nobiltà In senso specifico e in connessione alla storia europea dall’antichità all’età moderna, particolare condizione giuridica e sociale, legata al possesso spesso ereditario di onori e privilegi esclusivi, e per estensione l’insieme degli individui, delle famiglie e dei corpi dotati di tale status privilegiato.
Qualità positiva di carattere spirituale, intellettuale, morale, ma anche fisica, propria dell’uomo ma estensibile a qualunque altra realtà; tale concetto di n. è stato spesso usato nell’ambito dell’antropologia politica come sinonimo di aristocrazia, per indicare un ceto dominante ristretto ai ‘migliori’ per forza fisica, capacità intellettuali, ricchezze, attitudine al comando.
La n. formatasi nella civiltà europea trae il nome dalla nobilitas romana e con essa è in rapporto di continuità storica. A Roma, con il progressivo livellamento tra patrizi e plebei (4° sec. a.C.), si formò anche tra i secondi un’aristocrazia che, fusa con gli antichi patrizi, costituì una classe chiusa di ottimati o notabili (nobilitas, da nosco «conosco»), le cui prerogative erano evidentemente connesse con l’ereditarietà. Il predominio della nobilitas caratterizza lo sviluppo politico di Roma dalla seconda guerra punica all’età dei Gracchi e oltre. Il dissolvimento della n. romana antica ebbe inizio con Augusto, con il quale l’appartenenza alla n. fu condizionata sia dall’ereditarietà sia dal possesso di un determinato censo.
Il processo si compì quando le riforme di Costantino delegarono le alte cariche statali a uomini di fiducia dell’imperatore, i comites, termine che divenne però anche semplice titolo onorifico. Inoltre, le condizioni dell’Impero resero impossibile conservare la distinzione tra la gerarchia militare e la civile; spesso nelle mani del dux erano posti anche i poteri civili, e nell’Italia bizantina, anche dopo l’invasione longobarda, troviamo, sottoposti all’esarca di Ravenna, i duces, alcuni dei quali si renderanno indipendenti (Napoli), mentre altri ducati sono trasformati in temi, sottoposti a uno stratego, o dux, o anche patricius.
Alla n. romana, profondamente trasformata tra l’inizio dell’Impero e la dominazione bizantina, si aggiunse quella barbarica, che si era assottigliata durante le guerre e le invasioni. Nei regni barbarici dell’Occidente, accanto a essa si affermarono i fedeli del re, che divennero gli alti ufficiali della corte e dello Stato. Sorse così una n. nuova che traeva origine dagli uffici esercitati e dalla ricchezza, ricompensa dei servigi prestati. Al livello più alto, presso i Longobardi – forse per diretto influsso romano-bizantino – troviamo i duchi che corrispondono ai conti del regno franco. Inoltre, sempre per imitazione di usi romani, nei diversi regni, alte funzioni di Stato furono affidate a persone che prestavano, almeno di nome e in origine, servigi personali al sovrano: presso i Franchi, per esempio, all’antico comes stabuli («conestabile») corrisponde il maresciallo (marschalk «maniscalco»), quindi il siniscalco e così via: i maggiordomi dei Merovingi diventano la nuova dinastia reale e imperiale dei Carolingi. Sotto questi ultimi si diffusero nell’aristocrazia, prima franca poi di tutto l’impero carolingio, i rapporti vassallatici. Il concetto di n. nell’Alto Medioevo appare ancora non ben definito: chi lo fa consistere semplicemente nell’essere ingenuus (non avere antenati servi), chi dal possesso di un allodio, chi dall’aver saputo mantenere un certo grado di libertà di fronte ai crescenti poteri signorili.
Già con l’11° sec. si avverte la formazione di quella che è stata chiamata n. di fatto (M. Bloch), una classe individuata dalla ricchezza, dalla forza delle armi, dal potere e da un genere di vita nobile. Contemporaneamente si affermò come valore nobilitante quello della discendenza, per cui il nobile è uomo ‘gentile’, cioè ben nato. Dal 12° sec., inoltre, si cristallizza un codice di vita ben preciso, espressione della cosiddetta ‘cultura cortese’, che condiziona e modella i comportamenti dell’aristocrazia militare (i milites o cavalieri) assumendo i caratteri di un vero e proprio codice nobiliare. A tutto ciò va aggiunta l’azione della Chiesa (10°-11° sec.) per la cristianizzazione dei costumi dei milites, che assunsero il ruolo teorico di difensori dei deboli, delle donne, del clero e dei crociati. L’incontro dei due elementi (cultura clericale e cultura cortese), unito anche a fattori istituzionali, portò in primo piano (12°-13° sec.) una nuova aristocrazia militare intesa come cavalleria, una sorta di corporazione nella quale si entrava con una cerimonia particolare, l’adoubement. Aperta in origine a tutti, essa tese sempre più (12°-13° sec.) a restringersi in una classe chiusa fino al punto che (13° sec.), anche senza aver passato l’adoubement, i figli dei cavalieri godevano dei privilegi dei genitori. A questo punto, una simile cavalleria può essere considerata (sempre secondo M. Bloch) una vera e propria n. di diritto. Va poi tenuto presente il legame stretto che collega n. e istituzioni feudali, evidente quando si esaminino la gerarchia che venne a introdursi, in condizioni variabili da paese a paese, nella n. stessa e i privilegi di questa: distinzioni che corrispondono generalmente a quelle del rapporto feudale.
