Periodo di storia della civiltà che ebbe inizio in Italia con caratteristiche già abbastanza precise intorno alla metà del 14° sec. e affermatosi nel secolo successivo, caratterizzato da una fruizione consapevolmente filologica dei classici greci e latini, dal rifiorire delle lettere e delle arti, della scienza e in genere della cultura e della vita civile e da una concezione filosofica ed etica più immanente.
Destinato a estendersi successivamente e a differenziarsi nei diversi campi della cultura e dell’arte, ma con vaste risonanze in ogni settore della vita e dell’attività dell’uomo, il moto rinascimentale oltrepassò presto i confini dell’Italia per diffondersi negli altri paesi europei.
I suoi limiti cronologici possono fissarsi con buona approssimazione tra la metà circa del Trecento e la fine del Cinquecento, anche se alcuni studiosi tendono a circoscrivere l’arco cronologico tra il 1400 e il 1550, altri tra il 1492 e il 1600.
Nella forma attuale e con funzione periodizzante, il termine R. è entrato nell’uso italiano piuttosto tardi (nel 16° sec. si incontra, se mai, Rinascita) e sul modello del francese Renaissance. Il suo significato, a indicare il rinnovamento culturale avvenuto in Italia, può considerarsi consacrato nel celebre Discours préliminaire de l’Encyclopédie, in cui d’Alembert, sintetizzando e sistematizzando concetti elaborati da molto tempo, e ampiamente diffusi nel Settecento, lo imponeva al mondo della cultura, accompagnandolo con una serie di connotazioni destinate a conservarsi a lungo: l’origine della Renaissance collocata nello studio degli antichi, soprattutto dei Greci, e in connessione con la caduta di Bisanzio; la scansione interna alla Renaissance dall’erudizione alle lettere, alle arti, alla filosofia, alle scienze, alle tecniche; la proclamazione che la Renaissance è stata una ‘rivoluzione’ che ha aperto la via alla civiltà moderna quale epoca di illuminazione progressiva in antitesi con le tenebre medievali.
Il Discours si chiudeva con una contrapposizione polemica al Discours sur les sciences et les arts di J.-J. Rousseau (quasi contemporaneo), in cui il r. (rétablissement) delle scienze e delle arti veniva duramente condannato dal punto di vista morale. Si fissava così, intorno al 1751, un’antitesi che in Italia, attraverso F. De Sanctis, troverà un’eco ancora in A. Gramsci: l’antinomia fra splendore culturale e decadenza morale del Rinascimento. La contrapposizione può collegarsi con il giudizio negativo diffuso, nell’Europa cinquecentesca, sulla profonda crisi di valori, oltre che di strutture, che avrebbe accompagnato la decadenza anche economica degli Stati italiani e la perdita dell’autonomia politica.
Taluni storici hanno contrapposto allo splendore culturale la crisi economica e la decadenza etico-politica dell’Italia quattro-cinquecentesca per cercare il ‘vero’ R. nel 13° secolo. Altri hanno ravvisato nel contrasto fra ‘depressione economica’ ed espansione culturale le radici delle tensioni interne e del ‘pessimismo’ di fondo di tanta parte della civiltà rinascimentale.
In Italia il termine R. non si diffuse tanto per l’influenza del titolo del notissimo 9° vol. della Histoire de France di J. Michelet, La Renaissance (1855), quanto con la traduzione dell’opera di J. Burckhardt, Die Kultur der Renaissance in Italien (1860; trad. it. di D. Valbusa rivista dall’autore, 1876). Prima d’allora non mancano esempi dell’uso del termine con significato specifico, particolarmente nel Settecento e nei primi decenni dell’Ottocento, e proprio in polemiche sul Medioevo. Tuttavia il termine che ha maggior fortuna è Risorgimento, e di Risorgimento parlano in genere i dotti del Settecento che studiarono quel periodo. Peraltro, se non il termine preciso, espressioni e immagini analoghe (renovatio, restitutio, resurrectio), attestanti proprio la presenza del concetto di un ritorno alla vita, di un rinascere (rinasci), si trovano usate fin dalle origini del periodo in questione.
