specie in questo processo. Nella cultura francese, l’approccio positivistico allo studio delle scienze morali portò A. Comte a concludere che la condotta morale è quella che tende all’utilità pubblica, che il sentimento dell’eticità è quello della solidarietà e che lo strumento per un’educazione morale è la sociologia.
Nella riflessione filosofica del 20° sec. l’obiettivo di proporre una ben precisa tavola di valori passa in secondo piano, rispetto al tentativo di caratterizzare le condizioni proprie dell’esperienza morale. L’eredità di Comte fu al centro dell’opera di E. Durkheim, in cui l’e. si presenta come ‘scienza dei costumi’, mentre l’inservibilità dei metodi delle scienze fisico-matematiche nello studio dei fenomeni morali fu affermata da W. Windelband, H. Rickert e M. Weber. H. Bergson distingue tra due diverse forme di morale, quella chiusa, volta al mantenimento delle abitudini che permettono la conservazione della società, e quella aperta caratterizzata dall’entusiasmo creativo dei grandi innovatori quali i profeti e i santi. Nell’opera di M. Scheler si ha una rigorosa applicazione del metodo fenomenologico all’ambito della morale con l’affermazione dell’esistenza di un’intuizione emotiva a fondamento di ogni scelta etica. Anche per N. Hartmann nella vita etica è in gioco un peculiare tipo di sentimento assiologico che permette di cogliere direttamente gli ideali morali.
A ricostruire la genesi psicologica della morale sono rivolte alcune analisi di S. Freud: i valori morali sono visti come l’interiorizzazione da parte dell’individuo di regole repressive degli istinti e delle pulsioni; d’altro canto, il processo di sublimazione da cui nasce la condotta morale individuale rappresenta un elemento essenziale per la genesi della ‘civiltà’. Uno stretto collegamento tra vita etica e scelta viene affermato dagli esponenti dell’esistenzialismo; una scelta aperta verso il recupero dei valori cristiani in alcuni esponenti dell’esistenzialismo religioso, come G. Marcel, o verso un concreto impegno etico-politico in esponenti dell’esistenzialismo ateo, come J.-P. Sartre. Alla presentazione di una teoria naturalistica dell’e. si sono indirizzati gli esponenti del pragmatismo americano. In particolare, secondo J. Dewey, l’e. è caratterizzata da una serie di progetti in vista di una più armonica integrazione dell’uomo nella natura.
In ambito anglosassone, il discorso etico di G.E. Moore, basato sull’intuitività e l’oggettività dei giudizi morali, è stato messo in discussione dalla critica neopositivistica, rappresentata soprattutto da A.J. Ayer. Secondo Ayer il linguaggio etico non è riducibile in schemi logici, in quanto non si rintracciano in esso né proposizioni puramente logiche né proposizioni fattuali: esso è dunque linguaggio che convoglia emozioni puramente soggettive. Di fronte all’impossibilità di ricomprendere nell’ambito della filosofia neopositivistica qualsiasi discorso di tipo non strettamente scientifico, quello etico in particolare, si è tentato, soprattutto in Inghilterra, nel periodo immediatamente seguente alla Seconda guerra mondiale, il recupero del linguaggio etico alla dimensione del linguaggio significante, mettendo a punto una serie di tecniche analitiche che assumono come base di partenza il linguaggio comune. Così, C. Stevenson interpreta il discorso etico secondo un duplice aspetto: da un lato come discorso apprezzativo-persuasorio, e dall’altro come discorso riducibile all’indicativo, cioè informativo-dichiarativo. S.E. Toulmin, considerando invece il linguaggio morale riferito al contesto sociale, come espressione di bisogni e di soddisfazioni, propone una logica autonoma e particolare del discorso etico. R.M. Hare giunge a proporre la nozione di linguaggio prescrittivo universalizzabile al cui interno, accanto alle stesse regole formali che garantiscono in altri tipi di discorso la non contraddittorietà, operano anche regole empiriche per un controllo fattuale di certi giudizi. In armonia con l’impostazione generale della filosofia oxoniense, questo tipo di ricerche risulta applicazione al discorso etico di una concezione del linguaggio che, abbandonate le posizioni neopositivistiche, si riallaccia strettamente alle concezioni di L.J. Wittgenstein nel suo ultimo periodo.