Accanto alla n. di fatto e alla n. di diritto, il fenomeno dei Comuni diede origine, in Italia, a una classe nobiliare cittadina (in parte anch’essa originariamente militare o feudale), legata sia al censo sia all’esercizio del potere nelle città. Essa era percorsa da forti tensioni interne, legate alle lotte per il potere cittadino e a conflitti esterni (lotte tra guelfi e ghibellini). L’ascesa del popolo (13° sec.) ebbe per effetto la promulgazione di leggi antimagnatizie tese a emarginare i nobili dal governo cittadino; ma l’intreccio delle diverse classi nelle varie fazioni cittadine impedì una vera e propria esclusione dei nobili dalla lotta politica. Vicini ai membri di questa n. magnatizia erano i membri di certe professioni, innanzitutto i giudici. Si affermò poi la potenza di quelle nuove famiglie che, con lo sviluppo precapitalistico, per la loro ricchezza e per i servigi resi a sovrani, vennero assunte tra la n. tradizionale. Allo stesso modo, le signorie italiane (14°-15° sec.) si trasformarono in principati, conseguendo titoli dall’imperatore o dal papa e i signori, a loro volta, presero sempre più l’uso d’infeudare terre e concedere titoli a privati. Similmente i re di Spagna concessero prerogative nobiliari in ricompensa di servigi prestati o da prestare.
In Francia, con l’affermarsi dell’assolutismo monarchico, acquistò sempre maggior forza (17° sec.) la n. derivante dall’esercizio di cariche (noblesse de robe, n. di toga, contrapposta alla noblesse d’épée, n. di spada, quella dei nobili che esercitano le tradizionali funzioni militari spettanti al loro ceto sociale). L’eccellenza e le virtù conferite dal sangue erano, specie nel Medioevo, considerate reali ma, al tempo stesso, si fece strada il concetto per il quale della n. di sangue fosse lecito vantarsi solo quando le qualità morali a essa connesse fossero continuamente mantenute vive. Il contrasto tra i due criteri si accentuò con l’Umanesimo, che aprì il dibattito sulla vera n., intesa come virtù civica, vita attiva spesa al servizio dello Stato. L’età barocca, invece, rivalutò il concetto della n. trasmessa ereditariamente con il sangue e alle regole del codice cavalleresco relative al duello andò aggiungendo, richieste da un’etica sociale sempre più esigente, le norme di un comportamento che distinguesse nettamente, anche sul piano formale, l’élite nobiliare dai ceti borghese e popolare.
Nel corso del 18° sec. il contrasto si riaprì e si aggravò: soprattutto apparvero assurdi i privilegi (contro cui già i sovrani riformatori avevano cominciato a lottare) che ostacolavano il libero svolgimento della produzione e del commercio dei beni e il progresso della legislazione civile. La concezione individualistica e privatistica della proprietà non poteva ammettere limiti e intralci al libero espandersi delle forze produttive. Così, in Francia, la notte del 4 agosto 1789 l’Assemblea nazionale abolì i privilegi feudali che, nella coscienza dei contemporanei, apparivano indissolubilmente legati alla n.; nel nome della libertà, fratellanza e uguaglianza dei cittadini furono aboliti anche i titoli. Contemporaneamente furono disciolte le organizzazioni corporative e il compagnonnage, unica forma di resistenza dei ceti artigianali di fronte alla pressione di proprietari e imprenditori. Con Napoleone i titoli furono ristabiliti per i generali e per gli altissimi dignitari dell’Impero, e la n. da lui creata venne poi riconosciuta anche da Luigi XVIII, quando ripristinò l’antica, ma senza pregiudizio dell’uguaglianza di fronte alla legge. E così, mentre negli Stati a costituzione repubblicana i titoli di n. venivano generalmente aboliti, o almeno non se ne concedevano di nuovi, nelle monarchie si è mantenuto il diritto del sovrano di conferirne.
In Italia lo Statuto albertino conservava al re la prerogativa di concedere nuovi titoli, rinnovare quelli estinti, autorizzare a riceverne da una potenza straniera; fu perciò istituita (1869) la Consulta araldica, fissato l’elenco dei titoli ammessi nel regno e i vari registri. La Costituzione italiana del 1947 dispone (XIV delle disposizioni transitorie e finali) che i titoli nobiliari non sono riconosciuti, ma che i predicati di quelli esistenti prima del 28 ottobre 1922 possano valere come parte integrante del nome.
In senso molto generale si può dire che il concetto di n. non esista presso gruppi viventi di caccia-raccolta e orticoltori, ma si ritrovi in società sedentarie che praticano un’agricoltura di tipo intensivo e presso alcuni gruppi di allevatori o di pescatori. Si può appartenere alla classe dei nobili per nascita, adozione, matrimonio o per particolari meriti personali. Tale status è trasmissibile per via ereditaria ed estensibile a interi settori della società che mantengono collettivamente la loro posizione. Il confine tra n. e altre classi presenta un certo grado di mobilità, che varia a seconda della struttura sociale della società e dell’elemento scelto come discriminante. Vi sono poi classi nobili rigorosamente chiuse, come la casta.
In alcuni paesi come l’Italia, l’inclusione nel cognome della cosiddetta particella nobiliare de o di (o de’; francese de) non è indizio di nobiltà, a differenza del von tedesco. Circa l’uso del cognome e del predicato nobiliare, vige in molti paesi grande libertà; esso è invece fissato, così come le precedenze, da strette regole consuetudinarie in Inghilterra: un lord firma con il solo predicato; ai figli dei titolati più elevati si riconosce, per cortesia, l’uso di uno dei titoli ‘secondari’ della famiglia o quello di lord, lady, honourable (secondo il rango) dinanzi al nome proprio seguito dal cognome della famiglia, e così via; il titolo, e la parìa, spettano al solo capo della casata. Gli altri, e gli appartenenti ai vari rami collaterali (quando non siano insigniti per sé di altri titoli) cessano di far parte della vera e propria nobility, per confondersi nella più vasta cerchia della gentry.