Città del Lazio, capitale della Repubblica Italiana; capoluogo di regione e città metropolitana (Comune di 1.287,4 km2 con 2.813.365 ab. nel 2021).
Il problema dell’etimologia del nome di Roma si era presentato già alla mente degli antichi, ma le soluzioni da essi offerte non reggono alla critica scientifica. È impossibile che Rōma derivi da Rōmŭlus, vero pare piuttosto l’inverso (come aveva già intravisto Filargirio). La derivazione accolta più favorevolmente nell’antichità era quella del gr. ῥώμη «forza», ma questa sembra solo un’etimologia erudita. In epoca moderna sono state avanzate varie altre ipotesi. Una risale all’antico nome del Tevere Rūmōn, sicché rōmānus avrebbe significato «fluviale» (la Porta Rōmŭla della cinta muraria primitiva si trova in corrispondenza della Porta Flumentana della cinta serviana). Un’altra ipotesi invoca il nome Rūma, propr. «mammella», dato in antico al Palatino (ma l’etimo di questo nome è incerto). All’inizio del 20° sec. (1904) W. Schulze ha fatto derivare il nome della città dal gentilizio etrusco dei Ruma, cui del resto sarebbe affine l’antico nome del Tevere. È la tesi oggi più accolta, mentre sono da respingere le connessioni con il gr. ῥέω «scorrere» o con il nome del fiume Strimone. Testimonianze antiche documentano l’esistenza di un nome segreto dell’Urbe connesso con determinati riti.
La città sorge al centro di un’area pianeggiante, di forma approssimativamente triangolare, che si estende lungo entrambe le rive del tratto terminale del Tevere. Nella sua sezione centrale, tale pianura (Campagna Romana) è occupata dalle pendici debolmente digradanti dei coni vulcanici dei Monti Sabatini (a N) e dei Colli Albani (a SE), che si sovrappongono e alternano a depositi alluvionali e quasi arrivano a congiungersi nel sito della città, dove, fra le une e le altre, si incunea il Tevere, che vi ha ricavato un passaggio (stretto fino a meno di 1 km). In particolare, le colline a sinistra del Tevere – i Sette Colli – sono prevalentemente costituite dai prodotti vulcanici del distretto dei Colli Albani (Pleistocene medio-superiore), rappresentati da tufi, colate piroclastiche e colate di lava. Le colline alla destra del Tevere sono in gran parte costituite da depositi ghiaioso-sabbiosi del Pleistocene medio, di ambiente marino, fluviale e lacustre, contenenti i resti fossili dei grandi mammiferi che popolavano la Campagna Romana; al di sopra, possono essere presenti i prodotti vulcanici del distretto dei Sabatini. Alla base di Monte Mario e del Gianicolo, invece, affiorano marne grigie e azzurrognole, alternate con sabbie fini, del Pliocene. Alla vicinanza dei rilievi vulcanici, come anche di quelli appenninici, sismicamente attivi, si deve la circostanza che la città sia stata spesso danneggiata da terremoti.
La morfologia originaria del sito urbano si riscontra nei molteplici e spesso bruschi dislivelli che ancora movimentano il tessuto cittadino. Così, i 57 m s.l.m. del Campidoglio si innalzano bruscamente sulla sottostante Piazza Venezia (20 m), mentre il rione Trastevere (18 m) appare dominato dal Gianicolo (88 m); se le altre alture comprese nell’area della città antica sono più modeste (Palatino, 51 m; Quirinale, 47; Esquilino, 31), quote e dislivelli più consistenti si incontrano nelle aree edificate nel corso del 20° sec., fino al caso estremo di Monte Mario (139 m). Si ha modo di valutare, invece, con maggiore puntualità l’entità dei riporti di terreno, che nell’area centrale urbana superano quasi ovunque lo spessore di 5 m, fino a valori molto maggiori: si registrano colmate di 10-15 m lungo tutto il percorso di via del Tritone, e di 10-16 m in corrispondenza del Circo Massimo e della Passeggiata archeologica (via delle Terme di Caracalla), di 13-15 nella valle del Colosseo e lungo via Labicana, di 12-20 m sull’intero tracciato di via Nazionale, fino a superare i 20 m in corrispondenza della Stazione Termini, della Città universitaria e in qualche altro sito. Gran parte di questi casi più vistosi risale a interventi antichi, quando si trattò di colmare valli e vallecole per eliminarne i frequentissimi ristagni d’acqua. Allo stesso tempo, si provvide a captare, canalizzare e drenare per via sotterranea i numerosi corsi d’acqua e le sorgenti presenti nell’area urbana, cosicché oggi a Roma scorrono in superficie solo il Tevere e, alquanto a monte rispetto alla città antica, l’Aniene. Gli interventi di rimodellamento attuati in età moderna e contemporanea hanno invece avuto di mira la regolarizzazione della pendenza di percorsi stradali di fondovalle (come via del Tritone, via Nazionale, viale Manzoni, per limitarci ad alcuni dei riporti più consistenti) o di aree a edificazione pianificata (per es., Stazione Termini, Città universitaria, EUR).
Nonostante l’evidente rilevanza degli interventi antropici, proprio le caratteristiche naturali del sito, originariamente più aspre, sembrano avere avuto un gran peso nella localizzazione degli abitati protostorici da cui sarebbe derivata la città. L’elemento che rendeva il sito romano più vantaggioso rispetto ai molti altri analoghi, era la presenza del Tevere. Il fiume, navigabile anticamente fino in Umbria, era utilizzato come via di comunicazione fra il mare e le regioni appenniniche, e così i percorsi terrestri che ne seguivano la valle; poiché il letto del fiume presenta un piccolo dislivello immediatamente a valle dell’Isola Tiberina, qui si rendeva necessaria una rottura di carico con trasbordo su mezzi terrestri o su altri natanti (così che ancora nell’Ottocento Roma aveva due porti fluviali, uno a valle dell’isola, Ripa Grande, e uno a monte, Ripetta). La piccola isola, pertanto, si rivelava punto nodale per i transiti in senso OE e in senso NS. Il controllo del Palatino e del Campidoglio (le alture più prossime, da sinistra, all’Isola Tiberina), poi anche dell’Aventino e quindi del Gianicolo, testa di ponte sulla sponda destra del Tevere, consentì il controllo del nodo dell’isola e certamente favorì lo sviluppo economico e politico della città. Questa sorgeva, inoltre, al limite fra le regioni occupate dai Latini, a S, e dagli Etruschi, a N, mentre era in condizione di attivare contatti commerciali a media e lunga distanza, proponendosi come luogo d’incontro e di scambio insieme commerciale e culturale, e poi come centro politico. La funzione politica garantì nei secoli la vitalità del centro urbano e della sua popolazione, mentre cristallizzava intorno al nodo costituito dalla città le reti e i flussi di comunicazioni ereditati dall’antichità e ne attirava di nuovi, come le ferrovie e le autostrade. Per lungo tempo, il nodo romano e le attività che vi si svolgevano ebbero rilevanza per il solo Lazio centrale e settentrionale; dopo il 1870, ancora una volta la funzione politica rivitalizzò la città e la sua capacità di nodo di comunicazione, esplicata, da allora in poi, a scala nazionale, in qualità di raccordo tra il Nord e il Sud d’Italia.
La posizione rispetto alle vie di comunicazione si combina anche con qualche altro elemento favorevole all’insediamento, come il clima. Collocabile nell’ambito mediterraneo, il clima di Roma comporta temperature molto miti con medie annue di 15,9 °C; il mese più freddo, gennaio, ha una media di 7 °C, quello più caldo, luglio, di 25 °C. I venti dominanti sono da N in autunno e inverno, da SO a O in primavera ed estate. I giorni di pioggia risultano, in media, 102 all’anno, per un totale di poco più di 800 mm di precipitazioni (e un’umidità relativa media annua del 63%), distribuite in modo da dar luogo a un periodo siccitoso estivo accentuato. La crescita urbana ha inciso in maniera rilevante sui dati climatici, elevando le temperature (per il fenomeno dell’‘isola termica urbana’) e riducendo umidità relativa e velocità del vento nell’area edificata e nelle immediate adiacenze.
Tra 19° e 20° sec. le opere di drenaggio e canalizzazione del Tevere, realizzate già anticamente, furono riprese e completate con l’ampliamento dell’area di bonifica a un’area compresa entro 10 km dal centro della città (1878), e poi (1903) a tutto il territorio rurale del comune (interventi obbligatori di bonifica, a spese anche dei proprietari dei terreni). Il controllo delle acque del Tevere e la protezione dalle esondazioni rimasero per secoli problemi irresolubili, che tesero ad aggravarsi con il tempo per via del restringimento (causato da abitazioni, mulini ecc., che occupavano le sponde) e del colmamento (causato dall’aumento degli apporti di materiali prodotti dall’erosione a monte, in crescita, e dall’assenza di dragaggi) dell’alveo fluviale. Una soluzione, ai fini della protezione della città, si ebbe solo con l’edificazione dei ‘muraglioni’, alti argini che dall’inizio del 20° sec. hanno contenuto le piene del fiume: si tratta, peraltro, di una soluzione che ha forse troppo radicalmente separato la città dal fiume, e che comunque è limitata all’area centrale urbana, mentre piene eccezionali hanno ancora potuto investire, in più occasioni, le campagne e le zone di espansione edilizia a monte e a valle del centro storico. Effetti di regolazione della portata del corso d’acqua si sono invece ottenuti con la costruzione della centrale idroelettrica di Castel Giubileo (1951), il cui bacino opera anche come cassa di colmata delle acque del Tevere, pochi chilometri a monte del centro urbano, e con vari altri analoghi bacini lungo l’alto e medio corso del fiume. Questo, specie nei decenni 1960 e 1970, è stato gravemente compromesso nel suo equilibrio di corpo idrico (con una massiccia escavazione, dall’alveo, di inerti di impiego edilizio) e nella qualità delle sue acque (con estese immissioni di inquinanti), che fino ai primi decenni del 20° sec. potevano essere usate a scopi alimentari e, ancora più tardi, balneari. Dagli anni 1990 è stato varato un programma di recupero del fiume con un più attento controllo degli scarichi, depuratori, linee di navigazione, piste ciclabili lungo le banchine, manifestazioni periodiche.
Per quanto riguarda l’approvvigionamento di acqua potabile, il problema (proporzionale alla consistenza della popolazione e delle attività) fu brillantemente risolto già anticamente, con la messa in funzione di un gran numero di condotte, ancora sostanzialmente sufficienti al fabbisogno di Roma al momento della sua annessione al Regno d’Italia. Successivamente, oltre al ripristino e al potenziamento di alcune condotte antiche, sono entrati in servizio diversi altri acquedotti, il più importante dei quali è quello del Peschiera-Capore. Nell’insieme tali acquedotti garantiscono una fornitura ancora abbondante e qualitativamente considerabile fra le migliori in Italia.
Il comune di Roma è il più esteso e di gran lunga il più popoloso d’Italia. Nel 1870, la popolazione contava 226.022 ab. ed era avviata verso un sempre più rapido accrescimento: nel 1901 accoglieva 422.000 ab., che salirono a 931.000 nel 1931 e addirittura a 2.188.000 nel 1961, con una netta accelerazione nell’ultimo dopoguerra. Dopo una lunga fase di crescita demografica, culminata nei primi anni 1980 (censimento 1971, 2.782.000 ab.; censimento 1981, 2.831.000 ab.), la città ha visto continuamente diminuire la popolazione residente nell’ambito comunale: già il censimento del 1991 aveva registrato una netta contrazione, peraltro confermata dalle risultanze anagrafiche relative agli anni seguenti (2.661.400 ab. nel 1995; 2.646.800 nel 1998); nel 1992, l’istituzione del comune di Fiumicino ha ridotto la popolazione della capitale di ulteriori 45.000 ab. e la sua superficie comunale di 222,3 km2. Dopo la decrescita registrata a partire dai primi anni Novanta e protrattasi per tutto il decennio (2.546.860 di residenti del 2001), la popolazione di Roma ha ripreso a crescere in maniera pressoché costante; il dato di 2.813.365 residenti al 1° gennaio 2022 lascia presumere una tendenza alla stabilizzazione della dinamica demografica.
Il processo di ridimensionamento del numero di residenti verificatosi negli ultimi decenni del Novecento, ha trovato spiegazione sia nell’andamento naturale della popolazione (in regresso) sia nella ridistribuzione di quote crescenti di abitanti (e di immigrati) nei centri della cintura urbana e nei comuni minori della provincia, molti dei quali da tempo hanno visto, al contrario del capoluogo, accrescersi le rispettive popolazioni. Dai primi anni 1970, infatti, è divenuta evidente una tendenza deglomerativa, motivata da congestione, disordine urbanistico e generale deterioramento qualitativo del centro cittadino, dall’aumento del costo della vita, dalla rigidità del mercato immobiliare, dalla positiva evoluzione socioeconomica dei comuni limitrofi, che ha portato a incrementi demografici maggiori nei comuni della provincia. Un analogo meccanismo ha agito all’interno dello stesso comune romano, dove i residenti si sono largamente trasferiti dalle circoscrizioni (organi di decentramento amministrativo, istituiti nel 1972 in numero di 20, e oggi chiamati municipi e ridotti al numero di 15) del centro storico verso quelle periferiche; l’area centrale risente, inoltre, di un rapido processo di invecchiamento demografico, ma anche di uno scarsissimo ricambio di popolazione, giacché polarizza attività terziarie e direzionali (a cominciare da quelle strettamente politiche e di governo, che ormai caratterizzano compattamente un’ampia area intorno agli edifici parlamentari) che si sono massicciamente sostituite alla funzione residenziale.
La popolazione comunale considerata nel suo insieme, tuttavia, non presenta caratteristiche particolarmente distanti dai valori medi nazionali, con tassi di natalità e di mortalità attestati rispettivamente sull'8‰ e sul 9,9‰ (2015), nuclei familiari composti mediamente da meno di 3 membri, forte e crescente invecchiamento, femminilizzazione; cresce la percentuale di nati stranieri (17,5% nel 2015). Alcune particolarità della polazione sono facilmente riconducibili al ruolo di capitale politica, come i livelli di istruzione dei residenti, superiori alle medie nazionali, o come la notevole capacità di attrarre l’immigrazione extracomunitaria per lavoro. Una consistente presenza di cittadini stranieri è del resto tradizionale, anche se in questo senso riguarda ceti sociali di tipo differente (artisti, intellettuali, religiosi, diplomatici) e motivazioni di ordine diverso (i valori storico-artistici e culturali, la presenza del Vaticano, le rappresentanze diplomatiche presso la Repubblica Italiana e la Santa Sede, più recentemente la FAO). Al 31 dicembre 2015, la popolazione straniera residente a Roma era di 365.181unità, pari al 12,7% della popolazione totale, un dato sostanzialmente stabile rispetto al 2014 (ma più elevata di 6,3 punti rispetto al 2000). Nel 2015 quasi la metà degli stranieri residenti nella Capitale proveniva dal continente europeo, il 34% dall’area comunitaria e in particolare alla Romania (88.771 individui); seguono i residenti provenienti dal continente asiatico (33% circa degli stranieri, 119.265 individui).
Nonostante il calo demografico verificatosi negli ultimi decenni del Novecento, la città ha continuato a registrare una crescita edilizia e topografica alquanto sostenuta (benché discontinua), sia per il ridursi della dimensione delle famiglie residenti (cui è corrisposto un aumento del numero delle famiglie e quindi della domanda di residenze) sia per l’accresciuta domanda proveniente da attività di servizio, così che l’edificato è ormai superiore a un quarto della superficie del comune: nonostante la notevolissima estensione di quest’ultima, Roma mantiene una densità complessiva di circa 2200 ab./km2. In generale, risulta sempre più evidente come i meccanismi della rendita fondiaria agiscano valorizzando particolarmente alcuni settori della città: l’area centrale, ormai quasi nella sua interezza, mentre fino a un recente passato alcune sue parti più degradate erano rimaste marginali ai processi di riqualificazione insediativa; alcune aree pericentrali, sorte come insediamenti di pregio a spiccata funzione residenziale, dove si tende a diversificare l’uso degli immobili, ma conservando la preminenza dell’uso abitativo, anche in virtù di precise qualità ambientali come l’altitudine (sulle alture dei Parioli, di Monte Mario, del Gianicolo ecc.) o la dotazione di aree verdi (quartieri Salario, Trieste, Nomentano ecc.); infine, alcune aree nettamente periferiche e di più recente edificazione, di elevata qualità, spesso organizzate in comprensori residenziali programmati razionalmente e dotati di servizi autonomi, distribuite soprattutto a N e a SO. Nell’insieme la dotazione immobiliare è ormai tale da aver ridotto drasticamente la tensione abitativa che aveva caratterizzato i primi decenni del dopoguerra, quando parve inevitabile un’espansione sostanzialmente incontrollata, a macchia d’olio, spesso illecita e in buona parte basata sull’autocostruzione. I fenomeni abusivi non sono, in realtà, venuti meno neanche nei decenni seguenti, ma sono stati più rapidamente recuperati e incorporati nella ‘città legale’. L’espansione edilizia della città compatta ha in genere ormai raggiunto i centri ‘spontanei’ consolidati e legalizzati. Nei quadranti orientali l’espansione ha oltrepassato i limiti amministrativi, più o meno solidamente saldandosi a quella originata dai comuni limitrofi. Nel complesso, se si eccettua qualche breve tratto non edificato, si può considerare l’area compresa entro il Grande Raccordo Anulare (GRA) come pienamente urbanizzata; al di là del GRA si dipartono propaggini più o meno frammentarie, che attribuiscono all’insieme della struttura urbana una forma vagamente stellare.
Sebbene, già a partire dagli anni 1960, il piano regolatore e le sue successive varianti non siano stati concretamente messi in atto, la città ha comunque registrato vari interventi coordinati, nell’ambito della razionalizzazione delle reti infrastrutturali di servizio (ACEA, Telecom ecc.) nel sottosuolo e soprattutto in quello delle infrastrutture per la viabilità stradale e ferroviaria: realizzazione di un anello ferroviario connesso con le linee metropolitane; prolungamento di queste ultime e progetti di ulteriore potenziamento; ampliamento del Grande raccordo anulare a tre corsie lungo gran parte del percorso; ripristino o potenziamento di alcune linee in sede propria (tranvie); protezione dei percorsi dei mezzi su gomma (corsie riservate); realizzazione di aree di sosta e di scambio (interventi attuati, in buona parte, nel 1990 in occasione dello svolgimento del campionato mondiale di calcio in Italia). Per molte delle opere ricordate, e per altre di minore impatto, come i moltissimi cantieri aperti nel corso degli anni 1990 in aree centrali e periferiche della città per scavi archeologici e i vari ripristini e restauri del patrimonio edilizio storico, ci si è avvalsi a più riprese di specifici interventi di legislazione connessi al ruolo della città come capitale dello Stato. Non va dimenticato, inoltre, il completamento di una serie di interventi amministrativi e urbanistici, già varati nel corso degli anni 1980, che hanno consentito di riconnettere funzionalmente alla città le aree edificate abusivamente negli anni precedenti, regolarizzandone la condizione e migliorandone le dotazioni infrastrutturali, mentre sono state ampliate e consolidate alcune aree verdi pubbliche urbane e suburbane (fra cui il parco dell’Appia Antica e il parco di Veio). In più casi il riassetto del territorio comunale si è verificato in connessione con la riqualificazione e il riuso di strutture architettoniche, storico-artistiche e paesaggistiche che hanno funzionato come originali fattori di promozione dell’uso del territorio locale.
Tuttavia, nonostante il vasto complesso di realizzazioni, la città non ha visto risolti i propri problemi funzionali, fra cui, anzitutto, quello della mobilità, reso più complesso dalle controverse dinamiche secondo cui allo svuotamento demografico del centro storico a favore di impieghi terziari si sono andati alternando processi di ritorno di residenti verso i quartieri centrali ristrutturati. Quest’ultima dinamica pare riconducibile alla ripresa di operazioni di investimento nelle aree centrali della città da parte del mercato immobiliare e a politiche pubbliche di riqualificazione del tessuto urbano (accentuatesi negli anni 1980 e 1990 in molte grandi città dell’Europa occidentale), così da favorire il ripopolamento dei centri storici da parte delle nuove classi medie, per lo più formate da aree professionali ad alto reddito del terziario avanzato. Nel caso romano, inoltre, il problema dell’organizzazione del traffico veicolare non può essere risolto solo nel senso di fornire trasporto ai residenti o ai pendolari che si dirigono a Roma provenendo dall’esterno del comune, ma occorre tener conto dell’afflusso crescente, pressoché continuo nel corso dell’anno di turisti e pellegrini (con un incremento degli arrivi, +27,1% e delle presenze, +23,7% tra il 2010 e il 2014), la cui domanda di trasporto non pare controllabile se non in occasione di eventi eccezionali (come il citato campionato del 1990 o il giubileo dell’anno 2000). Connesse ai trasporti sono, inoltre, le crescenti problematiche legate all’inquinamento atmosferico e acustico.
In termini regionali e nazionali Roma conserva il tradizionale ruolo di nodo di comunicazione: ma fra queste, ormai, solo quelle ferroviarie riguardano direttamente la città, per la quale transitano necessariamente le linee da e per il Nord, lungo il Tirreno e in direzione di Firenze-Bologna, e da e per il Sud, in direzione di Napoli-Reggio di Calabria; a Roma si attestano, inoltre, due linee transappenniniche (per l’Umbria e le Marche, e per l’Abruzzo), nonché un certo numero di tratte locali. Il grande traffico stradale non utilizza quasi più la viabilità consolare, nonostante gli ammodernamenti che questa ha subito proprio a ridosso della città, ma piuttosto la rete autostradale. Servono la città di Roma le tratte A12 per Civitavecchia, con diramazione per l’aeroporto di Fiumicino e percorso di penetrazione urbana fino al quartiere Portuense, e A24 per L’Aquila-Pescara, con penetrazione fino al quartiere Tiburtino; sull’anello costituito dal GRA, si attestavano le tratte per Milano e Napoli (già, rispettivamente, A1 e A2); queste sono state raccordate da una bretella realizzata a E della città, tra Fiano Romano e San Cesareo (che a sua volta interseca anche la A24 nei pressi di Tivoli). I due aeroporti passeggeri, infine, quello più vecchio di Ciampino e quello di Fiumicino, ricadono entrambi in altri territori comunali, benché siano saldamente collegati con la città, specialmente il secondo.
La tradizione annalistica romana faceva risalire la fondazione di Roma da parte di Romolo (➔) al 754 o 753 a.C. e la riconnetteva, basandosi su leggende di varia origine (latina, romana, greca), con i Troiani provenienti da Ilio sotto la guida di Enea e con i re di Alba, discendenti dell’eroe troiano. Le testimonianze archeologiche provano che dal 10° al 7° sec. sui colli romani si venne formando una serie di centri e che sul Palatino, il colle della ‘città di Romolo’, esisteva nell’8° sec. un sito abitato. Le comunità dei colli romani, raggiunta con il tempo una certa unità politica, parteciparono alle leghe religiose latine, come quella riunitasi attorno al santuario di Giove Laziale sul Monte Cavo. In un primo tempo la supremazia fu di Alba; in seguito a lotte, delle quali si hanno solo notizie leggendarie, Alba fu distrutta e Roma divenne la città egemone della Lega latina.
Di Roma nei tempi dell’età regia (date tradizionali: 754 o 753-509), come di tutta la fase che precede l’incendio gallico (390), non si dispone di informazioni attendibili, salvo che su singoli momenti. La serie dei ‘Sette re di Roma’ (Romolo, Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marzio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio, Tarquinio il Superbo) contiene probabilmente elementi di verità, ma si tratta di una costruzione tarda in cui la successione, il numero e le figure stesse dei re che effettivamente ressero la città subirono alterazioni sensibili. I primi re, come Romolo o Numa Pompilio, hanno carattere leggendario; ad altri, come Servio Tullio, furono attribuite innovazioni nell’ordinamento politico e militare e nella sistemazione della città che sono invece posteriori. Si possono distinguere nell’età regia due fasi: la prima, di dominio dell’elemento latino (e anche sabino); la seconda, dell’elemento etrusco, che corrisponderebbe ai re Tarquinio Prisco, Servio Tullio (in etrusco, Mastarna) e Tarquinio il Superbo. La documentazione archeologica e linguistica, oltre alle notizie sull’espansione etrusca nei sec. 7° e 6° nell’Italia centro-meridionale, sembra confermare che nel 6° sec. una dinastia etrusca occupò il trono romano. In quest’epoca Roma si afferma come grande città murata, tra le più prospere dell’Occidente mediterraneo, e la sua egemonia sui Latini si spiega nella cornice del periodo di potenza etrusca, terrestre e marittima.
La struttura sociale e politica di Roma regia era fondata, secondo la tradizione vulgata, sulla tripartizione della città in tribù (Ramnenses, Titienses, Luceres), in curie (10 per ogni tribù) e in gentes, divisioni e raggruppamenti le cui funzioni non sono ben note. Le tribù poterono avere in origine, nel periodo precedente all’ordinamento centuriato (➔ centuria), il compito di fornire la base del reclutamento dell’esercito romano; le curie rappresentavano forse il residuo della primitiva autonomia delle comunità riunitesi a formare Roma; nelle gentes, elemento fondamentale della struttura sociale romana, si raggruppavano attorno al comune culto degli antenati le famiglie ricche di tradizioni e potenza economica (fondamentalmente agraria), che costituivano, in virtù della riunione collegiale dei capigente (patres, patrizi), il senato. La plebe, la moltitudine dei Romani privi dei fondamentali diritti politici, religiosi e sociali, costituì a lungo l’elemento antagonista del patriziato cui cercò, attraverso una lotta secolare, di strappare la piena parità nella vita cittadina. Il predominio patrizio sembra sia stato indebolito dagli ultimi re etruschi, i quali, con il riconoscimento di nuove gentes di origine plebea, con l’introduzione dell’ordinamento militare centuriato e con l’avocare a sé molti poteri e privilegi religiosi e politici, attuarono una politica in certo senso democratica, contro cui il patriziato reagì. Nella caduta della monarchia e nel nuovo ordinamento repubblicano, in cui le rigide distinzioni di classe furono restaurate e la monarchia vitalizia sostituita da una duplice monarchia annuale (i consoli) riservata ai patrizi, si può scorgere la riaffermazione della forza e dei privilegi della classe superiore contro le gentes di origine plebea e la plebe stessa.
La tradizione pone la cacciata di Tarquinio il Superbo nel 509. Le vicende che portarono all’affermarsi della Repubblica, determinarono per Rroma un periodo di crisi per l’indebolirsi della potenza esterna e l’aggravarsi dei contrasti interni. Gli Etruschi recarono un grave colpo alla città con la spedizione di Porsenna; i centri della Lega latina si sottrassero all’egemonia di Roma e solo dopo una difficile guerra si poté venire a un’alleanza (foedus Cassianum, 493), volta soprattutto alla difesa dai Volsci e dagli Equi.
Sul piano interno, nella prima metà del 5° sec., la tradizione, lacunosa, oscura e mista di elementi leggendari, permette di cogliere le linee generali dell’evoluzione costituzionale romana, incentrata nella lotta dei plebei contro i patrizi fondatori dell’ordinamento repubblicano per la conquista di una legislazione scritta che garantisse l’eguaglianza civile e di garanzie costituzionali contro il prepotere della classe senatoria. Nel 5° sec. un primo passo in direzione della parità sociale e politica fu l’istituzione del tribunato della plebe; la lotta della plebe era stata facilitata dalla dissoluzione dell’originaria divisione in 3 tribù, sostituita con una nuova divisione, di tipo territoriale, dovuta a necessità militari e tributarie: Roma città era stata divisa in 4 tribù urbane e il suo contado in 16 tribù rustiche (nei secoli crebbero fino a 35). Si ebbe poi la legislazione scritta, il passaggio dal diritto consuetudinario, tramandato oralmente e patrimonio dell’aristocrazia e del sacerdozio romano, alla codificazione delle leggi, cui provvide nel 451 un collegio di 10 magistrati patrizi (decemviri) e l’anno successivo un decemvirato misto, con 5 membri plebei. Frutto del lavoro furono 12 tavole di bronzo nelle quali erano incise le leggi: codice considerato sempre la base di tutto il diritto romano.
Nel 4° sec., al consolato fu spesso sostituito un collegio di tribuni militum consulari potestate, carica alla quale aveva accesso la plebe. L’ammissione al tribunato consolare portò i plebei a poter rivestire la questura e da questa a entrare nel senato. Nel 367 a.C. una delle leggi Licinie-Sestie sancì che dei due consoli annuali uno dovesse essere plebeo; poi tutte le altre cariche, dittatura (356), censura (351), pretura (337), collegi dei pontefici e degli auguri (lex Ogulnia, 300) furono aperte alla plebe. La parificazione dei due ordini fu piena quando le adunanze della plebe (concilia plebis tributa), risalenti almeno all’epoca dell’istituzione delle tribù urbane e rustiche, divennero giuridicamente valide quanto i comizi curiati e centuriati: la lex Publilia del 339 sembra rendesse vincolanti per tutto il popolo romano le deliberazioni dei concilia della plebe, che divennero giuridicamente perfetti: la legislazione romana acquistava una nuova sede, i comizi tributi, dove l’iniziativa spettava ai tribuni.
La trasformazione dei comizi centuriati (dell’esercito in armi) in comizi di cittadini divisi a seconda del censo (che costituiva il fondamento della ripartizione degli oneri militari, i maggiori spettando alle classi alte) portò alla formazione di un’assemblea nella quale le centurie composte dai cittadini di censo più elevato erano numericamente prevalenti sulle altre: è l’ordinamento centuriato dei cittadini che la tradizione faceva risalire al re Servio Tullio, ma che si ritiene dati al 4° secolo. Si realizzò così tra i due comizi (tributi e centuriati: quelli curiati avevano ormai funzioni ridotte) e il senato un complesso sistema di equilibrio tra le classi, nel quale però la predominanza del vecchio patriziato e, soprattutto, della più recente nobiltà d’origine plebea, si attuava pienamente.
Nel 5° sec., vinti i Volsci e gli Equi, Roma combatté contro Veio una guerra conclusasi, dopo lungo assedio, con la caduta della città etrusca (396) per opera del dittatore M. Furio Camillo. La vittoria su Veio era stata resa possibile anche dall’indebolimento della potenza etrusca, causato dalla pressione dei Celti (Galli) che attorno al 400 si erano estesi nella pianura del Po rafforzandosi in Emilia. Intorno al 390 nuove tribù celtiche attaccarono l’Etruria e mossero contro Roma; battuti i Romani al fiume Allia, i Galli conquistarono la città (salvo la rocca Capitolina) e non si ritirarono se non dopo averla devastata e incendiata. La sconfitta di Roma provocò il disgregarsi della Lega latina; restaurata con notevole sforzo l’egemonia, i Romani sottomisero le città etrusche di Cere, Tarquinia, Faleri, estendendo il proprio dominio diretto o indiretto, attraverso la deduzione di colonie o patti di alleanza, dai Monti Cimini a Terracina: nel 348 un trattato con Cartagine (preceduto forse da un altro, alla fine del 6° sec.) riconosceva i confini del dominio romano verso S.
Nel corso del 5° sec., nell’Italia centro-meridionale si era andata affermando la potenza dei Sanniti, a danno soprattutto delle città italiote della Campania. I Sanniti del centro, legati ai Frentani, costituirono una forte unità politica, simile nella struttura alla Lega romano-latina; contro questa Roma dovette affrontare una lotta che durò in varie riprese oltre 50 anni. Le guerre sannitiche misero a dura prova la compattezza del dominio romano; i Sanniti riuscirono a farsi alleati gli Etruschi e i Galli e, in certi momenti, popoli legati a Roma. In seguito alle vicende delle guerre sannitiche scoppiò la rivolta dei Latini, che terminò con un ulteriore rafforzamento di Roma e con la dissoluzione della Lega latina (338), sostituita da una serie di alleanze stipulate direttamente tra Roma e le singole città, cui fu vietato di allearsi tra loro. Al termine di questi conflitti, tra gli Stati mediterranei ed ellenistici la federazione romano-italica era superata solo dall’impero di Cartagine e dai regni di Egitto e di Siria.
Complesse vicende politiche e militari dell’Italia meridionale portarono frattanto Roma a uno scontro con Taranto. La città greca si era procurata l’alleanza di Pirro re d’Epiro, che sbarcò in Italia nella primavera del 280: ne seguì una guerra (➔ Pirro) nella quale Roma subì pericolose sconfitte, finché, dopo varie vicende, constatato che non riusciva a piegare la forza militare e politica dei Romani, Pirro tornò in Grecia (275). Taranto si arrese nel 272 e dovette entrare nella federazione italica, seguita da Reggio nel 270 e, tra il 272 e il 265, da Bruzi, Lucani, Sanniti, Piceni, Umbri, Iapigi: nei decenni seguenti alla guerra di Pirro, Roma aveva unificato la penisola.
Il sistema del dominio romano era già allora complesso: non esisteva, né esistette a lungo, una struttura uniforme del dominio che era fondato su tre tipi fondamentali di rapporti: città con piena cittadinanza (colonie), municipi, città alleate (socii). In realtà, le sfumature dell’applicazione di questi concetti giuridici erano numerose. I municipi potevano godere di maggiori o minori diritti, e così le città alleate, le cui autonomie amministrative e politiche variavano da caso a caso. L’elemento che stringeva saldamente questo complesso organico, derivato dalla federazione romano-italica e ormai centrato in Roma, era il dovere militare, che per tutti i centri del dominio romano era regolato o dalla legge stessa di Roma (per le colonie e i municipi) o dai singoli trattati di alleanza con le città socie, tenute, in diversa misura, a fornire le truppe ausiliarie e, quelle costiere, navi e ciurme. Il processo di latinizzazione dell’Italia proseguì senza interruzione; la superiorità militare e politica di Roma era rafforzata e giustificata dall’efficacia del suo sistema giuridico che si andava spontaneamente affermando, recando miglioramenti delle condizioni civili.
Dalla metà del 3° sec. alla metà del 2°, Roma, che aveva già unificato la penisola, divenne la prima potenza del mondo antico, come è indicato nella fig., dove sono riportati i vari domini presenti nell’area mediterranea: in un secolo fu annientato l’impero cartaginese e vennero distrutti o gravemente minati i regni ellenistici. Le forze tradizionali del mondo mediterraneo, Cartaginesi e Greci, scomparvero e la struttura politica del mondo antico fu interamente rinnovata. Tali eventi ebbero il risultato di trasformare dall’interno la società e la civiltà romane: a questo periodo di espansione seguì un secolo di lotte e guerre civili, dalle quali il carattere della Repubblica patrizio-plebea uscì profondamente cambiato, anche prima che la trasformazione si manifestasse esteriormente con la fondazione della monarchia di Cesare e del principato di Augusto.
Fin dal 7°-6° sec. Cartagine aveva esteso sul Mediterraneo orientale il suo impero ‘commerciale’, sorto e fondato in virtù dei traffici nei quali i Fenici detenevano il primato. L’urto con Roma, con la quale Cartagine aveva avuto fino alla metà del 3° sec. relazioni di amicizia, divenne inevitabile dopo che le guerre di Pirro avevano portato Roma a unificare le penisola e a raggiungere l’estremità della Calabria, venendo a contatto con la Sicilia, della quale Cartagine divideva il dominio con Siracusa e nella quale aveva fortissimi interessi. Lo scoppio della prima guerra punica (264 a.C.), con il passaggio dell’esercito romano in Sicilia, costituì il momento decisivo della storia di Roma: quello in cui i limiti ancora esistenti alla potenza romana, la sua caratteristica esclusivamente terrestre e i suoi interessi esclusivamen;te italici, caddero, e le necessità militari e politiche della guerra contro Cartagine, potenza dagli interessi e dall’influenza tanto vasta, diedero allo Stato romano l’impulso espansivo che ne caratterizzò poi la vita fino all’Impero. Il contatto con l’impero cartaginese e le sue alleanze favorì la conoscenza del mondo ellenistico-orientale, non più solo sul piano culturale e della civilizzazione, ma anche sul terreno politico.
Le vicende della prima guerra punica (264-41; ➔ punico), vinta da Roma soprattutto per merito della flotta, prima inesistente e creata per l’impossibilità di battere i Cartaginesi nelle loro munitissime piazzeforti siciliane senza bloccare i mari, dimostrarono che Roma ormai non aveva nel Mediterraneo occidentale rivali con i quali non potesse competere. Con la riduzione a provincia della Sicilia (seguita poi da Sardegna e Corsica), Roma stabilì il suo dominio oltremare e aggiunse al suo già complesso sistema di egemonia una nuova creazione, la provincia. Cartagine, le cui risorse economiche e politiche non si erano esaurite con la guerra, cercò di riconquistare in Spagna il primato perduto nel Mediterraneo centrale. Dalla Spagna mosse l’esercito di Annibale quando, dopo la rinascita della potenza cartaginese, Roma, decisa a tenere fermo il confine dell’Ebro e a non permettere che la città rivale acquistasse ulteriore influenza, accettò il nuovo conflitto. La prima guerra punica aveva dimostrato che Roma aveva il dominio del mare, la seconda (218-201 a.C.) dimostrò che Cartagine era in grado di battere Roma nella guerra terrestre, ma che l’organismo politico della federazione romano-italica era più forte dell’oligarchia cartaginese e in grado di affrontare una guerra di logoramento, a differenza di Cartagine che mancava di una tradizione militare cittadina (l’esercito era quasi interamente mercenario). La lunga serie di sconfitte che Annibale inflisse a Roma, portando la guerra nella penisola fin sotto le mura della città, culminò a Canne (216) con la distruzione dell’esercito di due consoli; tuttavia il generale cartaginese non riuscì a realizzare il fine che si era proposto: sollevare gli alleati e i sudditi della penisola contro Roma disfacendone la secolare opera di unificazione.
Alla fine della guerra, che si concluse non in Italia ma in Africa, Roma aveva abbattuto la forza politica di Cartagine e rinsaldato la sua dominazione, tanto da essere subito in grado, nonostante le condizioni di forte logoramento, di affrontare i nuovi problemi che la Grecia e l’Oriente le ponevano. Nel corso della guerra, l’aristocrazia romana aveva espresso una classe dirigente militare, in particolare nella figura di Publio Cornelio Scipione Africano, all’altezza dei compiti che Roma doveva affrontare.