Il R. si pone consapevolmente come rottura, costruendo la propria immagine nei termini di un programma di rinnovamento contro una civiltà esaurita: una cultura luminosa che si oppone a un mondo tenebroso di barbarie. Le nozioni di Medioevo come età buia e di R. come nuova luce e nuova vita nacquero in contemporanea; la nozione di un’epoca di barbarie, intermedia fra civiltà classica e ‘rinascita’, trasse origine proprio dalla polemica contro i contenuti culturali dell’età di mezzo. Inoltre, via via che il moto rinascimentale venne sviluppandosi, e variamente definendosi, si precisò simmetricamente l’immagine del Medioevo.
È forse lecito affermare che il R. è stato un ritorno alle origini e una scoperta del mondo classico in quanto ha avuto consapevolezza del significato e dei limiti del mondo medievale, ed è stato una forma nuova e originale di classicismo e di umanesimo in quanto ha compreso – e ha respinto – l’uso che il Medioevo aveva fatto dell’antichità. Dalla lingua alle arti e alle scienze, la cultura del R. ha cercato sempre di operare su due fronti: il restauro filologico e la coscienza storico-critica, in modo da evitare sia l’imitazione passiva sia l’assimilazione falsificante. Anche nel Medioevo è costante la presenza dell’antico e di valori e contenuti universalmente umani, poi caratteristici anche del R.; la differenza consiste, da un lato nella misura, e dall’altro nei modi e nelle forme di tale presenza, che nel R. è, a un tempo, corale e sempre più criticamente storicizzata, e perciò né passivamente subita né deformata in utilizzazioni arbitrarie. L’immagine ricorrente, si pensi solo a L.B. Alberti o a N. Machiavelli, dei colloqui con gli antichi, non è un luogo retorico: è carica di senso, così come il vanto di P. Bracciolini dei classici prima incatenati e sfigurati nel carcere dei monasteri medievali e ora finalmente restituiti alla loro fedele integrità. Ciò che la civiltà medievale si è lasciata sfuggire del mondo antico – questo è il rimprovero ricorrente – è la reale dimensione della sua cultura: o l’ha mutilata isolandone alcuni tratti, o l’ha deformata assimilandola arbitrariamente, o l’ha condannata e respinta senza coglierne il valore esemplare. Questa consapevole storicizzazione dell’antichità classica, nonché delle ‘tenebre’ medievali, non avvenne d’un tratto; essa si svolse e si approfondì con il precisarsi delle ragioni della polemica e del rifiuto, con il chiarirsi della consapevolezza e con il definirsi dei programmi.
La storiografia recente tende per lo più a interpretare il rapporto tra Medioevo e R. nei termini di una dialettica di continuità e discontinuità, che, da un lato, enfatizza la presenza già dal 12° sec. di fermenti manifestatisi compiutamente solo nel periodo umanistico-rinascimentale, dall’altro, rivendica al R. una consapevolezza dell’effettiva portata storica di quel rinnovamento che è un dato di reale novità e che gioca nella direzione di una continuità con l’età della rivoluzione scientifica e l’Illuminismo.
Come si è detto, almeno inizialmente, nella sua prima fase, l’aspetto più vistoso dell’età del R. è il ritorno dell’antico, del mondo classico, della lingua e della civiltà della Grecia e di Roma. A prima vista un paradosso: il rinnovamento radicale della cultura viene avviato come riesumazione di un passato lontano. La realtà è molto più complessa. Per le città italiane, dove la nuova cultura nasce, si tratta subito anche di un moto di riscossa ‘nazionale’, un risorgimento, in nome di una grandezza politica non dimenticata. Il ritorno all’antichità classica sembra approfondirsi nel richiamo all’originario, al naturale, diventando reintegrazione o reformatio contro ogni corruzione politica, morale, religiosa. Come gli istituti umani vanno riportati ai principi (secondo la celebre teorizzazione di N. Machiavelli) in modo da invertire il processo degenerativo, così sul piano della cultura è necessario ritornare alla purezza della sorgente e all’integrità degli originali. Pregio infatti dei classici è la fedeltà al reale e all’umano; gli antichi hanno saputo tradurre in modo esemplare la ‘natura’, nel senso che hanno saputo individuare l’essenziale ed esprimerlo.
