virtù Disposizione a fuggire il male e fare il bene, perseguito questo come fine a sé stesso, al di fuori di ogni considerazione di premio o castigo.
Per i Greci più antichi il termine ἀρετή designava la «capacità», l’«attitudine», la «valentia» e, in primo luogo, quella del combattente; e così anche in latino la virtus, derivata da vir, indica la dote propria dell’uomo, la forza, soprattutto d’animo, in quanto disprezzo della morte e del dolore, e quindi anche il valore militare.
La v. diviene oggetto di indagine filosofica con Socrate, che si interroga su «che cosa è» la v., reperendola nell’identità tra v. e conoscenza, a cui le varie v. particolari si riducono. Sviluppando l’impostazione socratica, Platone concepisce la v. come capacità di attendere a una funzione determinata e individua tante v. quante sono le funzioni fondamentali dell’anima (la temperanza, la fortezza, la prudenza e la giustizia come armonia delle precedenti, denominate poi nel mondo cristiano v. cardinali), ponendole alla base dell’organismo statale. Con Aristotele la v. diventa un abito, una stabile qualità dell’anima che l’uomo non possiede per natura ma che acquisisce con l’operare e con il compiere gli atti corrispondenti a ciascuna virtù. Aristotele distingue altresì tra v. dianoetiche e v. etiche, considerando le prime come legate al prevalere della parte razionale dell’anima e le seconde al dominio dell’impulso sensibile secondo il criterio del «giusto mezzo» fra gli estremi. Significative le concezioni stoica ed epicurea che attribuiscono centralità alla v. della saggezza o prudenza, intesa dai primi come contrapposta alla forza irrazionale e incontrollabile delle passioni in una prospettiva ascetica; e dai secondi come calcolo razionale dei piaceri in vista di una condizione di atarassia. Il Cristianesimo introduce il concetto delle v. soprannaturali o abiti infusi nell’uomo da Dio al fine di una sua partecipazione alla vita divina. Nel Rinascimento la concezione machiavellica intende la v. come capacità dell’individuo di tradurre in atto il proprio volere, indipendentemente dalla valenza morale e religiosa degli scopi che esso si propone. Nell’epoca moderna la riflessione sul concetto di v. confluisce nella problematica dell’etica (➔).
Per i Romani, la v. (Virtus) era una divinità, personificante il valore militare. Le era dedicato un tempio fuori della Porta Capena.
La teologia cattolica distingue le virtù in v. intellettuali e v. morali: le prime perfezionano l’intelletto, le seconde orientano la volontà al bene; distingue inoltre v. naturali (o acquisite), cioè acquistate con l’esercizio di atti buoni, e v. infuse, che sono effetto dell’operazione di Dio nell’uomo. Nelle v. infuse rientrano (secondo l’opinione della maggior parte dei teologi) sia le v. teologali, che hanno Dio per oggetto formale, sia le v. morali (distinte dalle v. morali sopra ricordate), che hanno per oggetto formale qualcosa di distinto da Dio; le v. teologali sono tre: fede, speranza, carità; tra le v. morali le principali sono le v. cardinali.
Al plurale, le V. nella scala gerarchica discendente degli ordini angelici, secondo la distinzione dello Pseudo-Dionigi, sono gli angeli che costituiscono il secondo coro della seconda gerarchia, dopo le Dominazioni e prima delle Potestà.
Dal Medioevo le sette V. sono personificate da figure femminili che, soprattutto con il rinascere dell’interesse per l’allegoria con l’arte carolingia (Bibbia di Carlo il Calvo, 9° sec., Roma, S. Paolo fuori le mura) compaiono sempre più frequentemente, in vari contesti, contraddistinte da specifici attributi: la Fede con il calice, la croce o a volte con simboli trinitari; la Speranza è rivolta al cielo, spesso è alata o ha un’ancora; la Carità ha un cuore ardente, simbolo di amore, o è raffigurata mentre nutre infanti o fa elemosina; la Prudenza può avere due teste, o più spesso ha uno specchio e un serpente; la Giustizia ha la bilancia e la spada; la Fortezza è armata, ha una colonna spezzata, una spada o una clava, un globo; la Temperanza ha due vasi o brocche, e travasa (‘tempera’) da uno all’altro.
Spesso sono allegorizzate attraverso ‘tipi’ tratti dall’Antico Testamento o dal mito (la Fortezza come Sansone che uccide il leone nella tomba di Clemente II, Bamberga, duomo, o come Ercole nel pulpito del battistero di Pisa di N. Pisano). Le V. compaiono anche in relazione con altre rappresentazioni allegoriche come le Arti Liberali (A. Pisano, rilievi del campanile del duomo di Firenze); possono essere affiancate da altre V. accessorie (come Umiltà, Castità, Obbedienza, Pazienza) in figurazioni dal complesso significato teologico (A. Orcagna, Firenze, tabernacolo di Orsanmichele), o entrare a far parte, con altre v. attive dell’uomo (Saggezza, Concordia), di raffigurazioni encomiastiche o celebrative, di santi o di personaggi storici, e sono frequentemente utilizzate in monumenti sepolcrali (G. di Balduccio, arca di S. Pietro Martire, Milano, S. Eustorgio; A. Pollaiolo, monumento di Sisto IV, Roma, S. Pietro in Vaticano).
La Psychomachia di Prudenzio, in cui è narrata la lotta tra le V. e i Vizi, è la fonte da cui sono tratte le rappresentazioni di tale soggetto, in cui le V. sono raffigurate armate (rilievi del portale della cattedrale di Aulnay, 12° sec., e di Notre-Dame a Parigi, 13° sec.).