Durante la seconda guerra punica, Cartagine si era procurata l’alleanza di Filippo V di Macedonia; le guerre macedoniche (➔ Filippo V; Macedonia) e la guerra di Siria condotta contro Antioco III il Grande (➔ Antioco I) furono conseguenza di quel primo contatto. In questi conflitti, che occuparono il quarantennio successivo alla fine della seconda guerra punica, Roma dovette affrontare problemi politici interamente nuovi. L’urto con Cartagine aveva dato a Roma il dominio del Mediterraneo occidentale; il mondo greco-orientale rimaneva ancora fuori dalla sua sfera di interessi e le era ancora poco noto. L’intrico delle lotte tra le città greche, il conflitto di interessi tra Macedonia e Siria, l’indebolirsi della potenza dell’Egitto tolemaico, diedero modo a Roma, entrata nel primo conflitto con la Macedonia per limitarne la potenza crescente che faceva temere per i recenti acquisti illirici, di sviluppare una complessa e non sempre chiara politica di egemonia, valendosi delle vittorie militari per affermarsi come arbitra e pacificatrice della Grecia e dell’Egeo.
Alla conquista dell’Oriente Roma fu tratta da una serie di eventi politici nei quali l’iniziativa fu quasi sempre dalla parte greca o macedone o siriaca; la mancanza di un piano preordinato a lunga scadenza, caratteristica dell’espansione romana in tutta l’età repubblicana, fino a Pompeo e Cesare, si dimostrò nel corso delle guerre macedoniche, che ebbero sostanzialmente il carattere di risposta a offese o pericolose iniziative degli avversari, non senza che i Romani cominciassero a trarne vantaggi economici. Il compito che gran parte della classe dirigente romana, o per filellenismo o al contrario per diffidenza e avversione alle cose greche, si era proposto, e cioè di controllare la Grecia e il Vicino Oriente senza mescolarvisi direttamente, fallì.
Alla fine delle guerre macedoniche (168 a.C.) il dominio romano era direttamente stabilito in Grecia e nell’Egeo e il sistema degli Stati asiatici largamente influenzato dagli interessi romani; dopo la repressione dell’ultima ribellione della Grecia (146), tutte le leghe di città greche furono disciolte; le comunità che non avevano partecipato alla guerra, mantenute nella condizione di alleate, le altre ridotte a tributarie e sottoposte ai governatori della costituita provincia di Macedonia. Nello stesso 146, la terza guerra punica, voluta soprattutto dai ceti commerciali romani, finì con la distruzione di Cartagine, che scomparve come centro abitato.
Nel 126, con l’assoggettamento del regno di Pergamo e la creazione della provincia d’Asia, il dominio romano comprendeva, oltre l’Italia, la Gallia cisalpina (ampiamente latinizzata e colonizzata nel 2° sec.), l’Istria e la Dalmazia (sottomesse tra il 180 e il 160), 7 province: Sicilia, Sardegna-Corsica, Spagna Citeriore e Spagna Ulteriore (risalenti alla seconda guerra punica), Macedonia, Africa e Asia. Il dominio indiretto si estendeva, in Africa e Asia, a regni alleati e a città libere alleate; i commerci romani arrivavano ormai in quasi tutto il mondo conosciuto; i contatti con la civiltà ellenistica e orientale si facevano sempre più importanti per la vita di Roma, divenendo un fattore fondamentale della vasta trasformazione della società e della civiltà romane iniziata un secolo prima.
Raggiunta nel 3° sec. la piena parità dei diritti tra plebe e patriziato, si era formata la nuova classe dirigente patrizio-plebea, che aveva condotto le grandi guerre dell’unificazione e del dominio esterno. La complessità dei problemi di natura politica, economica, militare che Roma aveva dovuto affrontare aveva prodotto il declino dell’elemento contadino-popolare come forza di governo, espresso nei comizi, a favore del senato divenuto, per la sua omogeneità e capacità di iniziativa unitaria, il centro onnipotente della repubblica. La seconda guerra punica, in particolare, che aveva portato nelle colonie romane e latine e tra le città alleate la devastazione e lo spopolamento e richiesto ai contadini, nerbo dell’esercito, uno sforzo quasi insostenibile, ebbe come conseguenza un indebolimento dell’elemento popolare di Roma contribuendo al prevalere del governo senatorio, già giustificato da ragioni politiche. Non mancarono nel senato esponenti favorevoli a una politica democratica, ma il processo generale fu quello di chiusura e irrigidimento dell’oligarchia nobiliare, che dalla crisi economica delle masse contadine traeva motivo per un sempre maggiore arricchimento con l’acquisto a basso prezzo di terre o con la confisca di beni dei contadini indebitati. Si avviava così la formazione del latifondo, e la situazione sociale tendeva ad aggravarsi per l’aumentare, in seguito ai successi bellici, degli schiavi nel lavoro della terra a danno dei salariati e clienti. Il possesso dell’ager publicus, teoricamente aperto a tutti, si limitava sempre più ai grandi proprietari che avevano la possibilità di sfruttarlo. Alla questione agraria, centrale nella storia dell’ultima repubblica, se ne collegava un’altra, anch’essa frutto delle grandi guerre: la questione degli alleati italici, che pur avendo contribuito alle vittorie da cui era nato il dominio universale romano, erano esclusi dalla cittadinanza romana, titolo indispensabile per partecipare alla distribuzione delle terre e del bottino e alla lucrosa amministrazione delle nuove province. La questione agraria e quella della cittadinanza romana furono ignorate a lungo dall’aristocrazia romana, intenta a sistemare il governo dei territori conquistati e a dirimere nel suo interno le lotte per il potere. Accanto all’aristocrazia fondiaria si veniva formando, frutto anch’essa delle conquiste, la nuova classe del capitale mobiliare, censita come classe dei ‘cavalieri’: appaltatori, esattori, commercianti (il commercio era vietato ai senatori) e industriali, un ceto destinato a divenire, per secoli, quello dominante e caratteristico della società romana; e intanto, nella seconda metà del 2° sec., in forte contrasto con l’aristocrazia tradizionale e per questo possibile strumento di lotta per rivolgimenti in senso democratico.
Nel secolo che va dal tribunato di Tiberio Gracco (133) alla battaglia di Azio (31), con un processo dapprima lento e confuso, poi sempre più rapido ed evidente, le istituzioni, la società e l’ordinamento dello Stato romano mutarono profondamente attraverso guerre civili e lotte politiche. Il problema sociale delle classi rurali, private delle terre in seguito alla formazione del latifondo, della plebe romana in costante aumento, della nuova e potente classe dei cavalieri, la pressione dei socii italici desiderosi dei privilegi connessi con la cittadinanza romana, la questione del rimodernamento e riadeguamento dell’esercito sono già tutti presenti nelle lotte che si scatenarono attorno alle proposte riformatrici di Tiberio e Gaio Gracco; i motivi che animarono l’azione dei due tribuni non si estinsero con la loro sconfitta politica e personale, ma in diverso modo durarono nel corso del 1° sec. a.C., finché trovarono in Cesare chi, raccogliendo in sistema le riforme già attuate e quelle nuove da lui stesso promosse, li risolse in modo definitivo. Cesare trasse dalla secolare lotta sociale e politica conseguenze dalle quali la Repubblica romana uscì interamente trasformata, dissolta in una monarchia.
Nella costituzione concepita e attuata da Augusto, questa assunse caratteri particolari: le forme giuridiche repubblicane non furono distrutte, anzi in certo modo restaurate, cosicché il trapasso dalla Repubblica all’Impero non fu una rottura giuridica, ma un mutamento profondo dello spirito della costituzione, frutto della conclusione delle guerre civili e della pacificazione delle classi sotto l’egemonia personale del principe. Ciò spiega perché, mentre alla coscienza dei contemporanei difensori della Repubblica senatoriale, e dei loro discendenti ideali, l’avvento di Cesare e poi del principato di Augusto apparve come un’usurpazione violenta e come la fine della libertà repubblicana, in effetti si è potuto parlare di una ‘diarchia’ tra imperatore e senato; la stessa nozione giuridica fondamentale della sovranità conservò sempre nell’Impero il suo originario carattere popolare (fonte di legittimità del potere imperiale rimarrà la delega dei poteri da parte del populus, unico sovrano ideale).
Il carattere insieme violento e tradizionalista della rivoluzione romana è il portato della complessità e contraddittorietà della storia della Repubblica nel 1° sec. a.C. Durante le lotte per il potere, l’ideale della difesa della tradizione e del buon ordine repubblicano-senatoriale non fu mai dimenticato, e in suo nome si svolsero le maggiori iniziative rivoluzionarie, la dittatura di Silla come quella di Cesare, che nello scontro con Pompeo e il senato cercò sempre di attribuire agli avversari la responsabilità d’aver infranto la legittimità repubblicana.
In seguito al fallimento dei tentativi della parte più illuminata dell’aristocrazia romana di affrontare il problema agrario, Tiberio Gracco, tribuno nel 133, iniziò un’opera riformatrice incentrata sulla legge agraria che prevedeva la distribuzione di terre sulla base della revisione del regime dell’ager publicus. Per far passare la legge, Tiberio dovette ricorrere all’espediente rivoluzionario di far deporre un tribuno che aveva opposto il veto; il tentativo di essere eletto nuovamente per il 132 provocò disordini nei quali fu ucciso. Il problema agrario tornò in primo piano con il tribunato del fratello minore di Tiberio, Gaio Gracco (123). Nella ricerca di quell’appoggio economico e politico che era mancato al fratello, Gaio cercò alleanze con i cavalieri e i socii italici, legando la sorte della causa popolare alla contesa tra cavalieri e patrizi e al problema dell’estensione della cittadinanza romana. Rieletto tribuno nel 122, condusse avanti la propria iniziativa in termini sempre più rivoluzionari; l’anno seguente, nel violento contrasto con il senato, fu ucciso. I suoi progetti di estensione della cittadinanza romana a tutti gli Italici, e di deduzione di colonie oltremare, fallirono; ma i temi sociali e politici che aveva posto non scomparvero con lui. Mentre la lotta politica continuava ed era in corso un processo di reazione senatoriale, la guerra di Giugurta (ca. 111-105) e il pericolo dell’invasione delle tribù germaniche dei Cimbri e dei Teutoni costrinsero Roma a volgere nuovamente la propria attenzione all’esterno.
Come generale vincitore delle due campagne emerse Gaio Mario, uno dei due protagonisti della prima guerra civile romana. Per sopperire alle urgenti necessità del momento, Mario ricorse all’arruolamento dei proletari, trasformando questo sistema eccezionale in istituto stabile; con la riforma mariana l’esercito, anziché di piccoli contadini proprietari, fu composto soprattutto di nullatenenti arruolati volontariamente, cui l’assegnazione di una terra rappresentava il premio alla fine della campagna. Si venne così delineando la figura del generale che lega a sé l’esercito, quale garante della futura sorte economica dei soldati. Rafforzato nel potere dalle vittorie e da una serie di consolati, Mario appoggiò la parte democratica: i successivi episodi della proposta di riforma agraria del tribuno Saturnino (100) e dell’estensione della cittadinanza agli Italici di Livio Druso (91) mostrano l’indissolubilità dei problemi agrario e italico. Alla morte violenta di Druso, gli Italici si ribellarono organizzandosi in una confederazione e dando inizio alla guerra sociale contro Roma (➔ sociali, guerre). L’insurrezione fu domata (90-89) con dure campagne condotte da Mario e da L. Cornelio Silla, generale e uomo politico aristocratico che si era già segnalato nella guerra di Giugurta. Alla fine agli Italici fu concessa la cittadinanza (89 a.C.) ma non la piena equiparazione nei diritti politici; rimase quindi un elemento di malcontento sul quale giocò la demagogia dei seguaci di Mario. La reazione senatoriale, guidata da Silla, divenne più forte; in seguito all’esilio di Mario (88), mentre Silla si trovava in Oriente a combattere la prima guerra mitridatica contro Mitridate VI Eupatore Dioniso (➔ Mitridate V), si ebbe con il consolato di Cinna e il ritorno di Mario una reazione popolare, con stragi di avversari. Reduce dall’Oriente (83), Silla distrusse la forza politica e militare della parte popolare e, come dittatore (82-79), intraprese una spietata persecuzione degli avversari del senato e una serie di riforme che rimettevano il potere interamente nelle mani del patriziato, colpendo i cavalieri e togliendo ai popolari il diritto d’iniziativa tribunizia; deposto volontariamente il potere, un anno dopo (78) morì.
L’opposizione popolare risorse: il senato dovette subito affrontare le conseguenze della guerra civile, in Italia con il tentativo di insurrezione democratica di Lepido, in Spagna con la lunga guerra (80-72) contro il mariano Sertorio che aveva creato un anti-Stato romano. Tale guerra, condotta e vinta da Pompeo, significò l’affermazione personale di questo generale e politico di parte senatoria, emerso già durante la guerra civile dell’83-82. Rispettoso dell’ordine repubblicano, ma deciso a conquistare un’egemonia di fatto, Pompeo, reduce della Spagna, alleatosi con Crasso, l’uomo più ricco di Roma e vincitore della rivolta di schiavi che aveva sconvolto la penisola (➔ Spartaco), ottenne con lui il consolato (70) e compì una serie di riforme in senso antisillano, senza ledere il principio dell’autorità senatoria, ma ripristinando il potere dei cavalieri e le antiche prerogative tribunizie, tanto da apparire il naturale mediatore tra l’oligarchia senatoria e le nuove forze della finanza e delle masse popolari. Contro la volontà del senato e in virtù di una rogazione tribunizia, Pompeo ottenne (67) il comando supremo, con poteri militari straordinari, della guerra contro i pirati che, nella generale carenza di un’efficace polizia dei mari e con la connivenza dei grandi mercanti di schiavi di cui erano i principali fornitori, avevano raggiunto notevole potenza, costituendo quasi un impero marittimo con le basi in Cilicia e a Creta. Condotta a termine con successo la guerra dei pirati, Pompeo ottenne (lex Manilia, 66) il comando della seconda guerra contro Mitridate, iniziata nel 74 e già quasi portata a termine da Lucullo. Concluso il conflitto (64), Pompeo diede una nuova sistemazione all’Asia con l’aggiunta della nuova provincia di Siria. Tornato in Italia, al culmine del prestigio militare, Pompeo si sottomise all’autorità del senato e sciolse l’esercito. Privatosi della forza militare, subì l’umiliazione di non vedere accolte dal senato le sue richieste di distribuzione di terre ai soldati e di ratifica dell’ordinamento dell’Asia. L’atteggiamento remissivo, non conveniente nell’immediato a Pompeo, creò tuttavia la base del credito che desiderava avere presso il senato: quando questo in seguito si sentì in pericolo, egli poté apparire come il naturale protettore e salvatore dell’ordine repubblicano.
Nella politica romana andava intanto emergendo Cesare, di nobile famiglia, più o meno apertamente capo delle forze popolari. La prima iniziativa politica di Cesare fu una proposta di legge agraria che, contemplando notevoli poteri finanziari e politici per la commissione incaricata di attuarla, e prevedendo l’alienazione di tutti i demani extra-peninsulari, parve rivoluzionaria al senato: nel 63, anno del suo consolato, Cicerone fece cadere la proposta e poco dopo, sventando la congiura rivoluzionaria e anarcoide di Catilina, sembrò aver salvato il regime senatoriale. Tuttavia Pompeo, alla ricerca di appoggi su cui fondare la propria egemonia, e Cesare, le cui mire personali si andavano precisando, unitisi con Crasso nel ‘primo triunvirato’ (60), alleanza senza base costituzionale ma di grande forza politica, ottennero l’approvazione di una serie di provvedimenti di distribuzione di terre ai veterani di Pompeo e la ratifica dell’ordinamento dell’Asia, conseguendo una sostanziale vittoria sul senato. Come stabilito nei patti, Cesare ottenne il consolato per l’anno 59 e, con provvedimento del tutto nuovo, il comando militare straordinario per la durata di cinque anni nell’Italia settentrionale e nella provincia della Transalpina, minacciate indirettamente da nuovi movimenti dei Germani: con il mandato quinquennale Cesare si assicurava una base duratura di potere militare, maggiore di quella di cui aveva goduto Pompeo. Durante il consolato Cesare procedette alla distribuzione su vasta scala delle terre in Italia, avviando a risoluzione il problema agrario, e a un’organizzazione dell’amministrazione delle province la quale, pur non ostacolando la classe dei cavalieri (rappresentata da Crasso) che dalle province traeva cospicui proventi, metteva ordine in uno dei settori più delicati dell’Impero romano.
Negli anni 58-51, con una serie di campagne che lo portarono ad attraversare il Reno e la Manica, Cesare conquistò la Gallia e la ridusse a provincia romana. Le conseguenze della conquista di Cesare furono decisive per la storia di Roma e del mondo occidentale: attraverso l’inclusione della Gallia nella compagine romana, si pose la premessa per lo spostamento verso il Nord del centro dell’Impero occidentale che, fatto realtà in tarda età imperiale, si tradusse poi nell’Europa medievale e moderna. Il prestigio politico e militare di Cesare in seguito alle vittorie galliche oscurò quello stesso di Pompeo. Negli anni dell’assenza di Cesare, la situazione politica a Roma si era evoluta: Crasso e Pompeo si erano allontanati l’uno dall’altro, ma Cesare, riunendoli a convegno a Lucca (56), ricreò la solidarietà del triunvirato sulla base di una spartizione dell’egemonia nell’Impero: a Crasso era affidato l’Oriente con una spedizione contro i Parti, a Pompeo l’Italia con la Spagna e l’Africa, a Cesare veniva prorogato il comando militare. Pompeo e Cesare ottenevano di nuovo il consolato per l’anno 55. Il fallimento della spedizione di Crasso e la sua morte nella battaglia di Carre (53) tolsero al triunvirato un elemento di equilibrio, e Cesare e Pompeo si trovarono l’uno di fronte all’altro. Roma era travagliata da torbidi: Cicerone e Catone erano stati allontanati dall’Italia, dove Clodio conduceva con bande armate una campagna di violenze anti-senatoriali. Dopo l’uccisione di questo per opera dell’aristocratico Milone, Pompeo fu invitato dal senato a ristabilire l’ordine ed eletto console unico per l’anno in corso. Questa data segna il riavvicinamento decisivo tra Pompeo e il senato e l’inizio della definitiva rottura con Cesare. Nei due anni successivi, attraverso una serie di intrighi e tentativi di compromesso, il conflitto esplose.
Dichiarato nemico della patria per essersi rifiutato di liquidare l’esercito, Cesare marciò verso Roma (49) con una sola legione e, con una rapida campagna, costrinse Pompeo e gran parte del senato ad abbandonare l’Italia per proseguire la guerra nella penisola balcanica, poggiando sull’Oriente e mobilitando le forze fedeli in Spagna e in Africa. Nel periodo trascorso a Roma, Cesare diede inizio alla sua opera di riformatore dell’ordinamento repubblicano e preparò la guerra. Nel 48 a Farsalo, in Tessaglia, avvenne lo scontro decisivo con Pompeo che, vinto, si rifugiò in Egitto dove fu ucciso dal re Tolomeo.
Battute in una serie di campagne in Asia (47), in Africa (46), dove morì Catone, e in Spagna (45) le forze dei pompeiani, Cesare tornò a Roma, dove si dedicò con energia a definire il nuovo assetto dello Stato romano portando alle logiche conseguenze i risultati di decenni di lotte politiche, le più aspre che Roma avesse mai conosciute, e di guerre civili. Il potere personale assunto da Cesare ebbe i caratteri di una monarchia: egli si pose alla testa dello Stato come dittatore a vita e imperator, riserbando per sé una serie di privilegi nella nomina delle cariche, nella proposta delle leggi e nella facoltà di riformare l’amministrazione nei vari campi. Dei poteri straordinari si avvalse per riordinare l’amministrazione delle province, sulle quali stabilì un controllo eliminando abusi e unificando i sistemi di governo, e per stabilire colonie militari, sia nelle province, specie in Gallia, sia in Italia. A Roma il senato si ridusse a poco più che un consiglio, perdendo di fatto, se non di diritto, il potere di governo; in esso Cesare introdusse un gran numero di nuovi senatori di censo equestre e molti di origine provinciale, gallici e spagnoli, per unificare al massimo le classi e le regioni dell’Impero, diminuendo i privilegi dell’Italia e di Roma.
La concezione dell’Impero di Cesare andava contro gli interessi e le tradizioni egemoniche romane e italiche; la sua concezione della monarchia era sostanzialmente di tipo ellenistico, universalistica e cosmopolitica. Se intendesse realmente assumere il titolo di re, inviso ai Romani, è dubbio; certamente, un simile disegno gli fu attribuito dai nemici politici, e l’accusa di tirannide coalizzò contro di lui gli elementi repubblicani più intransigenti. Mentre si accingeva a partire per una spedizione in Oriente, Cesare cadde vittima di una congiura, ucciso nella Curia il 15 marzo del 44. La tradizione antica considera Cesare come il primo imperatore; tuttavia, la sua politica di livellamento di Roma con le province, la concezione assolutistica del potere e la spregiudicatezza nel trattare l’ordinamento formale-giuridico della Repubblica lo avvicinano più ai tardi imperatori che a quelli che, a cominciare da Augusto, ressero l’Impero di Roma nel 1° e 2° sec. d.C. (v. tab.).
Alla morte di Cesare seguirono torbidi in Roma che sfociarono in una nuova guerra civile nella quale, come in quella tra Cesare e Pompeo, fu coinvolto tutto l’Impero. Più propriamente, si trattò di due guerre civili, l’una naturale conseguenza dell’assassinio del dittatore, nella quale il senato si divise tra i cesariani e i repubblicani, l’altra, maturata dal contrasto tra Ottaviano e Antonio, che era poi contrasto tra due modi di intendere l’eredità di Cesare, nella quale il senato si schierò in maggioranza a fianco di Ottaviano.
L’eredità politica di Cesare fu raccolta dal suo luogotenente Antonio mentre Roma era in fermento, divisa tra la parte senatoriale che vedeva nei tirannicidi Bruto e Cassio i liberatori della repubblica, ma non osava scoprirsi temendo il popolo, e i cesariani che non intendevano considerare perduta la causa della rivoluzione. La posizione di successore di Cesare fu presto contestata ad Antonio da Ottaviano, il futuro Augusto, il figlio adottivo ed erede universale di Cesare, giovanissimo ma già capace della più spregiudicata politica. Tra i due si realizzò un compromesso: una serie di iniziative militari in Italia (44-43), condotte da Antonio, distrusse la forza di Bruto e Cassio nella penisola, costringendoli in Oriente dove già si erano messi in salvo dopo le idi di marzo. Cicerone assunse su di sé il peso di una battaglia politica contro Antonio; ma la costituzione del secondo triunvirato tra Antonio, Ottaviano e Lepido (43), che a differenza del primo fu ratificato dal senato e assunse configurazione giuridica di magistratura (triunviratus reipublicae constituendae), investendo i tre del compito supremo di riordinare lo Stato, segnò la fine di ogni equivoco: cesariani e repubblicani furono decisamente gli uni di fronte agli altri, e mentre i triunviri scatenavano una persecuzione contro i repubblicani – in essa perdette la vita Cicerone – ricorrendo alle proscrizioni, i repubblicani preparavano in Oriente la guerra: Cassio in Siria e nell’Asia Minore, Bruto in Macedonia, Tracia e nella provincia di Asia, con 13 legioni e una numerosa flotta in appoggio. A Filippi (42) l’esercito di Cassio e Bruto si scontrò con quello, di pari forza, di Ottaviano e Antonio: la vittoria dei triunviri fu completa, i tirannicidi caddero in battaglia e i triunviri rimasero arbitri dell’Impero.
Mentre Antonio si accingeva al compito di procurare forze in Oriente, Ottaviano in Italia dovette domare un’insurrezione di popolazioni italiche vessate dai mercenari dell’esercito triunvirale (guerra di Perugia, 41-40) a capo del quale si era posto Lucio Antonio, fratello del triunviro, che intendeva combattere, in favore del fratello, il già evidente strapotere di Ottaviano in Italia. Questo primo attrito tra i due triunviri, nel quale si inseriva il pericolo incombente della flotta repubblicana comandata dal figlio di Pompeo, Sesto Pompeo, si risolse temporaneamente con l’incontro di Brindisi (40), dove Antonio e Ottaviano si accordarono per una spartizione dell’Impero: a Ottaviano era affidato il compito di riordinare l’Occidente, ad Antonio l’Oriente, a Lepido l’Africa. Dopo tre anni di guerra, la flotta di Sesto Pompeo fu distrutta (battaglia di Nauloco, 36); contemporaneamente Lepido, fallito un suo tentativo di strappare il merito della vittoria a Ottaviano, fu da questo esautorato e privato dell’Africa.
Antonio, in Oriente, entrato un intimo rapporto con la regina d’Egitto Cleopatra, attendeva con scarsa energia al riordinamento di questa parte dell’Impero, senza opporre una vera resistenza alla ripresa della potenza del regno dei Parti, che già dal 40 metteva in pericolo tutta l’Asia romana. Presa soltanto nel 36 l’offensiva, con un disegno strategico ricalcato sulla spedizione di Alessandro Magno, ottenne un successo parziale, riuscendo a conquistare solo l’Armenia; poté tuttavia celebrare il trionfo contro i Parti, e scelse come sede della cerimonia non Roma ma Alessandria. Questo fatto, la cui eco sfavorevole in Roma fu abilmente sfruttata dalla propaganda di Ottaviano, già rivelava quale direzione avesse preso la politica di Antonio, dominato dal fascino di Cleopatra e dal ricordo della politica orientalizzante di Cesare. Antonio andò oltre: Cleopatra e Cesarione, un figlio che la regina aveva avuto da Cesare, furono da lui proclamati sovrani d’Egitto, con il titolo orientale di ‘re dei re’, e al regno furono assegnati Cirene, la Siria e parti dell’Asia Minore. Una grande parte dell’Impero andava così perduta per Roma: Ottaviano, che poteva ora presentarsi come il garante dell’unità tradizionale dell’Impero, centrata in Italia e a Roma, preparò la guerra per conto della repubblica, ufficialmente dichiarata solo contro Cleopatra evitando così formalmente il nome di guerra civile. Nella battaglia di Azio (31) la vittoria di Ottaviano fu completa; Antonio e Cleopatra si suicidarono e l’Egitto fu ridotto a provincia, con uno status particolare.
Nel 29 Ottaviano tornò a Roma e, celebrato il trionfo, chiuse le porte del tempio di Giano a significare che l’era delle guerre era finita. Subito intraprese la sua opera di assestamento dell’Impero e dello Stato romano, con la quale si considera conclusa la storia repubblicana e iniziata l’età imperiale: d’ora in poi lo Stato romano avrà come centro la figura di un monarca e non più l’assemblea del senato e i comizi popolari.
Il compito cui Ottaviano, poi Augusto, attese nei primi anni del principato (27 a.C. - 14 d.C.) fu quello di stabilire legalmente le basi del suo potere, senza alterare i lineamenti fondamentali della costituzione repubblicana, tanto da apparire conservatore e restauratore nel momento stesso in cui, in realtà, rinnovava la struttura dello Stato. Principi fondamentali della sua abile politica furono quelli di non creare alcuna vera nuova magistratura, ma di potenziare il carattere di quelle tradizionali per quanto si riferiva alla sua persona. L’imperio proconsolare perpetuo gli attribuì il comando di tutti gli eserciti dell’Impero; la potestà tribunizia, conferitagli a vita, rese inviolabile la sua persona e gli diede poteri straordinari nel senato e nell’assemblea popolare; il pontificato massimo e l’augurato lo investirono del diritto di regolare e sorvegliare la religione di Roma, compito importante perché il consolidamento della religione tradizionale era momento centrale della sua opera di restauratore dell’ordine dello Stato. Queste cariche non si cumularono a costituire una nuova figura di magistrato, ma coesistettero in lui così da farne in tutte le principali funzioni di governo l’uomo investito di massima autorità: delle altre cariche magistratuali aveva la potestas ma con più di auctoritas, fondamento del suo potere.
I titoli di Imperatore e Augusto (da augeo «accresco», termine pertinente alla primitiva sfera sacrale) assunti come nomi, simboleggiarono il carattere militare e ‘sacrosanto’ (come colui che aumentava il benessere dei cittadini ed era quindi oggetto di devozione) del nuovo Cesare. Questa configurazione del principato augusteo si mantenne formalmente identica nei suoi successori, per almeno due secoli, fino a che, dopo la crisi del 3° sec., con Diocleziano, alla figura del principe si sostituì apertamente quella del monarca assoluto, il dominus.
Altro principio fondamentale del governo di Augusto fu che l’organizzazione dell’Impero doveva essere fondata sulle idee romano-nazionali: al cosmopolitismo di Cesare e all’indirizzo orientalizzante di Antonio, Augusto contrappose la persistenza del principio che aveva dominato la storia repubblicana, secondo il quale nell’ambito dell’Impero il primato politico, civile, militare ed economico doveva essere riservato alla stirpe latina, a Roma e all’Italia. Il privilegio della cittadinanza romana, esteso ma sempre relativamente ristretto, rimase il fondamento dello Stato; i provinciali mantennero il ruolo di sudditi; le ricchezze dell’Impero affluivano a Roma, e l’Italia era libera dai gravami tributari principali. Proprio in funzione di questo predominio romano nell’Impero, Augusto sentì che la prima necessità era di instaurare il buon governo e una retta amministrazione provinciale. Con una serie di riforme sottrasse alla corrotta gestione delle promagistrature il controllo amministrativo delle province, affiancando ai promagistrati delle province senatorie un procuratore addetto all’esecuzione delle imposte e ai demani, e istituendo il principio delle cariche remunerate creò un sistema di funzionari, efficiente burocrazia responsabile verso il principe. Accanto all’antica cassa dello Stato, l’erario, istituì la cassa imperiale, il fisco, e abolì il sistema degli appalti, disciplinando per questa via l’esazione delle imposte. Aprì inoltre la carriera amministrativa ai liberti, che d’ora in poi acquisteranno maggior peso nella vita economica dell’Impero. Alle classi senatoriale ed equestre diede modo di partecipare stabilmente al governo imperiale, attraverso l’istituzione dei legati e dei prefetti, preposti i primi all’amministrazione delle province imperiali, i secondi alle forze di polizia, all’approvvigionamento di Roma, alla guardia pretoriana. Di fronte a questo sistema di funzionari con competenze fisse e ordinati per gradi, le vecchie promagistrature repubblicane passarono in seconda linea. Con tali riforme Augusto assicurò un ordinamento stabile ed efficiente, offrendo ai provinciali e a tutto l’Impero l’autorità e la garanzia di un governo giusto e pacifico.
Diede poi un’impostazione durevole ai problemi dei confini e della politica estera. Sistemò i confini dell’Impero, che le conquiste dell’ultimo secolo avevano notevolmente ampliato, ovunque le esigenze di difesa e stabilità lo rendessero necessario. L’occupazione e pacificazione della Spagna fu completata; la regione alpina interamente conquistata, la Pannonia e la Mesia incorporate, raggiungendo così il Danubio; Galazia e Giudea furono fatte rientrare nel regime provinciale; lo Stato vassallo di Mauretania ricostituito, e riordinati quello del Bosforo Cimmerio e l’Armenia; con il regno partico fu raggiunto un accordo. Il piano di avanzare il confine germanico fino all’Elba fallì; tuttavia, le linee del Reno e del Danubio furono congiunte ad assicurare un confine continuo ed efficiente, fortemente munito.
Nell’ordinamento augusteo l’Impero risultò diviso nelle province: Betica, Lusitania, Tarraconense in Spagna; Aquitania, Belgica, Lugdunense, Narbonense nella Gallia; Sardegna, Sicilia, Rezia, Norico, Pannonia, Dalmazia, Macedonia, Acaia, Cipro e Cirene, Mesia, Asia, Bitinia, Galazia, Pamfilia, Siria, Africa e Numidia. Molte regioni conservarono lo stato di regni o territori vassalli o comunque subordinati al predominio di Roma, come la Tracia, Licia e Rodi, Cappadocia, Ponto, Paflagonia, Piccola Armenia, Commagene, Palmira, Emesa, Mauretania. La Giudea, mantenendo la sua autonomia, ricevette un procuratore, forse dipendente dal legato di Siria. Uno status a parte ebbe l’Egitto, dipendente personalmente dall’imperatore, che qui succedeva ai Faraoni e ai re della dinastia macedone: dall’Egitto proveniva gran parte delle entrate del fisco e del patrimonio personale di Augusto e dei successori.
Grandi cure Augusto rivolse all’Italia, procedendo alla divisione in regioni e alla riorganizzazione di tutti i servizi amministrativi e annonari. Aspetto innovatore dell’ordinamento augusteo fu la distinzione tra province governate dal senato con il tradizionale sistema della promagistratura, e province governate dall’imperatore con il sistema dei legati: tutte quelle nelle quali le necessità di difesa rendevano indispensabile la permanenza di un esercito, che, in virtù del proconsolato perpetuo, dipendeva direttamente da Augusto. Le province imperiali costituivano la maggior parte dell’Impero e aumentarono con le conquiste e annessioni compiute dai successori, che mantennero fermo il principio di considerare imperiali tutte le nuove acquisizioni romane. In tal modo, i confini dell’Impero, protetti da un cordone rado ma continuo di legioni (25 ai tempi di Augusto), un vero e proprio esercito stanziale permanente, erano sotto la responsabilità diretta dell’imperatore, che sull’esercito fondava il proprio effettivo potere.
Augusto attuò anche una vigorosa politica religiosa e culturale tesa a rinsaldare la tradizione romana: da lui prende nome l’età aurea della letteratura latina rappresentata da Orazio, Virgilio, Livio, Ovidio.
Già l’immediato successore di Augusto, Tiberio (14-37), nonostante il rispetto per le prerogative del senato, dovette scontare la circostanza che l’equilibrio tra senato e principato, tra ordinamento tradizionale e innovazione rivoluzionaria, realizzato nel principato di Augusto, era in realtà strettamente legato alla personalità di quest’ultimo. Buon politico e amministratore, Tiberio passò nella tradizione storica e culturale romana, elaborata nell’ambiente dell’aristocrazia senatoria, come un tiranno; per dominare le forze ostili del senato, tendente a riconquistare la perduta egemonia, ricorse in effetti a mezzi di repressione violenti. Fedele alle direttive di Augusto, come in genere tutti gli imperatori fino a Traiano, Tiberio si attenne al principio che la fase delle conquiste era finita e che le guerre esterne valevano solo per rettificare e rafforzare le linee difensive dell’Impero.
In realtà l’organizzazione finanziaria e quella militare dell’Impero di Roma, in stretto nesso tra loro, erano tali da limitare al massimo la possibilità della costituzione di grandi eserciti offensivi. Il numero delle legioni dell’esercito permanente romano si accrebbe lentamente durante la storia imperiale, ma il carattere confinario e stanziale del loro impiego si conservò sempre fino a tarda epoca, quando le invasioni barbariche resero necessaria la costituzione di un esercito mobile accanto a quello stabile dei confini. Fino a Traiano, le campagne condotte dagli imperatori o dai loro generali rimasero sempre limitate, tranne quella che portò Claudio alla conquista della Britannia (iniziata nel 43 d.C.).
Nonostante il fatto che gran parte della spesa pubblica andasse all’esercito e che la carriera militare rimanesse quella più qualificante per gli individui, l’Impero romano dei primi secoli fu essenzialmente pacifico. La lotta civile, del tutto scomparsa con la fine delle guerre del 1° sec. a.C., si ridusse a cospirazioni nell’ambito dell’aristocrazia senatoriale romana. Gli eserciti provinciali parteciparono ai momenti di crisi, quando la successione degli imperatori, mai regolata giuridicamente, si svolse attraverso lotte anche cruente, soprattutto in quanto i loro generali, con le vittorie riportate sui nemici esterni, assumevano il prestigio che poteva farli aspirare alla corona imperiale; ma il fenomeno tipico dell’ultimo secolo della repubblica, ossia il dominio assoluto dell’elemento militare nella determinazione del potere civile, non si verificò più. Il problema centrale della vita politica dell’Impero era il rapporto tra aristocrazia e imperatore; l’elezione dell’imperatore rimase sempre formalmente al senato: anche quando fu designato dall’esercito o dalla guardia personale (i pretoriani), la ratifica del senato, con il rinnovo nella persona del nuovo capo di tutte le cariche e le potestà che ne determinavano il potere, rimase l’elemento formalmente decisivo.
Dopo Tiberio e il breve regno del successore Caligola (37-41), Claudio (41-54), eletto dai pretoriani, riprese la politica di espansione, conquistando la Britannia, e di rafforzamento dei poteri amministrativi della corte imperiale, affidandoli a potenti liberti, suscitando in tal modo l’ostilità dell’aristocrazia senatoria e della classe equestre. Il regno di Claudio, visto in chiave negativa nella tradizione letteraria romana, fu in realtà uno dei pochi nei quali si sia rivelata un’intenzione cosciente, se non un’adeguata capacità, di governare l’Impero in base a principi non arbitrari e non dispotici.
Il successore Nerone (54-68), dopo un esordio dominato dall’influenza di Seneca, nel cui pensiero al principato fondato su una diarchia tra imperatore e senato si sostituì l’idea del principe assoluto e illuminato, sapiente legislatore e moralizzatore supremo, di impronta stoica, fece prevalere una politica dispotica degenerante in eccessi e stravaganze; la sua condotta priva di ogni equilibrio politico e morale portò a cospirazioni senatorie, duramente represse, e infine alla rivolta degli eserciti. Nel regno di Nerone tornò a manifestarsi, sia pure in forma immatura e grottesca, una tendenza fondamentale della concezione imperiale, nella quale all’assolutismo derivato dalle filosofie sorte nel mondo ellenistico si associava una preferenza per la parte orientale dell’Impero, antitetica per cultura, tradizione, tipo di vita economica e sociale all’Italia e all’Occidente: Gallia, Spagna e Africa, le regioni dove il ‘romanesimo augusteo’ si era più profondamente radicato. Alla religione tradizionale, ai costumi civili e politici romani si contrapponevano i nuovi culti provenienti dall’Oriente asiatico e il costume fastoso delle corti persiane ed ellenistiche.