Dirà M. Ficino che interna alla natura c’è un’arte, ossia una potenza dinamica che la informa: ed è questa forza vivificante che conviene imitare. Il problema dell’imitazione non a caso è ricorrente nella letteratura del R. e sembra costituire un passaggio obbligato. Rifiuto polemico di una cultura disumana; ricerca e riscoperta degli antichi nella loro autenticità; confronto con il mondo antico e comprensione del suo significato; elaborazione di una cultura nuova e originale al di là di una imitazione servile: in questo complesso programma l’humanitas, l’esaltazione degli studia humanitatis, l’humanista e insomma tutto l’Umanesimo, vengono sfumando variamente il loro significato: da studio degli auctores, da ripresa delle artes sermocinales, da riforma linguistica e retorica, a processo di liberazione umana, a nuovi metodi di educazione, a riscoperta del valore dell’uomo, o, meglio, a una nuova fondazione del significato dell’uomo.
Per gradi, il risorgimento dell’antichità classica diventa rivoluzione, una grande ‘rivoluzione culturale’ che investe tutto il pensiero filosofico e scientifico, le arti e l’architettura, la politica e il diritto, la vita religiosa, mentre il mito dell’antico si estende e si trasforma. Prima di Aristotele c’è Platone, ci sono Socrate e Pitagora e i filosofi antichissimi. Alle soglie del Cinquecento G.F. Pico della Mirandola sosterrà che «l’esplorazione dell’Universo intero fu il compito assegnato alla ricerca dei filosofi, non il commento del solo Aristotele», ossia di un uomo, ancorché grande; e nell’Examen vanitatis doctrinae gentium aggiungerà che, al di là dai libri, al di là da Platone e da Socrate, bisogna ricorrere alle cose stesse, a quella che dovrebbe dirsi la biblioteca della natura (quasi bibliotheca naturae).
Il ritorno agli antichi verrà così, oltre il mito, generando il senso della pluralità delle visioni del mondo, della loro parzialità, e quindi della necessità di stabilire dei rapporti: le comparationes (fra Cicerone e Quintiliano, fra Platone e Aristotele). Ne nasceranno, faticosamente, diverse linee interpretative: la concordia universale nell’unica verità di fondo (G. Pico della Mirandola); la irriducibile discordia, per l’incapacità della ragione di giungere per sé alla verità (G.F. Pico della Mirandola e le correnti scettiche); lo sviluppo storico di una verità che si conquista nel tempo (Machiavelli).
Con i frutti delle varie esplorazioni (di P. Bracciolini e degli amici, a San Gallo, Reichenau, Einsiedeln, Weingarten, di A. Traversari nei monasteri italiani del Centro e del Nord, fra il 1432 e il 1434; e poi di Nicola Cusano al tempo del Concilio di Basilea; e ancora, di altri, a Montecassino, Nonantola, Bobbio, Verona, per dire solo di alcuni), si riunisce, fino alla fine del 15° sec., una messe preziosa, che viene elaborata ed edita, suscitando un fitto lavoro esegetico e un complesso di discipline e opere sussidiarie. Fioriscono studi filologici, storici, linguistici, giuridici; si compilano grammatiche, lessici, repertori ed enciclopedie. Hanno nuovo impulso le scienze e la filosofia. Entrano anche in circolazione in un breve giro di anni grandi opere di scienza prima ignote, o mal note e mutile. Si formano biblioteche presso signori e conventi, a Roma presso il pontefice, quando Niccolò V sogna di rifare la biblioteca d’Alessandria; né mancano cospicue raccolte di privati. Si interessa un pubblico sempre più vasto e si cerca di liberalizzare l’accesso ai libri. Botteghe di dotti librai copiano eleganti volumi. La stampa imprime un ritmo sempre più veloce al moto delle idee. Si afferma l’insegnamento pubblico del greco.