Dopo la lunga stagione in cui si è ritenuto che la riflessione filosofica di tipo etico dovesse limitarsi all’analisi del linguaggio morale, l’ultimo trentennio del 20º sec. ha visto una svolta radicale verso concezioni di tipo normativo, che intendono cioè affermare la natura prescrittiva e oggettiva delle richieste della morale. Il nucleo comune di questo orientamento sta nel concepire l’e. come una teoria che risponde a questioni pubbliche, legate alla tematica della giustizia o dell’accettabilità delle istituzioni politiche da un punto di vista morale. L’opera che ha inaugurato questa fase è A theory of justice (1971) dove J. Rawls propone una particolare forma di neocontrattualismo che ha egemonizzato la discussione teorica degli anni 1970 e 1980. La svolta teorica di Rawls consiste nel mettere da parte l’insieme di questioni che avevano caratterizzato la fase metaetica. La vita morale in quanto tale va caratterizzata per Rawls secondo una prospettiva deontologica, che ha a che fare con l’esposizione di alcuni principi in grado di suggerire una soluzione adeguata alle principali questioni di giustizia che si devono affrontare nella sfera pubblica. Due sono i principi al centro della teoria della giustizia: il principio di salvaguardia della libertà e dell’autonomia di ciascun individuo e il principio di ‘differenza’ o equità, secondo cui oneri, premi e limitazioni possono essere accettati sul piano sociale solo se rivolti a migliorare le condizioni dei più svantaggiati, e dunque a rendere più eque le istituzioni che governano la vita associata. Ulteriori e successive aggiunte di Rawls specificavano: l’indicazione di un ordine ‘lessicale’ tra i principi di giustizia, ossia un ordine che vincola e subordina il principio di differenza al principio di libertà; l’enunciazione della regola del maximin, ossia il criterio per cui in situazioni di incertezza bisognerà sempre privilegiare l’esito meno negativo per coloro che si trovano nelle condizioni peggiori; la tesi della completa neutralità delle istituzioni politiche e delle loro regole ispiratrici rispetto alle diverse concezioni della vita buona.
Numerosi sono stati i tentativi di elaborare concezioni alternative a quella di Rawls. R. Nozick ha proposto una teoria etica delle istituzioni pubbliche che ritiene necessario evitare qualsiasi ingerenza statale nella sfera dell’autonomia individuale. Una serie di pensatori contesta poi le premesse individualistiche e per così dire liberali della teoria morale di Rawls. Questa contestazione si spinge più o meno in profondità, dando talvolta luogo a prospettive alternative, come nel caso, per es., della cosiddetta e. comunitaria. Influenti esponenti del comunitarismo, quali A. C. MacIntyre e C. Taylor, hanno contrapposto a Rawls una prospettiva che mette al centro dell’e. non tanto la giustizia quanto l’idea di bene. Altri pensatori si sono impegnati in una riformulazione dell’e. utilitaristica. J.C. Harsányi ha conciliato utilitarismo e teoria della scelta razionale, mettendo al centro del calcolo non più stati d’animo come il piacere o il dolore, ma le preferenze personali. J.J.C. Smart ha cercato di riproporre un utilitarismo edonistico e dell’atto, rivisitandone criticamente i fondamenti. Ancor più marcato è lo sforzo con cui R. M. Hare si è impegnato a rielaborare l’utilitarismo in una forma di moralità maggiormente in grado di soddisfare il requisito di autonomia dell’e. e la sua natura logica in quanto insieme di prescrizioni universalizzabili. Infine, R. B. Brandt ha sviluppato la dottrina utilitaristica in una prospettiva volta a caratterizzare la moralità come qualcosa che verrebbe accettato da uno spettatore ideale pienamente informato, suggerendo che l’utilitarismo è l’unico criterio etico in grado di individuare quell’insieme di norme che accetteremmo di porre alla base di una sorta di società ideale.
Le concezioni utilitaristiche sono state però ampiamente criticate. R.M. Dworkin, per es., ha denunciato l’incapacità dell’utilitarismo di rendere conto del tratto etico più caratteristico della nostra epoca, ovvero la piena salvaguardia del diritto di ciascun individuo a non essere discriminato o limitato nella propria autonomia. Le critiche all’utilitarismo in nome dei diritti documentano già il mutamento di prospettiva verificatosi negli anni 1980 in seno all’e. teorica verso la dimensione della cosiddetta e. applicata. Tale mutamento va di pari passo con il passaggio dalle questioni della giustizia distributiva a un insieme di temi che coinvolgono più da vicino il riconoscimento di diritti individuali di libertà e la sfera privata delle vite degli agenti morali.
L’esigenza di sviluppare una teoria etica in grado di fondare i diritti morali individuali viene soddisfatta nelle più diverse maniere anche nelle culture filosofiche dell’Europa continentale. Così, la filosofia di lingua tedesca, in particolare attraverso gli strumenti dell’ermeneutica, ha cercato di realizzare una fondazione universalistica dei diritti e più radicalmente delle regole e delle norme morali. K.O. Apel si è particolarmente impegnato a connettere la sua analisi pragmatica del discorso alla nozione morale di responsabilità. L’e. di Apel si basa sulla tesi che tanto la comunità universale della comunicazione quanto le condizioni intersoggettive dell’argomentazione razionale presuppongono l’osservanza di una ben precisa norma morale, da intendersi come un dovere specifico che esige il riconoscimento degli stessi diritti a tutti i membri della comunicazione. Sulla stessa linea procede J. Habermas, il quale insiste sulla natura ideale propria della norma, che per essere moralmente adeguata deve risultare universalizzabile, ovvero tale da poter realizzare su di essa un accordo di tutti. Anche nella cultura filosofica francese larga parte della riflessione morale ruota intorno al problema di una fondazione universalistica dell’e. e molte risposte in senso positivo sono state elaborate riprendendo la tradizione esistenzialistica dell’individuazione di situazioni tipiche della vita morale.