Affermatosi contro tre imperatori (Galba, Otone, Vitellio) che tra il 68 e il 69 si erano eliminati successivamente a vicenda, Vespasiano (69-79) ristabilì l’ordine e diede inizio a un riassestamento delle finanze e dell’amministrazione, fortemente scosse dalla disastrosa politica di Nerone e dalla guerra per la successione. Con un’energica politica fiscale e di restrizione delle spese, riducendo gli effettivi dell’esercito, Vespasiano risanò l’economia riprendendo anche il motivo augusteo del rafforzamento dell’egemonia italica. Ad Augusto si richiamò esplicitamente come ispiratore della sua concezione del principato; e tuttavia anch’egli dovette scontrarsi duramente con il senato. Nell’esercito introdusse un’innovazione di notevole portata storica: da quel momento in avanti i cittadini della penisola italiana non costituivano più il grosso dell’esercito, che invece era arruolato prevalentemente tra i provinciali. Con questo provvedimento Vespasiano cercava di risolvere il problema dello spopolamento dell’Italia, e d’altra parte contribuiva ad accelerare il processo di universalizzazione della romanità che nell’esercito aveva sempre trovato una delle sue vie principali.
Dopo il breve regno di Tito (79-81), Domiziano (81-96), il secondo successore di Vespasiano, con il cerimoniale, la metodica esclusione del senato dalla partecipazione all’amministrazione, la creazione di un sistema di polizia segreta, rafforzò l’opposizione aristocratica. Ucciso da una cospirazione cui parteciparono senato e pretoriani, Domiziano divenne il simbolo della tirannide prevaricatrice di tutte le leggi e costumi romani. In realtà, sia il principe sia il senato si dibattevano l’uno di fronte all’altro nel tentativo di trovare un modus vivendi che garantisse la supremazia di uno dei due contendenti.
La vittoria toccò di fatto al principe: i successori di Domiziano, gli Antonini, la serie più illuminata di governanti di cui abbia goduto l’Impero romano, affermarono definitivamente il primato imperiale; ma poterono farlo perché seppero, in modo nuovo, ritrovare le basi di un compromesso con il senato.
Abbattuto Domiziano, i congiurati portarono al trono Nerva (96-98), vecchio, autorevole membro dell’aristocrazia senatoria. Nel suo breve regno riuscì a scongiurare lo scoppio di un’altra guerra civile venendo a compromessi con l’elemento militare e a garantire al figlio adottivo Traiano (98-117) la possibilità di realizzare il proprio disegno di restaurare l’autorità del senato senza diminuire quella del principe, anzi rafforzando questa con quella. Traiano volle considerarsi primo tra i pari e, riprendendo la politica di conquista, mobilitò attorno a sé le migliori energie del senato e delle classi dirigenti romane. Nel periodo di Traiano e dei successori Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio, si attuò pienamente quella collaborazione tra i poteri che sola poteva assicurare lo sviluppo della vita civile ed economica dell’Impero. Il processo di rafforzamento del potere amministrativo della corte imperiale e della burocrazia, sempre più indipendente dal senato, continuò, specie per opera di Adriano; caratteristica di questo periodo, considerato dalla tradizione posteriore come il momento felice per eccellenza della storia imperiale, è l’impegno delle classi dirigenti romane e provinciali al servizio dello Stato, raccolte intorno al principe, saggio reggitore delle sorti comuni. Traiano, con due fortunate campagne (101-102; 105-107), portò il confine romano oltre il Danubio, costituendo la nuova provincia di Dacia, e in Asia inflisse sconfitte ai Parti (campagna 113-117) creando le nuove province di Arabia Petrea, Armenia e Mesopotamia.
Lo sforzo finanziario e militare che i nuovi acquisti avrebbero richiesto per essere mantenuti era troppo gravoso anche per un Impero ben amministrato e in fase di rilancio economico come quello che Traiano, morendo, lasciava al figlio adottivo Adriano (117-138). Questi abbandonò le nuove province d’Asia, tranne la Mesopotamia superiore, dedicando tutte le energie alla difesa e al benessere dell’Impero. Di raffinata cultura ellenizzante, Adriano trascorse gran parte del suo regno a viaggiare nelle regioni del dominio romano, promuovendo ovunque opere pubbliche con la fondazione di città e l’edificazione di templi, strade, acquedotti, mercati, e prestando particolari cure ad Atene, da lui prediletta, che rifiorì. Dietro il suo esempio, in un clima di slancio filantropico, i privati, con lasciti e donativi alle loro città, ne potenziavano le ricchezze e lo splendore. Il lungo periodo di tranquillità, stabilità politica e pace sociale diede impulso ai commerci e alle industrie. Il Vallo di Adriano definì le frontiere britanniche dell’Impero; una rivolta giudaica in Palestina fu repressa (132-135). Antonino Pio (138-161) si dedicò alla saggia ordinaria amministrazione e al riassetto e consolidamento delle frontiere.
Durante il regno di Marco Aurelio (161-180) si affacciò dopo secoli il pericolo barbarico. Marcomanni e Parti assalirono i confini del Danubio e della Mesopotamia. L’Impero, travagliato da carestie e da una pestilenza che decimò la popolazione e rese necessario, per la prima volta, l’arruolamento di notevoli contingenti di mercenari barbarici, resse il colpo sotto la guida di Marco Aurelio, e inizialmente del fratello Lucio Vero a lui associato nell’Impero (pace con i Parti, 165; vittoria sui Marcomanni, 175). Tuttavia alla morte dell’imperatore, con la successione del figlio Commodo (180-192), da lui voluta contro l’abitudine invalsa dell’adozione del migliore tra i generali e i senatori, il felice periodo della storia di Roma ebbe termine. Commodo si comportò come un tiranno e nuovamente, come già ai tempi di Domiziano, tutto il sistema politico imperiale entrò in crisi; l’imperatore finì ucciso da una congiura.
Dopo il breve regno di Pertinace, la nuova guerra civile, che vide in competizione quattro aspiranti al trono (Didio Giuliano, Settimio Severo, Clodio Albino, Pescennio Nigro) portati dagli eserciti delle varie parti dell’Impero, si concluse con la vittoria di Settimio Severo (193-211), soldato di origine africana, lontano per temperamento e cultura da quel clima di elevato incontro tra romanità ed ellenismo che aveva caratterizzato l’età degli Antonini. Con il 3° sec. d.C., passato nella tradizione come il secolo dell’anarchia, Roma entrò nella più grave crisi mai vissuta, e ne riemerse solo con Diocleziano che riformò interamente la struttura dell’Impero e la concezione del principato. Dalla fine del 2° sec. l’eredità politica di Augusto cessò di operare come forza direttrice centrale della storia romana, e dal caos politico ed economico emerse il nuovo Impero, assoluto, centralizzato, divinizzato.
Mentre l’edificio dell’Impero romano entrava in crisi, il cristianesimo, nato due secoli prima, si affermava come la religione più diffusa nel mondo conosciuto (➔ cristianesimo).
L’esistenza di una comunità cristiana a Roma è attestata con certezza negli anni 40 del 1° sec.: Svetonio, nella vita di Claudio, scrive che l’imperatore «Iudaeos, impulsore Chresto, assidue tumultuantes Roma expulit» («cacciò da Roma i Giudei che continuamente tumultuavano su istigazione di Cresto»). Il messaggio cristiano giunse presto a Roma, trovando il primo centro di diffusione in ambito giudaico. Un’ulteriore testimonianza, di primaria importanza nella comunità romana, è costituita dall’epistola di Paolo ai Romani, scritta attorno al 57-58; più tardi lo stesso apostolo giungerà prigioniero a Roma diffondendovi il verbo cristiano. Nel 64 l’incendio di Roma provocò la persecuzione neroniana contro i cristiani accusati di aver appiccato il fuoco. Della fine del 1° sec. è un nuovo documento della comunità cristiana di Roma: la Prima Clementis che accenna al martirio di Pietro e Paolo a Roma. Nel 2° sec. la comunità romana acquisì una propria fisionomia, ricollegando le sue origini alla predicazione degli Apostoli, e nel 3°, ormai sempre più latinizzata, assunse una posizione precisa e preminente rispetto a tutte le altre.
Lo Stato romano si era mostrato dapprima tollerante verso la nuova ‘setta’, tuttavia il contrasto, già esploso in singoli episodi di persecuzione, non tardò ad aggravarsi. Il Dio dei cristiani era altrettanto esclusivo verso i suoi fedeli quanto il Dio degli ebrei, ma il cristianesimo aveva capacità di proselitismo molto superiori a quelle del giudaismo. D’altra parte il drammatico epilogo delle due rivolte ebraiche, represse da Vespasiano e Tito con la distruzione di Gerusalemme, e poi da Adriano, aveva contribuito a creare attorno alla religione israelitica e alla cristiana, a lungo non ben distinte agli occhi dei Romani, l’idea di religioni dei ribelli per eccellenza, mentre la diaspora giudaica favoriva la diffusione anche dei centri di propagazione del cristianesimo. La nuova religione, che interdiceva il culto dell’imperatore, uno dei fondamenti dell’Impero, spingeva il cittadino ad appartarsi dalla vita sociale e pubblica, rispondendo all’esigenza d’interiorità che si andava diffondendo in tutte le classi. Al tempo stesso, le comunità che sempre più si stringevano a costituire la Chiesa rappresentavano un elemento di aggregazione sociale estraneo allo Stato e tendenzialmente indifferente alle sue sorti. La nuova religione si distingueva dalle altre orientali per il suo carattere universalistico, per la semplicità dei suoi riti, per la mancanza di rigide gerarchie di iniziazione che tendevano a mantenere quelle religioni circoscritte e prive di forza espansiva. Il cristianesimo non era nella sua essenza portato a costituire una forza eversiva della società e dello Stato, ma creava una riserva spirituale di fronte allo Stato relativizzandone il rapporto con l’uomo. Dove lo Stato tentasse di prevaricare e chiedere al cristiano più di quel che questo poteva dare, la relatività del rapporto si manifestava e il cittadino scompariva davanti al credente. Il cristianesimo (e la sua Chiesa) rappresentava una potenziale minaccia per l’Impero non in quanto originariamente prescrivesse alcunché contro lo Stato, ma in quanto per i suoi valori etico-religiosi creava la possibilità di una vita al di fuori di esso.
Gli uomini di cultura pagani e i più avvertiti politici e imperatori sentirono che la nuova religione costituiva nell’ordinamento civile, nel compatto mondo greco-romano, una dimensione nuova, una linea di evasione. La larga diffusione delle religioni orientali (in particolare il mitraismo, di origine persiana), dei culti misterici, delle sette orfico-pitagoriche, e, presso i più colti, della filosofia platonizzante, creava d’altra parte una sorta di antagonismo contro i cristiani, che mostravano per queste religioni e filosofie altrettanto disprezzo quanto per gli dei tradizionali del paganesimo greco-romano. La stessa umanità dei costumi e della mentalità, che nella società civile romana del 1° e del 2° sec. aveva raggiunto un alto livello, e l’affermarsi di posizioni come quella di Seneca (della cui morale i cristiani stessi sentirono il valore), piuttosto che avvicinare i pagani ai cristiani rendevano più evidente il contrasto tra i due mondi, fra i quali la distanza determinata dalla positività della fede nella rivelazione si manifestava incolmabile da ogni affinità meramente morale. Da qui l’incomprensione profonda per il cristianesimo anche da parte di coloro che erano disposti a condividerne certi insegnamenti morali: alla cultura greco-romana ripugnava fondare la vita spirituale su un fatto irrazionale come la fede in un Uomo-Dio, e non poteva riconoscere nell’oscura nascita, breve vita terrena e morte di Gesù di Nazareth un evento che capovolgesse la storia umana, un fatto trascendentalmente condizionante per l’uomo.
Il disagio del contatto con questo nuovo ‘popolo eletto’, che non si identificava con alcuna stirpe nota di abitanti dell’Impero, si insinuava ovunque e, se stretto da presso, sfuggiva con la morte al vincolo della legge e della tradizione di Roma, e il concreto affermarsi in forme autonome dei gruppi umani raccolti nelle comunità e nelle chiese, centri d’interessi sociali e di vita economica, furono con altri i motivi che crearono le condizioni di quelle persecuzioni anticristiane volute da molti imperatori e perseguite talora con tenacia e crudeltà quali mai lo Stato romano aveva posto in tali iniziative. A differenza del culto dionisiaco, colpito nel 2° sec. a.C. per il suo carattere anarchico, o del giudaismo ribelle degli zeloti, il cristianesimo non poté essere annientato dai provvedimenti persecutori: lo impediva il suo carattere universalistico, l’impossibilità di localizzarlo geograficamente e socialmente, la sua resistenza che assumeva tutte le forme, dalla volontà del martirio alla remissività dei molti che sembravano disposti al compromesso. La Chiesa risorgeva dopo le persecuzioni in virtù della testimonianza dei martiri, ma anche per quanti avevano, pure nel piegarsi, mantenuto una forte riserva interiore.
Mentre la Chiesa si ampliava e progrediva continuamente, e al suo interno maturavano i contrasti dottrinali, le eresie e le interpretazioni diverse che la dividevano spesso con violenza, lo Stato si rendeva conto sia dell’importanza di un possibile appoggio della Chiesa cristiana nei momenti di crisi, sia della necessità di non rimanere indifferente di fronte alle controversie che nascevano al suo interno, capaci ormai di segnare la vita dell’Impero con conseguenze politiche e sociali obiettive. Costantino, il primo imperatore romano che riconobbe al cristianesimo la liceità e poi, in un certo senso, la supremazia fra tutte le religioni, cominciò con l’utilizzare la forza della nuova fede ai fini della propria lotta per il potere, e rivendicò in seguito per l’autorità imperiale il diritto di arbitrare i contrasti in seno alla Chiesa e di partecipare così in qualche modo alla sua vita.
Il secolo che va da Settimio Severo a Diocleziano vide esplodere il fenomeno della pressione barbarica sui confini dell’Impero, per opera dei Germani su quelli occidentali, dei Parti su quelli orientali. All’interno, lo Stato romano fu travagliato dai problemi di governo centrale, dalla crisi sociale (incentrata sul declino delle classi dirigenti tradizionali: i grandi proprietari dell’aristocrazia senatoriale romana e i curiali, ossia gli amministratori che detenevano il governo dei centri provinciali dell’Impero) e dalla crisi economica (con il fenomeno della progressiva svalutazione della moneta). Di fronte al continuo pericolo delle invasioni, al dilatarsi degli obblighi fiscali dovuti alle crescenti necessità dell’esercito, le classi inferiori soggiacquero al dominio dei funzionari imperiali e dei grandi proprietari, decadendo a condizioni servili. La società si andava cristallizzando in caste: da una parte gli honestiores, detentori del potere, dall’altra gli humiliores, asserviti e senza difesa alcuna da parte dello Stato.
Il processo di esautorazione della classe senatoria si accentuava, a vantaggio del potere militare e della burocrazia imperiale; l’imperatore Gallieno (253-268), decretando l’impossibilità per i senatori di assumere comandi militari, infliggeva un colpo decisivo al senato e poneva le basi giuridiche per quella distinzione tra amministrazione civile e militare che Diocleziano avrebbe reso definitiva. La monarchia assunse un carattere nettamente militare; i tentativi del senato di eleggere imperatori di origine senatoriale fallirono tutti in breve tempo, mentre l’esercito, interamente provinciale e spesso barbarico, affermava la sua potenza eleggendo imperatori i propri comandanti tra i quali alcuni, come Massimino il Trace (235-238) e Caro (282-285), non rispettarono neppure la formalità della ratifica senatoria della propria elezione. Sotto Settimio Severo vi fu ancora un periodo di relativa pace; ma già con il figlio Caracalla (che fu associato al trono nel 198 e regnò da solo dal 211 al 217), e poi con Eliogabalo (218-222) e Alessandro Severo (222-235), la violenza della lotta si manifestò pienamente e questi, come quasi tutti i loro successori, finirono uccisi in cospirazioni o nelle battaglie tra gli eserciti romani in lotta per il predominio. Per la prima volta si videro imperatori, come Decio (249-251), cadere uccisi dai barbari; o prigionieri, come Valeriano (253-260) lo fu dei Parti, la cui potenza militare e politica era in ascesa, per opera della nuova dinastia persiana dei Sasanidi. A metà del secolo si formò un Impero nelle Gallie, in Spagna e in Britannia, con l’imperatore Postumo e i suoi successori, che durò oltre dieci anni (260-274); il confine orientale fu tenuto grazie all’aiuto del nuovo Stato di Palmira, che assunse un’autorità quasi completa con Zenobia e Odenato, finché Aureliano (270-275) non lo distrusse restaurando il dominio di Roma.
Gli ultimi due secoli di storia dell’Impero furono assorbiti da tre nuovi grandi problemi, che riassumono il senso della decadenza del grande organismo politico romano e della nascita del nuovo mondo (civiltà dell’Alto Medioevo in Occidente, Impero bizantino in Oriente): la trasformazione dell’Impero pagano in Impero cristiano (con l’elevazione di Roma a centro della cattolicità); la resistenza alle invasioni dei barbari del Nord e dell’Oriente; la trasformazione della compagine amministrativa dell’Impero, in base all’importanza progressivamente assunta dalla distinzione tra parte occidentale e parte orientale, all’affermarsi definitivo della monarchia assoluta e della struttura gerarchica piramidale dell’amministrazione civile (corrispondente a un irrigidimento della società in caste e gruppi sociali chiusi).
La storia romana dei sec. 4° e 5°, con la grande migrazione dei popoli germanici, vede sempre più intrecciarsi le guerre civili con le guerre esterne e accentuarsi i fenomeni dell’imbarbarimento dell’esercito e dell’insediamento ai confini dell’Impero di tribù barbariche, dietro accordi con le autorità romane che cercavano di ottenere, a prezzo della terra e dell’autorità, una stabilità relativa.
Cessate dopo Diocleziano le persecuzioni, il rapporto con la Chiesa cristiana divenne problema politico, del quale si fece interprete Costantino, risolvendolo nel senso di riconoscere alla Chiesa quel posto nella società romana che ormai le era proprio, e con ciò preparando la progressiva assimilazione di autorità ecclesiastica e autorità civile, quale si realizzò in Occidente, di fronte al crollo dello Stato romano, con la pratica assunzione di responsabilità civili e politiche da parte della Chiesa di Roma, e in Oriente con il cesaropapismo e la subordinazione della gerarchia ecclesiastica all’autorità imperiale, essa stessa suprema autorità ecclesiastica. L’Impero si trovò coinvolto in problemi religiosi, e le questioni teologiche, come anche quelle relative all’autorità delle Chiese (Roma contro Alessandria o Antiochia, o Costantinopoli ecc.), divennero materia su cui gli imperatori si dovettero pronunciare, decidendo così della supremazia di questa o quella corrente o Chiesa cristiana. Il primato di Roma come centro del cattolicesimo divenne presto indiscusso per quanto riguardava l’Occidente; più problematico fu in Oriente, che però riconobbe sempre, almeno in teoria, la supremazia del pontefice romano. Nei grandi movimenti barbarici si inserì il processo di cristianizzazione: a mano a mano che entravano in contatto diretto con la civiltà romana, le genti barbare si convertivano al cristianesimo.
Contemporaneamente al rivolgimento portato dalle invasioni barbariche e dalla progressiva cristianizzazione, nacquero o si consolidarono forme di vita sociale che già preludono al Medioevo, come l’insediamento stabile dei contadini sulla terra (servitù della gleba), il venir meno delle basi monetarie dell’economia, la decadenza e lenta scomparsa di molti antichi centri cittadini, sostituiti da forme di comunità agrarie, il rafforzamento del senso gerarchico della società, il cui vertice è l’imperatore (dominus), irraggiungibile e quasi divinizzato, laddove però il moltiplicarsi della massa burocratica complica, frantuma e rende anarchica la vita sociale ai livelli inferiori. L’incertezza dei confini, accentuatasi nel corso del tempo, e l’esposizione al rischio delle incursioni portarono a fenomeni di rivolta e trasformazione sociale, come la fuga e la ribellione dei servi, solidarizzanti con i barbari; spesso, anche le classi alte provinciali (nel nuovo ordinamento dioclezianeo anche l’Italia fu provincia), su cui gravavano gli obblighi fiscali, preferivano alla più ordinata ma spesso esosa amministrazione imperiale il compromesso con i barbari.
Dalla morte di Aureliano (275) all’avvento di Diocleziano (284) la crisi interna dell’Impero sfocia in nuove guerre civili ed esterne, fino a trovare nella capacità politica e amministrativa di Diocleziano (284-305) una soluzione che, grazie alla trasformazione delle strutture, sanziona la fine del vecchio Impero ma, al tempo stesso, lo rinnova conferendogli nuovo vigore. Tra le sue riforme, dettate da rigore, volontà di ordine e stabilità, particolarmente importante fu il sistema della ‘tetrarchia’, per il quale il supremo titolo imperiale si trovò diviso tra due Augusti, e, a loro subordinati, tra due Cesari, destinati a raccoglierne la successione, in base alla norma dell’abdicazione a data fissa degli Augusti. Il sistema tetrarchico non risolse, come era nelle intenzioni di Diocleziano, il problema delle lotte per il potere al vertice dell’Impero; tuttavia disciplinò in qualche misura il sistema di elezione degli imperatori e sancì il principio della possibile collegialità della carica suprema, legata alla distinzione tra pars orientis e pars occidentis, sanzionata poi definitivamente da Teodosio nelle persone dei figli Arcadio e Onorio.
Le guerre continue e i pericoli connessi alla contemporanea aggressione barbarica a confini fra di loro lontani avevano evidenziato la necessità che l’autorità imperiale si spostasse dal centro alla periferia: Diocleziano, che pur ebbe vivo il senso della romanità e latinità, fu il primo imperatore che abbandonò Roma come propria stabile sede, eleggendo Nicomedia. Del resto città come Treviri o Milano cominciavano già ad assumere un ruolo rilevante come capitali di fatto dell’Impero, le cui esigenze di difesa mostravano che Roma non era più la sede naturale del potere centrale. Il principio della capillarità, esteso da Diocleziano a tutta l’amministrazione dell’Impero, comportò l’aumento del numero delle province; attraverso il raggruppamento di queste in diocesi e delle diocesi in prefetture, si realizzò una struttura amministrativa e militare a un tempo, rigidamente piramidale, al cui vertice stava la potestà imperiale, cui ormai simbologia e prassi di corte riconoscevano ufficialmente un carattere del tutto assoluto e super-umano. Le persone dei due Augusti si identificano con le divinità che presiedono alla vita dell’Impero: l’Augusto Diocleziano è Giovio e l’Augusto Massimiano (286-305) è Erculio. La riforma dell’esercito tese a distinguere sempre meglio le truppe stabili di frontiera (limitanei) dai corpi mobili a disposizione degli Augusti e dei Cesari, riserve interne destinate a intervenire ai confini (comitatus o comitatenses).
La capillarità della divisione amministrativa era dovuta a ragioni di difesa, ma anche di economia: un’economia ormai da un secolo in crisi, con la svalutazione quasi totale della moneta e il ritorno sempre più frequente allo scambio in natura, con il conseguente rallentamento e decadimento di tutta la vita economica dell’Impero. Diocleziano tentò di risollevare la situazione attraverso una serie di provvedimenti di largo respiro, anche se scarsi di risultati duraturi; sempre pressanti erano infatti le esigenze del fisco che gravava sulle classi più produttive. Così l’editto dei prezzi (301) fu un fallito tentativo di calmierare tutti i prezzi dell’Impero. Soprattutto decisiva per la storia della società antica fu la tendenza a irrigidire in maniera definitiva la struttura sociale, decretando l’obbligo dell’ereditarietà delle professioni e legando alla terra i contadini (servitù della gleba). L’immobilità imposta alla società per impedirne la disgregazione aggravò ulteriormente lo stato di incapacità d’iniziativa economica delle classi medie e umili.
Nello sforzo di restaurazione dell’Impero Diocleziano accentuò la reazione pagana al cristianesimo con le persecuzioni. Il problema della tolleranza si impose con urgenza ai successori, i quali nella disputa per il potere finirono per appoggiarsi alla forza sociale e ormai chiaramente politica della Chiesa, che polarizzava attorno a sé una somma enorme di interessi spirituali e mondani.
Dopo la guerra tra Licinio (308-323) e Massimino (308-313) e lo scontro definitivo a Ponte Milvio fra Costantino e Massenzio (306-312), al vincitore Costantino (306-337) spettò il compito di ristabilire l’unità politica dell’Impero, entrata in crisi in seguito alla fine dell’equilibrio tetrarchico, e di dar luogo a una nuova unità spirituale, nel nome del riconoscimento ufficiale del primato di fatto della religione cristiana nell’Impero. Con l’editto di Milano (313), con il riconoscimento dei diritti e privilegi delle Chiese, con la convocazione del Concilio di Arles (314) e del grande Concilio di Nicea (325) da lui stesso presieduto, Costantino può dirsi il fondatore del nuovo Impero cristiano e con lui si apre il problema della reciproca determinazione dei rapporti tra Chiesa e Impero. Al perfezionamento dell’ordinamento dioclezianeo, Costantino aggiunse il nuovo riassetto dell’amministrazione centrale, moltiplicando gli uffici di corte e circoscrivendo talune prerogative dei più alti funzionari: il quaestor sacri palatii, il magister officiorum, il comes sacrarum largitionum, il comes rerum privatarum, cui erano affiancati altri comites. Accanto a essi sedeva il consiglio privato del principe (consistorium), mentre alle forze armate provvedevano il magister peditum e il magister equitum. Dai comitatenses furono distinti i palatini, guardia del palazzo imperiale. L’economia dell’Impero fu risollevata con il solido aureo.
Venendo incontro alle effettive necessità strategiche ed economiche dell’organismo dell’Impero, Costantino trasportò ufficialmente la sede imperiale da Roma a Bisanzio, là dove Europa e Asia, Mar Nero e Mediterraneo si incontravano. Roma decadrà sempre più chiaramente come centro politico, per risorgere con il papato medievale. Alla decadenza politica, specie dopo le drammatiche vicende del 5° sec. nel corso del quale la città fu saccheggiata dai Goti (sacco di Roma di Alarico, 410) e dai Vandali (sacco di Genserico, 455), faranno riscontro la decadenza economica, demografica, urbanistica e la trasformazione progressiva della sua fisionomia di città antica nella nuova fisionomia della città alto-medievale, con castelli e fortificazioni sorte attorno alle case dei potenti e ai luoghi di culto.
Alla morte di Costantino l’Impero fu nuovamente turbato da lotte per la successione; poi Costanzo II (337-361) riunì tutto il governo nelle proprie mani e chiamò a farne parte il cugino Giuliano. Assunto l’Impero alla morte di Costanzo, Giuliano (360-363) intervenne sul regime tributario con un programma di sgravi fiscali e attuò un decentramento amministrativo restituendo ai poteri locali beni avocati allo Stato, contenne privilegi ed esenzioni garantendo il buon funzionamento dell’amministrazione statale e dell’ordinamento giudiziario, in campo monetario, con un migliore adeguamento del rapporto oro-argento, favorì la ripresa dell’economia privata, all’esterno difese validamente il confine renano. Pagano illuminato, profondamente convinto della superiorità culturale della tradizione classica, escluse i cristiani dall’insegnamento e riorganizzò il corpo sacerdotale pagano. Questa scelta fu stigmatizzata con l’appellativo di ‘apostata’ (rinnegato), ma Giuliano non perseguitò i cristiani, limitandosi a restaurare la parità del culto pagano con quello cristiano, ad attribuire diritto di libera espressione ai pagani, preferendo i filosofi e i letterati pagani ai teologi cristiani. Morì, dopo un breve periodo di regno, in una campagna contro i Persiani (363). Il neopaganesimo o neoclassicismo di Giuliano non lasciò tracce profonde tra i popoli dell’Impero: l’antica religione era definitivamente tramontata.
Valentiniano I (364-375) e il fratello Valente (364-378), rispettivamente in Occidente e in Oriente, ritornarono a una politica filocristiana e tentarono di sollevare in qualche modo lo stato di estrema depressione delle classi inferiori istituendo le cariche di defensores plebis. Valente fu il primo degli imperatori il cui esercito fu distrutto dai barbari ed egli stesso ucciso (battaglia di Adrianopoli, 378): le orde gotiche, sospinte dagli Unni, si dimostrarono militarmente più potenti dell’esercito di Roma.
Il figlio e successore di Valentiniano I, Graziano (367-383), si associò nell’Impero il generale Teodosio, il quale, dopo una complicata vicenda (che vide deposto Graziano da Massimo, questo eliminato da Teodosio, il giovane Valentiniano II posto sotto tutela del barbaro Arbogaste, e da lui sostituito con Eugenio), eliminò Arbogaste ed Eugenio e rimase unico imperatore. Teodosio (379-395) cercò di risolvere il problema dei barbari Goti stanziandoli entro i confini dell’Impero come federati e arruolandoli nell’esercito. L’imbarbarimento progressivo dell’Impero assunse un nuovo aspetto, quello decisivo: la penetrazione legittima dei popoli germanici al di qua dei confini e il loro impadronirsi delle leve di comando militari. Le capacità personali di Teodosio gli permisero di controllare gli eventi e di imporre un’unità di indirizzo politico e religioso (fu antipagano ed antiariano) all’Impero, compromessa però già dai figli Arcadio, cui toccò la parte orientale, e Onorio (395-423), cui andò quella occidentale.
Dai due figli di Teodosio discende la divisione dell’Impero, che di fatto non sarà mai più unificato, anche se con Giustiniano i diritti e la potenza dell’Impero d’Oriente torneranno a farsi sentire in tutto il Mediterraneo. In Occidente prevalsero i capi e gli eserciti barbarici. Onorio fu sotto la tutela del generale Stilicone che difese l’Italia dai Goti ed esercitò di fatto il potere imperiale. Finché visse Stilicone, Roma fu difesa, ma nel 410 i Goti di Alarico la saccheggiarono, poi continuarono a correre per l’Occidente, finché si stanziarono come federati in Aquitania. Dopo Onorio, il trono fu alla fine assicurato a Valentiniano III (425-455); intanto, l’Impero era sempre più devastato dai barbari. Ezio, capo delle forze occidentali, sconfisse gli Unni di Attila, la cui minaccia continuò comunque a gravare ancora sull’Italia. I Vandali, guidati da Genserico, invadevano la Spagna e di qui passavano in Africa, dove fondavano un regno. Dall’Africa vennero i Vandali che saccheggiarono per la seconda volta Roma (455) e contestarono il dominio del Mediterraneo alla flotta romana. La fine di Ezio e Valentiniano III vide il precipitare della situazione dell’Impero occidentale: passò fugacemente sul trono (455-474) una serie di imperatori (Petronio, Avito, Maggioriano, Libio Severo, Antemio, Olibrio, Glicerio), tutti nominali, giacché il potere era esercitato di fatto dai generali barbarici. Il generale Oreste deponeva nel 475 Giulio Nepote, candidato sostenuto dall’Impero d’Oriente, sostituendogli il proprio figlio Romolo, detto Augustolo. Nel 476 un altro generale, il barbaro Odoacre, fu acclamato re dalle milizie barbariche dell’Impero che si trovavano in Italia; deposto Romolo e rinviate a Costantinopoli le insegne imperiali, Odoacre ricevette il titolo di patrizio romano e come tale, e come re degli ex federati barbarici, governò l’Italia.
L’Impero romano sussisteva ancora; formalmente, mancando l’Augusto d’Occidente, l’Impero tornava nelle mani dell’Augusto d’Oriente, ma gli imperatori d’Oriente non potevano ora, né volevano, affrontare, come poi fece Giustiniano, l’impresa di concretizzare di fatto la propria autorità puramente nominale.
Ben prima della deposizione di Romolo Augustolo Roma aveva perduto il suo antico splendore. I Visigoti di Alarico, i Vandali di Genserico (il cui saccheggio fu limitato dall’intervento di papa Leone I) e di Ricimero nel 472 avevano inferto profonde ferite ai suoi edifici, provocato la diminuzione degli abitanti e il trasferimento delle massime magistrature imperiali a Milano e poi a Ravenna. Lo stesso senato era divenuto un organo sempre più impotente. Al progressivo decadimento della Roma imperiale si accompagnava il potenziamento della Roma cristiana e l’importanza anche politica del papato. Il già cospicuo patrimonio della Chiesa fece della nomina del pontefice una questione connessa alla piena disponibilità dei beni ecclesiastici e le crisi occasionate da tali elezioni degenerarono spesso nello scisma.
In occasione della guerra gotico-bizantina nel 536-537 i Bizantini di Belisario respinsero il lungo assedio di Vitige; in seguito, in assenza di Belisario, Totila riuscì a impossessarsi di Roma facendo demolire un terzo delle mura. Alla fine del 546 i Bizantini avevano recuperato la città e ricostruito le mura, ma nel 550 Totila, dopo 6 mesi di assedio, si stabilì a Roma facendovi rientrare i senatori. In queste condizioni si verificò un’ulteriore diminuzione della popolazione, tutta raccolta ormai intorno al Foro, con il Laterano e il Vaticano come centri morali della vita dell’Urbe. Durante la dominazione bizantina la classe dirigente e i papi furono di origine orientale e il papato divenne la suprema autorità cittadina. Tra la fine del 6° sec. e i primi anni del 7° si staglia la figura del papa Gregorio Magno, che provvide alle necessità della città e, senza mai mettersi apertamente in urto, realizzò un più tollerabile e umano modus vivendi con i nuovi invasori, i Longobardi.
Dopo lo scisma monotelita e la fine dei papi orientali, la rottura definitiva con Bisanzio avvenne sotto l’imperatore Leone III l’Isaurico, in seguito al suo editto fiscale e alle direttive iconoclastiche del 726. Si costituì così un governo autonomo, che amministrava anche l’intero ducato; ma alla soggezione bizantina subentrò la minaccia dei Longobardi di Liutprando. Ora appoggiandosi ai Bizantini, ora ai duchi longobardi di Spoleto e di Benevento, il papa Stefano II cercò di salvare il ducato romano, orientandosi infine, quando l’Esarcato cadde nelle mani di Astolfo (751), verso i Franchi. La popolazione romana era insufficiente contro un attacco longobardo: con Adriano I, grazie all’appoggio del franco re Carlo, fu organizzata una più efficiente milizia, la familia Sancti Petri. La conferma da parte di Carlo del Patto di Quierzy (➔) e la concessione di parte della Sabina e di altri territori sottratti all’Esarcato di Ravenna costituirono un ulteriore potenziamento dell’autorità papale e un ampliamento della sua giurisdizione territoriale, pur tra lotte e rivolte dell’aristocrazia.
Con la decadenza franca, l’espansione saracena nel Mediterraneo arrivò anche a Roma (saccheggio di S. Pietro e di S. Paolo, 28 agosto 846). L’Urbe ricadde sotto la tutela del potente duca di Spoleto. In seguito al declinare dell’influenza dei duchi di Spoleto, tutto il potere di Roma si concentrò nelle mani dell’onnipotente Teofilatto (vincitore dei Saraceni sul Garigliano nel 915), passando poi alla figlia Marozia, appoggiata dagli Spoletini e dal marchesato di Toscana, quindi al figlio di questa Alberico. La volontà dell’imperatore Ottone I di controllare il pontefice provocò la perdita dell’autonomia romana e il passaggio sotto il controllo imperiale; l’aristocrazia romana non disarmò e, sotto la direzione della potente famiglia dei Crescenzi, tentò di riprendere il dominio della città. Dopo circa 50 anni di dominio dei Crescenzi, nel 1012 il potere passò, non certo pacificamente, ai Tuscolo che lo tennero per un trentennio.
Il movimento riformatore, che affermava l’indipendenza della Chiesa dall’Impero, portò alla ribalta politica nuovi ceti e nuovi casati (Frangipane, Pierleoni), mentre i vecchi rimasero fedeli all’Impero. In occasione della lotta delle investiture Enrico IV assediò Roma a più riprese, costringendo nel luglio 1083 il papa Gregorio VII a riparare in Castel Sant’Angelo. Il successivo intervento dell’esercito normanno di Roberto il Guiscardo, il saccheggio, gli eccidi e le deportazioni, lasciarono la città in preda delle fazioni familiari. Nel 1144, sorretto dall’infiammata parola di Arnaldo da Brescia, riuscì a farsi valere un effimero governo comunale (connesso con la cosiddetta renovatio senatus quale istituzione democratica in cui si assommavano tutti i poteri), escludendo il dominio papale, ma nel 1155 Arnaldo fu abbandonato al suo destino e il comune fece atto di sottomissione al papato. Soltanto fra 1231 e 1234 si ebbe, per iniziativa soprattutto di Luca Savelli, un’energica affermazione dell’autorità civile sul potere ecclesiastico, con la revisione dei privilegi giudiziari e tributari del clero. Il regime comunale fu però bloccato dalla rinnovata rete di poteri signorili che si distese in tutto il distretto romano in seguito all’alleanza papale-angioina. La rete degli interessi costituiti delle grandi casate (in questo periodo emergono gli Orsini e i Colonna) rappresentava un ostacolo insuperabile al consolidamento del comune. Tuttavia, tra la seconda metà del 13° sec. e lo scorcio del 14°, questo, nonostante la limitatezza e precarietà dei suoi poteri, le sue incoerenze e incertezze, esplicò la propria attività soprattutto nell’espansione territoriale contro comuni minori e signori feudali e si sforzò di limitare la stessa sovranità della Chiesa. La dignità senatoriale fu contesa anche da sovrani e principi stranieri (Manfredi, Riccardo di Cornovaglia, Carlo d’Angiò).
A cominciare da Niccolò III Orsini, tutte le cariche pubbliche furono conferite allo stesso papa, cioè alle grandi famiglie baronali (Orsini, Colonna, Savelli, Annibaldi, Caetani). Con papa Bonifacio VIII, Roma, centro del grandioso giubileo del 1300, ebbe un periodo particolare di rigoglio artistico e culturale (fondazione dell’università, 1303). Alcuni anni dopo, il trasferimento della corte papale ad Avignone precipitò Roma in una crisi molto grave. Mentre Orsini e Colonna si contendevano con alterna fortuna il dominio, la discesa di Enrico VII nel 1312 e la breve signoria di Roberto d’Angiò esasperarono la situazione. In tale clima si bruciò rapidamente il tentativo di Cola di Rienzo (➔) di restaurare un ‘buon ordine’ nella città nel quadro utopistico di un Impero rinnovato. La decadenza si accentuò ulteriormente in conseguenza della peste del 1348, del terremoto del 1349 e delle razzie dei mercenari di Gualtiero di Urslingen. Una breve parentesi si aprì con l’invio del cardinale Egidio de Albornoz per riorganizzare lo Stato pontificio e ripristinare i rapporti con il comune romano; l’emanazione delle costituzioni egidiane (➔ Constitutiones Sanctae Matris Ecclesiae) sembrò preludere, con l’insieme dei provvedimenti adottati nei confronti del comune, a un periodo di stabilità governativa.