Tanta parte del patrimonio greco per la prima volta torna a vivere in Italia in alcune delle sue manifestazioni più alte: da Omero a Platone, dai tragici a taluni dei massimi scienziati. I 238 volumi che G. Aurispa nel suo viaggio in Grecia del 1421 mette insieme per farne commercio contengono fra i più grandi tesori dello spirito umano, in ogni campo. Nello stesso tempo l’avanzata turca spinge sempre più numerosi i Bizantini verso l’Italia. Il Concilio per l’unione, svoltosi fra il 1437 e il 1439 fra Ferrara e Firenze, riannoda contatti e recupera conoscenze. Uomini come il neoplatonico G. Gemisto Pletone e il cardinale Bessarione lasciano una traccia profonda. Senza Pletone, e il sogno di culti solari e di restaurazione pagana, rimarrebbero incomprensibili non pochi aspetti misteriosofici del platonismo fiorentino. Non a caso si scatena intorno a lui la rabbiosa polemica su Platone e Aristotele, così carica di contrasti politici e di scontri ideologici, quando Giorgio da Trebisonda presenta come nuove incarnazioni di Platone Epicuro e Maometto, l’Anticristo che aprirà la strada alla sconfitta della civiltà occidentale.
La lettera di Bessarione al doge, del 31 maggio 1468, con cui dona a Venezia la propria biblioteca di 482 codici greci e 264 latini, sembra sigillare il passaggio della cultura greca classica alle città italiane. Dopo la fine dell’Impero d’Oriente (1453), è un testamento che assurge a valore di simbolo. Se Firenze, fra l’arte di F. Brunelleschi e di Masaccio, la matematica di P. Toscanelli e le conturbanti visioni di L.B. Alberti, realizzerà con G. Pico della Mirandola, Ficino e A. Poliziano le più alte esperienze speculative e pratiche del secolo, Venezia nell’opera dello stampatore A. Manuzio attuerà il desiderio estremo di Bessarione: consegnare intatto all’umanità il messaggio della sapienza ellenica.
Alcuni autori rimessi in circolazione operarono per secoli sull’andamento del sapere: Platone, Plotino e Proclo, Porfirio, Giamblico, i testi ermetici e Psello (il tutto grazie, anche se non solo, alla ponderosa traduzione ficiniana), ma anche Diogene Laerzio, Epicuro, Lucrezio e un Aristotele ‘nuovo’, quello medievale e quello recuperato dagli umanisti, consegnato al Cinquecento maturo dall’edizione giuntina, fino agli scienziati e i matematici dell’antichità: Archimede, Apollonio di Perge e Pappo.
L’ellenismo, inseritosi sempre più largamente con il Concilio di Firenze e, poi, dopo il 1453, con gli esuli bizantini, creò una nuova atmosfera, attraversata da forti spinte verso il mondo della tarda antichità, quando si infittirono gli incontri con un Oriente ‘mistico e magico’. Ermetismo, occultismo, magia, teurgia, astrologia divinatrice, culti astrali, misteri egizi, non erano stati senza eco nei secoli di mezzo; ma fu soprattutto dagli anni 1440 in poi che se ne vide una diffusione eccezionale. I libri ermetici, e poi Giamblico e Proclo, gli ‘Oracoli caldaici’, l’imperatore Giuliano, si mescolano a manuali di magia e di astrologia, e godono di una fortuna larghissima, per incontrarsi, sulla fine del secolo, con il gusto – alimentato da G. Pico della Mirandola – della cabala e del misticismo ebraico.
Mentre l’assimilazione della cultura greca e l’approfondimento del senso della ‘rinascita’ antica danno frutti sempre più cospicui sul piano della cultura, mutano il tono e il clima. Quello che inizialmente era stato un moto di riscatto nazionale, alimentato da una forte carica di passione civile e di impegno mondano, elabora una concezione del mondo e della storia che per collocarsi in un’epoca di tensioni e trasformazioni decisive non può non rispecchiarne i conflitti e i drammi. Il secolo finisce sui poeti dell’età ellenistica, su Ermete, Giamblico e Proclo. M. Ficino si muoverà fra il mondo di Lucrezio, deserto di Dio, e la torbida teurgia di Proclo, mentre G. Pico della Mirandola al fasto del Magnifico preferisce l’ascesi e gli annunci apocalittici di G. Savonarola. Tra raffinatezze decadenti e profezie tragiche il mito che all’inizio del secolo era stato di riscossa italiana in una rinnovata giovinezza del mondo, nella pace universale, nell’impegno civile, in una vita più libera e umana, ricca di bellezza e razionalità, assume i colori cupi del dramma. Una grande vittoria sul piano della cultura si accompagna a una crisi nazionale profonda, economica e politica. Erede della civiltà della Grecia, l’Italia sembrava destinata a ereditarne anche le sventure.