Verso la fine del 20° sec. si afferma l’esigenza che la riflessione etica offra suggerimenti utili per risolvere i nuovi problemi morali suscitati dalle grandi trasformazioni che gli sviluppi della ricerca scientifica e della tecnologia hanno prodotto nelle società occidentali. Per la prima volta si pongono alla condotta umana alcune drammatiche alternative morali riguardanti la cura delle malattie, i modi di nascere e di morire. All’interno del nuovo orientamento di e. pratica o applicata vanno così consolidandosi vari settori di analisi, come l’ e. medica, dalla millenaria tradizione ippocratica, edificata sul rispetto del principio bonum faciendum, malum vitandum, posto a fondamento della relazione medico-paziente. Tuttavia, pur occupandosi da sempre degli aspetti morali connessi all’esercizio della pratica medica, alla luce dei nuovi complessi scenari in cui il medico può essere chiamato a valutare implicazioni e conseguenze di scelte nell’ambito di delicati settori, come la sperimentazione sull’uomo, la gestione delle situazioni di fine vita, il consenso informato, l’e. medica si ridefinisce (➔ bioetica).
Si vanno consolidando anche altri ambiti di ricerca su nuove questioni etiche. Le conseguenze più o meno negative dello sviluppo tecnologico sulle relazioni tra l’uomo e l’ambiente naturale hanno dato corso a un’estesissima letteratura concentrata sulle questioni della cosiddetta e. ambientale. Le diverse concezioni sviluppatesi in quest’area possono essere distinte a seconda che giungano a individuare le regole che devono presiedere al rispetto della natura sulla base di una considerazione prevalentemente antropocentrica della moralità, o si spingano invece a radicare tale rispetto in una forma più o meno profonda di ecologismo, che considera la natura stessa fornita di diritti e dotata dunque di un intrinseco valore morale. Non meno ampia è stata l’elaborazione di teorie volte a porre un limite a una condotta irresponsabile nei confronti delle risorse limitate a disposizione sulla Terra, facendo appello alle responsabilità delle generazioni attuali nei confronti di quelle future.
Anche le questioni etiche relative al trattamento degli animali sono state ampiamente affrontate con un’attenzione del tutto nuova. Il diffuso interesse per le questioni etiche riguardanti il modo di rapportarsi agli animali può essere visto come una presa d’atto delle inutili crudeltà a essi inflitte in conseguenza dell’uso di nuove tecniche, nell’ambito della produzione industriale del cibo e nella sperimentazione a fini farmaceutici o per il perfezionamento di beni di consumo. In quest’area di riflessione molto influente è stata la forma di e. utilitaristica di P. Singer, che ha denunciato come un pregiudizio ‘specistico’ l’impostazione morale che discrimina tra le sofferenze degli esseri umani e quelle degli animali. La tesi di una rilevanza morale delle azioni rivolte agli animali è stata difesa in modo più radicale da parte di teorici che, come T. Regan, hanno basato i diritti morali degli animali sul valore intrinseco delle loro vite.
Come sviluppo e specializzazione della lunga riflessione degli ultimi secoli sugli intrecci tra moralità e decisioni economiche va poi vista quell’area dell’e. applicata comunemente designata e. degli affari. Obiettivo di quest’ambito di ricerca è di rendere esplicita la portata delle relazioni più propriamente morali nell’ambito dell’organizzazione delle imprese impegnate nelle attività produttive. Viene così sistematicamente approfondito il ruolo dei rapporti fiduciari, della reputazione e dei riconoscimenti di autorità di tipo morale per il buon funzionamento della vita delle aziende.
Il dibattito teorico sull’e. è stato ulteriormente arricchito dalle proposte emerse dal cosiddetto pensiero delle donne. Le questioni discusse in quest’area vengono elaborate su un piano più o meno alternativo, giungendo nelle correnti più radicali sino a contestare nei suoi stessi fondamenti la concezione morale tradizionale. Da una parte vi è chi, come L. Irigaray, contesta complessivamente la moralità come forma culturale che, attraverso le nozioni di obbligatorietà e dovere, cerca di assicurare l’egemonia e il dominio maschile nella società; dall’altra vi sono pensatrici, come C. Gilligan, che non rifiutano in blocco la possibilità di una moralità, ma ritengono che questa non possa non tener conto della diversità di genere e che dunque un’ e. femminile debba distinguersi marcatamente dall’ e. maschile: in particolare debbono essere contestati l’astrattezza dei valori maschili, il loro preteso universalismo e la loro attenzione esclusiva per le esigenze pubbliche della giustizia. Secondo altre pensatrici, come E.H. Wolgast, V. Held e A.C. Baier, la riflessione femminile può avere invece una funzione più universalistica, nel senso di aiutare a correggere alcune limitazioni della tavola dei valori affermata dalle e. maschili tradizionali, integrandole con valori, quali quelli della cura o della fiducia, che le donne ritrovano come più ampiamente presenti nelle loro esperienze di vita.