Nel 1377 Gregorio XI si decise ad abbandonare la sede avignonese. Con l’elezione di Urbano VI e l’immediata replica dei cardinali francesi che elessero papa Clemente VII si aprì il grande scisma d’Occidente. Le rivolte dilagarono in tutto il territorio pontificio e Bonifacio IX, papa nel 1389, ereditò uno Stato in guerra, una cancelleria decimata, un archivio disperso e le finanze esauste; il Lazio con i suoi porti era sotto l’obbedienza avignonese. In questo clima s’inserirono le continue agitazioni del comune, che pretese di estendere la propria sovranità sulla Campagna (➔). L’accanirsi delle lotte tra le due fazioni che si alternavano alla guida del comune, facenti capo alle famiglie Colonna e Orsini, entrambe avverse al papa, fece sì che nel giugno del 1398, sotto la minaccia del condottiero Paolo Orsini di Firenze, i partiti consegnassero il pieno dominio di Roma nelle mani di Bonifacio IX. Le successive lotte tra i Colonna e gli Orsini spinsero Innocenzo VII a ricorrere all’aiuto del re di Napoli, Ladislao di Durazzo, che instaurò un clima di dura repressione. Soltanto nel 1420 Martino V, un Colonna, riuscì, con l’aiuto di Attendolo Sforza, a rientrare nella città e a sottoporla al proprio potere.
Martino V avviò il processo di ripresa della città, destinato a trasformare la città medievale in una capitale rinascimentale degna di un principato con sovrano assoluto, e distribuì ai membri della propria famiglia, a titolo di feudo, ampi territori all’interno dello Stato pontificio. Con i papi nepotisti successivi questa tradizione continuò, dando luogo alla formazione di ricchezze private immense e perpetuando le lotte fra le grandi famiglie. Dopo i tumulti successivi alla morte di Martino V (1431), Eugenio IV attaccò i Colonna e i loro alleati, dovendo affrontare anche le rivolte cittadine da essi fomentate.
Nel 1434 il comune, sotto la guida di Niccolò Fortebracci, costrinse il papa a fuggire da Roma, ma fu piegato dal vescovo di Recanati Giovanni Vitelleschi. Nel 1453 Stefano Porcari (➔) tentò di spingere la popolazione a rivendicare i diritti civili soppressi. I disordini continuarono anche sotto Paolo II e Giulio II, in occasione della guerra di Ferrante d’Aragona e Renato d’Angiò, della guerra di Ferrara e della Congiura dei baroni (➔ barone). La corte e la curia conobbero una forte espansione ed ebbe inizio l’uso di mettere all’incanto gli uffici: attraverso la curia, le famiglie Sforza, Della Rovere, Orsini, Borgia controllarono gli uffici municipali, le finanze, gli statuti cittadini. Roma visse anche un periodo di profondo rinnovamento culturale e urbanistico con papi come Niccolò V, Pio II, Sisto IV, Paolo II.
Dopo le rinnovate violenze inflitte alla città dai Colonna nel 1526, Roma subì l’assalto delle truppe imperiali guidate da Carlo duca di Borbone, conestabile di Francia, e il 6 maggio 1527 Spagnoli e lanzichenecchi luterani entrarono in città. Il papa si rifugiò a Castel Sant’Angelo, ma la città fu abbandonata al saccheggio delle truppe.
Nel corso del 16° sec. incominciarono a penetrare nella vita romana gli ideali e le preoccupazioni della Controriforma. Con l’eccezione del combattivo Paolo IV Carafa, gli stessi pontefici condussero una vita più raccolta, una politica meno avventurosa e una più oculata politica fiscale e amministrativa. Sul volgere del 16° sec. si rafforzò la tendenza ad accentrare il potere statale, già iniziata da Sisto V. Clemente VIII riformò l’organizzazione comunale, istituendo la Congregazione del Buon Governo, e incrementò la politica antisignorile. Con Alessandro VII Chigi la grave situazione finanziaria si aggravò. All’interno del governo civile di Roma, il potere d’intervento della curia si accrebbe a svantaggio del senato e il vicecamerlengo della Chiesa detenne anche le funzioni di governatore. Le grandi famiglie nobiliari si ridussero a funzioni di semplice rappresentanza, conservando o incrementando i propri privilegi. Accanto al forte nepotismo furono tuttavia operate numerose riforme finanziarie in favore della popolazione.
La vita nella Roma del Settecento, tagliata fuori dai grandi eventi europei, si svolgeva in tono minore. Sullo scorcio del secolo Pio VI sembrò voler rinnovare i fasti del Rinascimento e del barocco, riprendendo l’attività per la trasformazione urbanistica della città. Al principio del 1793, in un tumulto popolare, trovò la morte il diplomatico francese N.-J.-H. de Bassville, che aveva ostentato emblemi rivoluzionari; l’episodio determinò da parte della Francia la rottura delle relazioni diplomatiche con lo Stato pontificio. Dopo la proclamazione della Repubblica ad Ancona, e i moti di Senigallia e Pesaro, l’uccisione a Roma dell’addetto militare francese Léonard Duphot (28 dic. 1797) fu il pretesto per un intervento delle truppe francesi. I patrioti romani proclamarono decaduto il governo temporale; il papa fu espulso e si rifugiò in Toscana. Repressa un’insurrezione popolare, il 20 marzo, in piazza S. Pietro, fu solennemente consacrata la Costituzione della Repubblica romana, che assorbì anche l’Anconitano, ma la cui guida effettiva rimase in mano dei Francesi. Nel 1799 le vittorie della coalizione austro-russa, la fine della Repubblica napoletana, le continue insurrezioni contadine, lo scarsissimo seguito dei pochi giacobini spinsero i Francesi ad abbandonare Roma alle truppe napoletane (30 settembre).
Caduta l’effimera Repubblica romana, il nuovo papa Pio VII assicurò un certo ordine nella città sconvolta dall’ondata giacobina, ma nel 1809, esiliato il papa oltralpe, i Francesi ne erano nuovamente padroni. Dopo la caduta di Napoleone, fallito un tentativo di G. Murat di impadronirsi della città (1815), si ebbe il ritorno di Pio VII e l’inizio della restaurazione, che andò facendosi sempre più rigida e gretta con il sopravvento degli ‘zelanti’ e con la successione al trono pontificio (1823) di Leone XII. Ma tra il popolo penetravano le prime idee di libertà e la Carboneria apriva le sue ‘vendite’. La tempesta, preannunciata dai processi del cardinale A. Rivarola in Romagna e dalle prime esecuzioni capitali romane, esplose nei primi anni del pontificato di Gregorio XVI (1831-46).
A Gregorio XVI nel 1846 succedette Pio IX. Attirato dal mito neoguelfo, Pio IX si avviò sulla strada della riforma: sotto la spinta delle agitazioni popolari permise la costituzione di un ministero al quale, pur sotto la direzione nominale di un cardinale, parteciparono i laici; seguì l’istituzione di una Consulta di Stato, nominata dalle amministrazioni provinciali; una modesta libertà di stampa e la guardia civica completarono le riforme romane, che suscitarono grandi fermenti nel popolo. La concessione della Costituzione (marzo 1848) pose in piena luce le contraddizioni tra il principio teocratico e il regime costituzionale. Il concistoro dei cardinali si sovrapponeva alle due camere rappresentative, alle quali era sottratta la competenza delle questioni ecclesiastiche e delle cosiddette materie miste: anche la politica estera e gran parte delle finanze erano sottratte al Parlamento. L’allocuzione del 29 aprile 1848, in cui Pio IX, in riferimento all’Austria, affermò di non poter fare guerra a un popolo cristiano, rivelò l’insostenibilità di una Chiesa cattolica al rimorchio delle forze liberali. I ministri laici che si alternarono alla direzione del governo naufragarono fra gli scogli degli intrighi dei reazionari da una parte e l’opposizione sempre più violenta e incontenibile delle forze democratiche.
Rifugiatosi Pio IX a Gaeta (29 novembre 1848), dopo l’assassinio di P. Rossi, la giunta provvisoria di governo convocò un’Assemblea costituente che proclamò la Repubblica (9 febbraio 1849). Nominato un comitato esecutivo, formato da C. Armellini, M. Montecchi e A. Saliceti, si diede avvio a una vasta opera di riforme: furono aboliti i tribunali eccezionali, quello del Santo Uffizio, la censura sulla stampa e la giurisdizione dei vescovi sulle scuole e sulle università, mentre si stabilì che tutti i beni ecclesiastici divenissero proprietà nazionale. Giunte le notizie della sconfitta di Novara e della repressione dell’insurrezione genovese, l’Assemblea costituente concentrò le energie nella difesa militare della repubblica, minacciata dalle truppe francesi, austriache, spagnole e napoletane. Fu nominato un triunvirato formato da G. Mazzini, C. Armellini e A. Saffi (19 marzo), cui vennero conferiti poteri illimitati, e fu mobilitata la guardia nazionale. In aprile un corpo di spedizione francese guidato dal generale N.-C.-V. Oudinot sbarcò a Civitavecchia e attaccò la capitale. Intanto gli Austriaci occupavano Bologna, le Legazioni, Ancona e le Marche, mentre gli Spagnoli sbarcavano a Fiumicino. Fallite le trattative, i Francesi ripresero le operazioni militari, rendendo vana l’eroica difesa della popolazione e dei volontari accorsi da ogni parte d’Italia. Il 3 luglio l’Assemblea costituente decise la resa ma proclamò ugualmente la Costituzione. Il 31 luglio un triunvirato nominato da Pio IX, composto dai cardinali G. della Genga, L. Vannicelli e L. Altieri, assunse il governo della città e iniziò l’opera di restaurazione del potere papale.
Il papa rientrò a Roma il 12 aprile 1850, ma il destino dello Stato pontificio era segnato. Negli anni successivi patrioti, monarchici e repubblicani operarono con efficacia, indebolendo il governo pontificio con una forte attività cospirativa. L’esplosione della caserma Serristori, nel 1867, offrì il pretesto all’azione garibaldina di Mentana. Poi scoppiata la guerra franco-prussiana del 1870, si offrì al governo italiano la possibilità di intervenire nello Stato pontificio. Le truppe italiane comandate dal generale Roma Cadorna mossero alla volta di Roma, che raggiunsero il 20 settembre. Aperta con l’ausilio dell’artiglieria una breccia tra Porta Pia e Porta Salaria, i bersaglieri penetrarono nella città, trionfalmente accolti dalla popolazione.
Negli ultimi anni dello Stato della Chiesa, continuò, tuttavia, una vivace vita intellettuale e mondana, e anche il fervore edilizio ebbe una ripresa con Pio IX. Il numero degli abitanti, dai circa 150.000 alla fine del Settecento, dopo un sensibile abbassamento durante la dominazione napoleonica, andò aumentando gradatamente, specie sotto il pontificato di Pio IX, fino a superare i 200.000 nel 1870.
La presa di Roma aprì un nuovo periodo della vita della città, ormai centro politico e amministrativo del paese. A poco a poco nuovi edifici pubblici e studiati adattamenti di quelli antichi accolsero la sempre più vasta macchina burocratica e politica del Regno d’Italia. Proprio in virtù della sua nuova funzione, si ebbe un crescente sviluppo urbano, che assunse presto quel carattere, mantenuto nel corso degli anni, di progressiva mescolanza dei più vari apporti regionali. Per farvi fronte, durante l’amministrazione Nathan (1907-13), furono avviate numerose iniziative nel campo dell’edilizia, volte alla pianificazione dell’assetto territoriale, mentre una particolare attenzione fu rivolta ai problemi della sanità e dell’istruzione.
Con la marcia su Roma (28 ott. 1922) iniziò il ventennio fascista, la cui apoteosi della romanità ebbe conseguenze significative sull’assetto urbanistico, sociale e monumentale della capitale, che all’inizio degli anni 1930 superava il milione di abitanti. Coinvolta nelle iniziative del regime e teatro delle sue manifestazioni più appariscenti, la cittadinanza seguì l’evoluzione della politica nazionale, staccandosi gradualmente dalla classe dirigente fascista. Abbandonata dalla corte e dal governo subito dopo la comunicazione della firma dell’armistizio con gli Anglo-Americani (8 settembre 1943), la città fu attaccata dai Tedeschi e, nonostante la strenua difesa (8-10 settembre), dovette soccombere. Costituita città aperta sotto il comando del generale G.C. Calvi di Bergolo, Roma presto cadde sotto il dominio diretto dei Tedeschi. Fu allora organizzata un’intensa attività clandestina antifascista, che seppe affrontare arresti e torture. L’eccidio di 32 soldati tedeschi in via Rasella (23 marzo 1944) fu seguito da una rappresaglia che costò la vita, alle Fosse ardeatine, a 335 civili e militari.
Liberata dagli Anglo-Americani il 4 giugno 1944 e sottoposta per breve tempo ad amministrazione militare alleata, Roma tornò a essere (15 agosto) sede del governo monarchico e nel 1946 accolse la Costituente italiana.
Con la liberazione di Roma, il 4 giugno 1944, cominciò a mettersi in moto una nuova fase della vita politica nazionale. I partiti del Comitato di liberazione nazionale (CLN), considerando ormai esaurita l’esperienza del secondo governo Badoglio, decisero di procedere alla formazione di un nuovo esecutivo, presieduto da Ivanoe Bonomi, esponente del partito della Democrazia del lavoro, già presidente del Consiglio nel 1921-22. Roma tornò a essere il 15 agosto sede del governo italiano. Gli Alleati, con il consenso del presidente del Consiglio e del CLN, scelsero come sindaco di Roma Filippo Andrea Doria Pamphili Landi, che succedette così al generale Roberto Bencivenga, che aveva amministrato la città come commissario governativo straordinario nei primi giorni dopo la Liberazione. La nomina di Doria Pamphili si riallacciava a una tradizione che aveva visto spesso il Comune di Roma guidato da un membro dell'aristocrazia, come Prospero Colonna, Francesco Boncompagni Ludovisi, Gian Giacomo Borghese. La nuova giunta era composta da rappresentanti dei partiti del CLN, riuniti intorno a un programma di 'Concordia politica', diretto ad affrontare tutte le emergenze create dalla guerra, al fine di provvedere celermente alla ricostruzione materiale e civile della città. Particolarmente attivo all’interno della giunta fu il prosindaco Guido Laj, esponente di rilievo della massoneria, che in qualche modo rappresentava l’eredità dell’esperienza laica di Ernesto Nathan. Le difficoltà che la nuova amministrazione dovette affrontare furono enormi, a partire dal dissesto finanziario: il disavanzo nel bilancio comunale passò dagli 833 milioni nel 1944 ai 3 miliardi e 317 milioni nel 1946. Rifiutando le scelte urbanistiche del regime, adeguandosi ai nuovi regolamenti edilizi, la giunta affrontò la ricostruzione e l’espansione della città in nuovi quartieri periferici.
Gli esiti della consultazione elettorale del novembre 1946 non consentirono la formazione di una nuova giunta in grado di governare la città. Infatti l'elezione del sindaco Salvatore Rebecchini, esponente di spicco della Democrazia cristiana (DC) romana, fu seguita dalle sue immediate dimissioni e da una gestione commissariale, per l'impossibilità di giungere a un accordo tra le varie forze politiche. Dopo la nuova consultazione elettorale dell'ottobre 1947, Rebecchini fu rieletto sindaco il 5 novembre 1947, con 41 voti su 80, con l’appoggio determinante dei tre consiglieri del Movimento sociale italiano (MSI), e formò una giunta di cui facevano parte esponenti della DC, del Partito liberale (PLI) e del Fronte dell'Uomo Qualunque.
Nel 1952, coerentemente con la politica nazionale della DC, Rebecchini allargò l’alleanza, coinvolgendo il Partito socialdemocratico (PSDI), il Partito repubblicano (PRI) e il Partito liberale (PLI); eletto quindi per la terza volta, il 3 luglio 1952, con un’ampia maggioranza, concluse la sua esperienza come sindaco nel luglio del 1956, quasi dieci anni dopo la prima elezione. Fra gli eventi più importanti del suo mandato, va ricordata la celebrazione dell’Anno Santo nel 1950, che diventò una delle priorità della giunta, caratterizzata da un forte legame con la Chiesa cattolica. In occasione di questa scadenza furono conclusi i lavori di via della Conciliazione e della nuova stazione ferroviaria di Termini. L'amministrazione Rebecchini si impegnò nel realizzare grandi opere pubbliche (primo tratto del Grande raccordo Anulare, 1951, realizzazione della via Cristoforo Colombo, 1955, apertura al pubblico del primo tratto della metropolitana di Roma, Termini-Eur) tra cui anche alcune programmate e iniziate durante gli ultimi anni del regime fascista. Fu inoltre avviato un vasto programma edilizio, utilizzando soprattutto i fondi INA-Casa messi a disposizione dalla legge Fanfani, che si concretizzò nella realizzazione di 110.000 vani di edilizia economica e popolare. Nel 1953 Rebecchini avviò l’elaborazione di un nuovo Piano Regolatore Generale (PRG), per rinnovare l’impostazione di quello del 1931, ancora in vigore. Nel giugno del 1955, Roma fu scelta dal CIO quale città organizzatrice dei Giochi della XVII Olimpiade, che si sarebbe svolta nel 1960.
Una forte opposizione alle politiche espansive delle giunte guidate da Rebecchini fu condotta dai partiti di sinistra e dagli ambientalisti. Momenti di forte scontro politico e civile furono innescati da temi come lo sventramento di via Vittoria, l’edificabilità della via Appia, l’abusivismo edilizio, la corruzione degli uffici pubblici. Alla vigilia delle elezioni amministrative del 1956, il giornalista Manlio Cancogni pubblicò sul settimanale «l’Espresso» l'inchiesta 'Capitale corrotta-Nazione infetta!' nella quale denunciava le speculazioni edilizie e i legami tra il sindaco Rebecchini e la Società Generale Immobiliare, proprietaria di numerosi terreni divenuti edificabili. Queste polemiche indebolirono la figura di Rebecchini, nell’ultimo periodo del suo mandato, ed ebbero conseguenze sulla vita politica della città anche negli anni successivi.
Nelle consultazioni del maggio 1956 la DC si confermò primo partito della città con il 32%, seguita dal Partito comunista italiano (PCI) con il 24,2%. Il consiglio comunale elesse sindaco della città il senatore democristiano Umberto Tupini, a capo di una giunta composta dalla DC, dal PLI, dal PSDI e da un esponente del PRI. Dopo le dimissioni di quest'ultimo, la giunta sopravvisse con l'appoggio esterno del MSI, secondo una modalità più volte sperimentata con le giunte guidate da Rebecchini.
Alla fine del 1957, il sindaco Umberto Tupini si dimise dalla carica, avendo deciso di presentarsi alle elezioni per il rinnovo del Senato previste per la primavera del 1958. L’8 gennaio del 1958 Urbano Cioccetti, assessore delegato (ossia vicesindaco) dal giugno 1956, fu eletto nuovo sindaco di Roma con i voti della DC, del PLI, del PSDI (tranne Giuseppe Saragat, che era assente), e con quelli dei monarchici e del MSI, che risultarono determinanti. Il PSDI fu attraversato da polemiche per aver votato insieme alle destre e i socialdemocratici preferirono non far parte della giunta, mentre la sinistra e i repubblicani orientarono il loro voto verso il consigliere radicale Leone Cattani, che si era scontrato fortemente con il sindaco Rebecchini. L'appoggio esterno dei partiti di destra alla Giunta Cioccetti era stato contrattato politicamente e prevedeva la rinuncia a commemorare il quindicesimo anniversario della Liberazione di Roma dai nazi-fascisti, il 4 giugno 1959. Cioccetti riuscì a superare le aspre polemiche che coinvolsero anche il suo partito in seguito alla rivelazione di questo accordo.
Si aprì un periodo di instabilità politica che non fu superato neanche con le elezioni del novembre 1960, che consentirono a Cioccetti di guidare una giunta monocolore soltanto fino all’aprile 1961, quando si dovette dimettere aprendo la strada alla nomina di un commissario (luglio 1961). A determinare la crisi furono gli scandali legati alla costruzione dell'aeroporto di Fiumicino, ma anche la nuova politica di apertura a sinistra della DC nazionale, osteggiata da larga parte del partito romano.
Le elezioni amministrative tenutesi nel giugno 1962, dopo quasi un anno di gestione commissariale, inaugurarono l'era delle giunte di centrosinistra (DC; PRI; PSDI; Partito socialista italiano, PSI). La prima fu guidata da Glauco Della Porta, docente di economia, e restò in carica meno di due anni, mettendo al centro della sua azione la definizione del nuovo piano regolatore, anche attraverso l’impegno dell’assessore all’urbanistica Amerigo Petrucci. Il nuovo PRG fu adottato dal consiglio comunale il 18 dicembre 1962, dopo un dibattito durato due mesi. Esattamente tre anni dopo, il 16 dicembre 1965, con alcune modifiche tra le quali l'ampliamento del parco dell'Appia antica, il presidente della Repubblica firmò il decreto di approvazione. Il PEEP (Piano per l’Edilizia Economica e Popolare) venne adottato dal Consiglio comunale il 26 febbraio 1964; si basava su ipotesi di crescita demografica che si dimostreranno nel tempo irrealistiche e risulterà sovradimensionato anche per una città che da oltre un decennio cresceva a un ritmo di 60.000 abitanti l'anno. Con una previsione di 712.000 stanze su 5.179 e 70 piani di zona è stato il più grande piano per l'edilizia economica e popolare che sia stato mai varato in Italia.
Nel marzo 1964, si costituì una nuova giunta, guidata proprio da Petrucci, che fu confermato nella carica anche dopo le consultazioni del giugno 1966, fino alle dimissioni presentate, nel novembre 1967, in occasione della sua candidatura alla Camera dei deputati. Fu lo stesso Petrucci a indicare come successore il suo assessore all’Urbanistica, Rinaldo Santini. Il 29 dicembre 1967, Santini fu eletto sindaco e nominò il suo predecessore Petrucci assessore al Bilancio, in una giunta nuovamente di centro-sinistra. Durante l'amministrazione Santini sono state realizzate le prime isole pedonali e inseriti alcuni itinerari preferenziali per i mezzi pubblici. Il successivo arresto di Petrucci per una vicenda legata alla gestione dell'OMNI, mise in difficoltà la Giunta Santini; dopo un periodo di contrasti e di polemiche, Santini si dimise, nel maggio del 1969.
Il nuovo sindaco Clelio Darida, nominato nell’agosto 1969, rimarrà in carica sette anni, alternando alla formula del centrosinistra due giunte monocolore. Nei primi mesi del suo mandato Darida avviò il processo di decentramento amministrativo del comune di Roma, attraverso la nomina di 240 consiglieri circoscrizionali. Il 13 giugno 1971 si tennero le elezioni amministrative, che segnarono una forte avanzata della destra; il 7 agosto Darida, confermato Sindaco, varò una giunta monocolore DC che durò poco più di sei mesi. Dimessosi nuovamente il 15 febbraio 1972, Darida fu rieletto il 17 marzo 1972 e rimase in carica sino al 1976. Nel 1974 costituì una giunta monocolore DC che si avvalse del sostegno dei consiglieri comunali dei principali partiti politici (DC, PCI, PSI, PSDI, PRI e PLI), a esclusione della destra missina. Questa situazione in qualche modo anticipava quello che sarebbe successo alcuni anni dopo a livello nazionale, con i governi dell’astensione e della solidarietà nazionale.
Le consultazioni elettorali del giugno 1976 rappresentarono una svolta nella storia politica della città: il PCI infatti, con il 35,5%, superò per la prima volta la DC, che ottenne il 33,1%. I risultati riflettevano una generale tendenza nazionale, poiché nelle elezioni politiche che si svolsero contemporaneamente, si registrò una forte avanzata del PCI, che comunque rimase il secondo partito italiano dopo la DC. Il voto fu caratterizzato da una forte polarizzazione: i due maggiori partiti ottennero quasi il 70% dei voti, mentre il MSI conservò con il 10,6% la terza posizione, pur registrando rispetto al 1971, quando aveva conquistato il 16,2% dei voti un notevole arretramento. Fu nominato sindaco Giulio Carlo Argan, storico e critico d’arte, che formò una giunta di sinistra composta dal PCI, dal PSI, dal PSDI e da una consigliera indipendente, Vittoria Calzolari, con l’incarico speciale per il Centro Storico. Tra gli assessori Ugo Vetere al Bilancio e Renato Nicolini alla Cultura. Nella breve esperienza della giunta Argan, che si dimise dopo tre anni per motivi di salute, sotto la spinta di Nicolini, prese vita la sperimentazione dell’Estate romana, basata su una concezione non elitaria della cultura, che veniva proposta a un pubblico ampio, attraverso modalità innovative per le amministrazioni locali. La giunta Argan si confrontò in generale con un periodo di aspri conflitti a livello cittadino e nazionale, culminato, nella primavera del 1978, con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro.
Nel settembre 1979 Luigi Petroselli, segretario della federazione romana del PCI, venne eletto sindaco, a capo di una giunta che riprendeva l’indirizzo della giunta Argan.
Le elezioni nel giugno 1981 confermarono sostanzialmente i risultati del 1976, con un ulteriore incremento dei voti da parte del PCI che raggiunse il 36,1% e un numero elevato di preferenze per il capolista Luigi Petroselli che, eletto nuovamente sindaco, morì tuttavia pochi mesi dopo. Nei suoi due anni da Sindaco di Roma, Petroselli si impegnò fortemente per il risanamento delle borgate, soprattutto attraverso l'allacciamento alla rete idrica e fognaria. Petroselli realizzò anche la continuità dell’area archeologica dal Colosseo al Campidoglio e istituì le prime chiusure domenicali di via dei Fori imperiali.
Il 15 ottobre venne eletto sindaco alla guida di una coalizione di sinistra che comprendeva anche il PRI, Ugo Vetere, che era stato assessore al Bilancio nelle giunte Argan e Petroselli. La giunta guidata da Vetere mantenne l’impostazione delineata da Argan e da Petroselli, consolidando il risanamento delle borgate, e sviluppando, anche in sintonia con una parte del mondo cattolico, iniziative a favore degli anziani e delle categorie più svantaggiate.
Le elezioni del maggio 1985 segnarono l’interruzione dell’esperienza delle giunte di sinistra. La DC ritornò a essere il primo partito della capitale, conseguendo il 33,1% dei voti, contro il 30,8% del PCI. Si formarono così giunte pentapartito, composte da DC, PSI, PSDI, PRI e PLI, e presiedute da sindaci democristiani Nicola Signorello (dal settembre 1987 al maggio 1988) e Pietro Giubilo (dall’agosto 1988 al luglio 1989). In seguito alle dimissioni di Giubilo, coinvolto in un’inchiesta sulle irregolarità nella gestione delle mense scolastiche, fu nominato il commissario prefettizio Angelo Barbato e furono indette elezioni anticipate per l'ottobre 1989; queste ultime confermarono la maggioranza uscente, con un netto rafforzamento del PSI. In un clima di rinnovata intesa a livello nazionale tra DC e PSI, fu eletto sindaco, alla guida di una coalizione pentapartito, il socialista Franco Carraro, che aveva alle spalle una carriera come dirigente nel mondo dello sport; durante il suo mandato si svolsero i Campionati mondiali di calcio del 1990.
Carraro presiedette anche le due successive giunte: la prima (composta da DC, PSI e PSDI) dal luglio 1992 al febbraio 1993, e la seconda (formata da PSI, PSDI, Verdi riformisti e un consigliere indipendente) nell'aprile 1993, durata pochi giorni. Durante l’esperienza di Carraro come sindaco della città di Roma, il mondo politico romano fu attraversato da numerose inchieste e da scandali, che coinvolsero consiglio comunale e giunta. Dopo le dimissioni di Carraro (aprile 1993) e un periodo di commissariamento, si svolsero nel novembre-dicembre nuove elezioni, con una legge elettorale di tipo maggioritario che prevedeva l'elezione diretta del sindaco e un eventuale secondo turno.
Le consultazioni sancirono la vittoria dello schieramento di centrosinistra guidato dal verde Francesco Rutelli, che sconfisse al ballottaggio Gianfranco Fini con il 53,1%. Rutelli fu così il primo sindaco a Roma eletto direttamente dai cittadini. Il MSI divenne il primo partito con il 31%, contro il 18,2% del Partito democratico della sinistra (PDS). Rutelli, sempre alla testa di una coalizione di centrosinistra, vinse le elezioni del novembre 1997 al primo turno contro il candidato di centrodestra Pierluigi Borghini, presidente della Confindustria nel Lazio, riportando il 60,4% dei voti.
Durante il suo secondo mandato da sindaco Rutelli gestisce la preparazione e l'organizzazione del Giubileo del 2000, anche come Commissario straordinario del Governo Prodi. Con i fondi speciali per il Giubileo furono realizzate numerose opere di riqualificazione urbana e la risistemazione dei Musei Capitolini. Il sindaco terminò il suo mandato qualche mese prima della scadenza naturale: si dimise infatti nel gennaio 2001 per guidare la coalizione L'Ulivo alle elezioni politiche. Dopo una gestione commissariale di pochi mesi, nel maggio si svolsero le consultazioni, che diedero la vittoria al secondo turno a Walter Veltroni, contro Antonio Tajani, con il 52,2%; nella coalizione di centrosinistra che lo sosteneva, i Democratici di sinistra (DS) risultarono il partito più votato, con il 17,6%. Nello schieramento di centrodestra AN ottenne il 21%, seguita da Forza Italia con il 19,2%.
Fu di nuovo Veltroni a conquistare, al primo turno e con il 61,4%, la carica di sindaco nelle consultazioni del maggio 2006. Nel centrosinistra la coalizione L'Ulivo (DS e Margherita) ottenne il 33,8%, mentre nello schieramento opposto AN risultò ancora il partito più votato, con il 19,5%. Durante le amministrazioni guidate da Veltroni fu realizzato il nuovo Auditorium e furono attuate molte iniziative di promozione culturale di massa, tra cui grandi concerti gratuiti e la sperimentazione della ’Notte Bianca’. Alla fine del suo mandato, nel 2008, fu approvato (non senza polemiche) dopo più di quaranta anni il nuovo Piano Regolatore.
La campagna elettorale per l’elezione del sindaco nel 2008 è stata animata dalla contrapposizione tra il candidato del Centrodestra Gianni Alemanno (Alleanza nazionale) che era stato sconfitto da Veltroni nel 2004 e Rutelli che si risolse nel ballottaggio tenutosi il 28 aprile 2008 con la vittoria di Alemanno (783.225 voti su 1.459.697, il 53,656 % del totale dei voti validi). Alemanno è stato il primo sindaco di Roma del dopoguerra proveniente dalle file della destra; la sua campagna elettorale e il suo mandato sono stati caratterizzata da una forte attenzione al tema della sicurezza e da una critica costante alle amministrazioni precedenti per la gestione della spesa. Nella primavera del 2011, sul finire del mandato di Alemanno, è stato approvato lo Statuto di Roma capitale. Novità tra le più significative del nuovo Statuto capitolino è sicuramente la riduzione dei municipi, che da 19 divennero 15. Il municipio I assorbì il territorio del municipio XVII, il municipio II assorbì il territorio del municipio III, il municipio V fu ricostituito unificando i territori del VI e del VII, il municipio VII integrando i territori del IX e del X.
Le elezioni del 2013 hanno visto la contrapposizione tra il sindaco uscente Alemanno e il candidato del centrosinistra, il senatore del Partito democratico (PD) Ignazio Marino. Nel ballottaggio del 9 e 10 giugno si impose Marino con il 63,9% dei voti; il 26 giugno il nuovo sindaco ha presentato la sua giunta, composta nel rispetto della parità di genere con il contributo di numerosi tecnici, che si è caratterizzata per una forte attenzione al tema dei diritti civili. Tra le iniziative più importanti realizzate nel suo mandato, la chiusura della discarica di Malagrotta, la pedonalizzazione dei Fori Imperiali, l’apertura di nuove stazioni della Metropolitana C. Nel 2015 sulla persona di Marino e sulla giunta si sono concentrate molte accuse e polemiche, che hanno coinvolto la stessa maggioranza; il 30 ottobre 2015, a seguito delle dimissioni di 26 consiglieri comunali, molti dei quali del suo stesso partito, presentate contestualmente davanti a un notaio, Marino è decaduto da sindaco insieme alla propria giunta e all'assemblea capitolina.
Dopo un periodo di transizione in cui l’amministrazione della città è stata affidata al commissario prefettizio Francesco Paolo Tronca, si sono svolte nel giugno del 2016 nuove elezioni. Virginia Raggi, candidata del Movimento 5 Stelle, il 19 giugno ha vinto al ballottaggio contro l’esponente del PD Roberto Giachetti, con 770.564 voti pari al 67,15%. Raggi è la prima donna a ricoprire questo ruolo nella storia della città e il sindaco più giovane che Roma abbia mai avuto; inoltre, da un punto di vista istituzionale, è anche Sindaco metropolitano di Roma Capitale, l'entità amministrativa che ha sostituito la vecchia Provincia di Roma. Il 18 ottobre del 2021 è stato eletto al secondo turno il candidato di centrosinistra Roberto Gualtieri con oltre il 60% dei voti, vincendo il ballotaggio contro il candidato di centrodestra Enrico Michetti.
Il diritto fu indubbiamente la più grande creazione di Roma, tutt’oggi presente e viva non solo nel patrimonio culturale, ma nelle stesse strutture giuridiche di una grandissima parte del mondo civilizzato. Nato come il diritto di una città-stato primitiva, esso seguì le sorti dell’espansione di Roma. Distrutto l’ordinamento politico romano dall’urto dei ‘barbari’, restò come sostrato della vita giuridica nelle terre già romane che soggiacquero all’invasione: particolarmente in Italia, che ne era stato il centro d’irradiazione, e dove se ne poté conservare una tradizione d’insegnamento e di studio, che raggiunse il suo punto più alto nella scuola di Bologna, al centro di un rinascimento giuridico. Esaltato come il diritto comune dell’orbe romano-cristiano, fu accolto nei più lontani paesi d’Europa e d’oltre oceano, non tanto come diritto vigente, quanto piuttosto come il diritto per eccellenza. Questa eccezionale vitalità giustifica la diversità di valori che l’espressione diritto romano può assumere. Essa può indicare il diritto di Roma nella sua evoluzione storica, dalle origini alla compilazione giustinianea; oppure la legislazione giustinianea (diritto romano giustinianeo); e, infine, l’elaborazione compiutasi nell’età di mezzo sulla base della legislazione giustinianea e diffusa nel mondo (diritto romano comune, o anche diritto comune).
Nell’evoluzione del diritto romano si possono distinguere tre periodi. Il primo va dalle origini di Roma fino al 200 circa a.C. e corrisponde all’affermarsi di Roma come potenza dominatrice, senza però che essa superi le forme costituzionali della città-stato: è il cosiddetto periodo quiritario, di cui la prima fonte sono le Dodici Tavole.
Il secondo si estende dal 200 circa a.C. fin verso la fine del 3° sec. d.C., quando si compie il tentativo di unificazione giuridica di Diocleziano, che cercò di imporre l’adozione del diritto romano a tutti i sudditi dell’Impero pervenuti alla cittadinanza con la Constitutio Antoniniana del 212 d.C. In questo periodo, di pari passo con l’universalizzazione dell’Impero, si compì anche l’universalizzazione del diritto di Roma. Sorsero lo ius honorarium, lo ius gentium, fiorirono la giurisprudenza e, con l’Impero, la legislazione imperiale: fonti adattabili alle nuove necessità che si imposero con l’affinarsi della vita economica e sociale. Tuttavia il progresso si compì senza infrangere il sistema del più antico diritto quiritario, ma anzi introducendo i nuovi principi come eccezioni, complementi, adattamenti, che paralizzavano sul terreno pratico la norma dello ius civile, lasciandone formalmente inalterata la struttura.
Il terzo periodo, che va dalla fine del 3° sec. fino alla compilazione giustinianea, si contrappone nettamente agli altri due. Mentre in questi ultimi, infatti, l’evoluzione e l’universalizzazione del diritto romano non esorbitavano dagli schemi e dai concetti propri di Roma, nel diritto postclassico si verificò nell’ambito del diritto romano una larga penetrazione di influenze provinciali, soprattutto delle province orientali, verso le quali tendeva a spostarsi il centro di gravità dell’Impero. A questa penetrazione non poté reagire la giurisprudenza classica, in piena decadenza e pressoché esaurita alla fine del 3° sec. Caratteristica, per dimostrare il disorientamento della prassi e l’esaurimento della giurisprudenza in questo periodo, quella Costituzione del 426 di Teodosio II e Valentiniano III che va sotto il nome di legge delle citazioni (➔ citazione) con la quale si attribuiva valore legislativo alle opere di cinque giuristi dell’Impero: Gaio, Ulpiano, Paolo, Papiniano e Modestino. I nuovi elementi che caratterizzano il diritto romano in quest’ultimo periodo della sua evoluzione penetrarono in gran parte nella compilazione giustinianea, e a essi furono dovute, nella loro maggior parte, le modifiche che i compilatori del Corpus Iuris apportarono ai testi classici per ordine di Giustiniano (➔ Triboniano).
La norma giuridica romana è indicata dal termine ius: iustus, quindi, è l’atto o il rapporto conforme al diritto positivo, mentre legitimus indica l’atto o il rapporto sancito da una lex (legitima hereditas, quaestio ecc.). Nel diritto postclassico, rimaste uniche fonti del diritto le costituzioni imperiali, legitimus passa a indicare il rapporto conforme al diritto positivo. Aequitas è il fine supremo del diritto, che consiste nell’applicare pari trattamento giuridico in causa pari: essa è intrinseca quindi nello stesso ordinamento giuridico. Lo svolgersi della coscienza giuridica porta a considerare iniqui gli istituti dello ius civile che non corrispondono più alle esigenze dei tempi. Perciò si dice che lo ius honorarium, cioè il diritto che emana dall’honor, dalla magistratura, e che è l’interprete della nuova coscienza sociale, ha il suo fondamento nell’aequitas ed è diretto alla sua attuazione. Bisogna distinguere questa, che è l’aequitas romano-classica, da quel particolare atteggiamento di benignitas del giudice, che applica diversamente o lascia inapplicata nella fattispecie concreta la norma di diritto positivo, e che corrisponde all’aequitas giustinianea.