Fin dalle origini il recupero dell’antico e il lavoro critico che l’accompagnò furono considerati non fini a sé stessi, ma in stretto legame con una funzione educatrice e politica. La ‘rinascita’ suscitata in vista di una riscossa nazionale si configurò ben presto come un’ideologia politica, legandosi all’attività delle cancellerie e delle corti, piuttosto che degli studi universitari. Per questo si sviluppò di preferenza nelle ‘repubbliche’ (Firenze e Venezia), esaltando la vita attiva nei confronti della contemplazione, anteponendo il matrimonio al celibato, condannando l’ascesi e schernendo la condizione monastica, celebrando le leggi di fronte alla scienza della natura. Tipici esponenti i cancellieri fiorentini, da C. Salutati a L. Bruni, ma anche i politici in genere. I loro primi auctores sono Cicerone e i grandi retori, gli scrittori di morale, gli storici; i loro testi la Repubblica di Platone, l’Etica nicomachea e le altre opere morali di Aristotele, ma anche le Vite di Plutarco; compongono epistole, orazioni, trattati morali e politici, opere storiche, ma anche trattazioni retorico-dialettiche, scritture di propaganda politica, laudationes di città, invettive. La nuova filologia offre loro dei modelli, commentati, tradotti, illustrati; essa stessa è uno strumento per scritture polemiche, per precise documentazioni a scopo politico. Si è potuto parlare perciò di «umanesimo civile» (H. Baron) per sottolineare le origini e i caratteri di un movimento in cui predomina l’impegno nella vita civile delle città-Stato.
All’impegno civile dei primi decenni del Quattrocento, legato alle vicende delle città italiane, fa seguito un’elaborazione sempre più complessa di teorie e d’istituti. La filologia si fa strumento raffinato di critica anche sul terreno della teologia (L. Valla, Erasmo da Rotterdam); la retorica e la dialettica vengono prendendo coscienza del loro valore nell’ambito di tutta l’esperienza umana (Valla, Rodolfo Agricola, J.L. Vives, P. Ramo). L’attività di L. Valla parte sì dallo studio del latino classico, dai problemi imposti dalla lettura dei testi da poco recuperati, dall’analisi della retorica di Quintiliano, ma per porsi il problema generale della lingua, e poi dei criteri che guidano le azioni umane, dei metodi della giurisprudenza, della tradizione dei testi sacri, dei fondamenti dei concetti di libertà e grazia, del significato del cristianesimo, delle basi giuridiche del potere temporale dei papi. Non c’è campo che Valla non investa con i metodi della filologia, della retorica e della dialettica. Dalla difesa della vita terrena e del piacere (De vero bono) alla critica neotestamentaria, dalla (del resto diffusa) polemica antimonastica all’attacco della donazione costantiniana, dalla nuova dialettica alla discussione sul libero arbitrio. Da Erasmo da Rotterdam fino a Leibniz, la sua eco resta dovunque presente. Un teologo e filosofo come Nicola Cusano vede in lui un difensore della propria tesi della riunificazione dell’umanità: la concordantia catholica. Valla, Nicola Cusano, E.S. Piccolomini (Pio II) esprimono bene una delle aspirazioni caratteristiche di questa fase della ‘rinascita’; una critica radicale che, partendo dagli strumenti della comunicazione umana, investa tutte le forme in cui si è strutturata la società per giungere a una pacificazione universale.
Nella civiltà rinascimentale la metà del 15° sec. segna un momento decisivo. Quasi nei medesimi anni L.B. Alberti esprimeva in modo esemplare l’esigenza di una compiutezza umana, ma anche l’impossibilità di superare le contraddizioni della vita. Mentre va disegnando nel De re aedificatoria la città razionale, e nell’architetto urbanista indica il sommo regolatore delle convivenze degli uomini, dà a un tempo voce a tutti i contrasti, i dubbi e le crisi che agitano il profondo della società contemporanea. Fato e libertà, ragione e follia, virtù e fortuna, vita e morte: i conflitti rimangono insanabili al di là delle armonie in cui le arti dell’uomo cercano invano di comporli. In Alberti si esprime uno dei caratteri dell’età rinascimentale: la tensione interna di un’epoca che, mentre costruisce sul piano della cultura e dell’arte espressioni di impareggiabile armonia, non è inconsapevole delle lacerazioni di fondo. Non per caso si rifà all’esperienza di Alberti Leonardo da Vinci, e ne riprendono i motivi Erasmo, Machiavelli e L. Ariosto. In Alberti convergono, in un’atmosfera drammatica, problemi di educazione e di scienza, concezioni filosofiche e politiche, attività artistiche e fedeltà a una prospettiva terrena da cui sembra del tutto assente la religione tradizionale.
Gli stessi nuovi ideali educativi, caratteristici del primo secolo della ‘rinascita’ (‘liberazione’ dell’uomo nella cultura, formazione del cittadino attraverso il rapporto diretto con le esperienze esemplari dell’umanità, conquista della propria dimensione storica) avevano dato i loro frutti migliori con la trattatistica di L. Bruni, di F. Barbaro, di P.P. Vergerio, di Maffeo Vegio, e con le scuole di Vittorino da Feltre a Mantova e di Guarino Veronese a Ferrara. Poi ci fu l’istituzionalizzazione di scuole preparatorie all’università, di collegi per la formazione di gentiluomini, di uomini di corte, di Stato e di Chiesa, dei nuovi gruppi dirigenti; al posto dei grandi maestri che sognavano una scuola capace di trasformare la società cominciarono ad affacciarsi grammatici e pedanti, mentre gli studia humanitatis finivano in retorica. Di contro si idealizzava (con B. Castiglione), in una sorta di platonico iperuranio, il «cortegiano» tutto teso a inseguire sul piano dell’ideale una perfezione vagheggiata e sognata.
Contemporaneamente si viene progressivamente componendo il fecondo dissidio iniziale fra libera cultura innovatrice e università, fra accademie e studi; il programma delle humanae litterae si esaurisce in una parziale riforma dell’insegnamento.
Mentre sorgono nuovi studi e si rinnovano i vecchi, cambiano, in parte, i metodi (e talora anche i testi) delle varie discipline. Se ne introducono di nuove. Nel Cinquecento si fondano perfino cattedre di filosofia platonica. Emergono fra la fine del 15° sec. e il principio del 16° formulazioni teoriche articolate, sistematiche; nascono altre teologie (la Theologia platonica di Ficino) e addirittura commenti alle Sententiae ad mentem Platonis (del cardinale Egidio da Viterbo). Non ultimo motivo di questo richiamo al platonismo è la perdurante rivolta contro la scolastica che si era posta sotto il segno di Aristotele; ma vi sono anche, nella tradizione neoplatonica, temi più agevoli a incontrarsi con esperienze artistiche, maggiori aperture al mistero, ai simboli, alle operazioni occulte, all’idea di una natura viva e animata, e quindi di segrete corrispondenze fra macrocosmo e microcosmo, fra uomo e natura. Fu questa l’atmosfera dei platonici Fiorentini, che accentuatasi negli ultimi decenni del Quattrocento, non senza il favore dei Medici, in particolare di Lorenzo, pervase le arti, ed esercitò un fascino profondo per tutta l’Europa, almeno fino alla fine del Seicento.
Dai tempi di Cosimo il Vecchio alla fine del secolo M. Ficino riuscì, fra l’altro, a riassorbire nel cerchio incantato del suo ‘platonismo’ tanta parte della tradizione, dagli stilnovisti a Dante e a Petrarca. La lussureggiante vivacità delle immagini, la teoria dell’amore e della bellezza, la centralità dell’uomo «copula del mondo», e insieme la centralità del Sole tabernacolo di Dio, la connessione di tutte le cose, l’unità profonda delle religioni e delle filosofie: tutto questo costituì un affascinante nodo dottrinale, carico di seduzioni artistiche, che conquistò non piccola parte dell’Europa. Ne rimasero condizionati anche quanti poi se ne staccarono, magari vivacemente, ma sempre costretti a commisurarsi. Così G. Pico della Mirandola, che portò al limite i due temi della assoluta libertà umana e della pace universale delle dottrine; che, in nome della razionalità, combatté contro l’astrologia divinatrice, ma che fu pieno di temi ermetici e diffuse largamente l’interesse per l’occulta sapienza orientale.