Molto importante e ricca di storia è la distinzione tra ius publicum e ius privatum. Nel periodo quiritario, la civitas non è il solo organismo politico: al di sotto di esso, la gens, la familia sono egualmente (almeno secondo la teoria prevalente) gruppi politici; e carattere politico hanno sia i rapporti interni a ciascun gruppo, sia quelli tra gruppo e gruppo. La differenza fra diritto pubblico e diritto privato è quindi non di essenza, ma di sfere di applicazione. Con lo scomparire e l’attenuarsi degli organismi minori si attenua la differenza tra il diritto pubblico, che regola i fini che lo Stato deve raggiungere (ad statum rei romanae spectat), e il privato, che pone i suoi limiti nell’interesse dei singoli (ad singulorum utilitatem pertinet). Sono indicate come ius publicum anche le norme imperative che non possono essere derogate dalla volontà delle parti, in contrapposto alle dispositive. La distinzione ius civile, ius gentium, ius naturale non è originaria; classica è la dicotomia ius civile, come il diritto del popolo romano, e ius gentium, che è il diritto quod naturalis ratio inter omnes homines constituit: inteso, quest’ultimo, nel suo significato positivo, come quel complesso di norme che, per non essere esclusive di Roma, possono essere applicate, nei loro rapporti, sia a cittadini sia a stranieri. Nel diritto giustinianeo, sotto l’influenza prevalente del cristianesimo, alla dicotomia classica si sostituisce una tricotomia: si parla anche di uno ius naturale quod natura omnia animalia docuit. Attraverso questo diritto si ottiene la conciliazione della schiavitù, istituto dello ius gentium, con il principio cristiano dell’eguaglianza tra gli uomini che si rifà invece allo ius naturale. C’è infine la distinzione tra ius commune e ius singulare: norme di diritto singolare sono quelle che derogano ai principi generali del sistema giuridico (ius commune). Tali norme non sono estensibili per analogia. Distinto da esse è il privilegium, disposizione eccezionale, anche sfavorevole (privilegia odiosa), non giustificata dall’aequitas.
Soggetto del diritto è l’uomo libero, cittadino, sui iuris, in possesso cioè dei tre status (libertatis, civitatis, di paterfamilias). Lo status libertatis si acquista per nascita o liberazione dalla schiavitù; egualmente lo status civitatis (la manomissione rende lo schiavo cittadino); paterfamilias è chi non ha ascendenti viventi in lato maschile. Perdita della capacità giuridica si ha con il venir meno di uno dei tre status (capitis deminutio maxima, media, minima). Il concepito ha in suo favore una riserva di diritto (conceptus pro iam nato habetur). Il diritto riconosce inoltre capacità giuridica sia ad associazioni di persone riunite per uno scopo che trascende quello dei singoli associati (corporazioni), sia a un patrimonio destinato a uno scopo (fondazioni). Il diritto romano conosce soltanto le prime, e delle seconde alcune figure, che sono perciò ricollegate a persone fisiche (fiscus, hereditas iacens). Nell’ambito stesso delle associazioni, il diritto romano non giunge alla concezione di un soggetto di diritto astratto (universitas) se non relativamente tardi e superando la concezione più antica che considera come tale la collettività concreta delle persone che la compongono. Associazioni dotate di personalità giuridica sono: il populus romanus, gli organismi politici minori (municipium, forum, conciliabulum, castellum, vicus) e inoltre le corporazioni. La capacità giuridica di questi enti, in origine limitata, tende ad accrescersi sotto l’Impero.
L’oggetto di diritto è designato con il termine res, che indica sia le cose corporali (quae tangi possunt) sia i servigi e le prestazioni immateriali (res incorporales). Soltanto le prime sono oggetto di diritti reali: è ‘cosa’ un’entità esteriore concepita dalla coscienza economico-sociale come isolata. Il diritto romano distingue: res extra commercium (o extra patrimonium), non suscettibili di rapporti giuridici privati, e res in commercio (o in patrimonio); le prime a loro volta suddivise in res divini iuris (sacrae, religiosae e sanctae) e humani iuris (publicae, universitatis, communes). Le res in patrimonio si distinguevano nel diritto classico in res mancipi, cose di importanza sociale, e res nec mancipi, in cui prevale la sfera d’azione individuale; il diritto giustinianeo distingue soltanto res mobiles e immobiles. Si distingue ancora tra cose fungibili (quae in genere suo functionem recipiunt) e infungibili; consumabili (quae usu consumuntur) e inconsumabili; divisibili e indivisibili; cose semplici, composte (corpora ex cohaerentibus o contingentibus), collettive (corpora ex distantibus, universitas rerum o facti); cose principali e accessorie. Il concetto che presiede a queste distinzioni è economico-sociale, e variabile quindi secondo le esigenze dei tempi.
Il diritto romano non ha conosciuto una dottrina generale del negozio giuridico. Nelle fonti romanistiche, il problema più importante riguarda la volontà e la sua manifestazione. Il diritto quiritario conosce soltanto negozi formali, solenni, con la conseguenza che l’uso delle prescritte formalità esime da ogni analisi sulla volontà. L’evoluzione giuridica introdusse accanto a questi (chiamati nel diritto giustinianeo iudicia stricti iuris) gli iudicia bonae fidei, nei quali è lasciato libero gioco alla volontà delle parti; ma, mentre nel diritto classico l’indagine della volontà parte sempre dalla sua manifestazione concreta, dal quod actum est, nel diritto giustinianeo si ammette, per lo meno dal punto di vista teorico, anche un’indagine sulla volontà interna, che può esorbitare dai limiti della sua manifestazione concreta. Lo ius civile conosceva poi due sole possibilità: negozio giuridico perfetto, o nullo. Lo ius honorarium ne tradusse l’annullabilità, nei casi di volontà presente, ma viziata. Nel diritto giustinianeo la distinzione si porta sul terreno sostanziale: nullo è il negozio che si deve considerare non mai posto in essere, annullabile quello che è valido, ma il cui annullamento può essere provocato dall’interessato. La rappresentanza nei negozi è sconosciuta al diritto romano, salvo nella forma del procurator omnium bonorum.
Atto illecito è l’atto lesivo di un diritto altrui. La volontarietà dell’atto costituisce la colpa; la lesione il danno. Si ha colpa contrattuale, se vi si presuppone un rapporto con la persona lesa; altrimenti si ha colpa extracontrattuale. Nell’illecito extracontrattuale si risponde per dolus e per culpa; nel diritto classico, peraltro, quest’ultimo termine sembra indicare il nesso causale tra l’atto individuale e l’evento dannoso che ne deriva. Nell’illecito contrattuale, secondo la teoria che oggi tende a prevalere, sarebbero da distinguere i giudizi infamanti, nei quali la responsabilità è limitata al dolo, dagli altri rapporti. In questi verrebbe addossata al debitore una porzione obiettiva di rischio per certi determinati eventi. Comunque, la responsabilità subiettiva per colpa sembra si sia affermata assai tardi. Certamente post-classiche sono le graduazioni che ne troviamo nel diritto giustinianeo: culpa lata e levis, culpa in abstracto e in concreto, exacta e exactissima diligentia. Al di là di ogni responsabilità è il casus fortuitus, anch’esso distinto però dai compilatori in casus cui resisti potest e casus cui resisti non potest.
Il termine familia designa il complesso delle persone soggette all’autorità di un unico paterfamilias vivente. Fu più tardi designato come familia communi iure il complesso di coloro che sarebbero stati soggetti alla potestà del comune paterfamilias se questo non fosse morto. I poteri del paterfamilias sugli appartenenti al gruppo sono del tutto simili a quelli del capo di un gruppo politico. I modi di entrata nel gruppo familiare (nascita, adozione e arrogazione, che implicano la sottomissione alla potestà del nuovo pater, rompendo ogni vincolo con il gruppo originario; per le donne conventio in manum, confarreatio, coëmptio e usus) sono del tutto analoghi ai modi di entrata nella civitas. Il dominium ex iure Quiritium, nelle sue caratteristiche originarie, appare l’esercizio della sovranità sul territorio del gruppo. L’eredità, in origine successione testamentaria, appare la designazione del successore nella sovranità del gruppo, e soltanto più tardi si afferma il principio che singuli singulas familias incipiunt habere. La famiglia ha i suoi sacra, i suoi iudicia domestica, i suoi mores. I poteri del paterfamilias sono praticamente illimitati (ius vitae et necis, ius noxae dandi, ius vendendi). Dal punto di vista patrimoniale il pater è unico titolare del patrimonio, e a lui sono devoluti gli acquisti fatti dal filiusfamilias o dal servo. Poteva concedere a essi un patrimonio in amministrazione separata (peculio) che soltanto da Augusto in poi, attraverso il peculio castrense, comincia ad avere un riconoscimento sociale. Nei rapporti con i terzi, il paterfamilias non è obbligato per le dichiarazioni del figlio o dei servi, tranne in alcune ipotesi stabilite nell’interesse del commercio (actiones adiecticiae qualitatis).
Nel Basso Impero, alla famiglia agnatizia si è ormai quasi del tutto sostituita la famiglia cognatizia. Il termine familia indica ormai la famiglia naturale, che trae origine dal matrimonio e dalla procreazione legittima. La patria potestà è divenuta un semplice potere di correzione e di custodia, la conventio in manum è da tempo scomparsa, l’unità patrimoniale della famiglia è rotta attraverso il riconoscimento dei peculia adventicia. Base della nuova famiglia è il matrimonio, consortium omnis vitae, divini et humani iuris communicatio (Digesto 23, 2, 1). Elementi del matrimonio romano sono l’affectio maritalis o intenzione di vivere come marito e moglie, e la convivenza effettiva: con il venir meno anche di uno solo di questi due elementi, il matrimonio cessa. Conseguentemente, la possibilità del divorzio è implicita nella nozione stessa del matrimonio romano e l’istituto sussiste ancora nel diritto giustinianeo, per quanto aspramente combattuto dagli imperatori cristiani. Il regime patrimoniale fra coniugi è il regime dotale; allo scioglimento del matrimonio il marito può essere convenuto per la restituzione della dote con l’actio rei uxoriae. Nel diritto classico, peraltro, il marito è proprietario della dote, anche se questa è socialmente destinata ad sustinenda onera matrimonii. Nel diritto del Basso Impero questa destinazione sociale diviene la causa giuridica della dote, con la conseguenza che il marito ne è l’amministratore e ne fa suoi i frutti, ma non ne è più il proprietario. È ignoto al diritto romano l’istituto della donazione nuziale, radicato invece nelle province orientali.
Rientrano nel diritto familiare gli istituti della tutela e della cura. La tutela (sia sugli impuberi sia sulle donne) ha in origine carattere potestativo, e lo va perdendo soltanto nel Basso Impero. La tutela delle donne scompare nel 4° sec. d.C. La cura (dei furiosi, dei minori, dei prodighi) ha come carattere comune alle sue diverse specie la gestione del patrimonio di un soggetto che non può amministrarlo da sé, o l’assistenza (consensus), non ratifica, agli atti che esso compie.
Della proprietà le fonti romane non danno alcuna definizione. In origine il dominium ex iure Quiritium è già un diritto politico di sovranità anziché un diritto privato di proprietà. Si distinguono modi d’acquisto originari (occupatio, inventio, accessio, specificatio, confusio, commixtio) e derivativi (mancipatio per le res mancipi, traditio per le res nec mancipi, in iure cessio per entrambe) a seconda che l’acquisto nasca, o meno, attraverso un rapporto con il precedente titolare, rapporto che giustifica appunto l’acquisto (causa). Un posto a sé occupa l’usucapione: nel diritto giustinianeo essa risulta dalla fusione dell’usucapio (in età classica per i fondi in solo italico) e della longi temporis praescriptio (in età classica per i fondi provinciali). Particolarmente interessante l’istituto del condominio, in cui la proprietà per porzioni ideali dell’età classica si sostituisce alla più antica concezione, in cui ogni condomino poteva disporre liberamente della cosa. Residuo di questa, lo ius prohibendi del condomino, relativo agli atti di disposizione materiale, e lo ius adcrescendi, in caso di manomissione parziale di servo comune. Le limitazioni legali, rare nel diritto classico, dilagano nel diritto giustinianeo: così l’espropriazione per pubblica utilità, l’iter ad sepulcrum ecc. Servitù è per i Romani soltanto il peso imposto a un fondo a vantaggio di un altro fondo (servitù prediale). Solo i compilatori giustinianei, snaturando il concetto, introdussero accanto a queste le servitutes personarum. Caratteristiche della servitù prediale sono l’inalienabilità e l’indivisibilità. Si distinguono in rustiche e urbane. Le servitù rustiche più antiche (iter, via, actus, aquaeductus) sono res mancipi.
L’usufrutto e l’uso sono diritti personali di godimento della cosa altrui. L’usufrutto è lo ius alienis rebus utendi fruendi salva rerum substantia. Nell’età postclassica si collocano, fra gli iura in re aliena, anche l’enfiteusi e la superficie. Il possesso è la fisica disponibilità della cosa (possessio naturalis o corporalis) con l’intenzione di averla come propria (animus possidendi). È difeso mediante la protezione interdittale (interdetto) e, se accompagnato da certi requisiti (iusta causa, bona fides, nec vi nec clam nec precario), conduce all’usucapione. È una semplice signoria di fatto, protetta dal diritto non in quanto si riscontri nel possessore una legittimazione a tale protezione, ma per la conservazione della pace sociale. L’origine è probabilmente da ricercare in quelle forme di concessione revocabile che nell’età classica sopravvivono soltanto come anomale (precarista, sequestratario, creditor pigneraticius) e nelle concessioni dell’ager publicus che, verso la fine dell’età repubblicana, si consolidarono in proprietà. Con ciò, il possesso revocabile divenne, nell’età classica, una figura anomala, residuo della fase più antica dell’istituto. Con il diritto giustinianeo, possessio diviene soltanto quella del dominus, o di chi crede in buona fede di esserlo (possessio animo domini). Il semplice possesso di fatto è accostato alla detenzione. L’istituto non è quindi più considerato, nella legislazione postclassica e giustinianea, come un rapporto di fatto, ma piuttosto come un diritto, cui manca taluno dei presupposti per essere considerato un vero e proprio dominio. Infine, mentre i Romani non conoscevano che il possesso delle cose corporali, la scuola e la prassi del Basso Impero creano la quasi possessio, considerando e tutelando come tale l’esercizio di un diritto reale da parte di chi non ne sia titolare.
L’obbligazione è definita come iuris vinculum quo necessitate adstringimur alicuius solvendae rei. In tale definizione è riecheggiata una situazione più antica, nella quale il vincolo, anziché giuridico, era un’effettiva costrizione materiale. L’originario obligatus era asservito: a titolo di pena, nelle obbligazioni da delitto; a titolo di garanzia, quando interveniva la pactio o quando il filius o servus veniva consegnato dal paterfamilias mutuatario fino al pagamento del debito. L’obbligazione vera e propria, e cioè il vincolo nascente dalla promessa autonoma del debitore, sorge in epoca imprecisabile, ma anteriore alle XII Tavole, quando la sponsio cessa di essere esclusivamente una funzione di garanzia per divenire una diretta promessa di pagamento. Residuo del più antico regime dell’obligatio è la noxae deditio, la consegna del figlio o del servo colpevole a chi patì l’offesa, con la quale il paterfamilias si libera da ogni responsabilità. Nell’obbligazione r. si possono riscontrare i due momenti del debitum e della obligatio. In ogni modo, la distinzione, nel senso che altro sia colui che debba, altro l’obligatus, scompare in epoca storica, e il termine praestare, che originariamente indicava appunto la posizione dell’obbligato garante, perde questo significato del diritto classico, ed è equiparato al dare o al facere. Una fondamentale distinzione si trova nelle fonti fra obligatio civilis e obligatio naturalis. La portata della distinzione è assai discussa per il diritto classico. L’obligatio naturalis è sprovvista di azione, e produce soltanto effetti indiretti (soluti retentio, possibilità di tornare oggetto di fideiussione). La prestazione deve essere possibile (fisicamente e giuridicamente), lecita, determinata o determinabile, e deve offrire un interesse pecuniario per il creditore.
Fonti dell’obbligazione sono, in Gaio (3, 88), il contratto e il delitto; nel diritto giustinianeo, contratto, quasi contratto, delitto e quasi delitto. La maggiore differenza fra il diritto classico e il giustinianeo consiste però nel fatto che il primo conosce singoli contractus o delicta, non la figura astratta del contractus o delictum. È contractus quell’accordo di volontà cui il diritto riconosce la possibilità di costituire un vincolo obbligatorio, è delictum quella lesione che il diritto riconosce fonte di obbligazione. Nel diritto giustinianeo, invece, la conventio, o accordo di volontà, diventa elemento essenziale del contractus, il dolo del delictum; conseguentemente ogni accordo lecito di volontà è contractus, ogni atto illecito è delictum o quasi delictum. Nel diritto antico, la costituzione di obbligazioni contrattuali richiedeva forme solenni, prevalentemente orali (nexum, stipulatio, promissio iurata, dotis dictio); più tardi, accanto a questi, sorgono altri contratti formali e letterali (nomen transcripticium). Già prima del periodo classico si riconobbe, inoltre, carattere di contratto ad alcune cause di obbligazione, indipendentemente da forme tipiche e solenni; sorsero, così, i contratti reali (mutuo, commodato, deposito e pegno) e consensuali (compravendita, locazione, società, mandato). Nell’età postclassica si riconobbero come contratti molti negozi, che furono compresi genericamente sotto il nome di contratti innominati (do ut des, do ut facias, facio ut des, facio ut facias). Si distinguono ancora contratti a titolo oneroso o a titolo gratuito, secondo che la causa giustificativa dell’acquisto rappresenti o no una corrispondente perdita. I contratti a favore di terzi sono nulli: data la sua origine dal delitto, non è ammissibile, in antico, una cessione dell’obbligazione; si ricorse però in seguito a espedienti, forniti dalla rappresentanza processuale o dalla legislazione imperiale. L’obbligazione si può estinguere ipso iure od ope exceptionis (mediante impugnativa del debitore). Altre cause di estinzione sono la datio in solutum, la novazione, la compensazione, la confusione ecc.
Mentre nel diritto romano giustinianeo e nel moderno chiamiamo successione il rapporto che intercede tra l’alienante e l’acquirente in ogni trasferimento di diritti, distinguendo fra una successione particolare (successio in rem) e una universale (successio in universum ius), per il diritto romano classico vi era successione soltanto nel secondo caso. La successione romana consisteva nel subingresso di una persona nella posizione giuridica occupata prima da un altro soggetto. La successione si attuava solamente in certi casi determinati, cioè arrogazione; conventio in manum a favore del paterfamilias coëmptionator; riduzione in servitù a favore del dominus: casi, tutti questi, di successione inter vivos; hereditas, successione mortis causa. Secondo un’opinione dominante tra i romanisti, l’hereditas nella sua primitiva funzione doveva servire al trapasso della sovranità sulla familia. In origine, quindi, essa era designazione dell’erede per mezzo del testamento; ma rimase trapasso di sovranità anche quando, alla morte del paterfamilias, l’unità familiare si spezza e singuli singulas familias incipiunt habere. Le più antiche forme di testamento sono il testamentum calatis comitiis e in procinctu, scomparse alla fine della repubblica. Nell’epoca classica è in uso il testamentum per aes et libram, da cui si sviluppò il testamento pretorio. Il testamento scritto o nuncupativo del diritto giustinianeo si chiamò tripertitum dalle sue tre fonti: ius civile, ius honorarium, costituzioni imperiali. In mancanza di testamento, ha luogo la successione intestata.
Nelle XII Tavole l’ordine di successione è: sui, adgnatus proximus, gentiles. L’opera del pretore finì per sostituire al vincolo agnatizio il vincolo di sangue (cognazione). Sorse così la bonorum possessio, alla quale sono chiamati nell’ordine: i liberi o discendenti, i legitimi, i cognati, il coniuge superstite. Nel diritto giustinianeo, l’ordine dei successibili è stabilito dalle Novelle 118 e 127: discendenti; ascendenti; germani, germane e loro figli; fratelli e sorelle unilaterali; gli altri più prossimi parenti. In mancanza di successibili per cognazione, il coniuge superstite. Mentre nel diritto moderno erede è colui che è chiamato a succedere nella totalità o in una quota di beni singoli, nel diritto romano è erede colui cui è attribuito il titolo. Altrimenti, anche se è chiamato nella totalità dei beni, è legatario. Accanto ai legati sorgono, nell’età imperiale, i fedecommessi. Giustiniano abolì ogni differenza fra questi e i legati.
La caratteristica più notevole del processo civile è il suo carattere volontario e privato, dall’inizio all’esecuzione: caratteristica che gli deriva dalla sua origine di arbitrato volontario. Lo Stato interviene tardi e con molte limitazioni: conseguenza di questo intervento è la divisione del processo in due stadi: in iure (dinanzi al magistrato) e in iudicio (dinanzi al giudice arbitro). Il crescente intervento dello Stato si manifesta nelle tre fasi del processo romano: le legis actiones, le formulae, la cognitio extra ordinem. Le legis actiones erano 5: sacramento; per iudicis arbitrive postulationem; per condictionem; per manus iniectionem; per pignoris capionem. Il magistrato si limita a indicare alle parti il giudice. Una lex Aebutia del 2° sec. a.C. introdusse, o per lo meno legittimò, un nuovo modus procedendi, che prese il nome di procedimento formulare, e che era caratterizzato dal fatto che, al momento della litis contestatio, il magistrato consegnava al giudice un’istruzione scritta nella quale erano esposti i fatti (demonstratio), il diritto accampato dall’attore (intentio) e l’ordine alternativo di condannare o di assolvere a seconda che i fatti fossero veri o no (condemnatio). Il procedimento formulare, insieme con rimedi basati sull’imperium magistratuale che l’accompagnavano, costituì il mezzo principale di cui si valse il pretore per adeguare il diritto alle esigenze dell’aequitas. Il procedimento extra ordinem era caratterizzato infine dalla scomparsa della distinzione nelle due fasi in iure e in iudicio. Il processo è diretto dal principio alla fine dal magistrato, ed è ormai una funzione statale. È aperto dalla litis denuntiatio (libellus conventionis), citazione scritta; la condanna avviene direttamente sull’oggetto della controversia e non più sulla litis aestimatio. Mezzi di esecuzione sono la bonorum distractio e il pignus in causa iudicati captum.
La comprensione della religione romana antica è stata ostacolata per lungo tempo, e in parte lo è tuttora, da due circostanze storiche: in primo luogo, arrivata all’egemonia mediterranea, Roma ha assimilato la civiltà greca in tutti i suoi aspetti, identificando anche la propria religione con quella dei Greci; in secondo luogo, la stragrande maggioranza della documentazione sulla religione romana risale a un’epoca in cui questa identità tra le due religioni era ovvia per i Romani. Solo nell’Ottocento, soprattutto attraverso gli studi di Th. Mommsen, A. von Domaszewski e G. Wissowa, si è giunti a distinguere tra religione greca e religione romana: il passo più deciso, in questa direzione, è rappresentato dall’opera di G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer (1902), che separa radicalmente le divinità originariamente romane («dei indigeti») da quelle importate («dei novensidi»). Successivamente da una parte si è capito (F. Altheim) che il mondo mediterraneo, molto prima della nascita stessa di Roma, era luogo di un’intensa circolazione di idee religiose, di modo che neanche le più antiche divinità e forme religiose romane sono necessariamente prive di influssi stranieri; dall’altra, la comparazione indoeuropeistica ha mostrato (G. Dumézil) un fondo comune, di origine antichissima, tra le religioni dei popoli di lingua indoeuropea, tra cui rientrano sia i Greci sia i Romani.
Sebbene, quindi, la documentazione letteraria sulla religione romana risalga solo fino a un periodo culturalmente già determinato dall’ellenizzazione di Roma, non siamo completamente privi di fonti preziose per i periodi più antichi. Tali fonti sono in parte di natura archeologica, in parte testi che risalgono a grande antichità. Merita una menzione a parte l’arcaico calendario romano che ci è rimasto, inalterato e ben distinto, nei calendari epigrafici relativamente recenti (dal 1° sec. a.C.) e che, nella sua sistemazione, si data per lo meno dal principio del 5° sec. a.C., ma probabilmente dal 6°, e contiene elementi anche più antichi. Infine, certi elementi del rituale, non rispondenti alle condizioni della città nell’epoca cui i relativi documenti risalgono, forniscono prove immanenti della loro antichità; è dunque possibile tracciare la storia della religione romana, almeno nelle sue grandi linee, sin dalle origini.
Le immediate origini della religione romana vanno ricercate nell’ambiente storico in cui Roma si costituisce quale centro indipendente: il Lazio occupato da immigrati di lingua indoeuropea nel corso del 2° e del principio del 1° millennio a.C. Questi immigrati trovarono sul posto una popolazione antecedente che probabilmente soggiogarono. I Latini, se da una parte conservarono un ricco patrimonio culturale e religioso di lontane origini indoeuropee (per es., il nome di Iuppiter corrisponde perfettamente al sanscrito Dyaus-pitar, gr. Zeus ecc.), d’altra parte dovettero presto accogliere molteplici suggestioni culturali dal nuovo ambiente mediterraneo: di almeno un popolo, gli Etruschi, conosciamo i profondi influssi esercitati sulla religione romana fin dal periodo più antico; a loro volta gli Etruschi rivelano forti nessi culturali con l’Oriente mediterraneo e subirono l’ascendente dell’arcaismo greco. I Latini si trovavano dunque in un crogiuolo di idee e orientamenti culturali da cui sarebbe scaturita la loro propria e organica civiltà religiosa.
Le prime comunità dei Latini erano unite in una specie di confederazione religiosa avente per centro il culto di Giove Laziale sul Monte Albano (Monte Cavo); già in quell’epoca Giove risulta dunque dio supremo dei Latini, come Zeus lo era dei Greci, a differenza delle divinità etimologicamente corrispondenti di altri popoli di lingua indoeuropea. È solo dopo questo periodo, però, che si può cogliere il processo creativo il cui frutto sarà la religione romana.
La prima tappa di cui ci si può fare un’idea abbastanza precisa appare strettamente connessa con l’unificazione di Roma, più precisamente dei colli Palatino, Quirinale e Capitolino; l’arcaico calendario romano sembra la magna charta religiosa della città unificata. Le 45 feste con nomi propri derivati ora da nomi divini (Vestalia, Quirinalia, Saturnalia ecc.), ora da azioni rituali (Tubilustrium, Regifugium, Equirria ecc.), mediante l’osservazione dei luoghi di culto e del personale sacerdotale che coinvolgono permettono di notare l’intenzione di fondere le varie regioni, prima indipendenti, della città; per es., i Lupercalia sono legati al Palatino, mentre le Quirinalia sono una festa del dio originariamente poliade del Quirinale. Indipendentemente da questo aspetto politico e topografico, il calendario presenta molte regolarità (le feste, salvo due eccezioni spiegabili, cadono in giorni dispari del mese; non sono mai, salvo un’eccezione, anteriori alle none; tutte le idi sono festive) che rendono indubbia una redazione organica. Le date festive creano (o sanzionano) intenzionalmente nessi tra i diversi culti: come due feste dallo stesso nome, Tubilustrium, si celebrano allo stesso giorno (il 23) di marzo e di maggio, così in altri casi i rapporti documentati tra due divinità vengono espressi dalle date uguali delle loro feste (per es., 9 gennaio: Giano; 9 giugno: Vesta) o dal regolare intervallo che separa le loro diverse feste (Conso e Opi in agosto e in dicembre). Le idi (originariamente, in un più antico sistema calendariale lunare, i giorni di plenilunio) di ogni mese erano sacre a Giove, che così dominava tutto l’anno sacrale. Ogni singolo giorno aveva il proprio carattere giuridico-sacrale definito (giorni fasti, nefasti, comiziali, intercisi ecc.).
Non posteriore alla sistemazione del calendario dovette essere quella dei sacerdozi pubblici, che si raggruppano in quattro collegia – dei pontefici, degli auguri, dei duoviri (più tardi quindecemviri) sacris faciundis e dei III viri (più tardi VII viri) epulones – e in alcune sodalitates. Il collegio dei pontefici, con a capo il pontefice massimo, comprendeva, oltre ai pontefici propriamente detti, il rex sacrorum, i flamini e le vestali. I pontefici erano gli esperti insindacabili del rituale e il pontefice massimo nominava anche flamini, auguri, vestali ecc., tutte le altre cariche sacerdotali avevano funzioni specifiche.
Dal calendario festivo e dai sacerdozi si può ricavare un quadro della più antica fase storicamente raggiungibile della religione romana. Si tratta, innanzitutto, di un politeismo organico: un pantheon articolato, con a capo una divinità suprema, Giove. Le divinità maggiori sono figure complesse con funzioni varie e organicamente collegate e con nessi di culto tra loro (le divinità con funzioni limitate a singoli atti – per es., nel culto privato Educa e Potina, destinate a proteggere l’alimentazione del bambino o, nel culto pubblico, Vervactor, Redarator ecc., per le singole operazioni agrarie – sono probabilmente antiche, ma anziché essere, come si riteneva, la creazione religiosa più caratteristica dei Romani, costituiscono fenomeni marginali, dovuti a scrupoli di precisione rituali).
Per quanto la quasi totale mancanza di una mitologia romana sia dovuta in parte all’assenza di fonti letterarie anteriori all’ellenizzazione culturale di Roma, in parte al vigore con cui l’esuberante mitologia greca si era imposta in Italia sin da tempi arcaici, e per quanto sia possibile individuare alcuni temi mitologici specificamente romani, resta caratteristica della religione romana la grande prevalenza dell’aspetto rituale sopra quello mitologico. Dal carattere delle divinità e dei culti si possono dedurre gli interessi esistenziali degli antichi Romani: soprattutto, l’agricoltura e la guerra; ma, come in tutte le religioni di tipo arcaico, anche questi concreti interessi esistenziali si inseriscono in una visione organica del mondo e della società (le feste di dicembre, per es., si riferiscono contemporaneamente alla fase della coltivazione dopo la semina, al solstizio invernale e alle origini della città), mentre le divinità hanno sempre valenze multiple (per es., Giove: aspetto cosmico nel nesso delle idi con il plenilunio; politico nel sanzionare, mediante l’opera dei Feziali, i trattati internazionali; militare, nel rito del trionfo; agrario nelle Vinalie ecc.).
Un altro tratto eminente di questa religione è il suo carattere pubblico: esisteva, evidentemente, anche la religione privata; ognuno poteva sacrificare e aveva culti privati propri, esistevano templi privati e feste private; ma da questa religione dei singoli si distingueva nettamente la religione pubblica. Forse in nessun’altra grande religione la centralizzazione statale e la netta distinzione tra soggetto privato e soggetto pubblico (lo Stato) hanno assunto un così deciso rilievo. Queste forme fondamentali e questo carattere della religione resteranno sostanzialmente inalterati per tutta la storia romana.
La prima grande innovazione ha luogo in concomitanza con un mutamento della situazione politica di Roma: tra il 6° e il 5° sec. a.C. la città cessa di essere semplicemente una delle comunità latine e, forse dopo una parentesi di dominio o supremazia etrusca (i Tarquini della tradizione), si contrappone al proprio ambiente per conquistare l’egemonia. La tradizione fissa, in modo significativo, all’anno 509 a.C. la coincidenza di due fatti di grandissima importanza, uno di ordine politico, l’altro di ordine religioso: la proclamazione della repubblica e la dedica del tempio capitolino a Giove Ottimo Massimo, circondato da Giunone Regina e Minerva. Con questo tempio Roma pone al centro della propria religione pubblica Giove. Con il periodo che inizia ora Roma passa dalle forme arcaiche a quelle classiche del culto: il nuovo periodo è caratterizzato, oltre che dalla costruzione di templi (al posto dei luoghi di culto naturali), anche dal sempre più frequente accoglimento di divinità greche (Mercurio, Apollo, Dioscuri), fino alla comparsa, nel culto pubblico, delle ‘dodici divinità’ elleniche. Non mancano tuttavia creazioni religiose originali, come il culto di Spes (477?), di Concordia (367) ecc.
Parallelamente alla lotta con le città vicine, Roma deve sostenere la lotta interna tra patrizi e plebei, non priva di riflessi religiosi. In principio la vita religiosa della plebe si concentra intorno al tempio aventino della triade Cerere-Libero-Libera che lo Stato riconosce (493 a.C.), pur escludendo i plebei dalle cariche sacerdotali. Dal punto di vista religioso il lungo processo che porta al livellamento delle differenze sociali tra patriziato e plebe culmina al principio del 3° sec. a.C. (la lex Ogulnia ammette i plebei ai sacerdozi pubblici e dal 292 a.C. un plebeo può diventare anche pontefice massimo).
Le vicende che portano Roma al dominio nel Lazio si riflettono anche nell’accoglimento dei culti delle città vinte; la procedura, in questi casi, è varia: o Roma ‘evoca’ le divinità dalle città nemiche (Veio), trasferendo i loro culti nell’Urbe, o li lascia sul posto partecipandovi mediante delegati, mentre nello stesso tempo stabilisce culti paralleli sul proprio territorio, sopprimendo però gli elementi non conformi al proprio orientamento religioso (per es., Giunone Sospita di Lanuvio perde, a Roma, l’ordalia del serpente).
Con il 3° sec. a.C. la situazione politica e culturale di Roma muta radicalmente. L’espansione porta i Romani a diretto contatto con la Magna Grecia e, successivamente, con la Grecia stessa. Il contatto con nuove forme culturali e religiose comporta un allargamento dell’orizzonte religioso; contemporaneamente, l’assorbimento di sempre più vaste masse di popolazione non romana avrà per conseguenza che anche gli interessi religiosi di queste masse cercheranno di affermarsi e di inserirsi nella religione pubblica. A questa spinta all’allargamento si contrappone la gelosa conservazione dei principi fondamentali dell’orientamento religioso romano. Roma non accoglie passivamente gli influssi religiosi che provengono dai nuovi mondi culturali e sociali, ma li trasforma, li elabora, li piega al proprio spirito. E non soltanto, ma porta in questi nuovi mondi e impone la struttura della propria religione.
Nel 293 a.C. arriva a Roma il primo dio direttamente accolto dalla Grecia continentale, Esculapio, che si installa sull’isola Tiberina, dove il suo santuario diventa un luogo di guarigione, come in Grecia; ma per lunghi secoli ancora nulla si avvertirà a Roma dell’alone soteriologico e mistico che in Grecia circondava questo culto. Ancora più significativo è quanto accade con il primo culto orientale introdotto nella religione pubblica romana nei primi anni del 2° sec. a.C.: il culto frigio di Cibele. Durante le guerre puniche, dietro consultazione dei libri sibillini, Roma ottiene dal suo alleato di Pergamo la pietra nera di Pessinunte, immagine aniconica della grande dea, venerata in tutto il mondo ellenico con riti orgiastici, cruenti e di carattere misterico, inseparabile dal giovane dio morente Attis, che assicura ai propri fedeli l’immortalità. Ma a Roma la dea assume il nome di Magna Mater Deum Idaea, ricollegandosi già con questo al mito dell’origine troiana dei Romani e trasformandosi così in una divinità concepita come romana sin dalle origini. Il suo culto pubblico consiste in ludi celebrati nelle forme tradizionali dai magistrati romani. Di Attis nessuna traccia si avrà nel culto pubblico fino al 1° sec. d.C.
Le divinità straniere devono rinunciare, per trovare cittadinanza a Roma, ai propri caratteri contrari allo spirito della religione dello Stato romano. Là dove un culto non vuole adattarsi a queste esigenze, lo Stato lo combatte spietatamente: nel 186 a.C. si avrà l’affare dei Baccanali, la repressione di un movimento misterico che per il suo congenito individualismo e per le sue forme orgiastiche non può esser tollerato da Roma nemmeno nell’ambito privato.
Nei sec. 3° e 2° a.C. la religione pubblica, per reazione ai fermenti di origine straniera, rafforza i culti arcaici: nuovi templi di Conso, Pale, Giano, Giuturna ecc. stanno a indicare questa tendenza. Ma dal 3° sec. in poi, in misura sempre crescente, anche la classe intellettuale, sempre più imbevuta di cultura ellenistica e, specie nel 2° e 1° sec. a.C., a capo della vita politica, si discosta dall’orientamento religioso autenticamente romano. Se il senato resta su posizioni conservatrici, i capi effettivi della cosa pubblica sin dall’epoca degli Scipioni, attraverso Silla, Cesare e Antonio, fino ai vari imperatori, si orientano in un senso prettamente ellenistico: nel 1° sec. a.C. si gettano le basi religiose, ispirate alle monarchie divine ellenistiche, che sosterranno più tardi uno dei fenomeni religiosi più caratteristici dell’Impero, il culto imperiale. Il 1° sec. a.C. segna il punto di maggior squilibrio a favore dell’ellenismo, tanto è vero che Roma resta dall’87 all’11 a.C. senza flamine diale, perché nessuno della classe dirigente vuole sobbarcarsi alle rigide interdizioni che regolavano quel sacerdozio arcaico. Però, il tratto più fondamentale della religione pubblica romana, la centralizzazione degli interessi religiosi nell’idea dello Stato, cambia solo forma, non sostanza: già durante la repubblica nelle province orientali si costituisce il culto della dea Roma (➔).
Del resto, la situazione religiosa delle province pone nuovamente in luce la dialettica costante della storia religiosa romana tra l’inevitabile allargamento delle basi arcaiche e l’incessante sforzo di inquadrare le nuove acquisizioni nella linea, della religione pubblica. È caratteristica, da questo lato, la complessa realtà che si cela sotto la cosiddetta interpretazione (➔) romana: le divinità indigene dei Galli, Germani, Ispani, Africani e Asiatici vengono identificate con divinità romane. Ma se sotto il nome romano continua, in buona parte, a vivere la divinità indigena nel culto delle popolazioni locali, d’altra parte sono i Romani a imporre, anche semplicemente con la maggiore plasticità dello spirito classico (per es., con le raffigurazioni), le forme dell’immaginazione e del culto romani, e lo spirito religioso romano pervade le province.