In misura diversa troviamo la componente platonico-ermetica d’ispirazione ficiniana in Leonardo da Vinci come in Michelangelo. Il giovane Ariosto legge Ficino. Perfino il naturalismo tutto terreno di P. Pomponazzi, con la sua polemica contro l’immortalità dell’anima, ne porta le tracce. È nella scia di quel platonismo che le opere speculative di Nicola Cusano si combinano con le più estrose visioni dei Fiorentini, e ne esce una metafisica dell’uomo che concentra in sé il tutto e si dilata nel tutto. Il mondo aristotelico-tolemaico esplode; la centralità della Terra diventa un assurdo; alla dignità dell’uomo ritrovata nella centralità della mente corrisponde la centralità del Sole come fonte della luce e della vita. Fino a G. Bruno, e oltre, l’alone ermetico platonizzante è presente come un’eco dei sogni quattrocenteschi.
Quando la crisi italiana sarà consumata fra invasioni straniere e disfatte d’ogni sorta, la ‘rinascita’ cominciata come affermazione nazionale e fallita sul piano politico si rivelerà vittoriosa come grande movimento di cultura. D’altra parte la vitalità del R. in tutto l’arco della sua vicenda e delle sue conseguenze si colloca proprio nella sua profonda tensione interna: nella sua rivolta contro la realtà presente unita a un senso fortissimo del concreto. Di qui una grande arte e una nuova scienza: Machiavelli, che unisce a una fedele analisi dell’uomo e della storia una eccezionale capacità teorica; Leonardo, per cui solo la matematica e la ragione aprono le vie della verifica sperimentale. La cosiddetta rivoluzione scientifica trae origine dalla netta rottura con l’empirismo aristotelico. Da un lato le grandi opere teoriche greche rimesse in circolazione, dall’altro le nuove concezioni generali della realtà stimolano l’evoluzione del pensiero. Galileo ammira di N. Copernico il coraggio di rifiutare il dato sensibile per sostenere con i pitagorici e Aristarco un’ipotesi rigorosamente razionale, anche se assurda per l’opinione dei più. La scienza moderna nasce su una nuova visione delle cose, verificando le anticipazioni della mente. Nello sfondo l’immagine dell’uomo come essere non condizionato né da essenze né da specie, che si costruisce con un atto libero e responsabile.
Per arte e architettura del R. si intende comunemente quella particolare produzione artistica e architettonica che prende avvio dall’ambiente fiorentino della prima metà del 15° sec., contrassegnato sensibilmente dall’attività di figure quali Donatello, Masaccio, F. Brunelleschi. Il serrato scambio di idee e soluzioni operative tra questi protagonisti della rinascita di forme ‘all’antica’, mutuate sugli esempi forniti dall’età classica, conduce a elaborazioni originali magistralmente in bilico tra filologia, coscienza storico-critica e invenzione ex novo. In progressiva rottura con gli stilemi dell’arte e dell’architettura del gotico, prende forma un linguaggio che sempre più direttamente attinge al vocabolario classico desunto dal mondo greco e, in particolare, da quello romano. Ai ‘moderni’ Goti si contrappone così una ‘nuova’ modernità ispirata all’antichità.
La riproposizione di elementi che si rifanno direttamente al mondo antico e il conseguente ridisegno di pilastri, colonne, paraste, capitelli, basi, trabeazioni, frontoni, volte e sistemi costruttivi alla maniera dei Romani creano nuove architetture capaci di confrontarsi con la grandezza dell’universo figurativo del mondo classico. Tra emulazione e, addirittura, competizione con quelle opere di architettura e di ingegneria, nascono soluzioni compositive e nuove tipologie civili e religiose capaci di rinnovare la produzione di architettura con forme e lessico costantemente oscillanti tra rinascita e invenzione dell’antico.