Alla decadenza dell’antica religiosità si oppongono le riforme di Augusto. Anch’esse hanno tuttavia un doppio volto. Augusto fa restaurare 82 templi, celebra, nel 17 a.C., i ludi saeculares, rinnova il prestigio dei sacerdozi, rifiuta il culto imperiale (lo permette però nelle province, dove comincia a organizzarsi mediante sacerdozi particolari: flamini, seviri e sodali Augustali). Ma, nello stesso tempo, accumulando nella propria persona le più importanti cariche sacerdotali e dando un rilievo fino allora mai visto ai propri culti domestici con il pretesto della discendenza della gens Iulia da Enea, fino a giungere quasi a un’identificazione del culto del proprio focolare e dei propri penati con quello pubblico di Vesta e dei penati del popolo romano, Augusto compie un gran passo sulla via dell’identificazione tra Stato e imperatore.
Le principali novità, in campo religioso, di quest’epoca sono il culto imperiale e l’ascesa delle religioni orientali. Il culto imperiale, malgrado le forme e le origini in buona parte orientali, sotto un certo aspetto si inquadra nella linea romana: ora è l’imperatore che rappresenta lo Stato, il culto dell’imperatore riveste lo stesso carattere che prima era implicito nel culto capitolino. Quanto ai culti orientali di carattere misterico, la loro storia romana ha molteplici aspetti. Diffusi, in principio, tra le popolazioni di origine non romana, sono oggetto di avversione e spesso di repressione da parte dello Stato per il loro orientamento individualistico e indifferente allo Stato stesso. Ma il politeismo, pronto a sincretismi, non ha motivo di non riconoscere divinità originariamente estranee al pantheon tradizionale, di modo che, più o meno staccate dal fondo misterico del loro culto, le divinità orientali vengono accolte anche dai Romani. Gradualmente, anche i loro misteri trovano riconoscimento pubblico: sotto Claudio i misteri di Attis entrano a far parte della religione pubblica e ancora nel 1° sec. d.C. altrettanto avviene per il culto di Iside; i misteri di Mitra (o il culto del Sole Invitto Mitra), alieni da ogni forma estatica e orgiastica, fondati su un principio gerarchico di gradi iniziatici, dotati di salienti caratteri militari e, in più, ampiamente favoriti dal sincretismo solare caratteristico della fine dell’antichità, vengono fortemente appoggiati dagli imperatori.
Nell’assorbimento e nella implicita trasformazione sincretistica dei misteri orientali l’elasticità della religione pubblica romana raggiunge il suo punto estremo: a questo processo rimane estraneo l’ebraismo per il suo netto monoteismo e ancor più il cristianesimo, in quanto da un lato nega i principi fondamentali dello Stato romano, il culto degli imperatori come quello degli altri dei, dall’altro contiene impliciti riflessi di ordine sociale. Per questo lo Stato romano combatte esasperatamente il cristianesimo e la classe dirigente ricorre ai misteri orientali più in voga, per contrapporre questi, e particolarmente il mitraismo, alla nuova religione. Ed è ancora per questo che il tentativo di Costantino, che nel 313 riconosce al culto cristiano l’uguaglianza di diritti tra gli altri culti, non può costituire un punto d’arrivo, perché il cristianesimo non può divenire uno dei culti dello Stato. La restaurazione pagana di Giuliano (361-363) è effimera e già nel 391 Teodosio proibisce i sacrifici pagani e nel 399 si ha l’ordine della distruzione dei luoghi di culto pagani. Da allora la religione romana è, ufficialmente, morta: sopravvivrà solo ai margini della vita religiosa, ora infiltrandosi tra le forme liturgiche cristiane, ora degradandosi a usanze popolari tollerate, ora trasformandosi e prendendo etichette cristiane.
Roma è, fra le città viventi, quella più ricca di monumenti del passato. Nella sua eccezionale stratificazione storica che, senza contare i resti paleozoici e paleolitici né quelli dell’età del Bronzo rinvenuti nella sua area, va come stanziamento urbano accertato dalla prima età del Ferro all’epoca presente e non ha mai subito interruzioni, è straordinaria la quantità e l’importanza dei monumenti e dei documenti ancora superstiti.
Roma antica sorse e si sviluppò su un terreno vario e frazionato in zone collinose e pianeggianti, con un contrasto assai più rilevante di quanto appare oggi, avendo l’erosione naturale diminuito l’asprezza dei rilievi e innalzato il livello delle parti basse. Popolazioni di pastori scesi dai Colli Albani dovettero installarsi sulle alture presso la riva sinistra del Tevere agli inizi dell’età del Ferro. Il Palatino, dai fianchi scoscesi e dominante il Tevere, rappresentava un luogo ideale per un abitato e fu infatti occupato dal nucleo più importante (testimonianze dei sec. 9°-7° a.C). Anche la valle ai piedi del Palatino e del Campidoglio ha rivelato tracce di vita e un sepolcreto di questo periodo; fu prosciugata e scelta come centro di mercato, divenendo poi il Foro. A partire dagli ultimi decenni del 7° sec. a.C. si può cogliere con certezza il segno di una struttura urbana, secondo il modello della polis greca (cinta muraria, attività comiziale nel Foro, culto poliadico, edilizia monumentale, Cloaca Maxima): si tratta del periodo degli ultimi tre re di Roma. Per il 6° e 5° sec. sono soprattutto le aree del Foro Boario e del Campidoglio a restituire le testimonianze più notevoli (santuario arcaico di S. Omobono; resti del tempio di Giove Capitolino).
Nel Foro si compie la prima importante definizione monumentale dei suoi confini con i templi dei Castori e di Saturno (501-493), quest’ultimo eretto presso un antichissimo luogo di culto dedicato a Vulcano e identificato con il complesso del Niger Lapis. Nel 390 a.C. l’incendio gallico distrusse la Roma primitiva, e in seguito la città venne frettolosamente ricostruita. A questo periodo risale la cinta nota come ‘serviana’, i cui resti sono ancora visibili in più punti della città.
Le grandi mura urbane, con le rispettive porte, fissarono la struttura viaria della città. Durante il 4° sec. l’attività edilizia si concentrò ancora nel Foro (tempio della Concordia, Rostra, monumenti onorari, nuovo comitium). Con Appio Claudio si ebbe un ampio progetto urbanistico, con grandi opere utilitarie (primo acquedotto urbano, via Appia). Tra il 4° e il 3° sec. si costruirono ex novo o si rinnovarono vari templi, ed è da questo periodo che si hanno notizie relative anche alla decorazione pittorica. Diversi templi, di diversi periodi, finirono talvolta per comporre vere e proprie sequenze monumentali (templi di largo Argentina e del Foro Olitorio). Alla censura di C. Flaminio (223 a.C.) si deve la strutturazione del Campo Marzio, con la via Flaminia e il circo, intorno al quale, nel volgere del 2° sec., si eressero templi e portici (di Ottavia, di Q. Cecilio Metello).
A partire dal 2° sec. a.C., in concomitanza con la conquista del Mediterraneo, si registra a Roma un’attività edilizia senza precedenti (restauro di acquedotti; nuovo emporio a S dell’Aventino; prime basiliche nel Foro; ponti sul Tevere).
Nel corso del 1° sec. a.C. l’attività costruttiva proseguì con il rinnovamento o la costruzione ex novo di molti edifici (Tabularium sul Campidoglio), e si diffuse un desiderio di fasto nelle domus signorili (casa di Livia e casa dei Grifi sul Palatino), nei palazzi e nelle ville. Le vicende edilizie della seconda metà del secolo seguirono e contrassegnarono l’evoluzione della lotta politica, mostrando una città totalmente in preda alle iniziative rivali di munificienza e autopromozione degli imperatores antagonisti. Pompeo costruì il primo teatro in muratura (una sorta di rocca artificiale nella pianura del Campo Marzio); Cesare si spinse fino al progetto di un nuovo Foro, dominato dal tempio di Venere Genitrice. Si realizzarono infine vasti horti sul Pincio (Horti Luculliani) e fra il Quirinale e il Pincio (Horti Sallustiani), che comprendevano edifici sacri, portici, ninfei e decorazione statuaria.
Un profondo rinnovamento urbano si ebbe sotto Augusto, che intorno al 7 a.C. attuò la divisione di Roma in 14 regioni. Completati gli edifici iniziati da Cesare (Foro, Basilica, Curia, Saepta), Augusto fece costruire un sontuoso tempio dedicato ad Apollo sul Palatino, accanto alla sua dimora, e un nuovo Foro vicino a quello di Cesare, dominato dal tempio di Marte Ultore. Il Campo Marzio è certamente il settore urbano dove più forte è l’impronta lasciata da Augusto, che in questa zona riservò un’area per il suo mausoleo, l’Ara Pacis e il Solarium. Vipsanio Agrippa risanò il Campo Marzio costruendovi il Pantheon e la basilica di Nettuno, le prime terme pubbliche. A Mecenate spettò la bonifica dell’Esquilino, con i grandi giardini chiamati con il suo nome.
Il regno di Tiberio vide soprattutto il restauro di templi e la costruzione della domus sul Palatino, oltre i Castra Praetoria.
Sotto Nerone, nel 64, si sviluppò il grande incendio che in brevissimo tempo distrusse e danneggiò gran parte della città. L’imperatore promulgò un piano regolatore per la ricostruzione, prescrivendo un allargamento delle strade, con portici, regolarizzazione dei tracciati, costruzioni più solide in muratura, distribuzione di cortili, giardini, fontane pubbliche. In realtà Nerone si occupò soprattutto della costruzione della sontuosa domus aurea, estesa dal Palatino al Celio e non ancora conclusa alla sua morte.
L’area della domus neroniana venne smembrata da Vespasiano e Tito per restituire al popolo la zona del parco, prosciugando lo stagno ed erigendo al suo posto l’anfiteatro inaugurato nell’80 d.C. In questo imponente edificio, noto con il nome di Colosseo, a quattro ordini architettonici sovrapposti, con il piano attico provvisto di strutture a sostegno di un grande velario, si svolgevano i ludi gladiatorii e le venationes; intorno, numerosi edifici di servizio (Ludus Magnus, armamentaria, castra). Il principale monumento trionfale di Vespasiano fu il tempio della Pace, inserito poi nel complesso dei Fori Imperiali. Larghe ricostruzioni di templi e di edifici pubblici furono volute da Domiziano, che fece realizzare fra l’altro uno stadio in Campo Marzio (ricalcato dall’odierna piazza Navona) e una nuova residenza imperiale sul Palatino, oltre al Foro Transitorio (poi detto di Nerva).
L’immagine pubblica di Traiano resta invece legata a opere funzionali e di infrastruttura, come l’Aqua Traiana, le grandiose terme del Colle Oppio e soprattutto il Foro, con la basilica Ulpia, le cosiddette biblioteche e la celebre colonna istoriata. Con Adriano si compirono gli imponenti lavori nel Campo Marzio, che conferirono all’intera zona la sua forma definitiva (rifacimento del Pantheon, Saepta, Basilica Neptuni, Terme di Agrippa); furono promossi inoltre grandiosi restauri, lottizzazioni di ampi settori urbani e soprattutto l’erezione del monumentale mausoleo (odierno Castel Sant’Angelo). Da questo periodo fino ai Severi i cantieri principali riguardarono quasi esclusivamente i monumenti degli imperatori divinizzati (templi di Adriano, di Faustina e il complesso dedicato a Marco Aurelio).
Grande attività edilizia caratterizzò il regno dei Severi: si abbandonò il classicismo adrianeo in favore del gigantismo nelle proporzioni e del richiamo a modelli architettonici e decorativi di origine orientale (Septizodium sul Palatino; tempio di Serapide al Quirinale; terme di Caracalla; restauri in Campo Marzio). Di fronte alla minaccia di invasione delle popolazioni barbariche si concentrano gli sforzi costruttivi alla fine del 3° sec. (nuova cinta muraria, iniziata da Aureliano nel 272 e più volte restaurata in seguito).
All’epoca di Diocleziano Roma era una metropoli immensa e popolosa, con privilegi onerosissimi, ma il cui ruolo effettivo di capitale era ormai perduto. E tuttavia si registrano ancora grandi interventi nell’edilizia pubblica (sistemazione del Foro, ricostruzioni in Campo Marzio, terme di Diocleziano, tempio di Venere e Roma, basilica di Massenzio, complesso di Massenzio sulla via Appia). Con Costantino Roma raggiunse il suo massimo splendore: i fori nella zona centrale, i palazzi imperiali sul Palatino, una selva di templi; teatri, anfiteatri, circhi, terme, basiliche creavano una cornice sontuosa accanto al verde dei parchi. Molte vie erano fiancheggiate da portici, le grandi insulae di affitto si elevavano a più piani, accanto alle domus signorili, ai palazzi del patriziato, e dovunque si aprivano file di taberne, sede del commercio minuto, di officine e spesso anche abitazione della plebe.
Nella difficoltà di circoscrivere in un quadro unitario il fenomeno multiforme dell’arte romana, sviluppatosi su un territorio vastissimo e differenziato di cui via via assumeva le peculiarità indigene, si può tentare di definire l’arte romana, con molta approssimazione, come l’espressione artistica e artigianale delle province dell’Impero tra il tardo ellenismo e il 5° sec. d.C. Fino alle ricerche di fine Ottocento il pregiudizio neoclassico aveva considerato l’arte romana in posizione subordinata rispetto all’arte greca della quale era considerata una fase di decadenza; ma gli studi di A. Riegl e di F. Wickoff, prima, e in seguito quelli di A. Schweitzer, G. Rodenwaldt e R. Bianchi Bandinelli ne hanno messo in luce le peculiarità e l’autonomia rispetto all’arte greca.
Alla ricerca teoretica formale propria dell’arte greca l’arte romana contrappone un’esigenza di ricerca volta a fini pratici: nell’architettura, che dell’arte romana è la manifestazione più originale e importante, questa esigenza è dimostrata dagli edifici di utilità pubblica (mercati, acquedotti, terme, circhi ecc.) e in edifici privati, che raggiungono, tramite il sapiente sfruttamento del laterizio o altri semplici materiali da costruzione, soluzioni di estremo ardimento; anche in campo figurativo, la maggior parte dei monumenti ufficiali romani, al contrario di quelli greci, nasce con fini celebrativo-propagandistici: una serie di monumenti tipici, quali archi trionfali, fori, colonne istoriate, statue imperiali, testimoniano anche nelle più remote regioni la forza del potere centrale. Per la celebrazione di questi eventi non si ricorre alla simbologia mitologica, come era accaduto in Grecia, ma descrivendo le imprese nel loro concreto attuarsi, documentando veristicamente il paesaggio, i personaggi, inserendoli in una narrazione continua in cui le varie scene descrivessero la successione delle situazioni e delle imprese. Il rilievo storico è una forma costante e tipica dell’arte romana: esso trae origine dalle grandi pitture trionfali che, fin dalla prima età repubblicana, raccontavano al popolo le imprese vittoriose.
La cultura artistica della Roma monarchica e del primo periodo repubblicano è quella italica. Il tempio di Giove sul colle capitolino a Roma, in legno, rivestito di terracotta secondo la moda etrusca, con gli acroteri e la statua di culto fittili, opera dell’etrusco Vulca, non è diverso dai templi di Preneste, Tivoli, Segni ecc. Il simulacro della lupa capitolina, un bronzo della metà del 5° sec. a.C., è opera di officina etrusca o della Magna Grecia; l’opera d’arte più antica lavorata a Roma, ma scoperta a Palestrina, è la cista Ficoroni (fine 4° sec. a.C.), di un Novios Plautios, osco-campano, che nella descrizione delle gesta degli Argonauti, si rifà a esperienze di pittura attica del 5° secolo.
L’influenza ellenica, ristretta dapprima a un’élite nobiliare e attiva solo a livello filosofico-letterario, diviene preponderante dopo la caduta di Siracusa (212 a.C.) e dopo le campagne di Grecia, in particolare dopo la conquista di Corinto (146 a.C.): molte celeberrime opere di Scopa, Lisippo, Apelle giunsero a Roma come preda di guerra e, copiate in serie dai ricchi romani, furono usate a scopo decorativo.
La formulazione della cultura artistica del 2° e del 1° sec. a.C. a Roma sta nella tuscanicorum et graecorun communis ratiocinatio, che Vitruvio formula per l’architettura (la più autonoma delle espressioni artistiche romane). Silla ricostruisce in pietra i templi lignei; edifica sul Campidoglio il Tabularium, l’archivio di Stato in cui appare il motivo delle finestre formate da arcate gettate su pilastri e inquadrate fra semicolonne che sarà tipico di teatri, anfiteatri e circhi. Dell’eredità etrusca restano il tempio tripartito e la casa ad atrio.
Dall’incontro fra le esperienze italiche e la forma tardo-ellenistica nasce l’arte del periodo augusteo, prima manifestazione ufficiale della glorificazione del potere imperiale.
Le scene processionali sui rilievi marmorei del 1° sec. a.C. sono profondamente radicate nella tradizione italica e saranno un tema ricorrente nei monumenti ufficiali dell’Impero. È monumento tipico l’Ara Pacis, eretta dal Senato nel 13 d.C. lungo il percorso della via Lata per celebrare il ritorno dell’imperatore dalla Gallia e dalla Spagna e la pacificazione dell’Impero. Si componeva di un altare marmoreo con due sponde ornate di decorazioni figurate e vegetali, elevato sopra un podio rettangolare, circondato con un alto recinto istoriato marmoreo. Sui lati lunghi è rappresentata la processione dedicatoria del 9 a.C. cui partecipano Augusto, i suoi familiari e le più alte autorità civili e religiose.
Nell’adozione di modelli greci per la statua dell’imperatore ci si rifà al doriforo di Policleto (Augusto di Prima Porta).
La levigata esperienza della scultura augustea durò per tutto il periodo giulio-claudio e rappresentò, nell’ambito dell’Impero, la prima esperienza di arte aulica. A Roma, che Augusto morendo si vantò di aver trovato di mattoni e di lasciare di marmo, furono fatti enormi lavori: tra gli edifici più importanti sono il teatro di Marcello (17 a. C.) con la grande facciata a due ordini sovrapposti; il Foro di Augusto, votato dall’imperatore nel 42 a.C., circondato da un alto muro di blocchi di peperino e pietra gabina, con il tempio di Marte Ultore decorato con marmi di Luni, in cui erano stati trasferiti due quadri di Apelle raffiguranti i trionfi di Alessandro Magno; il mausoleo dell’imperatore.
Sotto i successori di Augusto si ha un rapido allontanamento dall’accademismo; specie nell’architettura, furono evidenziate nel sapiente sfuttamento del laterizio le caratteristiche proprie italiche. Tra i monumenti più importanti del periodo di Nerone è la Domus aurea, sul Colle Oppio, vasto complesso di edifici, fra i quali spicca la sala ottagonale ricoperta da una cupola impostata sull’ottagono senza uso di pennacchi: uno dei primi esempi dell’architettura dello spazio interno, ignota in Grecia, caratteristica peculiare dell’architettura romana che sfrutta le proprietà dell’opera cementizia.
I pochi documenti superstiti di pittura sono legati alla tradizione ellenistica; le pitture del IV stile pompeiano, datato tra il 63 e il 79 d.C., appaiono lo sviluppo di uno stile che ha le sue origini nella capitale (casa di Livia sul Palatino).
Nei rilievi dell’Arco di Tito sono raffigurate le processioni che si svolsero a Roma nel 71 d.C.; esse si snodano su un fondo curvo, in un impianto spaziale che con la varia altezza del rilievo provoca l’illusione di uno spazio reale. Tito inaugurò nell’80 l’Anfiteatro Flavio (Colosseo), iniziato da Vespasiano nel 75, sotto la cui cavea è sempre più intelligentemente sfruttato il sistema della volta.
Con Traiano l’arte romana raggiunge nella scultura il proprio vertice e si esprime nella più autonoma originalità: nel fregio della colonna eretta in onore dell’imperatore per commemorare le quattro campagne delle due guerre daciche, in un rilievo basso, lungo 200 m, si snoda la cronaca dettagliata delle battaglie in una forma nuovissima, scevra di retorica; con scorci immediati e rapidità di disegno sono espressi nuovi contenuti di pietà per i vinti, di comprensione per le loro lotte disperate; la figura dell’imperatore appare in tutta la sua umanità accanto ai soldati o fra le torme di supplici. La Colonna traianea sorgeva fra le due biblioteche del Foro costruito dall’imperatore e dominato dalla mole della basilica Ulpia.
Al periodo adrianeo, tra il 118 e il 128 ca., risale la ricostruzione nel Campo Marzio del Pantheon, il più celebre monumento dell’architettura romana, in cui tutti i suoi moduli struttivi sono sintetizzati: a pianta circolare, l’aula è ricoperta da un’imponente cupola costituita da un’armatura emisferica di eccezionale solidità, decorata a grandi lacunari.
Dopo Adriano la pace si fa sempre più precaria: l’Impero ha raggiunto un’estensione immensa con popolazioni rese irrequiete dal desiderio d’indipendenza e dall’oppressione fiscale. Come antidoto alla tristezza dei tempi ci si volge al misticismo: le correnti mistiche provenienti dall’Oriente (culti di Cibele, di Mitra, e infine il cristianesimo) creano grandi mutazioni nell’ordine spirituale di quest’epoca. La narrazione delle imprese belliche che nella Colonna traianea aveva creato una severa meditazione sulla guerra e il dolore che essa comporta, viene ripresa con un linguaggio profondamente diverso: nella Colonna antonina, eretta da Marco Aurelio in Roma per commemorare le vittorie nelle campagne sarmatiche, la novità cede al repertorio e alla ripetizione di schemi: la figura dell’imperatore vi appare sempre frontalmente, distinguendosi in pieno dalle altre figure.
Nel 3° sec. la forma classica viene via via abbandonata; per esprimere lo smarrimento che porta l’uomo a ripiegarsi su sé stesso e a meditare sulla vita e la morte, essa viene alterata, le espressioni sono accentuate in un approfondimento di ricerca psicologica che porta a una grande fioritura nel campo della ritrattistica: i ritratti di imperatori (Caracalla, Eliogabalo, Balbino, Gordiano III, Filippo l’Arabo ecc.) e quelli privati sono caratterizzati da un’intensa penetrazione psicologica raramente raggiunta nelle età posteriori. Nell’arte ufficiale ci si rifugia nel simbolo: le fortune dei Severi sono esaltate nell’Arco di Settimio Severo (203 d.C.) nel Foro romano e nella domus sul Palatino; come simbolo della vittoria sui barbari si ricorre alla figura di Eracle e al fregio di Pergamo di cui si ripetono pedissequamente gli schemi.
A un ritorno a una forma classicista sotto Gallieno segue l’adesione a moduli detti impressionistici in sculture lavorate con il bulino che crea solchi molto profondi. Le opere principali di scultura di questo periodo sono i grandi sarcofagi ordinati dalle famiglie senatorie o militari, esaltanti le imprese dei generali in battaglia o la fedeltà coniugale, oppure genericamente simbolici, con i temi delle stagioni, del ritorno di Dioniso dalle Indie, con filosofi; molto attive in questo campo dovevano essere le fabbriche asiatiche.
Grande diffusione ebbe nello stesso periodo l’arte del mosaico, con il quale si decoravano i criptoportici delle grandi ville, le terme (mosaico con gladiatori dalle Terme di Caracalla a Roma).
Roma lentamente abdica alla sua funzione di centro culturale dell’Impero; con Costantino si rivive un nuovo periodo aulico, ma ben presto, con la fondazione di Costantinopoli, la città perde il carattere di centro direzionale. L’arco celebrante il trionfo dell’imperatore posto tra il Celio e il Palatino (315 d.C.) è di grandiosa impostazione: il materiale che lo adorna è traianeo e adrianeo; dell’epoca sono solo i rilievi relativi alle gesta contro Massenzio e alle cerimonie pubbliche dopo la vittoria, in uno stile che ha del tutto abbandonato il naturalismo della rappresentazione; le figure vi sono presentate in proporzione gerarchica con l’imperatore che sovrasta tutti con la sua statura.
La scultura si avviò verso un nuovo classicismo: statue onorarie di Costantino; sarcofagi di porfido (da S. Costanza e da Torpignattara). Tendenze colte e raffinate si ravvisano in altri campi, dalla produzione di avori all’epigrafia.
La basilica cristiana è l’ultima creazione dell’architettura romana; basata sulla pianta della basilica civile, essa ha la navata centrale più alta delle laterali e il grande arco trionfale che delimita l’abside. Costantino eresse alcune grandi basiliche (Laterano, S. Pietro, S. Lorenzo ecc.). Fu convertito a santuario l’atrio del Palazzo Sessoriano (S. Croce in Gerusalemme). La pittura di questo tempo è documentata anche da mosaici (in S. Costanza, in S. Pudenziana, nelle catacombe di Domitilla e altri tolti da altre catacombe) e da affreschi di ipogei e di catacombe. Conclusione suprema del classicismo teodosiano era la basilica di S. Paolo.
Svuotata dei suoi contenuti, la forma tipica dell’arte romana si dissolve in linguaggi particolari; all’arte romana si rifanno tuttavia le rinascenze medievali e il Rinascimento europeo; al suo bagaglio aulico guarderanno tutti i regimi forti: le grandi monarchie europee saranno rappresentate quasi ovunque dal repertorio figurativo proprio dell’arte romana.
Nonostante si apra con il sacco per opera dei Goti di Alarico, il 5° sec. conta alcuni edifici originali: il battistero del Laterano, S. Maria Maggiore (ritenuta già del 4° sec.), con importanti mosaici, S. Sabina, S. Stefano Rotondo (a pianta centrale, ispirato all’Anastasis di Gerusalemme). S. Sabina è decorata da mosaici e da tarsie marmoree, come già la basilica di Giunio Basso (4° sec.).
Agli inizi del 6° sec. la scultura, in tendenze volumetriche e quasi astratte, l’architettura (S. Lorenzo, S. Agnese, SS. Nereo e Achilleo) e la pittura (affresco di Maria Regina in S. Maria Antiqua; mosaico di S. Lorenzo, 579-590; affresco di Giovanni III, 560-573, nella catacomba di Lucina; mosaico di papa Siricio in S. Martino ai Monti ecc.) sono segnate da influenze bizantine. Malgrado l’affievolirsi dell’amministrazione civile e benché già sotto Gregorio Magno la Chiesa incominciasse quell’attività assistenziale, imposta dalle guerre gotiche, da cui sorgerà la nuova organizzazione delle diaconie, Roma acquista sempre più caratteri bizantini.
Tra 7° sec. e prima metà dell’8°, sorgono numerosi monasteri orientali, e orientali sono quasi tutti i pontefici. Per la pittura del periodo si ricordano: S. Pietro in Vincoli; S. Maria Antiqua; S. Maria in via Lata; S. Saba; S. Crisogono; S. Lorenzo fuori le Mura; S. Passera; le icone (S. Maria in Trastevere ecc.). Dall’alleanza del papato con i Franchi, si avvia la ripresa di temi paleocristiani, nell’architettura e nei mosaici (S. Prassede, S. Martino ai Monti, SS. Nereo e Achilleo, Triclinio lateranense, S. Marco, S. Maria in Domnica). Nella scultura ornamentale è ragguardevole una produzione di lastre ornate di nastri intrecciati, foglie stilizzate, croci, uccelli, di tono decisamente barbarico. Notevoli gli effetti della riforma carolingia sull’epigrafia.
Per la difesa di S. Pietro e Borgo (l’abitato sviluppatosi nell’Ager vaticanus), Leone IV costruisce le mura che si saldavano a Castel S. Angelo, creando la Città leonina. Dei presunti tentativi di renovatio del 10° sec. rimane ben poco. Documenti della pittura, intrecciata con il bizantinismo dell’Italia Meridionale, sono gli affreschi di S. Maria in Pallara (o S. Sebastianello) e di S. Crisogono.
I segni di una vera rinascita, per la quale l’arte romana torna dominante in Italia e al di là delle Alpi, si hanno nell’ultimo quarto dell’11° sec.; evidenti i rapporti con Bisanzio (porte di oricalco di S. Paolo fuori le mura, 1071) e i contributi di Montecassino (reliquiario di Desiderio in SS. Cosma e Damiano).
Tra le opere notevoli: affreschi in S. Clemente, Sancta Sanctorum, S. Cecilia, S. Pudenziana; icone (Madonne di S. Angelo in Pescheria, S. Maria in via Lata, Ss. Nome di Maria, S. Maria in Aracoeli, S. Cosimato, S. Lorenzo in Damaso). Importante il contributo di Roma alla pittura ‘politica’ del 12° sec. (affreschi per Callisto II nel palazzo del Laterano). L’architettura romana dei sec. 11° e 12° torna a forme paleocristiane: ricostruzioni di S. Clemente, S. Maria in Cosmedin, S. Maria in Trastevere, S. Croce in Gerusalemme, SS. Giovanni e Paolo (12° sec.). Allo spirito di renovatio dell’architettura si unisce la rinascita del mosaico (S. Maria in Trastevere, S. Clemente, S. Maria Nova), influenzata, tra la fine del 12° sec. e l’inizio del 13°, dall’attività di mosaicisti bizantini. Notevoli anche gli affreschi di S. Sebastiano, S. Maria Nuova, SS. Quattro Coronati.
Verso la fine del 12° sec. il classicismo nella scultura e nell’architettura si manifesta nell’opera dei Vassalletto e dei Cosmati. A metà del 12° sec. S. Anastasio alle Tre Fontane (conclusa da Onorio III) è una prima manifestazione dell’architettura cistercense in Italia. Nel 1280 i Domenicani fondano S. Maria sopra Minerva; i Francescani rinnovano S. Maria in Aracoeli. Nel 1277-80 Niccolò III ricostruisce la cappella del Sancta Sanctorum. È notevole l’attività di Arnolfo di Cambio e di Pietro d’Oderisio, portatore delle novità gotiche. Roma richiama artisti da altre regioni (tra cui Cimabue); P. Cavallini approfondisce le ricerche sul colore. Si ricordano inoltre il romano J. Torriti (mosaici absidali di S. Giovanni, 1288, e di S. Maria Maggiore, 1296) e F. Rusuti (mosaico, facciata di S. Maria Maggiore). Giotto arriva a Roma assai giovane, esercitando la propria influenza; esegue affreschi per Bonifacio VIII e per il cardinale Stefaneschi.
L’esilio dei papi ad Avignone costituisce una cesura, limitando le iniziative di rilievo. Tuttavia nel 1371 già sorge la compagnia dei pittori, intorno alla chiesetta di S. Luca, origine della celebre accademia. Dopo l’incendio del 1361, la basilica del Laterano viene ricostruita alterando in senso gotico l’antica struttura, sotto la direzione del senese Giovanni di Stefano; va ricordata anche la presenza di artisti romani (Paolo Romano).
Roma riacquista il proprio carattere cosmopolita proprio negli anni dell’affermarsi del gotico internazionale; da Roma partono i modelli di una serie di pitture devote (la Veronica, la Madonna Avvocata, la Messa di s. Gregorio) popolari nell’arte europea intorno al 1400.
Sensibile, nella prima metà del 15° sec., la presenza di Gentile da Fabriano, di Masaccio e Masolino. Un carattere di grandi insulae assumono dimore gentilizie (Monte Giordano), talora arroccate su antichi ruderi (Monte Savello, poi palazzo Orsini, sulle rovine del teatro di Marcello). I monumenti antichi dominano il paesaggio: la città è addensata nell’ansa del Tevere, nel Borgo vaticano e in Trastevere.
Con Eugenio IV inizia la politica papale verso le arti. È presente nella città Filarete; vi giungono anche S. Ghini, Donatello, L. Ghiberti, F. Brunelleschi, attratti dallo studio dell’antico. Eugenio IV provvede al restauro di ponti e mura; sensibile è la visione rinnovatrice di Niccolò V, orientata a trasformare la Città leonina in una nuova città imperiale. Si inizia il nuovo Palazzo Vaticano, con gli affreschi del Beato Angelico; nasce il progetto di restaurare e ampliare la basilica di S. Pietro; sono risarciti mura e acquedotti (Nuova Mostra dell’Acqua di Trevi, 1453); è fondata la Biblioteca Vaticana.
Roma diviene quel grande centro di iniziative artistiche verso cui d’ora in poi convergeranno artisti e architetti da ogni parte d’Italia. Il cardinale P. Barbo (poi papa Paolo II) costruisce il Palazzo di Venezia (dal 1455), e altri palazzi costruiscono i cardinali Domenico Capranica, Domenico della Rovere, Giuliano della Rovere, originali fusioni di una tipologia medievale con il nuovo concetto rinascimentale del palazzo. Il primo palazzo tendenzialmente rinascimentale è palazzo Riario, poi della Cancelleria (dal 1483).
Con Sisto IV della Rovere il rinnovamento edilizio si estende a tutta la città (Ponte Sisto, S. Maria del Popolo, S. Maria dell’Anima, S. Giacomo e S. Agostino, ospedale di S. Spirito ecc.); in Vaticano si avvia la grande impresa decorativa della Cappella Sistina (D. Ghirlandaio, S. Botticelli, C. Rosselli, P. Perugino, L. Signorelli e aiuti). Si prosegue la Biblioteca Vaticana (affresco dedicatorio di Melozzo da Forlì).
Una cultura figurativa romana sorge dall’incontro di apporti così diversi: esponente di rilievo è Antoniazzo Romano. Nella scultura sono attivi Mino del Reame, Mino da Fiesole (ipoteticamente identificati), Paolo Romano, Giovanni Dalmata, Isaia da Pisa. A. Pollaiolo realizza la tomba di Sisto IV (1490). Attivissimi sono i lombardi L. Capponi e A. Bregno. Innocenzo VIII costruisce gli edifici del Belvedere. Nel 1487 giunge a Roma Filippino Lippi, per decorare la cappella Carafa in S. Maria sopra Minerva. Alessandro VI riprende la fortificazione della Città leonina e di Castel Sant’Angelo (A. da Sangallo il Vecchio); a lui si deve l’appartamento Borgia in Vaticano, affrescato da Pinturicchio e aiuti. Le prime opere di Bramante (a Roma dalla fine del 1499) preparano i grandi compiti cui l’avrebbe chiamato Giulio II, nell’approfondimento del linguaggio all’antica (dal tempietto di S. Pietro in Montorio all’estensione del Belvedere del Vaticano alle architetture civili: casa di Raffaello ecc.).
Il nuovo linguaggio architettonico si diffonde (Raffaello, B. Peruzzi, Giulio Romano) specialmente nell’area fra Borgo vaticano, ponte Sant’Angelo e via Giulia; il ridisegno e l’apertura ex-novo di vie rectae (via Alessandrina, via S. Celso, via de’ Coronari, via Giulia ecc.) dà un tono modernamente rinascimentale alla città.
Nel 1506 Giulio II decide l’erezione della nuova basilica di S. Pietro, su indicazioni di Bramante; dà il via, in Vaticano, ai cortili del Belvedere e di S. Damaso. Dal 1508 al 1512 Michelangelo affresca la volta della Sistina; nel 1508 è affidata a Raffaello la decorazione delle Stanze e poi (1513) delle Logge Vaticane. Oltre a Michelangelo (dal 1496-97 e nel 1505 per la tomba di Giulio II) giungono a Roma anche altri scultori (A. Sansovino, J. Sansovino).
Con Leone X si configura il tracciato delle vie che s’irradiano da Porta del Popolo. Alla morte di Bramante (1514), Leone X affida a Raffaello la direzione della fabbrica di S. Pietro, poi la sovrintendenza delle antichità, per la prima volta fatte oggetto di indagine e di cure conservatrici. Riprendendo le premesse bramantesche (Palazzo Caffarelli-Vidoni), come A. da Sangallo il Giovane (palazzo Farnese, coronamento su disegno di Michelangelo), Raffaello con la sua scuola assume un ruolo preminente nell’architettura e nelle arti figurative: compie S. Eligio degli Orefici e la cappella Chigi in S. Maria del Popolo; progetta villa Madama, concepita come struttura organizzata intorno a una corte circolare secondo i dettami di Plinio.
Mirabile esempio di villa suburbana è Villa Chigi alla Lungara (Farnesina), di B. Peruzzi (1510) con decorazioni di Raffaello, di Sodoma e dello stesso Peruzzi, che inoltre edifica l’originale Palazzo Massimo. A. da Sangallo il Giovane fortifica le mura; sul Palatino sorgono la Villa e gli Orti Farnesiani, primo giardino botanico del mondo. Michelangelo progetta la piazza del Campidoglio e, morto Sangallo, con Paolo III diviene sovrintendente alla fabbrica di S. Pietro (1547): condurrà la costruzione fino al tamburo su cui G. della Porta e D. Fontana alzeranno, con qualche alterazione, l’immensa cupola. Dipinge (1534-41) il Giudizio Universale nella Cappella Sistina e gli affreschi (1542-50) della Cappella Paolina; nel 1544 si sistema in S. Pietro in Vincoli una versione ridotta del monumento a Giulio II. A Giulio III si deve Villa Giulia (Vignola, B. Ammannati, G. Vasari).
Con Pio IV prosegue l’espansione della città (Borgo Pio, Porta Angelica e, sempre su disegni di Michelangelo, Porta Pia, S. Maria degli Angeli sulle strutture delle Terme di Diocleziano). Tale impulso è seguito da Gregorio XIII; la chiesa del Gesù, iniziata da Vignola, crea il tipo di chiesa controriformata; sorge il Collegio Romano (B. Ammannati). Si inizia il Palazzo del Quirinale (F. Ponzio e O. Mascherino); si traccia via Merulana, tra S. Maria Maggiore e S. Giovanni in Laterano.
Oltre a restauri di acquedotti (Mostra dell’Acqua Felice), Sisto V promuove un piano cittadino con strade rettilinee dalla basilica di S. Maria Maggiore alle grandi chiese periferiche e altre arterie tra i punti culminanti della città; si costruiscono il Palazzo Laterano (D. Fontana) e il nuovo Palazzo Vaticano nel cortile di S. Damaso. Tale rinnovamento, con il sacrificio di resti classici e di monumenti medievali, creò le basi dello sviluppo della città.
L’opera di Sisto V, dopo una fase di minore attività col pontificato di Clemente VIII, è ripresa da Paolo V. Il secolo si apre con il completamento della navata e della facciata di S. Pietro (C. Maderno). Sorgono S. Andrea delle Fratte (ultimata da F. Borromini con il campanile), S. Carlo ai Catinari, S. Carlo al Corso. Il Quirinale diviene residenza estiva del pontefice; è trasportata al Gianicolo da Bracciano l’Acqua Paola. Il cardinale Scipione Borghese amplia il palazzo gentilizio (F. Ponzio), costruisce la villa suburbana e il Palazzo ora Pallavicini-Rospigliosi al Quirinale (G. Reni, Aurora).
Al pontificato di Gregorio XV risale villa Ludovisi (Casino dell’Aurora, affresco del Guercino). Con Urbano VIII si dispiega l’arte barocca. Sorge S. Ignazio (affresco prospettico di A. Pozzo); il baldacchino di S. Pietro, le facciate di S. Bibiana e la testata del Palazzo di Propaganda Fide conducono G.L. Bernini alla nomina di architetto della fabbrica di S. Pietro; realizzò il compimento di Palazzo Barberini, iniziato da C. Maderno e F. Borromini (A. Sacchi vi affresca la Divina Sapienza, e P. da Cortona la volta del salone), le fontane del Tritone e delle Api. Pietro da Cortona edifica l’originale chiesa dei SS. Luca e Martina; F. Borromini progetta il complesso di S. Carlo alle Quattro Fontane, l’oratorio dei Filippini, S. Ivo alla Sapienza. Con Innocenzo X Borromini, A. Algardi, C. e G. Rainaldi prendono il sopravvento. Borromini ristruttura l’interno di S. Giovanni in Laterano, e prosegue S. Agnese in Agone, iniziata da C. Rainaldi; A. Algardi progetta villa Pamphili. Ma Bernini, che nel 1647 crea la cappella Cornaro in S. Maria della Vittoria, realizza la fontana di piazza Navona: ne segue la decorazione della basilica di S. Pietro (cattedra) e il palazzo di Montecitorio, compiuto da C. Fontana. Nel 1654 Pietro da Cortona dipinge la Galleria in Palazzo Pamphili.
Durante il pontificato di Alessandro VII Bernini inizia il colonnato di S. Pietro, compie la scala regia in Vaticano, erige Palazzo Chigi. Pietro da Cortona disegna lo scenografico prospetto di S. Maria della Pace e la facciata di S. Maria in via Lata. C. Rainaldi costruisce S. Maria in Campitelli e progetta le due chiese gemelle in piazza del Popolo. Si ricostruisce Porta del Popolo per celebrare l’ingresso di Cristina di Svezia; Borromini realizza la facciata di S. Carlo alle Quattro Fontane (completata postuma). Ancora a C. Rainaldi è dovuto il rivestimento di S. Maria Maggiore dalla parte dell’Esquilino. Bernini nel 1658 erige S. Andrea.
Con il Settecento, la decadenza politica ed economica dello Stato pontificio rallenta l’attività edilizia. Il pontificato di Clemente XI vede nuove tendenze classicheggianti nel restauro di antiche chiese (SS. Apostoli, C. Fontana). A. Specchi crea il porto e la fontana di Ripetta (distrutti) e Palazzo De Carolis. Segue la superba scalinata della Trinità dei Monti di A. Specchi e F. De Sanctis (1721-25). Intorno al 1730 F. Raguzzini crea la teatrale piazzetta antistante a S. Ignazio.
Il fiorentino Clemente XII favorisce i toscani A. Galilei (cappella Corsini, facciata di S. Giovanni in Laterano, 1732-35, e di S. Giovanni de’ Fiorentini) e F. Fuga (palazzo della Consulta, S. Maria dell’Orazione e Morte, palazzo Corsini). Sorgono (1732) la Fontana di Trevi per opera di N. Salvi e la facciata di palazzo Doria sul Corso (G. Valvassori). Benedetto XIV promuove il rifacimento di S. Maria Maggiore (F. Fuga), di S. Croce (D. Gregorini e P. Passalacqua), di S. Maria degli Angeli (L. Vanvitelli), di S. Marco (F. Barigioni). Con Clemente XIII sono compiute villa Albani, villa del Priorato di Malta, con la chiesa e la piazzetta (G.B. Piranesi). Il nome di Clemente XIV è legato alla creazione del Museo Vaticano, continuato da Pio VI e da Pio VII. A Pio VI si devono Palazzo Braschi, l’erezione degli obelischi di Trinità dei Monti, di Montecitorio, del Quirinale. Sorgono numerosi nel Settecento i palazzi gentilizi; l’incremento turistico moltiplica gli alberghi e i caffè, soprattutto presso piazza di Spagna.
L’occupazione francese tenta di dare un nuovo assetto alla città. Si avviano i due grandi parchi nella parte meridionale e settentrionale della città: Via Appia (L. Canina) e il Pincio con piazza del Popolo (G. Valadier). Fioriscono, effetto della ripresa neoclassica, gli studi antiquari, dal periodo napoleonico a Pio VII (scavi nei Fori, restauro dell’arco di Tito). In tale atmosfera è ricostruita la basilica di S. Paolo (L. Poletti, dopo l’incendio del 1823). Abbandonato ogni programma generale di risanamento, Pio IX realizza imprese isolate: fabbrica dei tabacchi (A. Sarti, 1863), colonna dell’Immacolata in piazza di Spagna (L. Poletti), Porta S. Pancrazio (V. Vespignani), quadriportico e cappella del Verano (consacrato nel 1834). Con criteri speculativi poi tipici dello sviluppo urbano di Roma, mons. F.-X. de Merode costruisce la caserma del Macao e un quartiere residenziale presso Termini. Sorgono i primi ponti di ferro: a S. Paolo, a S. Giovanni dei Fiorentini, a Ripetta.
Il 30 settembre 1870 viene costituita la prima commissione di architetti-ingegneri incaricata di studiare i «progetti più urgenti di ampliazione». La storia urbanistica di Roma dopo il 1870 è determinata dalle necessità burocratiche e amministrative necessarie alla capitale di un grande Stato moderno. Dal Medioevo al Settecento la città, espansa nella direzione orientale, si era sviluppata in modo più pittoresco che razionale, in un complesso eterogeneo nel quale si compenetrano, in maniera spesso disorganica, opere edilizie e strutture urbanistiche sorte sotto l’impulso dei primi anni di Roma capitale.
L’unione al Regno d’Italia, oltre ai problemi del controllo del fiume, pone in risalto la questione della salvaguardia del Vaticano e della fortissima pressione demografica. Q. Sella progetta di collocare nella zona fra il Quirinale e Porta Pia i ministeri; il piano regolatore del 1873 (nuova redazione, 1883) accoglie l’idea di sviluppo unidirezionale della città, ma approva anche la costruzione del quartiere Prati, nella parte opposta. Parallelamente iniziano le demolizioni (allargamento del Corso, prolungamento di via Nazionale fino a piazza Venezia, piazza Grazioli, via Cavour, corso Vittorio Emanuele).
Fin dal piano del 1873 la ristrutturazione del Tevere, che altera il rapporto tra il fiume e la città, diviene parte integrante del nuovo sistema viario: sono costruiti i muraglioni (1877-1905; 1926), i nuovi ponti (Palatino, 1882; Garibaldi, 1888; Mazzini, 1904; Vittorio Emanuele II, 1911; Umberto I, 1896; Cavour, 1902; Margherita, 1886; Risorgimento, 1911) e i corrispondenti assi viari. Nel 1883 si dà inizio al quartiere industriale del Testaccio. Fino al 1887 la città conosce una vera febbre edilizia (espansione fuori delle mura e distruzione delle ville all’interno). In clima di pomposo eclettismo si costruiscono il monumento a Vittorio Emanuele II (G. Sacconi, inizio 1885), Palazzo di Giustizia (1887-1912, G. Calderini), Palazzo delle Esposizioni (1880-83, P. Piacentini; più volte ristrutturato). Nell’antico ghetto sorse la sinagoga (1889-1904, O. Armanni e L. Costa).
Tra gli interventi urbani, notevoli: piazza Vittorio (1880-83) e piazza Esedra (1888-89) di G. Kock; Galleria Sciarra (1883) e grandi magazzini Bocconi (1886) di G. De Angelis; policlinico Umberto I (1886-1903) di G. Podesti. Nel 1908 e nel 1910 il governo Giolitti tenta di reprimere la speculazione edilizia: un nuovo piano regolatore è elaborato (1909) da E. Sanjust di Teulada. Dopo la prima felice esperienza del complesso di S. Saba (1906-14), seguono la borgata-giardino della Garbatella (1920) dell’Istituto Case Popolari; la città-giardino Aniene (1920, G. Giovannoni), il quartiere INCIS di piazza Verbano (1925): un’architettura di compromesso tra edilizia moderna e motivi derivati dalla tradizione barocca (il ‘barocchetto’ romano) caratterizza la città.
Il fascismo promuove grandi demolizioni (Borgo; case di Monte Caprino) anche per isolare le rovine antiche e creare arterie spettacolari («via dell’Impero», via XXIII Marzo, ora via Bissolati, corso del Rinascimento, piazza Nicosia). Chiese, case, conventi e palazzi dal medioevo all’età barocca sono sacrificati a un programma di grandezza archeologica, al quale soccombono gli stessi monumenti antichi. Conseguenza delle demolizioni è lo spopolamento del centro e la nascita delle ‘borgate’. Si sviluppano quartieri signorili (a N e a NE), che saldano i quartieri della periferia con il centro. Dal 1928, nell’area tra Monte Mario e Tevere, si avvia la costruzione di un grande complesso sportivo (Foro Italico, di E. Del Debbio, 1928-33, e L. Moretti, 1936, autore anche della Casa delle Armi, 1933-34). A M. Piacentini si deve il piano della Città universitaria (1932-35), con collaboratori: a esponenti dell’accademismo (G. Rapisardi, A. Foschini), si associano figure del razionalismo italiano (G. Pagano, G. Ponti, G. Capponi, P. Aschieri ecc.). Sorge il complesso dell’E42 (attuale EUR), per l’Esposizione Universale del 1942, che orienta lo sviluppo della città verso il mare.
Il dopoguerra riprende i programmi urbanistici precedenti (via della Conciliazione in Borgo, 1950; via Gregorio VII), mentre la nuova stazione Termini (1947-50, E. Montuori, L. Calini, M. Castellazzi, A. Pintonello, V. Fadigati) costituisce una rottura con il monumentalismo. Nel 1951 fu inaugurato il primo tratto del Grande Raccordo Anulare; nel 1955 fu realizzata la via Cristoforo Colombo e aperto al pubblico il primo tratto della metropolitana di Roma (Termini-Eur).
Fu inoltre avviato un vasto programma edilizio, utilizzando soprattutto i fondi INA-Casa messi a disposizione dalla legge Fanfani, che si concretizzò nella realizzazione di 110.000 vani di edilizia economica e popolare; nacquero così i quartieri INA del Tiburtino (1947-50, L. Quadroni, M. Ridolfi ecc.), le case-torri di viale Etiopia (1952-53, Ridolfi e W. Frankl); le unità di abitazione al Tuscolano (1950-51, A. Libera), saggio di elaborazione delle tendenze razionaliste. Emblematica è la sistemazione delle Fosse Ardeatine (1944-51, M. Fiorentino e G. Perugini, sculture di Mirko). Tra le realizzazioni di rilievo va ricordata la pionieristica Rinascente di piazza Fiume (1958-61, F. Albini e F. Helg)
Le Olimpiadi del 1960 rappresentarono per Roma un’occasione per mettere in atto numerosi interventi di urbanistica e di edilizia che modificarono in modo incisivo l’assetto della città; gli alloggi destinati agli atleti furono edificati al Villaggio Olimpico in zona Flaminio e a Decima, vicino all’EUR; in particolare questi ultimi furono progettati con l’obiettivo di destinarli successivamente, a Giochi conclusi, agli impiegati statali, in linea con il progetto di quegli anni di dislocare i centri direzionali verso la periferia e individuare nell’EUR il centro ministeriale di Roma.
Il nuovo Piano regolatore generale (PRG) del 1962 (con numerose varianti nei decenni successivi) insisteva sullo sviluppo della città nelle direttrici S e SE e sulla costruzione di un Asse attrezzato da Pietralata all’EUR, cui si accompagna la previsione del Sistema direzionale orientale (SDO), grande insediamento terziario che doveva accogliere tutti i ministeri e le sedi istituzionali ma che di fatto rimase totalmente inattuato. L’obiettivo era risolvere situazioni di criticità come la crescita incontrollata e in gran parte abusiva delle borgate periferiche, insediamenti sviluppatisi ‘a macchia d’olio’, carenti dei servizi essenziali; accanto alle borgate ‘ufficiali’, sorte durante il fascismo, si andavano infatti sviluppando anche insediamenti precari ai limiti dell’abitabilità (Acquedotto Felice, Alessandrino, Borghetto Latino, Borghetto Prenestino, Mandrione, Tor Bella Monaca, Torre Maura, Torre Spaccata).
Grazie al primo PEEP (Piano per l’Edilizia Economia Popolare), approvato nel 1964, verranno realizzati il quartiere Spinaceto, dal 1967, e Corviale (1972-82), ma in generale si assiste a una cronica incapacità di rispettare i termini e i tempi del programma. Una delle finalità del piano, quella di creare un calmiere nel mercato fondiario e immobiliare, non sarebbe stata raggiunta proprio in ragione della scarsità di produzione di alloggi dovuti all'iniziativa pubblica e al conseguente innalzamento dei livelli di offerta da parte dei privati.
Si assiste a un progressivo indebolimento dell'intervento pubblico, all'inefficienza o addirittura alla stasi dei maggiori enti preposti alla costruzione di alloggi popolari (GESCAL, IACP, ISES, ecc.), alla sporadicità e frammentarietà dell'impegno finanziario nel settore da parte dello Stato. Sia le più impegnative previsioni del piano regolatore sia le più specifiche articolazioni del PEEP si scontrano con difficoltà obiettive e con l'assenza di una volontà politica necessaria per superarle. Criteri d'intervento pubblico, ‘misto’ o aziendale, si sovrappongono e si annullano reciprocamente, lasciando così aperti vasti varchi alle iniziative speculative e allo sperpero.
Gli aspetti più critici della situazione romana sembrano poi consistere nel divario crescente tra la valorizzazione funzionale ed economica di tutta l'area centrale, soggetta a un processo di trasformazione terziaria tra i più intensi delle grandi città italiane, e la dequalificazione dei tessuti periferici, in parte saturati dalla crescita indiscriminata dei quartieri-dormitorio, in parte soggetti alla dilatazione delle iniziative abusive, caratterizzati da una cronica mancanza di servizi, asili, scuole, ospedali, giardini pubblici.
Tra i progetti da ricordare a cavallo del decennio la Biblioteca nazionale a Castro Pretorio (1960-1975).
Solo verso la metà degli anni 1970 la gestione urbanistica del Comune di Roma riflette un clima generale di maggiore impegno da parte degli enti preposti all'edilizia pubblica, se non altro come adeguamento a una diffusa volontà di rinnovamento sociale e culturale. Con l'adozione di nuove norme tecniche migliorative (agosto 1974) ci si orienta verso una revisione del PRG, ormai superato sia nelle indicazioni generali, sia negli aspetti più strettamente tecnici e funzionali, mentre acquista rilievo la politica di decentramento amministrativo – iniziata nel 1968 con la creazione di 12 circoscrizioni, divenute poi 20 nel 1972 – attraverso la quale il corpo fisico della città era stato portato da realtà compatta, strutturata su processi di gestione e di organizzazione burocratica e verticistica, a una realtà urbana articolata. La loro finalità avrebbe dovuto essere quella di rompere la rigidità gestionale dei processi urbani favorendo un decentramento del potere urbano (dal Campidoglio alle singole circoscrizioni) e una diffusione articolata della sua struttura amministrativa nella città.
La grande operazione delle Varianti circoscrizionali, avviata subito dopo l'adozione della Variante generale del 1974, subì però dapprima un rallentamento, per poi essere del tutto abbandonata. Nel 1976, con la formazione della nuova giunta di sinistra la spinta al rinnovamento si traduce non tanto in un'immediata revisione degli strumenti urbanistici (PRG, Varianti circoscrizionali, ecc.), quanto nell'impegno ad affrontare una serie di problemi-chiave della città, secondo una gerarchia di priorità sociali e temporali. Vengono, in particolare, affrontati i problemi del recupero del centro storico, del risanamento delle borgate, dell'abusivismo e dei servizi. Alla politica di contenimento della crescita puramente quantitativa della città corrisponde così la tendenza a qualificare alcuni settori delicati d'intervento. Lo stesso problema del fabbisogno abitativo viene affrontato in maniera articolata, agendo contemporaneamente su quote di alloggi reperibili tramite la riqualificazione del patrimonio esistente e sulla costruzione di nuovi complessi residenziali (i complessi di Corviale, Vigne Nuove e Laurentino, importanti esperienze sperimentali, sia sotto il profilo progettuale, sia sotto quello realizzativo, anche se con esiti successivi spesso problematici).
Per quanto riguarda la questione del risanamento delle borgate e il fenomeno dell'abusivismo, tra loro evidentemente collegati, s'inizia con la perimetrazione di tutte le aree interessate dalle lottizzazioni compiute fuori delle zone di PRG, al fine di prevederne il recupero sociale e ambientale, nonché di arrestarne l'ulteriore dilatazione. Con la formulazione (1979) del programma pluriennale, strumento attuativo del PRG, si entra in una fase di più stretto controllo e indirizzo dello sviluppo urbano. Si tenta, con le previsioni contenute in tale documento, di ribaltare la prassi, seguita in precedenza, di limitare l'azione pubblica alla semplice razionalizzazione delle tendenze ‘spontanee’ in atto.
L’articolazione del territorio urbano in circoscrizioni, purtroppo non portata a pieno sviluppo perché bloccata per lo più al livello del solo decentramento burocratico-amministrativo, intendeva avviare un processo di pianificazione urbanistica che avrebbe dovuto portare a una specificazione delle previsioni generali del Piano regolatore, per mezzo di singole varianti urbanistiche circoscrizionali, revisionando lo strumento di pianificazione a partire da una rilettura 'dal basso', dalle esigenze dei cittadini di ciascuna circoscrizione. Il decennio 1981-91 è dunque caratterizzato, oltre che dal rallentamento e poi dal calo della dinamica demografica, da una trasformazione dei modi della gestione urbana, non costruita organicamente attraverso strumenti di pianificazione esecutiva derivati dalle indicazioni del PRG, ma affidati spesso a operazioni realizzate con progetti puntuali, finalizzati al risanamento della vita nella città, alla qualificazione dei servizi e all'ampliamento della base produttiva di Roma, contrapponendo al piano urbanistico l'operatività del progetto architettonico, in più o meno progressiva autonomia dalle pur ampie maglie previsionali dello strumento urbanistico generale vigente.
L'abortito passaggio dalla strumentazione generale del PRG a quella dei Piani circoscrizionali e il 2° PEEP (Piano per l'Edilizia Economica e Popolare), presentato nel giugno 1985 (in cui soltanto 29 delle sue 77 aree previste confermavano le destinazioni del PRG) sembrano confermare questo atteggiamento, che si risolverà in una diffusa critica alla pianificazione, nella legittimazione dei ‘condoni’, nella coltivazione sistematica delle ‘deroghe’, nell'utilizzazione più estesa possibile di strumenti di gestione ‘speciali’, spesso più adatti a venire incontro al sistema delle convenienze private, nel ricorso sistematico alle Varianti parziali, nella gestione generosa del ‘condono’ edilizio sull'edilizia abusiva, fino a giungere a una vera e propria deregulation urbanistica.
Durante gli ultimi anni del decennio la tendenza a operare o a proporre in difformità dal Piano regolatore divenne più tumultuosa; al punto che Roma in questo periodo, in un testo dell'Istituto nazionale di urbanistica, è stata definita 'città senza Piano'. Ciò è avvenuto anche per la concomitanza di almeno due fattori: lo svolgimento nel 1990 dei campionati mondiali di calcio, che ebbero sede in Italia toccando Roma e varie altre città; la definizione di provvidenze legislative speciali per adeguare Roma alle esigenze di capitale (l. 326 del 1990 per ‘Roma Capitale’, che prevedeva trasferimenti finanziari per l’assolvimento da parte della Città di Roma di interventi di interesse nazionali, funzionali al suo ruolo di capitale d’Italia). Le urgenze esecutive che essi imposero, anche per le scadenze legislative connesse ai finanziamenti per le opere da realizzare, hanno costituito uno stimolo ulteriore a operare in difformità dagli strumenti e dalle limitazioni urbanistiche vigenti. La legge per ‘Roma '90’, che finanzierà i progetti legati ai Campionati di calcio, nasce soprattutto per integrare gli impianti e le attrezzature della città all'avvenimento sportivo mondiale, comprendendo, fra l'altro, l'adeguamento degli impianti radiotelevisivi RAI con le nuove attrezzature di Saxa Rubra necessarie alla diffusione mondiale di quegli avvenimenti, la risoluzione di nodi e strozzature della mobilità nella città, la qualificazione dei collegamenti e delle attrezzature tra l'aeroporto di Fiumicino e Roma (air-terminal alla stazione Ostiense).
Già nella seconda metà degli anni 1970, con l’istituzione nel 1976 da parte del sindaco Giulio Carlo Argan di uno specifico assessorato al centro storico, guidato da Vittoria Calzolari, il tema del centro era salito in primo piano, divenendo oggetto di un importante dibattito culturale e di provvedimenti per la riqualificazione di aree centrali (Tor di Nona, via dei Cappellari, S. Paolo alla Regola, Palazzo Pizzicaria) e il recupero di alloggi abitativi, anche se con esiti minimi. Per quanto riguarda il recupero residenziale e le nuove destinazioni da conferire ad aree vuote del centro storico (aree antistanti l'Ospedale del Celio) – come anche a manufatti usciti dall'utilizzazione (ex Mattatoio) – non si ottengono esiti significativi, e scarsissima sarà la pianificazione urbanistica in questo ambito.
Col 1981 la tendenza a focalizzare l'attenzione del dibattito urbanistico sui problemi del centro storico si concentra sull’aspetto archeologico. In connessione con il varo della legge Biasini, la quale stanziava 180 miliardi per combattere il degrado dei monumenti romani, il soprintendente archeologico A. La Regina orientava il dibattito sull'opportunità di utilizzare quei fondi anche per la costituzione di un vasto Parco archeologico centrale, che unificasse le aree archeologiche emerse con gli sventramenti attuati negli anni 1930 tra il Colosseo e piazza Venezia, sedimentati poi nella sistemazione di via dei Fori Imperiali, in modo da ‘archeologizzare’ l’intera vastissima area. La prevista demolizione di via dei Fori poneva la questione della liceità o meno di distruggere un assetto urbanistico storico, quello degli anni 1930, e delle ricadute sulla mobilità, tanto che, dopo aver polarizzato per parecchi anni l'attenzione del dibattito cittadino a scapito di altre urgenze, fu in seguito drasticamente ridimensionato.
Le principali trasformazioni del periodo successivo al 1995 sono state accomunate dalla volontà di sperimentare e verificare idee-guida per le politiche di intervento orientate a modernizzare la città, anche confrontandosi con altre capitali europee. Nel riconoscimento della stratificata storia di Roma e nella consapevolezza del ritardo accumulato nei decenni precedenti, sono emerse proposte e sono state portate a termine realizzazioni che non hanno rappresentato un'univoca idea di città, ma che hanno attivato un processo di ripensamento critico sull'idea stessa di modernità urbana.
Il dibattito che ha iniziato a dare i suoi frutti dopo la spinta del Giubileo del 2000, alcuni grandi concorsi e l'adozione del nuovo Piano regolatore generale (PRG), in vigore dal 2008. Frutto di un lavoro corale guidato da due successive amministrazioni, quest'ultimo è caratterizzato dal nuovo sistema della mobilità su ferro, dai parchi regionali, dal decentramento insediativo e da uno sviluppo policentrico pianificato attorno a nuove polarità urbane in grado di attrarre investimenti e attività. In questo scenario si collocano interventi mirati a decongestionare le zone centrali della città e a favorire lo sviluppo di quelle periferiche: per es., lo spostamento dei Mercati Generali a Guidonia (2002) e alcune importanti opere infrastrutturali, come il Passante a nord-ovest, denominato Galleria Giovanni XXIII (2004), elemento di connessione tra la viabilità del settore nord-occidentale e quella del settore sud-orientale, in linea con il disegno di dotare Roma di un sistema di scorrimento veicolare che allontani le auto dal centro.
Tra le aree di nuova edificazione nei primi decenni degli anni 2000 sembra prendere piede una tipologia di zone residenziali di medio-alto livello, con spazi verdi urbani e centri ricreativi per i bambini e parcheggi, sorti in aree dismesse o in terreni agricoli divenuti edificabili di recente, caratterizzato dal fatto di essere unità quasi indipendenti facenti capo a un centro commerciale: ne sono un esempio tipico la zona della nuova Ponte di Nona tra via Collatina e via Prenestina, sorta tra il 2002 e il 2010, con il centro commerciale Roma est (aperto nel 2007), come punto di riferimento, oppure l’area sviluppatasi a Vigne Nuove intorno al centro commerciale Porta di Roma e al Parco delle Sabine.
In ambito propriamente architettonico sono stati elaborati molti progetti nel segno della riqualificazione urbana. Tra questi si segnala, nel quartiere Flaminio, il nuovo Auditorium (1994-2002) di R. Piano, articolato in tre sale indipendenti dalle particolari conformazioni a 'cassa armonica', unite fra loro da un sistema di percorsi e servizi. Il complesso, denominato Parco della Musica, si inserisce in un programma di riqualificazione del quartiere che comprende anche il MAXXI (Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo), dinamico spazio espositivo progettato nel 1998 dall'anglo-irachena Z. Hadid e inaugurato nel 2010. Tra i lavori per nuovi o rinnovati spazi espositivi si ricordano anche: il restauro e l'allestimento delle ex Scuderie papali al Quirinale (1998-99) di G. Aulenti; l'allestimento del 'Giardino romano' nei Musei Capitolini (2004-05) di C. Aymonino; la costruzione del nuovo Museo dell'Ara Pacis (1995-2006) opera dello statunitense Roma Meier; la ristrutturazione del Palazzo delle Esposizioni, progettata nel 2002 dagli architetti F. Galdo e M. De Lucchi con la ricostruzione, a opera dello studio ABDR, della grande serra costruita nel 1882 da P. Piacentini e poi demolita nel 1931; l'ampliamento del MACRO (Museo d'Arte Contemporanea Roma), per il quale sono stati utilizzati gli spazi della ex Birreria Peroni, progettato nel 2001 dallo studio francese O. Decq & B. Cornette e concluso nel 2010.
Ancora nell'ambito della riqualificazione architettonica e urbana, attuata attraverso il recupero o la realizzazione di nuovi inserti, si ricordano: il ridisegno della piazza di Montecitorio (1996-1998) di F. Zagari; la riqualificazione delle aree circostanti le basiliche di San Pietro in Vaticano, San Giovanni in Laterano, San Paolo fuori le mura, Santa Croce in Gerusalemme e Santa Maria Maggiore (1998-99), a opera dell'azienda municipale Società trasporti automobilistici (STA); gli interventi di rinnovamento della stazione Termini (1998-2000), in particolare la nuova libreria nella grande hall, di P. Cerri, e il restauro dell'Ala Mazzoniana, dell'Atelier Mendini; i progetti di riqualificazione del quartiere Esquilino, con il recupero di piazza Vittorio Emanuele II e la realizzazione dell'Hotel Es, poi Radisson Sas (1999-2002), dello studio King & Rosselli; la ridefinizione architettonica dell'area antistante il Ministero degli Affari Esteri (2002) opera di U. Riva; le nuove sedi del Rettorato e della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli studi Roma Tre al quartiere Ostiense (1998-2000), di G. Pasquali e A. Passeri; la nuova Fiera di Roma a Ponte Galeria (2002-2006), a opera dello Studio Valle Progettazioni; la nuova stazione Tiburtina dello studio ABDR (completata nel 2011); la Torre Eurosky all'EUR (2007-2013) dello studio Purini-Thermes; nel 2016, dopo un lungo iter, è stato inaugurato il nuovo Centro Congressi ideato da M. Fuksas, un’area che comprende la Nuvola, racchiusa in una Teca, a cui si affianca l'hotel.
Tra gli edifici dedicati al culto si ricordano: Dives in Misericordia a Tor Tre Teste (1996-2003) di Meier, un'opera che ha contribuito a riqualificare un'estesa area periferica; Nostra Signora del Suffragio e Sant'Agostino di Canterbury (1992-1998) di C. e F. Berarducci; Santa Maria Josefa (1998-2001) di F. Garofalo e Sh.Y. Miura; Santa Maria della Presentazione (1999-2002) dello studio Nemesi; San Massimiliano Kolbe (2003-2006) di P. Sartogo e N. Grenon; il recupero dell'ex cinema Folgore al Quadraro nella prima Chiesa evangelica coreana di Roma (2006-07) di L. Sacchi.
Importanti progetti di riqualificazione urbana delle zone periferiche attraverso la street art hanno visto l’attuazione di imponenti realizzazioni nel quartiere di San Basilio, nella zona tra Ostiense e Testaccio, e soprattutto a Tor Marancia, dove il progetto Big city life (2015) ha dato vita a 22 murales monumentali ad opera di artisti internazionali.
Gli archivi presenti a Roma rivestono un ruolo fondamentale per la conservazione della documentazione storica. L’Archivio di Stato, istituito nel 1870 con sede nel palazzo della Sapienza, conserva gli archivi delle amministrazioni centrali dello Stato pontificio (dal 9° sec. al 1870): fondi giudiziari e notarili, archivi delle corporazioni religiose soppresse, di ospedali e altri enti, archivi privati pervenuti per dono, deposito o acquisto (sec. 15°-19°), tra i quali l’archivio Spada. Comprende anche, per il periodo anteriore al 1870, l’Archivio provinciale dello Stato pontificio, con le carte degli uffici periferici pontifici di Roma e provincia; e, per il periodo posteriore al 1870, l’archivio provinciale di Roma con la documentazione proveniente dagli uffici statali periferici (locali, provinciali, regionali ecc.).
L’Archivio centrale dello Stato con sede (dal 1960) all’EUR conserva gli archivi delle amministrazioni centrali dello Stato dall’Unità in poi, con fondi e documenti di grande interesse per la storia politica dell’Italia contemporanea; sono esclusi dal deposito d’archivio gli atti dei ministeri degli Esteri e della Difesa, organizzati con archivi storici autonomi. Alla Guida generale degli archivi di stato italiani (4 voll., 1981-95), si affianca la versione consultabile online che descrive in maniera organica tutti i fondi archivistici conservati presso l'Archivio.
L’Archivio storico capitolino ha sede dal 1922 nel palazzo borrominiano dei Filippini alla Chiesa Nuova; molto importante per la storia di Roma e del Lazio, consta di tre sezioni: storica (archivio segreto della camera capitolina, sec. 16°-19°, archivio del comune, 1848-70, e archivi gentilizi romani); notarile, ossia l’archivio urbano (atti rogati dai notai di Roma tra il 1625 e il 1870); archivio generale del comune (dal 1871 ai giorni nostri).
Roma è sede di numerosi altri archivi di tipologie diverse, tra cui: l’Archivio storico della Banca d’Italia, che conserva, oltre alla documentazione prodotta dalla banca dalla sua costituzione nel 1893, anche quella precedente prodotta dalla cessata Banca Nazionale (ex ‘Stati Sardi’) dal 1849 in poi; l’Archivio storico della Camera dei deputati a palazzo San Macuto, e l’Archivio storico del Senato, a palazzo Madama, costituiti nel 1971, conservano gli atti originali e i documenti della Camera e del Senato; oltre agli archivi di enti pubblici, di associazioni e sindacati ecc., gli archivi delle istituzioni culturali, presentano la caratteristica di conservare, oltre l’archivio dell’ente, archivi personali e in alcuni casi di partiti politici.
Roma è un importantissimo centro bibliografico; numerosissime biblioteche pubbliche e private raccolgono manoscritti, stampati, documenti ecc., dal Medioevo all’età contemporanea.
La Biblioteca nazionale centrale Vittorio Emanuele II, istituita a Roma nel 1873 dopo il passaggio allo Stato delle biblioteche delle congregazioni religiose soppresse, accolse, intorno alla Biblioteca secreta maior della Casa dei gesuiti al Collegio romano, i fondi di 69 biblioteche monastiche. All’atto dell’istituzione le furono aggregate ampie serie e le fu conferito per legge il diritto di stampa. Fu aperta al pubblico nel 1876. Dal 1975 ha sede in un complesso edilizio nell’area demaniale del Castro Pretorio. Notevole la raccolta dei manoscritti; la collezione degli incunaboli è una delle più ricche esistenti. Tra quelle di opere a stampa, le collezioni Aldina, Giuntina, Torrentina, Elzeviriana, Bodoniana, e di edizioni romane del 16° sec., quella dei Blado, la più completa. Presso la biblioteca ha sede l’Istituto centrale per il catalogo unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche (ICCU).
La Biblioteca Alessandrina fu fondata nel 1660 da papa Alessandro VII Chigi; aperta al pubblico nei locali della Sapienza (1670), dove F. Borromini aveva disegnato aula e scaffali, assunse nel 1870 la qualifica di universitaria. Nel 1935 si trasferì nella Città Universitaria, incorporando le biblioteche delle facoltà di giurisprudenza, scienze sociali e politiche e di lettere e vi si aggiunsero vari fondi. Possiede circa 1.000.000 stampati, 674 incunaboli, 452 manoscritti.
La Biblioteca Angelica deve il nome al vescovo Angelo Rocca (1545-1620), che nel 1614 donò la sua biblioteca al convento di S. Agostino. Fu la prima biblioteca romana aperta al pubblico; passò allo Stato nel 1873. È specializzata in studi ecclesiastici e storico-letterari; vi è conservata la miscellanea Santangelo composta, da 954 libretti d’opera dei sec. 18° e 19°. Possiede 2667 manoscritti; 1101 incunaboli, tra i quali il De oratore di Cicerone, il primo libro stampato in Italia nel 1465; 200.000 stampati. Dal 1941 è sede dell’Accademia dell’Arcadia, che vi ha trasferito il proprio archivio storico e la propria biblioteca.
La Biblioteca Casanatense trae origine e nome dal cardinale G. Casanate, che lasciò (1698) in legato ai domenicani la sua libreria di 25.000 volumi e un fondo di 160.000 scudi per l’edificio sorto presso il convento della Minerva, nel quale fu allestito il grande salone di lettura disegnato da C. Fontana. Aperta al pubblico nel 1701, è specializzata in teologia, discipline storico-religiose, teatro, storia locale e filologia classica; possiede quasi 400.000 stampati, oltre 6000 manoscritti, molti compresi fra 8° e 12° sec., e 300 miniati; 2185 incunaboli, rarità musicali.
La Biblioteca Vallicelliana, creata da s. Filippo Neri (1581), occupa il grande salone costruito da F. Borromini nel palazzo dell’Oratorio presso la Chiesa Nuova (17° secolo); passò allo Stato italiano nel 1873. È specializzata per gli studi storico-ecclesiastici; possiede 130.000 volumi, 444 incunaboli, 2576 manoscritti.
Il primo nucleo della Biblioteca di storia moderna e contemporanea fu costituito (1906) con la sezione Risorgimento della Biblioteca nazionale centrale Vittorio Emanuele II di Roma. Con la Prima guerra mondiale fu creata la sezione contemporanea con documenti, manifesti inerenti alla guerra. Nel 1923 le collezioni passarono a costituire la Biblioteca centrale del Risorgimento, che nel 1934 venne annessa all’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea e nel 1937 assunse l’attuale denominazione. Dal 1939 ha sede nel palazzo Antici-Mattei. Possiede circa 600.000 volumi, periodici e fonti documentarie sulla storia italiana ed europea dei sec. 17°-20°.
La Biblioteca dell’Accademia nazionale dei Lincei e Corsiniana consta di tre sezioni: la Corsiniana, la Accademica, la Orientale. La Corsiniana, voluta da Lorenzo Corsini (poi Clemente XII), fu aperta al pubblico nel 1754 e donata dalla famiglia Corsini all’Accademia dei Lincei nel 1883. La sezione Accademica è alimentata da doni, acquisti e scambi con istituti scientifici e letterari di ogni parte del mondo come la sezione Orientale, aumentata del fondo orientale di M. Amari (1885). Tra gli altri fondi, il lascito di E. Lovatelli Caetani (sezione archeologica). La consistenza della biblioteca è di 500.000 stampati, 3500 manoscritti, 2300 incunaboli.
La Biblioteca di archeologia e storia dell’arte ha sede nel palazzo Venezia. Fondata nel 1922 per iniziativa di Corrado Ricci, è articolata in sezioni (archeologia, arte medievale e moderna, romana, musicale, teatrale). Conta 380.000 volumi, 16 incunaboli, 483 manoscritti, circa 15.000 incisioni e oltre 5000 disegni.
La Biblioteca Hertziana fu fondata da Henriette Hertz nello storico palazzo Zuccari a Trinità dei Monti e da lei lasciata per testamento (1913) alla Kaiser-Willhelm-Gesellschaft (poi Max-Planck-Gesellschaft). Centro di studi di storia dell’arte italiana medievale e moderna, aperta al pubblico dal 1920, possiede circa 307.000 volumi e una ricca fototeca di arte italiana.
La Biblioteca dell’osservatorio astronomico di Monte Mario, fondata nel 1923, ha raccolte di opere di astronomia antiche e moderne; conserva inoltre strumenti e mappamondi antichi.
Tra le altre biblioteche, oltre a quelle della Camera dei Deputati (1.400.000 volumi, 6000 periodici, fondi antichi) e del Senato della Repubblica (circa 700.000 volumi, 80 incunaboli, 880 manoscritti, ca. 2500 periodici), fondate a Torino nel 1848, biblioteche specializzate sono conservate nei ministeri: la Biblioteca della presidenza del Consiglio (fondata nel 1934), con oltre 150.000 volumi; la Biblioteca centrale giuridica del ministero della Giustizia (fondata nel 1866 con i libri esistenti presso la Grande cancelleria dello Stato piemontese; oltre 300.000 volumi); la Biblioteca del ministero degli Affari Esteri, fondata a Torino per iniziativa di Cavour (oltre 100.000 volumi); la Biblioteca militare centrale del ministero della Difesa (fondata a Torino nel 1814; oltre 200.000 volumi), la maggiore per gli studi militari.