Da opere fiorentine quali il portico dell’Ospedale degli Innocenti progettato da Brunelleschi, alla Sacrestia Vecchia in S. Lorenzo e alla Cappella Pazzi o ai suoi interventi di trasformazione dell’interno di S. Lorenzo o di S. Spirito, la ricerca architettonica trova quegli inneschi che connoteranno, anche attraverso il contributo teorico e operativo di L.B. Alberti, la complessiva produzione architettonica del 15° e 16° sec. definita rinascimentale. In opere come la Ss. Trinità di Masaccio (affresco in S. Maria Novella) si ha un emblematico e magistrale intreccio tra la ricerca pittorica e quella architettonica, esplicitamente orientate verso la reinterpretazione di un lessico e di una figurazione classicheggianti. Nell’edicola con la statua di s. Ludovico di Tolosa realizzata da Donatello per Orsanmichele, nella sua cantoria (Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore) o nelle opere scultoree (Annunciazione Cavalcanti in S. Croce ecc.) si completa e si definisce ancora di più quello che diventerà l’orientamento espressivo delle arti.
Il ritrovamento di alcune statue antiche a Roma (Laocoonte, Apollo e Torso del Belvedere, fine 15° sec. - inizio 16°), unitamente all’accentuato riuso ideologico dell’antico da parte dei papi, concentra nella ‘città eterna’ interessi culturali e attività artistico-architettoniche basate sulla rinascita e su una nuova elaborazione di forme classiche. Seppure parallele e analoghe attività si riscontrino, oltre che a Firenze, pure nelle città-signorie del resto della penisola (da Urbino a Rimini o da Mantova a Ferrara ecc.), Roma diviene il laboratorio privilegiato della rinascita dell’antico: figure come Fra’ Giocondo, i Sangallo, Bramante, Raffaello, Michelangelo, S. Serlio, B. Peruzzi ecc., facendo anche tesoro della lezione fornita dal nuovo fenomeno della trattatistica (da Alberti o F. di Giorgio Martini a C. Cesariano ecc.) ed elaborando loro stessi taccuini, schizzi, testi teorici autonomi o di accompagnamento alle opere progettate o realizzate, contribuiscono sotto vari aspetti alla determinazione e definizione della produzione artistico-architettonica del Rinascimento.
A questa originale ed eterogenea attività, estesa a tutto il primo quarto del 16° sec., faranno seguito – arricchendo il panorama delle varie arti – l’opera degli allievi diretti e quella prodotta dagli ideali continuatori dei ‘maestri’ del primo R. (si pensi a Giulio Romano, M. Sanmicheli o I. Sansovino, fino a protagonisti singolari come Vignola, A. Palladio, V. Scamozzi ecc.).
Oggetto di un intenso e spesso controverso dibattito critico, rivolto tanto al suo significato di rottura o di continuità rispetto all’arte dei secoli precedenti, quanto a una sua individuazione e definizione nella produzione artistica transalpina, il concetto di rinascita della cultura classica e quindi di R. sul suolo italiano si origina nelle fonti e nella trattatistica contemporanea, da Raffaello – nella sua lettera a Leone X – a G. Vasari, che ne traccia un percorso eminentemente fiorentino. In realtà, in una linea che parte da una meditazione ed elaborazione della lettura dei testi classici per giungere, dalla fine del 15° sec., a un momento autonomamente creativo, per una riappropriazione e reinterpretazione del concetto di classico, sono svariate le manifestazioni e le componenti del R. nelle sue particolari declinazioni. Lo studio della prospettiva come strumento e norma di presentazione del reale, sviluppato da Brunelleschi e teorizzato da Alberti, si intesserà, nelle varie arti, con soluzioni diverse: dalla visione teorico-razionale di Piero della Francesca all’importanza del disegno nelle sperimentazioni fiorentine; dal particolare portato della nuova pittura veneziana, nelle sue ricerche sulla luce e sul colore, agli interessi scientifici che informano anche l’attività artistica di Leonardo. Consistente è l’apporto della pittura fiamminga, da Firenze all’Italia meridionale. La centralità dell’agire umano, nell’arbitrio e nell’esperienza individuale come nell’indagine artistica e scientifica, la contraddizione tra verità rivelata e ricerca, tra la regola e il dato storico, confluiranno, nei primi decenni del 16° sec., nel superamento del concetto di R. in una nuova necessità di confronto e di scontro tra culture e tradizioni diverse. Tali dinamiche condurranno le manifestazioni artistico-architettoniche del Cinquecento in una dimensione europea.