Tra le biblioteche degli istituti di ricerca: la Biblioteca del Consiglio nazionale delle ricerche (1923; 200.000 volumi e 10.000 titoli di periodici); la Biblioteca dell’Istituto nazionale di statistica (1884; 200.000 volumi), la più importante in Italia per la raccolta di statistiche; la Biblioteca David Lubin della FAO, di carattere economico-agrario; la Biblioteca Baffi della Banca d’Italia, specializzata in economia (500.000 volumi e 3000 periodici).
La biblioteca della Società geografica italiana è la maggiore d’Italia per la materia specifica e studi affini (1867; oltre 280.000 volumi); la Biblioteca romana conserva oltre 130.000 volumi su Roma e la regione romana considerata in tutti i suoi aspetti. Da menzionare ancora la Biblioteca dell’Istituto della Enciclopedia Italiana (1929; 137.000 volumi), opere a carattere generalista, enciclopediche, biobibliografiche; la Biblioteca musicale di S. Cecilia (200.000 unità bibliografiche, 7000 manoscritti), specializzata in storia e critica musicale e, in genere, spettacolo italiano e straniero; la Biblioteca teatrale della SIAE (50.000 volumi e 100 manoscritti), con sede nel palazzetto del Burcardo, che coltiva la storia e la critica dello spettacolo drammatico teatrale.
Il Sistema bibliotecario del comune di Roma, costituito da una rete di biblioteche di pubblica lettura circoscrizionali e dalla Biblioteca centrale per ragazzi, annovera un patrimonio di oltre 350.000 volumi di narrativa, saggistica e letteratura, periodici, dischi e video.
Per la Biblioteca apostolica vaticana ➔ Vaticano; per la Biblioteca Lancisiana ➔ Lancisi, Giovanni Maria.
Fra quelle di Stato la più antica è La Sapienza, la cui origine risale a quando Bonifacio VIII istituì lo Studium Urbis (1303). Lo Studio ebbe come sede il palazzo della Sapienza, che, fatto costruire da Leone X su disegni di Michelangelo, e continuato da G. della Porta sotto il pontificato di Sisto V, fu terminato con Alessandro VII. Dopo un periodo di decadenza, nel 1870 il governo italiano diede nuovo sviluppo all’università e creò le facoltà e gli istituti che dal 1935 sono per la maggior parte riuniti nella Città universitaria. A questa si sono aggiunte in seguito l’Università degli studi Tor Vergata (dal 1982) e la Terza Università degli studi (dal 1992). Roma ospita inoltre l'Università degli studi Foro Italico, l'unico ateneo italiano interamente dedicato all’attività motoria e allo sport (fino al 2008 Iusm - Istituto Universitario di Scienze Motorie, originato dalla trasformazione dell’ISEF - Istituto Superiore Statale di Educazione Fisica, e prima ancora dall’Accademia di Educazione Fisica fondata nel 1928).
Sono da segnalare, inoltre, le università pontificie, la LUISS, l’Università cattolica del Sacro Cuore e vari istituti a livello universitario quali l’Accademia di belle arti, l’Accademia nazionale di arte drammatica, l’Accademia nazionale di danza, l’Accademia nazionale di S. Cecilia, l’Istituto superiore per la conservazione e il restauro ecc.
Roma è anche sede di importanti istituti di cultura, tra cui l’Accademia nazionale dei Lincei, l’Accademia degli Arcadi, il CNR, l’Istituto della Enciclopedia Italiana, la Società geografica italiana, l’Istituto di studi romani, gli istituti storici, e di numerose accademie straniere, costituitesi con lo scopo di consentire ai propri connazionali la possibilità di perfezionarsi nelle varie arti e negli studi storici e archeologici. Tra queste ultime, l’Accademia di Francia è la prima istituzione straniera del genere a Roma. Fondata nel 1666 da Luigi XIV, dal 1803 ha sede nella cinquecentesca villa Medici; la Scuola francese di Roma, fondata nel 1875, ha sede nel palazzo Farnese. Dispone di una biblioteca di circa 80.000 volumi e di una rivista. L’Istituto archeologico germanico, nato nel 1829 come Istituto di corrispondenza archeologica a carattere internazionale, nel 1873 divenne la sezione romana del Kaiserlich Deutsches Archeologisches Institut. Dispone di una ricchissima biblioteca archeologica esistente. L’Accademia americana, sorta nel 1912, con sede nella villa Aurelia al Gianicolo, è centro specializzato di studi classici, archeologia e storia dell’arte, fornito di ricchissima biblioteca. L’Accademia britannica delle arti, fondata come luogo di riunione di artisti inglesi operosi a Roma, ebbe riconoscimento ufficiale e l’attuale denominazione nel 1822. L’Accademia spagnola, fondata nel 1873, ha sede (dal 1881) sul Gianicolo in un antico convento. L’Accademia tedesca, nata nel 1913, ha sede nella villa Massimo al quartiere Nomentano. L’Accademia d’Ungheria nacque nel 1927 per la trasformazione in Accademia di un Istituto storico magiaro fondato alla fine del 19° sec. da V. Fraknói. L’Istituto austriaco di cultura, fondato nel 1881, ha sede in viale B. Buozzi. Nel suo ambito è sorta nel 1956 una sezione storica, divenuta dal 1982 autonoma.
La nascita dei Musei capitolini viene fatta risalire al 1471, quando Sisto IV donò al popolo romano un gruppo di statue bronzee di grande valore simbolico trasferite in Campidoglio (la Lupa, lo Spinario ecc.), fondando il nucleo di una delle più antiche collezioni del mondo. Accresciute nei secoli con le donazioni di Leone X (1515), Pio V (1566), Clemente XII (1733) e Benedetto XIV, le raccolte si arricchirono, dopo il 1870, con materiali provenienti da scavi eseguiti in aree del comune. Aperti al pubblico dal 1734, comprendono: il Museo capitolino propriamente detto, che, oltre alla statua equestre di Marco Aurelio (già al centro della piazza del Campidoglio), conserva rilievi e iscrizioni relativi ai culti orientali di Mitra, Iside, Serapide, la statuaria e i frammenti musivi provenienti da Villa Adriana, le sculture della Venere, del Galata morente, le serie di ritratti greci e romani, i sarcofagi; il Museo dei Conservatori, con la colossale testa bronzea di Costantino, i fasti consolari, le sculture arcaiche, le epigrafi e i rilievi cristiani, la statuetta del Buon Pastore (3° sec.), la Venere Esquilina (1° sec. a. C.), i vasi greci, etruschi e italici della collezione Castellani; l’appartamento dei Conservatori conserva la Lupa capitolina (5° sec. a.C.), statuaria antica e opere italiane dei sec. 17° e 18°; il Braccio nuovo e il Museo Nuovo raccolgono reperti archeologici rinvenuti negli scavi successivi al 1870; la Pinacoteca capitolina, fondata nel 1748 da Benedetto XIV in seguito all’acquisizione delle collezioni Sacchetti e Pio di Savoia, che conserva esemplari dell’arte italiana e straniera dei sec. 15°-17°. Il Medagliere annesso riunisce una selezione di monete e di gemme. L’Antiquarium comunale raccoglie materiale archeologico d’uso. Il polo espositivo dei Musei capitolini nella ex centrale termoelettrica Montemartini, nel quartiere Ostiense, è stato allestito nel 1997 in occasione dei lavori di ristrutturazione della sede storica come spazio temporaneo, ed è divenuto in seguito sede permanente.
Istituito nel 1889, il Museo nazionale romano riunisce una delle più importanti collezioni archeologiche del mondo. Oltre a un complesso di opere d’arte antica rinvenute a Roma e nella provincia dopo il 1870, conserva parte della collezione antiquaria di A. Kircher e la collezione Ludovisi (acquistata dallo Stato nel 1901). È articolato in quattro sedi: palazzo Massimo, dove sezioni tematiche illustrano aspetti della storia e della cultura di Roma tra il 1° sec. a.C. e la fine dell’Impero romano; complesso delle Terme di Diocleziano, con la sezione epigrafica e quella di protostoria; palazzo Altemps, con la collezione Ludovisi; Crypta Balbi, che si configura anche come museo della Roma altomedievale e il cui nucleo più consistente è costituito dai materiali rinvenuti nel corso degli scavi in sede, come vasellame di varie epoche, utensili e frammenti architettonici. Rappresenta una straordinaria testimonianza dell’evoluzione della società romana e del paesaggio urbano. Vi è esposto anche il Medagliere.
Il Museo Barracco ha sede dal 1948 nel palazzetto Leroy (noto come Farnesina ai Baullari); la collezione di sculture antiche raccolta dal barone G. Barracco e donata al comune di Roma nel 1904 riunisce un limitato ma rappresentativo gruppo di opere (esemplari egizi, assiri, fenici, etruschi, greci, romani ecc.).
Il Museo nazionale etrusco di Villa Giulia raccoglie nella villa di Giulio III a Valle Giulia reperti etruschi e falisci, oltre a testimonianze della civiltà greca (sec. 7°-5° a.C.). Il primo nucleo, rappresentato dalle suppellettili scoperte a Civita Castellana, Satricum, Alatri e Segni, dal materiale del Museo kircheriano e dalle antichità prenestine della collezione Barberini, si è poi arricchito con i materiali rinvenuti durante gli scavi di Cerveteri, Vulci, Veio e con l’acquisizione (1919) della collezione Castellani, che comprende vasi greci ed etrusco-italici databili dal 7° al 1° sec. a.C. Di rilievo, inoltre, i bronzi, i vetri e le terrecotte dell’Antiquarium, i corredi dlle necropoli ellenistiche dell’Umbria, la collezione degli ori Castellani.
Istituito nel 1957, il Museo nazionale di arte orientale Giuseppe Tucci, in palazzo Brancaccio, comprende varie sezioni (iranica, islamica, indiana, dell’arte del Gandhara, del Sud-Est asiatico, dell’Estremo Oriente ecc.), arricchite dai reperti delle campagne di scavo dell’Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente.
Allestito nel 1955, il Museo della civiltà romana raccoglie materiali esposti alla mostra archeologica alle Terme di Diocleziano (1911) e alla Mostra augustea della romanità (1937) oltre a calchi e modelli in gesso, fotografie e piante relativi ai più significativi monumenti di Roma antica; in una sala è esposto il grande plastico (200 m2) riproducente la città nel 4° secolo.
Il Museo dell’Alto Medioevo raccoglie oggetti d’arte e archeologia dei sec. 4°-10°. Il materiale illustra la tarda antichità (rilievi e ritratti marmorei, epigrafi, frammenti musivi), l’epoca delle invasioni barbariche (corredi funebri delle necropoli longobarde di Nocera Umbra e di Castel Trosino), l’età carolingia. Comprende inoltre le sezioni dedicate ai tessuti copti e ai rilievi marmorei appartenenti alla suppellettile liturgica (sec. 8°-10°).
Il Museo nazionale preistorico ed etnografico Luigi Pigorini, fondato da L. Pigorini nel 1876, ha sede nel palazzo delle Scienze all’EUR. Alla ricca collezione di materiali preistorici e protostorici, affianca una delle più importanti raccolte di etnografia extraeuropea.
La Galleria nazionale di arte antica, inaugurata nel 1895 con sede nel palazzo Corsini alla Lungara ebbe come primo nucleo la collezione iniziata nel 17° sec. dal cardinale Neri Corsini e donata allo Stato nel 1883. Dal 1949 la collezione è divisa tra palazzo Barberini e palazzo Corsini, dove è stata ricostituita quella originaria. Arricchita di lasciti e acquisti, raccoglie dipinti dei sec. 12°-18°, provenienti in prevalenza da collezioni patrizie (Sciarra, Torlonia, Chigi, Barberini ecc.); oltre a capolavori della pittura italiana ed europea.
Il nucleo della collezione del Museo e Galleria Borghese fu costituito all’inizio del 17° sec. dal cardinale Scipione Borghese, che lo sistemò nel casino della villa fuori Porta Pinciana fatto appositamente costruire. Largamente incrementata alla fine del Settecento, la collezione fu acquistata dallo Stato, insieme al parco circostante, nel 1902. Accanto a capolavori della pittura rinascimentale e barocca (opere di Antonello da Messina, Raffaello, Tiziano, Caravaggio ecc.) conserva un importante nucleo di opere di G.L. Bernini, marmi e mosaici antichi.
Il Museo di Roma, istituito nel 1930, ha sede dal 1952 in palazzo Braschi e raccoglie pitture, sculture, arazzi, oggetti d’arte applicata, costumi (sec. 16°-19°), destinati a documentare la storia e la cultura della città dal Medioevo all’età moderna. Vi sono annessi la Gipsoteca Tenerani, con serie di gessi riproducenti le opere dello scultore, il Gabinetto comunale delle stampe (sec. 16°-20°) e l’Archivio fotografico comunale.
Il Museo di Palazzo di Venezia (dal 1922) riunisce una collezione di dipinti compresi tra 14° e 17° sec. e raccolte di oggetti d’arte che vanno dal 13° al 20° secolo. L’appartamento Barbo conserva un’importante collezione di armi (già Odescalchi) e arazzi.
La Galleria dell’Accademia di San Luca è ospitata dal 1932, insieme all’Accademia, nel cinquecentesco palazzo Carpegna alla Stamperia. Conserva opere italiane e straniere (sec. 16°-18°) e materiali legati alla storia dell’antica Accademia.
La Galleria Colonna, nei seicenteschi ambienti fatti appositamente costruire dal cardinale Girolamo Colonna nel palazzo alle pendici del Quirinale, ospita la sua collezione, che arricchita da Lorenzo Onofrio riunisce dipinti (sec. 15°-18°), esemplari di statuaria romana e preziosi arredi.
Il nucleo originario della collezione della Galleria Doria Pamphili risale a Innocenzo X. Arricchita da acquisizioni e lasciti, raccoglie nell’omonimo palazzo al Collegio romano importanti dipinti (oltre 400) italiani e stranieri dei sec. 14°-18°, sculture di A. Algardi e G.L. Bernini e marmi antichi.
La Galleria Pallavicini-Rospigliosi, costituita dalla fusione delle collezioni delle famiglie Pallavicini e Rospigliosi e in seguito arricchita dagli esemplari provenienti dalle raccolte dei Medici del Vascello, possiede oltre 540 tele, opere del Rinascimento italiano e del 17° sec.
La Galleria Spada, costituita dal cardinale Bernardino Spada nel 17° sec. e acquistata dallo Stato nel 1926, con sede nel palazzo omonimo, comprende prevalentemente opere italiane dei sec. 16° e 17°.
La Galleria nazionale d’arte moderna (GNAM), istituita nel 1881 con il compito istituzionale di offrire un panorama dell’arte della nuova nazione, ospita un’importante collezione d’arte dei sec. 19° e 20° (oltre 5000 opere). Ha sede dal 1914 nel palazzo delle Belle Arti a Valle Giulia, costruito per l’Esposizione Universale del 1911.
La Galleria comunale d’arte moderna e contemporanea, istituita nel 1925 è attualmente organizzata nella sede di Via Crispi e, dopo la chiusura nel 2003, ha riaperto nel 2011; il Museo di arte contemporanea di Roma (MACRO, 2002) è articolato nel complesso della ex fabbrica Peroni, che comprende opere di artisti italiani dagli anni 1960 a oggi, e nel MACRO Testaccio, costituito da due padiglioni dell'area dell'ex Mattatoio.
Il MAXXI-Museo nazionale delle arti del 21° secolo, inaugurato nel 2010, comprende due sezioni, di architettura e di arte. La prima destinata a raccogliere disegni, schizzi, progetti, installazioni, prototipi, oggetti di design, documentazione fotografica; la seconda, la produzione artistica nazionale e internazionale dell’ultimo quarantennio.
Il Museo centrale del Risorgimento, al Vittoriano, documenta con ricchezza di materiali e di cimeli la storia italiana dal processo risorgimentale alla fine della Prima guerra mondiale.
L’Istituto nazionale per la grafica, istituito nel 1975, comprende la Calcografia nazionale e il Gabinetto nazionale delle stampe, con circa 135.000 stampe, 20.000 disegni, 23.000 matrici, un fondo storico della fotografia (5200 positivi e 8370 negativi).
Il Museo Napoleonico, dal 1927 in palazzo Primoli, conserva documenti, cimeli e opere d’arte relativi a N. Bonaparte e alla sua famiglia, donati al comune di Roma, insieme all’omonimo palazzo, dal conte Giuseppe Primoli. L’edificio ospita la collezione Praz.
Il Museo nazionale militare e d’arte di Castel Sant’Angelo possiede un’importante armeria e raccolte d’interesse storico-militare.
Il Museo degli strumenti musicali riunisce circa 3000 esemplari a partire dall’antichità.
Il Museo nazionale delle arti e delle tradizioni popolari documenta, attraverso un repertorio di oggetti d’artigianato, la vita quotidiana dell’uomo con riferimento particolare alle tradizioni, alla religiosità e ai costumi popolari italiani.
Per i Musei Vaticani ➔ Vaticano.
Nella società romana antica la musica ricopriva varie funzioni: espressione di fede nei numi (inni), di altera gravità (carmi conviviali e funerari), di ironia mordace (primi spettacoli drammatico-musicali). Se si conoscono le occasioni che si prestavano all’intervento della musica, poche notizie si hanno sulle concrete tecniche esecutive e nessuna testimonianza diretta di musica notata. Tra gli strumenti più caratteristici vi erano la tuba, il cornu, la bucina, il lituus, la tibia o aulos, affine all’omonimo strumento greco, l’utricularius o ascaules, corrispondente alla nostra cornamusa, la lira e la kithara, entrambe di chiara provenienza greca, lo scabellum, sorta di spessa suola di legno o di metallo utilizzata per battere il tempo, il sistrum, nonché tamburelli, cimbali, campane e fischietti.
Con la fine dell’Impero e con la trasformazione della città in capitale della cristianità cessarono le forme superstiti del teatro latino, che rinacque in chiesa con le varie forme di dramma liturgico o con i canti delle laudi in occasione di feste religiose. Al 7° sec. risale la creazione di una schola cantorum papale, che nel 1027 vide la presenza di G. d’Arezzo, alla quale si affiancò la cappella di scuola franco-fiamminga importata da Gregorio XI nel 1377. Presso la cappella pontificia si avvicendarono importanti maestri: primo di questi, nel 1555, G. Pierluigi da Palestrina, cui succedettero fra gli altri G. Animuccia, F. e G.F. Anerio, L. Marenzio, G.O. Pitoni. Accanto alla cappella pontificia sorsero altre celebri cappelle musicali come la Giulia in S. Pietro, la Pia in S. Giovanni in Laterano e quelle di San Luigi dei Francesi, di S. Maria in Trastevere, di S. Lorenzo in Damaso. Nacquero anche gli oratori, congregazioni laiche che allestirono importanti rappresentazioni come la Rappresentazione di Anima et di Corpo di E. de’ Cavalieri e sei oratori di A. Stradella (1665-75) e che videro la presenza di musicisti come A. Scarlatti, B. Pasquini e A. Corelli. Nel 1585 sorse la Congregazione di Santa Cecilia, che divenne presto un’istituzione primaria in campo musicale, attiva oggi come Accademia nazionale di Santa Cecilia.
Il Seicento fu un secolo d’intensa attività teatrale: nei collegi dei gesuiti fiorì, accanto all’oratorio, il dramma sacro; nelle chiese le solennità religiose divennero occasioni di portentosi e suggestivi spettacoli; nei palazzi signorili e nelle case degli artisti (ma anche in teatri privati, come il Barberini, il Colonna, il Pamphili ecc.) gruppi di dilettanti, Bernini compreso, allestirono con dovizia di mezzi melodrammi importanti nella storia del teatro in musica, del quale Roma, con autori come V. e D. Mazzocchi, L. Rossi, S. Landi, M. Cesti, A. Stradella e A. Scarlatti, fu per tutto il 17° sec. uno dei maggiori centri europei.
Nel Settecento furono attivi nella città alcuni fra i maggiori operisti del secolo, da G.F. Haendel a G.B. Pergolesi, da B. Galuppi a G. Paisiello. Anche nel secolo successivo Roma fu un punto di riferimento per l’opera, mentre nell’Ottocento rifulse anche come centro di irradiazione per altre attività musicali, che segnarono un risveglio di interesse della musica italiana verso i generi strumentali, sinfonici e cameristici: da ricordare la fondazione del Quintetto Romano, dell’Accademia filarmonica romana, della Congregazione di S. Cecilia in accademia, per opera di Gregorio XVI, presso il quale fu successivamente istituito, con contributo statale, un liceo musicale (1876), che nel 1919 divenne l’attuale conservatorio.
L’attività musicale a Roma nell’Ottocento fu caratterizzata anche dal soggiorno di musicisti stranieri: dai vincitori del Prix de Rome (H. Berlioz, Ch. Gounod, G. Bizet, J. Massenet, C. Debussy) a F. Mendelssohn, R. Wagner e F. Liszt.
Nel Novecento l’attività musicale si valse soprattutto di ‘forze’ locali: nel 1915 A. Casella con I. Pizzetti, O. Respighi, G. Malipiero e altri fondò la Società nazionale di musica, poi ribattezzata Società italiana di musica moderna, e la rivista Ars Nova. Molte furono le associazioni musicali nate a Roma nel secondo dopoguerra: l’Associazione giovanile musicale (1949); la Società italiana di musica contemporanea (1951), il Centro internazionale di studi musicali (1962), il Centro internazionale per la divulgazione della musica italiana (1966), l’Istituto di bibliografia musicale (1979). Attualmente la vita musicale romana si avvale di istituzioni concertistiche consolidate quali l’Accademia nazionale di S. Cecilia, la Filarmonica romana e altre istituzioni minori. Le attività dell'Accademia, così come tutte le strutture artistiche e amministrative e i fondi archivistici e bibliotecari sono stati trasferiti a partire dal 2003 all'Auditorium Parco della musica, inaugurato nel 2002; dal 2008 è qui ospitato anche il Museo degli strumenti musicali.
Per le opere liriche il Teatro dell’Opera, già Costanzi, dove nel 1890 ebbe luogo il battesimo trionfale di Cavalleria rusticana di P. Mascagni, è organizzato come ente autonomo e dispone anche di una prestigiosa compagnia di balletto.
Il primo teatro moderno di Roma fu quello del Campidoglio, tutto in legno, innalzato nel 1513 e che andò distrutto, pare, nel sacco del 1527. Dopo, le cronache del 16° sec. ci forniscono indicazioni abbastanza sicure su due teatri in via Giulia, uno che durò fino al 1575 e l’altro, detto Il Carbone, ricordato da un Avviso del 1553.
La grande fioritura della vita teatrale romana avvenne tuttavia durante il Seicento e il Settecento, quando la passione per il teatro si era largamente diffusa tra le famiglie nobili romane, tanto che in molti palazzi sorsero sale adibite alle rappresentazioni, o furono addirittura creati teatri privati. Tra questi ultimi, il più importante fu il celebre teatro dei Barberini, che ebbe il merito di aver segnato un punto base nello sviluppo del melodramma, di aver offerto i primi esempi di opera comica e di aver infine contribuito al sorgere del teatro d’opera in Italia.
Tra le famiglie che ebbero propri teatri, vi furono i Colonna, nel palazzo Colonna in Borgo, i Bernini, nella casa di G.L. Bernini al Corso, e i Pamphili, che nel 1684 fecero trasformare un ambiente dell’isolato Pamphili al Collegio romano in teatro stabile sotto la direzione di C. Fontana. E ancora i teatri delle due regine: quello della regina Cristina di Svezia nel palazzo Riario, poi Corsini, alla Lungara; quello della regina Maria Casimira di Polonia nel suo palazzo alla Trinità dei Monti. Anche molti collegi, ecclesiastici e laici, ebbero sale per accogliervi accademie e rappresentazioni di commedie musicali o in prosa (teatro del Collegio clementino, teatro del Collegio germanico ecc.).
Nella seconda metà del Seicento sorsero a Roma i teatri pubblici: il primo fu il Tordinona, aperto nel 1670 per opera del conte G. d’Alibert soprattutto per l’intervento di Cristina di Svezia; nato in legno e più volte ricostruito, mutato il nome in Apollo (1795), vi si svolse la parabola del melodramma, vi si esibirono compagnie di prosa e di balletto; ospitò in prima assoluta due opere verdiane: il Trovatore (1853) e Un ballo in maschera (1859). Fu demolito nel 1889 per la sistemazione del Lungotevere. Il figlio di G. d’Alibert, Antonio, verso il 1716 utilizzò l’area occupata dalla Pallacorda (pressappoco tra le odierne vie Margutta e Alibert) per fabbricare un teatro, il Teatro Alibert, dal 1725 Teatro delle Dame, che divenne la palestra divulgatrice della riforma drammatica iniziata da A. Zeno e proseguita da Metastasio. Di carattere privato in origine fu il teatro che i fratelli P. e F. Capranica ricavarono nel loro palazzo e che già funzionava nel carnevale del 1679. Divenuto a pagamento nel 1692, ebbe un lungo periodo di vita rigogliosa, con rappresentazioni di prosa e di opera buffa; più volte restaurato e trasformato, durò fino al 1° marzo 1881 (ultima rappresentazione: Ernani di G. Verdi). Nel 1922 fu trasformato in cinema.
Il Valle aprì il 7 gennaio 1727. In origine un piccolo teatro di legno presso il palazzo Capranica alla Valle, fu rimodernato nel 1765 dall’architetto M. Fontana; rinnovato di nuovo nel 1791 pur rimanendo in gran parte di legno, fu riedificato per opera di G. Valadier. Nel 1845 G.C. Servi eresse la facciata su via del Melone, dove si apre l’ingresso del palcoscenico; restauri e abbellimenti (1865, 1888, 1897) fecero del Valle uno dei teatri più eleganti e più frequentati della città, aperto ai più grandi nomi dell’arte drammatica italiana: A. Ristori, T. Salvini, A. Tessero, S. Bernhardt, L. Bellotti Bon, E. Zacconi e E. Novelli, che nel 1900 vi tentò un esperimento di teatro stabile con la creazione della ‘Casa di Goldoni’. Rimasto attivo fino al 2011, dopo un periodo di occupazione è stato sgombrato nel 2014, ma non ancora ristrutturato.
Il 13 gennaio 1732 fu inaugurato un altro grande teatro romano, il teatro Argentina (costruito dal duca G. Sforza Cesarini, su disegni di G. Theodoli), dedicato a opere liriche e di arte drammatica. Con il sorgere del teatro Costanzi (1880), poi dal 1928 Teatro dell’Opera, ebbe termine la supremazia dell’Argentina in fatto di spettacoli lirici, e il teatro rimase dedicato all’arte drammatica; nel 1905 E. Boutet vi fondava la ‘Stabile romana’, che varò spettacoli di grande interesse – come La Nave di G. D’Annunzio – e rivelò autori nuovi, come S. Benelli ed E.L. Morselli. Completamente rinnovato nel 1971, divenne la definitiva sede ufficiale del Teatro di Roma.
Di notevole interesse, per la storia del teatro romanesco, le vicende del teatro Pallacorda di via Firenze: per tutto il 18° sec. gli spettacoli di maggior rilievo furono quelli in prosa, dalle forme drammatiche più ricercate a quelle più semplici di commedie dell’arte e di burlette, poi, nel 1841, dopo anni di abbandono, fu riaperto con il nuovo nome di teatro Metastasio, e acquistò grande rinomanza con la prosa: vi recitarono le più celebri compagnie drammatiche e attori come A. Ristori, T. Salvini, Rachel; dopo il 1870 si ridusse a teatrino rionale di terz’ordine ospitando commediole romanesche. Di pari interesse le vicende del teatro Ornani, in piazza Navona, nel palazzo già de Cupis e poi del marchese Ornani, aperto al principio del Settecento con i burattini (1729-36) e rinnovato nel 1784 con il nome di Nuovo Teatro. Nel 1855, un nuovo proprietario, A. Emiliani, gli diede il suo nome, l’abbellì e lo fece illuminare a gas: vi recitò la compagnia romanesca di F. Tacconi.
Nel 1871 da M. Sciarra fu fatto costruire il Quirino, il primo teatro postunitario di Roma, destinato a diventare, insieme al Valle, all’Argentina e all’Eliseo, uno dei grandi teatri di prosa romani. Presentò fortunati spettacoli di prosa, balli e operette; nel 1898 fu ricostruito in stile rinascimento e nel 1934 rinnovato per gli spettacoli di E. Petrolini. Costruito nel 1910 in via Nazionale, sull’area di un teatro all’aperto inaugurato nel 1900, l’Eliseo ospitò compagnie di prosa e di operetta e l’effimero tentativo di L. d’Ambra di farne sede di una compagnia stabile (Teatro degli Italiani, 1923); riaperto nel 1938 dopo la ristrutturazione dell’architetto L. Piccinato, ospitò la Compagnia dell’Eliseo diretta da P. Sharoff (1938-40), e da L. Visconti (1952).
Significativa anche la breve stagione (1922-31) del Teatro degli Indipendenti di via degli Avignonesi, fondato da A.G. Bragaglia. In un ambiente scenografico d’avanguardia, oltre a spettacoli di danza, pantomima, cabaret, ospitò la prosa, facendo conoscere testi della moderna drammaturgia italiana e straniera. Nell’edificio del Dopolavoro della nuova città universitaria (1935) nacque il teatro dell’Università, che ospitava gli spettacoli del Teatro-GUF, divenuto nel dopoguerra Teatro Ateneo.
Nel 1946 fu inaugurato il Teatro Sistina, eretto su progetto di M. Piacentini, inizialmente come cinema-teatro, poi dedicato alla rivista e al teatro misicale.
Negli anni 1960 sorsero o ripresero a funzionare vari piccoli teatri, con attività tradizionale o di avanguardia, tra i quali: i Satiri (la cui nascita risale al 1887), Centrale, Flaiano, delle Muse, Parioli, delle Arti, della Cometa ecc. Fiorì inoltre un gran numero di spazi teatrali alternativi ai circuiti ufficiali, le ‘cantine’, nei quali operavano artisti legati alla neoavanguardia come G. Nanni, M. Ricci, V. Orfeo, M. Perlini, P. Di Marca. Dal 2000 il Teatro di Roma ha una seconda sede nel nuovo teatro India, ricavato da un ex complesso industriale sulle rive del Tevere. Un processo di decentramento delle sedi teatrali, che si sviluppò già negli anni 1970 (teatro Tenda), è stato ripreso con il nuovo millennio che ha visto la nascita del Granteatro di Tor di Quinto (2002) e il Teatro di Tor Bella Monaca (2005).
L’Auditorium Parco della musica, inaugurato nel 2002, comprende tre sale disposte a raggiera intorno a un anfiteatro all’aperto. Del complesso fanno parte anche una biblioteca e il museo degli strumenti musicali.
Fase insurrezionale conclusiva disposta dal fascismo per la conquista del potere. Programmata da B. Mussolini sin dal 16 ottobre a Milano e preannunciata il giorno 24 nel suo discorso di Napoli, la marcia su Roma si svolse il 28 ottobre 1922 dopo che i fascisti πarmati si erano concentrati a Santa Marinella, a Monterotondo e a Tivoli, con comando generale a Perugia, agli ordini di un quadrunvirato composto da I. Balbo, E. De Bono, C.M. De Vecchi, M. Bianchi. Il re rifiutò di firmare il decreto di stato d’assedio, già promulgato dal presidente del Consiglio L. Facta, e il 31 ottobre chiamò al potere B. Mussolini, con il proposito di incanalare le forze fasciste nella legalità. Con tale atto e con il deflusso degli squadristi verso i luoghi di provenienza, la marcia ebbe termine.
(5363 km2 con 4.253.314 ab. nel 2020). Nel 2014, con la legge 7 aprile n. 56, entrata in vigore il 1° gennaio 2015, la città metropolitana di Roma capitale è subentrata all'omonoma provincia, mantenendo la medesima estensione geografica. Il territorio, suddiviso in 121 Comuni, presenta un’assoluta eterogeneità di paesaggi e di conformazioni fisiche, abbracciando l’intera Campagna Romana, pianeggiante, i rilievi vulcanici dei Monti della Tolfa, dei Monti Sabatini e dei Colli Albani, nonché quelli calcarei della Bassa Sabina, più o meno dolcemente collinari, e spingendosi fino ai Monti Lucretili, Prenestini e Simbruini in direzione E e ai Monti Lepini in direzione S, dove si raggiungono quote di 1400-1800 m s.l.m. Le condizioni climatiche, pedologiche, idrologiche sono analogamente molto varie. In questo insieme, le aree periferiche e, al tempo stesso, alto-collinari o montane risultano arretrate rispetto alle medie provinciali. Le vie principali di comunicazione (strade, autostrade e ferrovie), del resto, seguono da una parte la linea di costa, e, dall’altra, le valli del Tevere, dell’Aniene e del Sacco, aggirando i rilievi più accentuati.
Nonostante i vigorosi flussi migratori che dalla provincia si sono sempre diretti, nel tempo, verso Roma, la popolazione provinciale ha conosciuto dall’ultimo dopoguerra un costante progresso, che dagli anni 1960 è diventato molto rapido (1961: 578.840 ab.; 1971: 708.384; 1981: 845.204; 1991: 3.661.945; 2001: 3.849.487 ab.; 2011: 3.997.465), realizzando incrementi percentuali assai maggiori di quelli riguardanti Roma, che negli anni 1990 ha registrato un calo della dinamica demografica: in pratica, una parte almeno dei comuni della provincia (quelli più vicini alla città) è subentrata a Roma nell’accogliere nuovi immigrati (dagli anni 1990 anche di origine straniera); quantità consistenti di popolazione romana si sono trasferite nei comuni vicini; inoltre, la presenza nella provincia di Roma di aree attrattive sotto il profilo ambientale, di infrastrutture spesso di buon livello, di un’offerta edilizia ampia e a costi minori rispetto alla metropoli, di attività economiche rilevanti e sempre più rafforzate da operazioni di delocalizzazione originate da Roma fa prevedere un’ulteriore crescita di molti comuni della provincia rispetto al capoluogo. Come già per il passato, tuttavia, tale predisposizione non interessa in uguale misura tutta l’area provinciale: se si scende al dettaglio dei singoli comuni, risultano differenze anche molto vistose che possono essere ricondotte, a grandi linee, alla posizione e alla distanza economica rispetto a Roma e alle grandi vie di comunicazione e quindi, in definitiva, alla morfologia del territorio provinciale. Benché, infatti, quasi tutti i comuni della provincia abbiano registrato un qualche incremento demografico, o almeno la sostanziale tenuta della popolazione, i centri che più hanno beneficiato del fenomeno sono quelli circostanti la capitale, con particolare riferimento a Guidonia-Montecelio, Tivoli, Fiumicino e Velletri, che, unitamente a Civitavecchia, sono i più popolosi comuni provinciali (superiori tutti a capoluoghi di provincia laziali come Rieti e Frosinone). Più in generale, l’aumento netto di popolazione riguarda tutta la fascia esterna al limite comunale di Roma, per un’estensione di 50.460 km almeno; al di là di questa distanza, gli effetti del fenomeno si concentrano lungo le principali vie di comunicazione.
Le attività agricole continuano a rappresentare un settore residuale quanto a occupazione, ma anche quanto a contributo alla formazione del reddito; tuttavia, il ricorso sempre più ampio a forme di cooperazione e al lavoro part time ha consentito di evitare una contrazione sensibile delle aree coltivate, in particolare di quelle destinate all’ortofrutticoltura (che si avvale dell’ampio mercato di sbocco romano). Le attività industriali, dopo la fase di grave ripiegamento che ha caratterizzato gli anni 1980 e i primi anni 1990, hanno riguadagnato una complessiva vitalità: i comparti prevalenti sono quelli tradizionali (metalmeccanico, chimico-farmaceutico, poligrafico, alimentare, tessile e dell’abbigliamento, dei materiali da costruzione), sebbene si sia andato modificando l’assetto aziendale, mediante un ulteriore aumento delle piccole e medie imprese e un largo ricorso all’integrazione produttiva orizzontale. Componenti di crescente importanza nell’ambito dell’apparato industriale romano sono riconducibili alle dinamiche di internazionalizzazione produttiva che interessano soprattutto l’area meridionale della provincia, lungo l’asse di sviluppo Roma-Pomezia-Latina, già progettato negli anni 1960 nel contesto dei programmi d’intervento della Cassa del Mezzogiorno. A partire dagli anni 1980 i flussi internazionali di investimento si sono concentrati in quest’area, a sua volta interessata da cicli, progressivamente divenuti strutturali, di selezione della base produttiva meno competitiva, a basso costo del lavoro e a scarsa produzione di valore aggiunto: queste ultime dinamiche hanno riguardato le piccole unità del tessile-abbigliamento, via via sostituite in prevalenza da aziende specializzate nell’informatica, nel quadro della diversificazione produttiva del comparto elettronico locale, originariamente di carattere militare. Gli aspetti più significativi della produzione di quest’area continuano a riguardare i rami dell’elettronica, della chimico-farmaceutica e della meccanica, gestiti da gruppi multinazionali di provenienza estera nel quadro di flussi internazionali di investimento diretti a settori a elevato contenuto tecnologico. Nel resto dell’area romana, invece, gli investimenti provenienti dall’estero hanno riguardato soprattutto le produzioni di stampo tradizionale, evidentemente grazie alla persistenza di consolidati, pur se scarsamente competitivi, fattori di mercato. La presenza di capitali internazionali è sensibile, in particolare, nell’ambito delle produzioni legate alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione: Roma si presenta in posizione emergente in Italia per la presenza di piccole imprese specializzate in queste ultime attività, soprattutto a causa del peso del settore pubblico nei termini della domanda relativa alle stesse tipologie di beni e servizi, ma la specializzazione della capitale è legata anche ad alcune grandi imprese, soprattutto nel campo delle telecomunicazioni. Il terziario della città metropolitana, conseguentemente, risulta legato in forme crescenti alla delocalizzazione da Roma di servizi di gestione, ricerca e studio, in funzione sia delle amministrazioni centrali dello Stato e delle strutture universitarie sia dell’imprenditoria privata. L'area della città metropolitana esercita una funzione turistica, orientata alla villeggiatura nei confronti della popolazione romana (località balneari e di soggiorno collinare e montano) e alla visita storico-artistica nei confronti dei forestieri (monumenti classici e rinascimentali, centri storici).